Sentenza 28/2010

SENTENZA N. 28 ANNO 2010
Ambiente - Rifiuti - Esclusione dalla categoria delle ceneri di pirite, classificate come sottoprodotto non soggetto alla disciplina dei rifiuti - Riproposizione di questione già oggetto dell'ordinanza n. 83/2008 di restituzione atti per 'jus superveniens'.


Presidente AMIRANTE - Redattore SILVESTRI

Udienza Pubblica del 12/01/2010 Decisione del 25/01/2010
Deposito del 28/01/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 183, c. 1°, lett. n), quarto periodo, del decreto legislativo 03/04/2006, n. 152, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l'art. 2, c. 20°, del decreto legislativo 16/01/2008, n. 4.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ord. 2 e 140/2009


SENTENZA N. 28

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) – nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale) – promossi dal Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, con ordinanze del 29 settembre e del 13 ottobre 2008, iscritte, rispettivamente, ai nn. 2 e 140 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4 e 20, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione di P. S., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2010 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi l’avvocato Giampaolo Maria Cogo per P.S. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.



Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 29 settembre 2008 il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente) – nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale) – nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.

Dall’ordinanza indicata risulta che lo stesso rimettente, nell’ambito del medesimo giudizio a quo, aveva sollevato una questione identica a quella odierna, definita dalla Corte costituzionale con un provvedimento di restituzione degli atti in forza di variazioni normative sopravvenute (ordinanza n. 83 del 2008). L’odierno atto di promovimento riproduce, in gran parte, il testo di quello precedente.

1.1. – Il Tribunale riferisce di essere chiamato a giudicare due imputati nei cui confronti è stato emesso decreto di citazione a giudizio per la violazione, tra l’altro, degli artt. 51, commi 1 e 5, e 51-bis del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), trasfusi rispettivamente nell’art. 256, commi 1 e 5, e nell’art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006.

Il procedimento penale è stato instaurato in relazione al sequestro preventivo, in data 22 marzo 2002, di un deposito di ceneri di pirite (in quantità pari a circa un milione di tonnellate), sito in località Gambarare del Comune di Mira. Secondo l’accusa, nell’area in sequestro, di estensione pari a circa 80.000 metri quadrati, la società Veneta Mineraria S.p.A. (di cui uno dei due imputati risultava all’epoca legale rappresentante) e la ditta individuale appaltatrice dei lavori di movimentazione e carico delle ceneri (il cui titolare è l’altro imputato) avrebbero effettuato attività di gestione di rifiuti pericolosi in assenza di autorizzazione, ovvero sulla base di un’autorizzazione scaduta, in violazione dell’art. 57 del d.lgs. n. 22 del 1997, in particolare «espletando, su tale discarica non più attiva, realizzata negli anni ’70, la messa in riserva di tali rifiuti in vista del loro avvio a recupero presso cementifici». Inoltre, la gestione e messa in riserva delle ceneri di pirite sarebbe stata effettuata in carenza di misure precauzionali atte a tutelare l’integrità dell’ambiente; in particolare, l’area sarebbe stata sottoposta ad attività di escavazione, con conseguente esposizione delle ceneri di pirite agli agenti atmosferici e al dilavamento, «senza che fossero stati adottati presidi idonei ad intercettare le acque di percolazione, dal che sarebbe derivata una grave compromissione dei terreni confinanti […] delle falde acquifere sotterranee e dell’area lagunare circostante».

Il rimettente precisa che, sempre in tesi accusatoria, gli imputati, autorizzati dalla Provincia di Venezia a «miscelare le ceneri di pirite del deposito con altro materiale sempre a base di ceneri di pirite», avrebbero eseguito dette operazioni con modalità tali da determinare pericolo per la salute e per l’integrità dell’ambiente – in particolare provocando una «prolungata esposizione delle ceneri al dilavamento delle acque meteoriche» – in violazione del disposto degli artt. 2, comma 2, e 9, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997.

È contestato agli imputati, inoltre, di non aver proceduto alla bonifica dei terreni circostanti la discarica dopo aver cagionato, o comunque incrementato, l’inquinamento delle predette aree.

Il Tribunale di Venezia precisa infine che nel processo, ormai giunto alla fase decisoria (è stato dichiarato chiuso il dibattimento), si sono costituiti parti civili la Provincia di Venezia, il Comune di Mira ed i proprietari di uno dei fondi confinanti con il deposito in oggetto.

Tanto premesso in fatto, il giudice a quo procede ad esporre le ragioni a sostegno del sollevato dubbio di costituzionalità, a partire dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ponendo in evidenza, in primo luogo, che il d.lgs. n. 152 del 2006, entrato in vigore il 29 aprile 2006, ha inteso tra l’altro riordinare, nella parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti contaminati, con espressa abrogazione delle disposizioni contenute nel d.lgs. n. 22 del 1997 (così l’art. 264 dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006).

I fatti di reato contestati nel giudizio principale sono dunque disciplinati dal nuovo decreto legislativo: in particolare, il testo dell’art. 256, commi 1 e 5, corrisponde a quello del previgente art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, pur con una lieve modifica nella previsione delle pene pecuniarie; diversamente, la fattispecie in precedenza sanzionata dall’art. 51-bis del citato d.lgs. n. 22 del 1997, oggi prevista dall’art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006, ha subito una modifica significativa, con l’introduzione, in qualità di elemento costitutivo del reato, del superamento delle concentrazioni soglia di rischio.

Successivamente, prosegue il rimettente, in data 15 maggio 2006 è entrata in vigore la direttiva comunitaria 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio), che sostituisce ed abroga la precedente direttiva 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti) e le successive modifiche. La nuova disciplina comunitaria, che costituisce l’attuale punto di riferimento normativo in ambito europeo per il trattamento dei rifiuti, riproduce, lasciando sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del precedente assetto normativo.

In particolare, l’art. 1, comma 1, della direttiva 2006/12/CE definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione di disfarsi o l’obbligo di disfarsi». Definizione analoga è contenuta nella norma interna, l’art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, che qualifica come rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».

Quest’ultima norma, nella versione antecedente alle modifiche apportate con il d.lgs. n. 4 del 2008, comprendeva anche le definizioni di sottoprodotto e di materia prima secondaria, le quali, come è noto, non sono contemplate dalle direttive comunitarie. Per quanto di interesse nel procedimento in esame, il rimettente esamina la previsione contenuta nel testo originario della lettera n) del comma 1 dell’art. 183, che definiva sottoprodotto «i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». La disposizione proseguiva prevedendo che i sottoprodotti sono sottratti alla normativa sui rifiuti a condizione che si tratti di «sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare» di «sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo». Inoltre era stabilito che «l’utilizzazione del prodotto deve essere certa e non eventuale […]. L’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive».

Dopo aver definito in via generale la nozione di sottoprodotto, il legislatore nazionale aveva previsto, nella medesima disposizione, che «Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte al procedimento di bonifica o di ripristino ambientale».

Il giudice a quo, in relazione alle definizioni appena richiamate, evidenzia i requisiti e le condizioni necessari affinché un residuo di produzione fosse sottratto alla disciplina sui rifiuti: esso doveva provenire da attività di produzione (e non di consumo); doveva scaturire da tale attività in via continuativa (come residuo tipico di quella produzione); non doveva essere abbandonato dall’impresa (che dunque non se ne disfaceva); doveva poter essere reimpiegato direttamente, o commercializzato a condizioni economicamente vantaggiose, senza attività di trasformazione preliminare (che ne modificasse l’identità); il riutilizzo del residuo in altro ciclo produttivo doveva essere certo ed effettivo (circostanza che a sua volta doveva essere attestata con dichiarazioni scritte delle imprese di “partenza” e di “destinazione”); tale riutilizzo non doveva comportare condizioni peggiorative per l’ambiente o per la salute rispetto a quelle che derivavano dalle normali attività produttive.

Il rimettente rammenta che la richiamata nozione di sottoprodotto ha sostituito quella contenuta nell’art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 8 agosto 2002, n. 178, «già oggetto di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta incostituzionalità per l’inopinata restrizione della nozione comunitaria di rifiuto».

Tuttavia il rimettente precisa che l’odierna questione non riguarda la compatibilità con il diritto comunitario della nozione generale di sottoprodotto introdotta dal legislatore nazionale, prima con l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002 e, successivamente, in termini più puntuali e precisi, con il richiamato art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, bensì la qualificazione espressa delle ceneri di pirite come sottoprodotto.

È quindi richiamata diffusamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ed in particolare la sentenza 11 novembre 2004, in C-457/02, Niselli, in cui si ammette, in linea con i precedenti di analogo oggetto, che i materiali derivanti da processi di fabbricazione o estrazione non principalmente destinati a produrli possono costituire non residui ma sottoprodotti, di cui l’impresa non ha intenzione di disfarsi, ma si precisa anche che tale qualificazione «deve essere circoscritta alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale ma certo senza previa trasformazione e avvenga nel corso del processo di produzione» [punti 44 e 45].

Il Tribunale di Venezia richiama ulteriori, successive pronunce della Corte del Lussemburgo, assunte nell’ambito di procedure di infrazione (sentenza 8 settembre 2005, in cause C-4167/02 e C-121/03, Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali si trova affermato che i residui dell’attività zootecnica, accumulati dall’impresa in attesa di successivo utilizzo, avrebbero potuto essere utilizzati anche «per il fabbisogno di operatori economici diversi» dal produttore originario.

Le richiamate sentenze, prosegue il giudice a quo, erano state di poco precedute da un’altra pronuncia, resa in forma di ordinanza, il 15 aprile 2004 nella causa C-235/02, Saetti Freudiani, nella quale la Corte ha enunciato il principio secondo cui un residuo di produzione (il coke da petrolio di Gela) utilizzato con certezza «per il fabbisogno di energia della stessa impresa produttrice e di altre industrie non costituisce rifiuto ai sensi della direttiva del consiglio 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE». In tali decisioni, osserva il rimettente, sembrerebbe quindi ravvisarsi un’apertura del giudice comunitario sulla estensione della nozione di sottoprodotto all’utilizzo del residuo di produzione da parte di soggetti terzi rispetto all’impresa produttrice.

1.2. – Così definito il quadro normativo di riferimento, il Tribunale di Venezia passa ad esaminare lo specifico residuo di produzione costituito dalle ceneri di pirite, oggetto del giudizio a quo, esponendo quanto emerso all’esito del dibattimento.

Le ceneri di pirite sono un residuo di produzione (necessario ed inevitabile) del procedimento industriale di fabbricazione dell’acido solforico, cioè di uno dei più importanti prodotti intermedi dell’industria chimica di base. Il procedimento in parola, consistente nel cosiddetto arrostimento in forni speciali del minerale denominato pirite, è stato utilizzato fino ai primi anni ’70, epoca in cui alla materia prima pirite è stato sostituito lo zolfo. In Italia erano stati realizzati circa 100 stabilimenti, di varia potenzialità, per la produzione dell’acido solforico con l’utilizzo della pirite, ed ancora oggi esistono depositi delle relative ceneri in varie zone del Paese. Il deposito sito in località Gambarare di Mira, posto sotto sequestro nel procedimento a quo, era stato attivo fino ai primi anni ’70, per essere poi “messo in sicurezza”, mediante ricopertura dei cumuli di cenere con uno strato di terra successivamente piantumata. Dopo circa venti anni, a partire dal 1994, «il deposito è stato riaperto e coltivato dalla Veneta Mineraria S.p.A. che aveva appaltato a M.E. i lavori materiali di movimentazione delle ceneri ed il loro successivo carico su camion per il […] conferimento del materiale a cementifici italiani ed esteri». Le ceneri di pirite costituiscono, infatti, un additivo fondamentale nella produzione del cemento, nel quale sono impiegate senza attività preliminare di trasformazione.

Ciò detto, ad avviso del Tribunale di Venezia sarebbe proprio la particolare origine del residuo di produzione in esame a rendere impossibile la sottrazione dello stesso dal novero dei rifiuti. Posto infatti che, secondo la definizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si ha sempre rifiuto quando il produttore/detentore “si disfa” di un determinato residuo produttivo e non lo reimpiega né lo commercializza, «stabilire che un residuo va considerato sottoprodotto […] a prescindere dal fatto che l’impresa produttrice se ne è già disfatta è operazione che contrasta con il diritto comunitario».

Tale conclusione, secondo il rimettente, non potrebbe essere superata dalla considerazione che assume a riferimento il produttore originario e non l’attuale detentore, cioè il soggetto il quale si trova, come nella vicenda in esame, a gestire depositi e commercializzare le ceneri di pirite, alienandole a cementifici.

Del resto, osserva il giudice a quo, è la stessa normativa nazionale a porre alla base della disciplina generale dei sottoprodotti l’impresa che li produce, facendo riferimento a questa per tutto quanto concerne i presupposti che debbono ricorrere per sottrarre il residuo di produzione all’applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006.

In senso contrario, prosegue il rimettente, nemmeno si potrebbe sostenere che gli accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul territorio nazionale, compreso quello oggetto del procedimento principale, non siano mai stati “abbandonati” dagli originari produttori, e ciò in quanto negli anni in cui per la produzione dell’acido solforico era impiegata la pirite, le ceneri residue erano oggetto di conferimenti ai cementifici «a piè di impianto», sicché l’accantonamento riguardava solo il surplus di produzione, in vista del futuro utilizzo. Al contrario, il dato fattuale –puntualmente recepito dal legislatore che, nella norma censurata, menziona «stabilimenti dismessi» ed «aree industriali e non» – dal quale emerge che tale accantonamento è assai risalente nel tempo (di almeno trent’anni), dimostrerebbe come, per un lungo periodo, l’utilizzo del residuo non sia stato affatto certo o probabile.

Tutto ciò renderebbe evidente, secondo il Tribunale di Venezia, come la normativa interna, di cui si chiede lo scrutinio di costituzionalità, si ponga in contrasto non solo con il requisito del «non disfarsi» del residuo da parte del produttore originario – il che avviene se il materiale è raccolto in una determinata area, che viene chiusa o messa in sicurezza, ed è lasciato in loco per molti anni – ma anche con l’ulteriore requisito della certezza ed effettività dell’utilizzo del residuo di produzione al momento in cui esso è originato, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria.

Inoltre, la previsione censurata, nella parte in cui sottrae le ceneri di pirite all’applicazione della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, «anche se sottoposte a bonifica o ripristino ambientale», appare in contrasto con il principio secondo cui l’utilizzo di un sottoprodotto deve avvenire senza arrecare pregiudizio per l’ambiente e per la salute (art. 4 della direttiva 2006/12/CE), posto che nelle indicate evenienze è probabile che i materiali raccolti possano essere contaminati, così da risultare pericolosi per la salute e per l’ambiente.

In definitiva, secondo il rimettente, la disposizione contenuta nell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 contrasterebbe con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

Inoltre, ai sensi dell’art. 174, n. 2, del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, ora trasfuso nell’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in vigore dal 1° dicembre 2009, la politica comunitaria in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela ed è fondata, in particolare, sui principi «della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”». Pertanto, secondo il giudice a quo, il legislatore italiano, nell’introdurre una norma in contrasto con siffatti principi, avrebbe anche violato il generale obbligo di leale collaborazione di cui all’art. 10 del Trattato che istituisce la Comunità europea (articolo successivamente abrogato dall’art. 2, punto 22, del Trattato 13 dicembre 2007 – Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea), il quale prevede che gli Stati «si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato».

1.3. – Il rimettente esamina quindi il profilo dei rimedi alla rilevata antinomia tra diritto interno e diritto comunitario, escludendo di poter procedere alla disapplicazione della norma interna, come invece sostenuto dal pubblico ministero, secondo il quale la direttiva 75/442/CEE e successive modifiche e la direttiva 2006/12/CE sarebbero “autoapplicative”, quanto meno con riferimento alla nozione di rifiuto.

Sul punto sono richiamate espressamente le argomentazioni esposte dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 1414 del 2006), secondo cui il giudice può procedere alla disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto comunitario quando la norma comunitaria abbia efficacia diretta nell’ordinamento interno, e quindi solo nei casi di alcune norme del Trattato istitutivo, dei regolamenti, delle direttive che non richiedono, ai fini dell’applicazione, alcun provvedimento ulteriore da parte degli Stati membri, e delle decisioni rivolte ai singoli o agli Stati membri.

1.4. – Per concludere, il giudice a quo esamina la tematica degli effetti in malam partem che deriverebbero dall’accoglimento della sollevata questione, osservando come l’eventuale caducazione della norma più favorevole, contenuta nell’art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante le ceneri di pirite, non comporterebbe una violazione del principio di irretroattività della norma penale previsto dall’art. 25, secondo comma, Cost., posto che, per un verso, le ceneri di pirite costituivano senz’altro rifiuto all’epoca delle condotte contestate, non essendo ancora entrato in vigore l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, recante l’interpretazione autentica e restrittiva della nozione di rifiuto, e, per altro verso, la norma incriminatrice, contenuta nell’art. 51 del d.lgs. n. 22 del 1997, era già in vigore prima della commissione dei reati contestati.

La rilevanza della questione sarebbe in ogni caso assicurata, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (è richiamata la sentenza n. 148 del 1983), dalla incidenza che l’accoglimento della stessa potrebbe esercitare sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale, riflettendosi comunque sullo schema argomentativo della motivazione.

1.5. – Dopo l’integrale richiamo al precedente atto di promovimento, il Tribunale di Venezia riesamina il profilo della rilevanza della questione, secondo l’indicazione espressa nella citata ordinanza n. 83 del 2008 di questa Corte. La restituzione degli atti era stata disposta per lo ius superveniens costituito dal d.lgs. n. 4 del 2008, con il quale il legislatore nazionale ha riformulato l’art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, introducendo una nuova definizione di sottoprodotto ed eliminando il riferimento specifico alle ceneri di pirite.

Il rimettente evidenzia come la materia sia stata caratterizzata da numerose modifiche normative intervenute nel corso del procedimento principale: in particolare, al momento in cui è stato effettuato il sequestro preventivo del deposito di ceneri di pirite, era vigente l’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 22 del 1997, il quale recepiva la nozione comunitaria secondo cui è rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi». In quel contesto normativo, prosegue il giudice a quo, non vi era dubbio che «le ceneri di pirite, in quanto raccolte ed accantonate per un trentennio in un’area ricoperta di terra successivamente piantumata, rientrassero a pieno titolo nel concetto di rifiuto in quanto residuo di produzione di cui l’originario detentore si era disfatto o aveva deciso di disfarsi».

Nelle more del procedimento principale, era poi entrato in vigore l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, che aveva fornito la cosiddetta interpretazione autentica dell’art. 6 del d.lgs. n. 22 del 1997. Il citato art. 14, pur nella indubbia portata “restrittiva” della nozione di rifiuto, tuttavia ancora consentiva una applicazione che tenesse conto del criterio generale di interpretazione della materia dei rifiuti, quello cioè di non pregiudicare l’efficacia del diritto comunitario. Per un verso, infatti, la già evidenziata notevole distanza temporale tra il momento di produzione delle ceneri di pirite e quello del loro impiego in un diverso ciclo produttivo portava a ritenere che tale residuo fosse stato sottoposto – tramite deposito al suolo e copertura con strato di terreno piantumato – ad «attività di smaltimento o di recupero», e dunque rientrasse nella nozione di rifiuto di cui al comma 1 del richiamato art. 14. Per altro verso, il comma 2 del medesimo art. 14 richiedeva, ai fini della configurabilità del sottoprodotto, che i materiali residuali di produzione (o di consumo) potessero essere e fossero «effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo», sicché il loro riutilizzo doveva essere attuale rispetto al momento originario, e non solo potenziale.

Pertanto, a parere del rimettente, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, le ceneri di pirite continuavano ad essere disciplinate dalla normativa in materia di gestione dei rifiuti.

Ad analoghe conclusioni il giudice a quo perviene avuto riguardo al successivo intervento del legislatore, attuato con la legge 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), il quale ha confermato, all’art. 1, comma 26 (successivamente abrogato dall’art. 2, comma 46, del d.lgs. n. 4 del 2008), la vigenza dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002, sebbene la Corte di giustizia, con la richiamata sentenza Niselli, avesse già ritenuto tale disposizione in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto. La disciplina dettata dall’art. 14 è dunque rimasta in vigore fino a quando, in attuazione della delega, è entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del 2006, che all’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, ha esplicitamente statuito che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti, così introducendo una norma di favore nei confronti degli odierni imputati, ai quali, in applicazione del principio codificato nell’art. 2, quarto comma, del codice penale, dovrebbe essere applicata quest’ultima previsione, con conseguente assoluzione con formula di insussistenza del fatto, difettando la qualità di “rifiuto” nell’oggetto materiale della condotta.

Il rimettente segnala in proposito che, nelle more del precedente giudizio di costituzionalità, la Corte di giustizia, con la sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-263/05, ha accolto il ricorso per inadempimento, proposto, ai sensi dell’art. 266 del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), dalla Commissione contro la Repubblica italiana, per avere adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del d.l. n. 138 del 2002. Nella richiamata sentenza la Corte del Lussemburgo, dopo aver ribadito ancora una volta che il termine «disfarsi», e quindi la nozione di rifiuto, non possono essere interpretati in senso restrittivo [punto 33], ha svolto un excursus delle pronunce adottate in materia e dei principi in esse individuati, in esito al quale ha precisato, tra l’altro, che «in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di “disfarsi” […] ma che intende sfruttare o commercializzare […] a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e intervenga nel processo di produzione o di utilizzazione». Nel prosieguo della pronuncia la Corte ha affermato che «se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più medio o lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto».

Il giudice a quo osserva come tale pronuncia conforti l’interpretazione dell’art. 14, sopra prospettata, ed i limiti di applicabilità al caso in esame, una volta chiarito che il riutilizzo del materiale residuo deve avvenire «nel corso del processo di produzione».

Sul fronte della normativa nazionale, infine, la novità è costituita, dal d.lgs. n. 4 del 2008, che ha introdotto modifiche e correzioni al d.lgs. n. 152 del 2006, in particolare riscrivendo interamente la nozione di sottoprodotto ed eliminando il riferimento alle ceneri di pirite.

Il rimettente evidenzia come la “nuova” definizione di sottoprodotto, contenuta nell’art. 183, comma 1, lettera p), del d.lgs. n. 152 del 2006, rispetto alle precedenti formulazioni, risulti senz’altro più rispettosa della normativa comunitaria, là dove stabilisce che: «sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali di cui il produttore non intende disfarsi ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni: 1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; 2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito; 3) soddisfino requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l’impianto dove sono destinati ad essere utilizzati; 4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione; 5) abbiano un valore economico di mercato».

La predetta definizione, secondo il rimettente, non consente in alcun modo di collocare le ceneri di pirite tra i sottoprodotti, sicché, in esito alla disamina diacronica della normativa in materia, si dovrebbe concludere che le ceneri di pirite sono un rifiuto in forza sia delle disposizioni che hanno preceduto quella oggetto di censura, sia della disposizione attualmente in vigore. Soltanto l’applicazione della norma oggetto di censura, che ha avuto una vigenza quasi biennale, condurrebbe al risultato di sottrarre il predetto materiale alla disciplina dei rifiuti.

Tale norma peraltro, finché non espunta dall’ordinamento, continua ad essere la previsione più favorevole, tra le varie succedutesi nel tempo, e dunque deve trovare applicazione nel giudizio a quo, con la conseguenza che, a parere del giudice a quo, la questione di costituzionalità risulta ancora rilevante.

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza della questione.

Dopo aver ripercorso, in sintesi, l’iter argomentativo del rimettente, la difesa erariale evidenzia come il nucleo della questione afferisca alla nota problematica della cosiddetta «legge intermedia», che si pone quando tra due fattispecie normative – nel caso di specie, il d.lgs. n. 22 del 1997 e il d.lgs. n. 4 del 2008 – che qualificano, sia pure indirettamente, una condotta come reato, se ne inserisce una terza – il d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo previgente – la quale considera quella stessa condotta pienamente lecita.

La dottrina prevalente è dell’opinione che tali situazioni debbano essere regolate alla luce del disposto dell’art. 2, secondo comma, del codice penale, secondo cui «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato».

In altri termini, l’effetto depenalizzante retroagirebbe a prescindere dalla circostanza che successivamente sia entrata in vigore una legge che abbia ripristinato la rilevanza penale della condotta.

Tale soluzione, a parere dell’Avvocatura generale, sarebbe in tutto ragionevole, posto che, in caso contrario, la punibilità dell’imputato verrebbe a dipendere dalla circostanza che il processo penale si sia concluso in vigenza della (nuova) norma incriminatrice anziché nella vigenza della legge depenalizzante.

Il rimettente, prosegue la difesa dello Stato, intenderebbe eliminare la norma depenalizzante attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale per contrasto della stessa con le norme comunitarie ed, in via derivata, con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Tuttavia tale pretesa contrasta con il principio di legalità, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, nell’affermare il principio per cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, esclude che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva nuovi reati, o che, comunque, per effetto di una sentenza costituzionale, possano essere ampliate o aggravate figure di reato già esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 161 del 2004, n. 49 del 2002, nn. 508 e 183 del 2000, n. 411 del 1995, e l’ordinanza n. 580 del 2000).

Secondo l’Avvocatura generale, l’assunto risulterebbe ancor più valido se si considera che «è comune in dottrina e in giurisprudenza un principio esattamente opposto all’obiettivo, perseguito dal giudice remittente, di giungere ad una dichiarazione di colpevolezza anche in deroga al principio del favor rei: un’interpretazione sistematica degli articoli 25 e 136 della Costituzione fa infatti ragionevolmente ritenere che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, se più favorevole, potrà essere applicata al caso specifico anche a rischio di mettere in dubbio il principio di certezza del diritto».

Infine e indipendentemente dai rilievi fin qui svolti, la difesa erariale evidenzia la singolare scelta compiuta dal rimettente Tribunale di Venezia, il quale intende perseguire la verifica di conformità della norma interna al diritto comunitario attraverso una strada diversa dalla rimessione della questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, senza considerare che nessuna fonte dell’Unione europea impone che gli Stati membri perseguano penalmente le violazioni sulla disciplina dei rifiuti.

3. – Con memoria depositata il 16 febbraio 2009, si è costituito in giudizio uno degli imputati del processo a quo, prospettando l’inammissibilità, l’irrilevanza e l’infondatezza della questione, e in ogni caso la preclusione connessa agli effetti in malam partem che deriverebbero dall’eventuale accoglimento, in violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.

Dopo avere richiamato diffusamente gli argomenti prospettati dal Tribunale di Venezia, la difesa della parte privata evidenzia, in primo luogo, come la pretesa del rimettente di risolvere la questione di conformità all’ordinamento comunitario di una norma interna, attraverso l’incidente di costituzionalità, risulti inammissibile.

La soluzione della questione «pertiene alla giurisdizione della Corte di giustizia a norma dell’art. 234 del Trattato CE, sotto la specie della competenza a risolvere in via pregiudiziale le questioni di interpretazione della normativa comunitaria quanto alla compatibilità della normativa interna con la medesima».

A tale riguardo, rammenta la parte privata, la Corte costituzionale si è espressa di recente (è richiamata l’ordinanza n. 103 del 2008), affermando che nel giudizio pendente davanti al giudice comune, al fine dell’interpretazione delle norme comunitarie necessarie per l’accertamento della conformità delle norme interne con l’ordinamento comunitario, lo stesso giudice deve avvalersi, all’occorrenza, del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

La questione sarebbe poi irrilevante, in ragione della genericità delle conseguenze prospettate dal rimettente circa l’incidenza di una eventuale pronuncia di accoglimento nel giudizio principale, che è un giudizio penale, ancorché fondato su nozioni extrapenali che entrano a far parte della norma incriminatrice.

In particolare, la parte privata sottolinea come la tesi della reviviscenza della pregressa normativa di per sé ponga, in sede di responsabilità penale, «questioni insormontabili», attesa la prevalenza assoluta del principio del favor rei, e come proprio su tali problematiche il rimettente non abbia adeguatamente motivato.

Nel merito, infine, la questione risulterebbe infondata.

La difesa della parte privata procede all’esame della disposizione contenuta nel censurato art. 183, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 152 del 2006, evidenziando come la stessa – suddivisa in sei periodi, inseriti in un unico contesto – introduca la nozione di sottoprodotto, stabilisca le condizioni ed i requisiti in presenza dei quali i sottoprodotti sono sottratti alle disposizioni della parte quarta del d.lgs. n. 152 del 2006, includa le ceneri di pirite tra i sottoprodotti, stabilisca, infine, le regole che ne disciplinano l’utilizzabilità, senza che derivino condizioni peggiorative per l’ambiente o la salute rispetto a quelle delle normali attività produttive.

Ad avviso della stessa parte, il tenore letterale e la ratio della norma, da valutare con riferimento alla definizione di rifiuto contenuta nel medesimo art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, «non possono significare altro che in difetto dei requisiti, delle regole e delle condizioni da essa stabilite (prima tra tutte, ed in via generale non derogata, quella del “non disfarsi”), i prodotti di cui trattasi, non escluse le ceneri di pirite, sono naturalmente soggette alla normativa, anche sanzionatoria, dettata per i rifiuti nella parte quarta del d.lgs. n. 152/2006».

Il dubbio di legittimità costituzionale, sempre secondo la parte privata, sarebbe stato prospettato dal rimettente presupponendo una portata derogatoria, rispetto al contesto di riferimento, che la norma censurata non presenta, né dal punto di vista letterale, né alla luce del significato che ragionevolmente deve esserle attribuito, in coerenza e rispondenza con il predetto contesto.

Inoltre, costituirebbe una petizione di principio l’affermazione del giudice a quo, secondo cui il lungo tempo trascorso dalla produzione delle ceneri di pirite renderebbe ineluttabile che il produttore se ne fosse già disfatto, sicché la previsione censurata necessariamente derogherebbe al requisito del “non disfarsi”.

Analoghe considerazioni, sempre a parere della parte costituita, varrebbero per gli altri profili di censura prospettati dal rimettente, attinenti, in particolare, all’incertezza ed alla dubbia effettività dell’utilizzo delle ceneri di pirite – stante il lungo tempo trascorso tra la loro produzione ed il passaggio dal produttore originario al detentore che ne cura la commercializzazione – ed alla sicurezza dell’utilizzo.

Quanto al primo aspetto, lo stesso rimettente dà atto della progressiva apertura della giurisprudenza comunitaria circa la possibilità che l’alienazione dei sottoprodotti avvenga anche per il tramite di soggetti diversi dal produttore, i quali provvedano in un tempo successivo alla commercializzazione, senza subordinare a precisi limiti temporali la durata del deposito, l’epoca della commercializzazione e l’effettivo utilizzo (è richiamata la sentenza della Corte di giustizia 8 settembre 2005, in causa C-416/02, Commissione c. Regno di Spagna). Non troverebbe perciò conferma, in ambito comunitario, «l’asserto secondo cui il requisito dell’utilizzo certo ed effettivo può essere garantito soltanto allorché “il sottoprodotto” viene utilizzato nella fase in cui esso viene alla luce», per quanto sia innegabile che questa fosse l’interpretazione originariamente seguita dalla giurisprudenza comunitaria.

Con riguardo poi al significato dell’inciso «anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale», la difesa della parte privata osserva come erroneamente il rimettente riferisca tale espressione al materiale ceneri di pirite, anziché alle aree ove lo stesso si trova depositato, così ravvisando anche un contrasto tra la norma censurata ed il principio generale secondo cui l’utilizzo del sottoprodotto deve avvenire senza che ciò arrechi pregiudizio per l’ambiente e per la salute.

Per smentire l’assunto sarebbe sufficiente considerare che l’ultimo periodo del censurato art. 183, comma 1, lettera n), prevede espressamente che «l’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive».

Secondo la parte privata anche la ricostruzione del quadro normativo comunitario, come prospettata dal rimettente, risulterebbe opinabile, incompleta ed errata sotto molteplici profili.

La definizione di rifiuto costituisce una delle questioni più controverse nell’ambito del diritto interno dell’ambiente e di quello comunitario, ed è stata oggetto di numerose e complesse decisioni della Corte di Lussemburgo, che hanno espresso orientamenti non sempre univoci.

Da ultimo, la parte privata segnala il contributo fornito dalla Commissione con la Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti del 21 febbraio 2007, che in premessa ha evidenziato la complessità della distinzione tra rifiuto e sottoprodotto per il conflitto di interessi che ruota attorno ad essa. In linea generale, la Commissione ha ritenuto che un’interpretazione troppo ampia della nozione di rifiuto finisca per gravare le imprese di «costi superflui, rendendo meno interessante un materiale che avrebbe potuto invece rientrare nel circuito economico», così chiarendo la ratio della disciplina comunitaria e della controversa distinzione, la cui finalità è di evitare che i rifiuti si producano.

In una simile prospettiva verrebbe valorizzata al massimo la possibilità di «generare prodotti che risultino idonei ad un proficuo riutilizzo e che siano dotati di caratteristiche merceologiche definite e di valore economico determinabile». In termini analoghi, già la direttiva 2006/12/CE, al quinto e sesto considerando e poi all’art. 3, ha sollecitato gli Stati membri a favorire il recupero dei rifiuti e l’utilizzazione dei materiali di recupero come materie prime, a limitare la formazione dei rifiuti, promuovendo le tecnologie “pulite” e i prodotti riciclabili e riutilizzabili.

Nella direzione di una nozione “condivisa” di rifiuto, la Commissione ha sottolineato la centralità dell’elemento soggettivo – il concetto di “disfarsi” –, ribadendo il carattere meramente indicativo delle elencazioni comunitarie. Ciò che, del resto, emergerebbe già dalla direttiva 2006/12/CE, ove si legge, al quarto considerando, che «una regolamentazione efficace e coerente dello smaltimento e del recupero dei rifiuti dovrebbe applicarsi, fatte salve talune eccezioni, ai beni mobili di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi».

Quanto al profilo soggettivo, la difesa della parte privata richiama l’ordinanza della Corte di giustizia 15 gennaio 2004, in causa C-235/02 Saetti Freudiani, nella quale si trova affermato che, poiché il materiale in questione (il coke da petrolio di Gela) era «il risultato di una scelta tecnica» volta deliberatamente a produrlo, non poteva essere considerato residuo di produzione. Ciò significa che, al fine di stabilire se un materiale costituisca un rifiuto, occorre verificare se il fabbricante abbia deliberatamente scelto di produrlo.

Altro indice che il prodotto derivi da una scelta tecnica si può ricavare dalla modifica del sistema di produzione tale da conferire allo stesso caratteristiche specifiche che lo rendano idoneo ad essere utilizzato e commercializzato: in base a tali indici, la richiamata ordinanza ha concluso che il coke da petrolio, in quanto è il risultato di una scelta tecnica, nell’ambito di un processo destinato principalmente a produrre un diverso materiale, va considerato prodotto (petrolifero) e non residuo di produzione, dal momento in cui vi è certezza che l’intera produzione verrà utilizzata.

La difesa della parte costituita evidenzia come un ulteriore importante indice di valutazione sia rappresentato dal vantaggio finanziario che deriva dalla vendita del prodotto. Nella già richiamata sentenza Niselli la Corte di giustizia ha affermato che «se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non potrà più essere considerata un ingombro di cui il detentore cerchi di “disfarsi”, bensì un autentico prodotto» [punto 46].

Importanti indicazioni in materia provengono inoltre, secondo la parte, dalle pronunce rese in cause C-416/02 e C-121/03 (Commissione c. Regno di Spagna), nelle quali la Corte di Lussemburgo ha escluso che dovesse considerarsi rifiuto il letame utilizzato come fertilizzante nell’ambito di una pratica legale di spargimento, e ciò pur se detto materiale è destinato ad essere utilizzato da soggetti terzi, in un contesto produttivo del tutto diverso, ed anche se prima dell’utilizzo deve essere depositato e lasciato essiccare. Lo spostamento dal luogo o stabilimento di produzione «da solo non basta a costituire una prova» per affermare che si tratti di un residuo anziché di un prodotto.

La parte privata richiama ancora le sentenze della Corte di giustizia in cause C-9/00, Palin Granit Oy, e C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy, nelle quali è stata negata la qualificazione di rifiuti ai residui di roccia depositati in vista di un ulteriore utilizzo, come materiale di riempimento, senza necessità di alcuna misura di recupero e senza alcun pericolo per la salute o per l’ambiente. La Corte di giustizia ha ritenuto, nella specie, che non è giustificato assoggettare alla disciplina in tema di rifiuti «beni materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti».

Analoghe considerazioni dovrebbero valere per le ceneri di pirite, le quali sono destinate ad essere utilizzate, senza alcuna trasformazione, per la produzione di cemento, non ostando a ciò la loro provenienza da produzioni industriali cessate e la specificità dei luoghi ove le stesse sono depositate.

Del resto, prosegue la difesa della parte, nessuno dei comportamenti posti in essere dagli imputati dimostrerebbe la volontà di disfarsi di questi materiali, «oggettivamente dotati di interessante valore commerciale e perciò degni di essere acquistati e rivenduti», sicché l’assunto del rimettente risulterebbe, anche sotto tale profilo, infondato.

4. – Con ordinanza del 13 ottobre 2009, il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Dolo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l’art. 2, comma 20, del d.lgs. n. 4 del 2008, nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.

Il rimettente riferisce che oggetto del procedimento principale è l’accertamento della responsabilità penale di quattro persone, imputate del reato già previsto dall’art. 53-bis del d.lgs. n. 22 del 1997, ora trasfuso nell’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006. Secondo l’accusa gli imputati, «in concorso tra loro, attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuativa organizzata, avrebbero effettuato un traffico illecito di rifiuti tossico-nocivi, nella fattispecie costituti da un ingente quantitativo di ceneri di pirite (8.084 tonnellate) provenienti dall’ex cantiere Perfosfati di Portogruaro, destinandole ad attività non consentita, cioè al miscelamento con altre ceneri di pirite site in un impianto di Mira, invece di destinarle in discarica di II categoria, tipo C».

Tanto premesso in fatto, il rimettente procede all’esame del quadro normativo interno e comunitario, nonché della giurisprudenza comunitaria in materia di rifiuti, in particolare soffermandosi sull’evoluzione della nozione di sottoprodotto, ed espone, a sostegno della non manifesta infondatezza e della rilevanza della questione, argomenti in tutto identici a quelli prospettati nell’ordinanza n. 2 del 2009, già sopra illustrata.

5. – Con atto depositato il 9 giugno 2009 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza della questione.

Dopo aver richiamato i fatti oggetto del procedimento a quo ed aver ripercorso, in sintesi, l’iter argomentativo del rimettente, la difesa dello Stato illustra le ragioni a sostegno delle indicate conclusioni in termini in tutto identici a quelli rappresentati nell’atto di intervento depositato l’11 febbraio 2009, nel giudizio introdotto dall’ordinanza reg. ord. n. 2 del 2009, sopra sintetizzato.



Considerato in diritto

1. – Il Tribunale ordinario di Venezia, sezione distaccata di Dolo, con due ordinanze di analogo tenore, ha sollevato, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia di ambiente), nel testo antecedente alle modifiche introdotte con l’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni contenute nella parte quarta del medesimo d.lgs. n. 152 del 2006.

2. – Preliminarmente, in ragione della identità della questione, i giudizi devono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), quarto periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008, è fondata.

3.1. – L’oggetto del giudizio principale – l’asserita violazione delle norme che disciplinano l’attività di gestione di rifiuti pericolosi in assenza di autorizzazione o con autorizzazione scaduta – dipende strettamente dalla definizione di rifiuto e dalla differenza tra tale nozione e quella di sottoprodotto, secondo la normativa comunitaria e nazionale.

3.2. – La direttiva 15 luglio 1975, n. 75/442/CEE (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti), come modificata dalla direttiva 18 marzo 1991, n. 91/156/CEE (Direttiva del Consiglio che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti), definisce “rifiuto” «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi» (art. 1, lettera a).

Sulla base di tale normativa (confermata sostanzialmente dalla direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE – Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti – che l’ha abrogata), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito alcuni punti fermi interpretativi: a) la nozione di rifiuto deve essere intesa in senso estensivo ed in tal modo devono essere interpretate le norme che contengono riferimenti alla stessa; b) dalla suddetta nozione sono escluse le sostanze suscettibili di utilizzazione economica, nel caso in cui non si tratta di prodotti di cui il detentore si disfa; c) in tale nozione non sono compresi i sottoprodotti, intesi come beni, materiali o materie prime, che derivano da un processo di estrazione o fabbricazione, che non è destinato principalmente a produrli, a condizione che la loro utilizzazione sia certa e non eventuale, avvenga senza trasformazioni preliminari ed al fine di commercializzare il materiale, anche eventualmente per destinarlo a soggetti diversi dal produttore (ex plurimis, sentenze 18 aprile 2002, in causa C-9/00, Palin Granit Oy, e 11 settembre 2003, in causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy).

Successivamente, nella medesima materia, è stata emanata la direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive), il cui termine di recepimento scadrà il 12 dicembre 2010.

3.3. – In attuazione delle citate direttive, il legislatore italiano ha proceduto, in un primo tempo, ad emanare il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), che riproduceva quasi testualmente la definizione comunitaria e prevedeva sanzioni penali per le attività poste in essere in violazione della disciplina sul trattamento dei rifiuti.

Il successivo d.lgs. n. 152 del 2006 (“Codice dell’ambiente”) ha disciplinato ex novo l’intera materia con una serie di norme contenute nell’art. 183, che, da una parte, riproponevano la definizione comunitaria e, dall’altra, definivano i sottoprodotti come quei «prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». I sottoprodotti vengono sottratti alla disciplina dei rifiuti, a condizione che di essi l’impresa non si disfi, né intenda o abbia l’obbligo di disfarsi, che siano impiegati direttamente dall’impresa che li produce ovvero commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa, che siano riutilizzati senza operare trasformazioni preliminari del materiale e che il riutilizzo sia certo e non eventuale e non comporti condizioni peggiorative per l’ambiente o per la salute, rispetto a quelle delle normali attività produttive (art. 183, comma 1, lettera n).

La disposizione da ultimo citata contiene anche la norma censurata nel presente giudizio, secondo cui: «Rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimenti di bonifica o di ripristino ambientale».

Infine, con il d.lgs. n. 4 del 2008 è stato eliminato il riferimento alle ceneri di pirite ed è stata introdotta una definizione più restrittiva di sottoprodotto (art. 183, comma 1, lettera p, del d.lgs. n. 152 del 2006, nel testo attualmente vigente).

4. – La norma censurata – in contrasto con la definizione comunitaria sopra richiamata, che qualifica rifiuto ogni sostanza di cui il produttore si disfi – esclude dalla categoria dei rifiuti un materiale, le ceneri di pirite, indipendentemente dal fatto che l’impresa produttrice se ne sia disfatta. Nel caso specifico, oggetto del processo principale, le suddette ceneri, al momento del sequestro, si trovavano in un sito da circa trent’anni. Il lungo tempo trascorso fa venir meno uno dei requisiti richiesti dalle direttive e dalla giurisprudenza comunitaria per l’identificazione del sottoprodotto, che cioè il riutilizzo del materiale sia certo ed effettivo e non solo eventuale.

Si deve porre in rilievo, ai fini del presente giudizio, che la norma censurata introduce una presunzione assoluta, in base alla quale le ceneri di pirite, quale che sia la loro provenienza e il trattamento ricevuto da parte del produttore, sono sempre e comunque da qualificare “sottoprodotto”. Al contrario, la normativa comunitaria fa leva anche su fatti estrinseci e sui comportamenti dei soggetti produttori ed utilizzatori e non si arresta pertanto alla mera indicazione della natura intrinseca del materiale. Per effetto della presunzione assoluta, al giudice è inibito l’accertamento in fatto delle circostanze in cui si è formato il materiale e che hanno caratterizzato la gestione dello stesso, una volta prodotto. Tale preclusione si pone in contrasto con l’esigenza, derivante dalla disciplina comunitaria, di verificare in concreto l’esistenza di un rifiuto o di un sottoprodotto. In questo senso si è espressa la Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale ha sottolineato come l’effettiva esistenza di un rifiuto debba essere accertata «alla luce del complesso delle circostanze, tenuto conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia» (sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana).

Lo stesso legislatore nazionale ha recepito le direttive comunitarie sul punto, sia con il d.lgs. n. 22 del 1997, sia con il d.lgs. n. 4 del 2008. Solo per un periodo di circa due anni è rimasta in vigore la norma censurata, che ha espunto ope legis le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, con l’indiretta conseguenza di rendere penalmente irrilevante la loro gestione al di fuori delle regole stabilite dalla legge.

La parte privata costituita ha proposto una interpretazione della norma censurata, dalla quale si evincerebbe l’inesistenza di una presunzione assoluta di non appartenenza del materiale in questione alla categoria dei rifiuti, e quindi l’esperibilità dell’accertamento, caso per caso, della natura di rifiuto o di sottoprodotto. Tale interpretazione porterebbe alla naturale conclusione dell’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per non avere il giudice rimettente valutato la possibilità di una interpretazione della disposizione censurata conforme al parametro di costituzionalità, che, nel caso di specie, è rappresentato dalle direttive in tema di rifiuti, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

L’interpretazione conforme proposta non è però plausibile, in quanto contraddice ciò che chiaramente emerge dal testo della disposizione censurata. Nella stessa infatti, dopo l’enunciazione delle condizioni di fatto che devono sussistere perché un determinato materiale possa qualificarsi sottoprodotto, si aggiunge che rientrano «altresì» tra i sottoprodotti le ceneri di pirite. Si tratta quindi di una previsione, diversa da quella che precede, volta ad assoggettare il materiale in questione ad una disciplina differenziata. Se si fosse trattato di una mera esemplificazione, il legislatore non avrebbe usato l’avverbio «altresì», che vale invece ad identificare un’ipotesi ulteriore, rispetto alla quale la norma opera una inclusione autoritativa – fatta palese dal valore imperativo del predicato verbale «rientrano» – nella categoria dei sottoprodotti. Il contrasto con la normativa comunitaria di riferimento è pertanto evidente.

5. – Non è implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime. La prevalente giurisprudenza di legittimità nega, infatti, il carattere “autoapplicativo” delle direttive de quibus, con la conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis, Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Più in generale, l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale (ex plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza 29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller; sentenza 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri; Corte di cassazione, sentenza n. 41839 del 2008).

L’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11 ed oggi anche dell’art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 170 del 1984, n. 317 del 1996, n. 284 del 2007).

6. – Da escludere altresì è il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, come richiesto dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte privata costituita. Il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpretativo (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008). Nella specie, dalle norme e dalla giurisprudenza comunitarie emergono con chiarezza le nozioni di “rifiuto” e di “sottoprodotto”, sulle quali non residuano margini di incertezza. Pertanto, il parametro interposto, rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., può considerarsi sufficientemente definito nei suoi contenuti, ai fini del controllo di costituzionalità.

7. – Rilevato il contrasto tra la norma censurata e le direttive comunitarie sui rifiuti, nonché l’impossibilità di disapplicare la stessa da parte del giudice rimettente e la non necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, resta da risolvere il problema degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma extrapenale, che, sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, ha escluso, durante il periodo della sua vigenza, precedente all’abrogazione ad opera del d.lgs n. 4 del 2008, l’applicabilità delle sanzioni penali previste per la gestione illegale dei rifiuti alla fattispecie oggetto del giudizio principale.

Nella verifica della successione delle leggi nel tempo, si deve notare che quando furono commessi i fatti per cui si procede nel giudizio a quo la norma di esclusione non esisteva, ed era pertanto pacifico che si applicassero le sanzioni penali previste dal legislatore italiano per l’inosservanza delle norme introdotte in ossequio alle direttive comunitarie sui rifiuti. Durante lo svolgimento del processo è entrata in vigore la norma di esclusione, di cui s’è detto nei precedenti paragrafi, che è stata successivamente abrogata nelle more del giudizio incidentale davanti a questa Corte.

Secondo il disposto dell’art. 2, quarto comma, del codice penale, se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. La legge più mite pertanto retroagisce, secondo il principio del favor rei, che caratterizza l’ordinamento italiano e che oggi trova conferma e copertura europea nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il citato art. 49 stabilisce: «Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».

Questa Corte ha già chiarito, tuttavia, che la retroattività della legge più favorevole non esclude l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo scrutinio di legittimità costituzionale: «Altro […] è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile» (sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso senso, sentenza n. 394 del 2006).

Nel caso di specie, se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive comunitarie sui rifiuti, ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali.

La responsabilità penale, che la legge italiana prevede per l’inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l’accertamento della loro violazione.

Per superare il paradosso sopra segnalato, occorre quindi distinguere tra controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali.

Questa Corte ha già chiarito che l’eventuale accoglimento delle questioni relative a norme più favorevoli «verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali»; peraltro, «la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato […] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983).

Occorre precisare inoltre che, nel caso di specie, il giudice rimettente ha posto un problema di conformità di una norma legislativa italiana ad una direttiva comunitaria, evocando i parametri di cui agli artt. 11 e 117 Cost., senza denunciare, né nel dispositivo né nella motivazione dell’atto introduttivo del presente giudizio, la violazione dell’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza intrinseca delle leggi. Ciò esclude che la questione oggi all’esame di questa Corte comprenda la problematica delle norme penali di favore, quale affrontata dalla sentenza n. 394 del 2006.

Infine va ricordato che, posti i principi di cui all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 25, secondo comma, Cost. ed all’art. 2, quarto comma, del codice penale, la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento non è compito di questa Corte, in quanto la stessa spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 183, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel testo antecedente alle modiche introdotte dall’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), nella parte in cui prevede: «rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

Sentenza 27/2010

SENTENZA N. 27 ANNO 2010
Bilancio e contabilità pubblica - Enti locali - Riduzione dell'importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 dei trasferimenti erariali a favore delle comunità montane, con priorità per le comunità che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare - Attuazione con decreto del Ministro dell'interno, di concerto col Ministro dell'economia - Mancata previsione di risorse che consentano il mantenimento dell'equilibrio tra funzioni e entrate, assenza di coinvolgimento delle Regioni.


Presidente AMIRANTE - Redattore NAPOLITANO

Udienza Pubblica del 15/12/2009 Decisione del 25/01/2010
Deposito del 28/01/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Decreto legge 25/06/2008, n. 112, convertito con modificazioni in legge 06/08/2008, n. 133; discussione limitata all'art. 76, c. 6° bis.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ric. 72/2008


SENTENZA N. 27

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 6-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113, promosso dalla Regione Liguria con ricorso notificato il 20 ottobre 2008, depositato in cancelleria il 22 ottobre 2008 ed iscritto al n. 72 del registro ricorsi 2008.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 15 dicembre 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Liguria e l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.



Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il successivo 22 ottobre, la Regione Liguria ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113, e, tra queste, in riferimento agli artt. 117, comma quarto, e 119 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, dell’art. 76, comma 6-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008 nella parte in cui prevede che: «Sono ridotti dell’importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 i trasferimenti erariali a favore delle comunità montane. Alla riduzione si procede intervenendo prioritariamente sulle comunità che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare. All’attuazione del presente comma si provvede con decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze».

2.– La ricorrente formula tre distinte censure tutte aventi ad oggetto il comma 6-bis dell’art. 76 del decreto-legge citato.

2.1.– La prima censura riguarda la riduzione dell’importo di 30 milioni di euro, per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011, dei trasferimenti erariali a favore delle comunità montane, la quale, secondo la Regione Liguria, si pone in contrasto, sia pure indirettamente, con l’autonomia finanziaria delle Regioni. Le comunità montane, infatti, rientrano nella sfera di competenza legislativa regionale (va citata la sentenza della Corte costituzionale n. 465 del 2005) e costituiscono strumenti a disposizione della Regione e degli enti locali per la riorganizzazione delle proprie funzioni. Pertanto, il loro finanziamento, nonostante allo stato attuale della legislazione sia costituito da trasferimenti diretti alle singole comunità montane, deve essere considerato parte della complessiva finanza regionale, come del resto dimostrerebbe «il fatto che il “Fondo Montagna”, destinato ai finanziamenti in conto capitale, è regionalizzato da moltissimi anni».

Una riduzione dei trasferimenti settoriali in termini significativi come quella in esame – con il possibile azzeramento del contributo ordinario, e la riduzione anche di quello detto “consolidato” – sarebbe suscettibile di produrre il tracollo economico e la scomparsa di numerose comunità montane, le quali, oltretutto, sono state appena riorganizzate dalle leggi regionali in attuazione dell’art. 2, comma 17, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008).

La Regione evidenzia che la riduzione di 30 milioni di euro per l’anno in corso va a sommarsi alle riduzioni anche maggiori previste dalla finanziaria 2008, pari a 66,4 milioni di euro, tanto che il taglio complessivo è di quasi 97 milioni di euro pari ad un decimo del contributo ordinario.

Secondo la ricorrente, l’art. 119 della Costituzione presuppone un equilibrio tra funzioni ed entrate, ed obbliga lo Stato a dotare le Regioni dei mezzi per fare fronte ai propri compiti, sia mediante trasferimenti di tributi erariali, sia mediante entrate proprie. Pertanto, sarebbe costituzionalmente illegittima una riduzione dei trasferimenti statali al sistema regionale in termini tali da compromettere l’esercizio delle funzioni e senza prevedere strumenti con i quali le Regioni possano rimediare alle riduzioni stesse.

La seconda censura formulata dalla Regione Liguria ha ad oggetto il comma 6-bis dell’art. 76 del d.l. n. 112 del 2008, nella parte in cui prevede che le comunità destinatarie della riduzione devono essere individuate, prioritariamente, tra quelle che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare. La disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima, perché invasiva della sfera di competenza legislativa regionale relativa alla politica della montagna (art. 27 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 – Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).

L’adozione di un criterio altimetrico sarebbe del tutto irragionevole, in quanto non dipendono dalla mera altimetria le condizioni di maggiore o minore isolamento, di maggiore o minore difficoltà di comunicazione ed ogni altra condizione che possa suggerire di sostenere determinate comunità invece di altre. L’irragionevolezza del criterio si riverberebbe sull’esercizio dei poteri spettanti alla Regione in materia di comunità montane ex artt. 117, quarto comma, Cost. e 27 del d.lgs. n. 267 del 2000, quali: 1) la disciplina dei piani zonali e dei programmi annuali; 2) la determinazione dei criteri di ripartizione tra le comunità montane dei finanziamenti regionali e di quelli dell’Unione europea; 3) la disciplina dei rapporti con gli altri enti operanti nel territorio.

La soglia di 750 metri sopra il livello del mare quale limite da superare per non incorrere nella riduzione della contribuzione risulterebbe ulteriormente irragionevole «in quanto diversa e lontana da quella dei 500 metri sopra il livello del mare prevista all’art. 2, comma 20, della legge n. 244 del 2007 (finanziaria 2008) ed assunta, insieme agli altri criteri ivi stabiliti, a riferimento dalle regioni nella redazione delle loro leggi di riordino. Si sarebbe introdotto, in tal modo, un elemento di contraddizione proprio nella fase di attuazione delle leggi regionali di riordino, richieste ed imposte dalla stessa legge statale.

La disposizione violerebbe, dunque, «ad un tempo l’autonomia finanziaria regionale, nel senso sopra indicato, e l’autonomia legislativa».

Infine, la terza censura riguarda il comma 6-bis dell’art. 76 del d.l. n. 112 del 2008 nella parte in cui demanda la sua attuazione ad un decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza la partecipazione delle Regioni, in violazione del principio di leale collaborazione.

La difesa regionale ritiene che la politica di finanziamento delle comunità montane debba essere necessariamente coordinata con le politiche regionali, esistendo una connessione indissolubile tra i problemi del finanziamento e i problemi della stessa esistenza ed articolazione delle comunità montane (oltre che della complessiva funzionalità e possibilità di assumere funzioni).

3.– In data 10 novembre 2008 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per la declaratoria di infondatezza del ricorso.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, la riduzione dei trasferimenti disposta dalla norma censurata concerne somme che, attraverso un apposito fondo previsto dall’art. 34, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’articolo HYPERLINK "http://bd01.leggiditalia.it/cgi-bin/FulShow?TIPO=5&NOTXT=1&KEY=01LX0000100804ART4" 4 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), lo Stato destina al finanziamento delle comunità montane, nella misura annualmente determinata dalla legge finanziaria. Si tratterebbe, come riconosce la stessa Regione ricorrente, di somme a carico dello Stato, che non rientrano nell’ambito della finanza regionale, perché destinate direttamente alle comunità montane.

Inoltre, a parere della parte resistente, la norma sarebbe espressione della politica economica del Governo finalizzata al contenimento della spesa pubblica. Pertanto, rientrerebbe nella potestà legislativa dello Stato disporre una simile riduzione attinenente esclusivamente alla gestione della propria finanza.

I riflessi indiretti che tale determinazione avrebbe sulla attività delle Regioni costituirebbero un’eventualità che, oltre a non essere dimostrata, non potrebbe certamente comportare un limite costituzionale per lo Stato nella determinazione annuale delle risorse da trasferire, in ragione delle proprie disponibilità finanziarie. Occorre considerare, a tale riguardo, che la politica di bilancio dello Stato deve tener conto della molteplicità degli interessi pubblici rimessi alla propria competenza, e che i vincoli prospettati dalla Regione comporterebbero un inammissibile condizionamento della potestà dello Stato di determinare le linee e gli obiettivi della propria politica economica.

Secondo la difesa del Presidente del Consiglio, non sarebbero violati i principi contenuti negli artt. 117, quarto comma, e 119 Cost., ovvero il principio di leale collaborazione. Infatti, in base all’art. 119 Cost., lo Stato è tenuto a destinare risorse per il finanziamento delle Regioni e degli Enti locali nei limiti necessari ad assicurare «lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni».

La fattispecie in esame non rientrerebbe in queste previsioni né sotto il profilo soggettivo, né sotto quello oggettivo, non potendosi ravvisare un obbligo costituzionale dello Stato ad operare il finanziamento delle comunità montane. Neppure potrebbero ipotizzarsi vizi di manifesta irragionevolezza delle disposizioni in esame, che – prevedendo la riduzione prioritaria dei trasferimenti alle comunità poste al di sotto dell’altitudine media di 750 metri sul livello del mare – intendono garantire l’uso efficiente delle risorse disponibili, assicurando che esse siano utilizzate in conformità con la loro destinazione, e perciò a favore di territori effettivamente disagiati, per la loro localizzazione in zone montuose.

La Regione non può dolersi della necessità di operare interventi per assicurare il funzionamento delle comunità montane, in conseguenza della riduzione delle risorse derivanti dal fondo statale. In primo luogo non è dimostrato il pregiudizio concreto che la misura adottata potrebbe arrecare alla Regione ricorrente. Sotto altro profilo, occorre ribadire che le misure di riequilibrio della finanza pubblica, di cui le disposizioni censurate costituiscono espressione, rientrano nell’ambito di una complessiva politica di coordinamento della finanza pubblica che lo Stato è tenuto ad adottare e che le Regioni sono chiamate ad osservare, nel rispetto dell’interesse nazionale, nonché del patto di stabilità previsto dagli artt. 73 e seguenti dello stesso d.1. in esame, secondo quanto precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 169 del 2007.

Da ciò consegue che ogni eventuale intervento regionale, che si rendesse necessario per effetto della disposta riduzione di spesa, non dovrebbe essere considerato come una lesione dell’autonomia legislativa ed organizzativa della Regione, ma costituirebbe espressione dei predetti principi costituzionali. Dalle considerazioni sopra svolte, si desumerebbe anche la manifesta infondatezza dell’ultimo profilo di censura, che riguarda la remissione delle norme attuative ad un successivo decreto ministeriale. È evidente che tale decreto non comporta l’adozione di misure di dettaglio in materia di competenza regionale, ma investe esclusivamente l’esecuzione di una disposizione relativa alla gestione di un fondo statale.

3.1.– Con memoria depositata in data 1° ottobre 2009, la difesa del Presidente del Consiglio ha ribadito le proprie difese richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 237 del 2009 con la quale si è riconosciuta la perfetta legittimità di disposizioni, concernenti la riduzione della spesa per il funzionamento delle comunità montane e la determinazione di alcuni “indicatori” di efficienza, analoghe a quelle che formano oggetto del presente giudizio.

La Corte costituzionale, in tale occasione, ha affermato che le disposizioni in quella sede censurate rientravano nella materia prevalente del coordinamento della finanza pubblica, ponendosi obiettivi di contenimento complessivo della spesa corrente ed individuando in modo non esaustivo strumenti e modalità per il perseguimento di tali obiettivi. Questi principi – sempre secondo la difesa erariale – sono certamente riferibili anche alla norma impugnata dalla Regione Liguria nella presente causa, che si inserisce nel programma strategico di politica economica e che concerne la medesima materia del coordinamento della finanza pubblica.

4.– Con memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Liguria ha ribadito le argomentazioni esposte nell’atto introduttivo del giudizio, insistendo nella richiesta di accoglimento del ricorso.



Considerato in diritto

1.– La Regione Liguria ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113.

Riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel d.l. n. 112 del 2008, viene in esame in questa sede la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 117, comma quarto, e 119 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, dell’art. 76, comma 6-bis, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 113 del 2008, nella parte in cui prevede che: «Sono ridotti dell’importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011 i trasferimenti erariali a favore delle comunità montane. Alla riduzione si procede intervenendo prioritariamente sulle comunità che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare. All’attuazione del presente comma si provvede con decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze».

2.– La ricorrente formula tre distinte questioni, la prima delle quali riguardante la decurtazione dei trasferimenti erariali a favore delle comunità montane che si porrebbe in contrasto con l’art. 119 della Costituzione in quanto, sommata alla precedente riduzione di cui all’art. 2, comma 16, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), «riduce i trasferimenti statali al sistema regionale in termini tali da compromettere l’esercizio delle funzioni regionali e senza prevedere strumenti con i quali queste ultime possano rimediare alle riduzioni stesse».

La questione non è fondata.

È preliminarmente opportuno chiarire che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, spetta alle Regioni – onere che, se non assolto, determina la infondatezza della questione sollevata – dimostrare, allorché rivendichino l’illegittimità di norme che prevedono la riduzione dei trasferimenti erariali, che tale riduzione determini l’insufficienza dei mezzi finanziari per l’adempimento dei propri compiti, anche perché non è consentita una analisi atomistica di manovre finanziarie complesse mediante le quali spesso si verifica che alla riduzione di alcune risorse finanziarie si accompagni l’aumento di altre (sentenze n. 298 del 2009; n. 381 del 2004; n. 437 del 2001 e n. 507 del 2000).

La ricorrente non motiva in alcun modo nè, tantomeno, fornisce elementi tali da dimostrare che le comunità montane, a causa della riduzione del fondo loro destinato dallo Stato, non potranno più funzionare.

A ciò si aggiunga che, come questa Corte ha da tempo chiarito, la disciplina delle comunità montane rientra nella competenza residuale delle Regioni (sentenze n. 237 del 2009 e nn. 456 e 244 del 2005). Sono dunque le Regioni che, in base all’art. 119 Cost., devono provvedere al loro finanziamento insieme ai Comuni di cui costituiscono la «proiezione». Ne consegue che la progressiva riduzione del finanziamento statale relativo alle suddette comunità montane non contrasta con la giurisprudenza di questa Corte in materia di autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali.

Al riguardo, va considerato che una sua costante giurisprudenza, formatasi prima della revisione costituzionale del Titolo V della parte seconda della Costituzione, con riferimento ad una Regione a statuto speciale, e recentemente ribadita con la sentenza n. 237 del 2009, ha affermato che «Dato il carattere strumentale e non essenziale delle comunità montane, non può ricavarsi dagli artt. 28 e 29 della legge n. 142 del 1990 (ora artt. 27 e 28 del d.lgs. n. 267 del 2000) un principio generale dell’ordinamento o una norma fondamentale di riforma economico-sociale in ordine alla loro istituzione e alla loro natura di enti necessari, che precluderebbe alla regione il potere rivolto alla loro soppressione; né il divieto di soppressione si potrebbe far derivare dalla indefettibilità delle funzioni necessarie all’attuazione dei programmi e al perseguimento degli obiettivi di sviluppo delle zone montane stabiliti da atti dell’Unione europea e da leggi dello Stato; funzioni, queste ultime, che ben possono essere allocate altrimenti, in base alle particolarità delle situazioni locali, apprezzate dal legislatore regionale nell’esercizio discrezionale del suo potere legislativo in tema di “ordinamento degli enti locali”» (sentenza n. 229 del 2001).

Conclusivamente, con riferimento a questa specifica doglianza, non può che ribadirsi quanto precisato nella più volte citata sentenza n. 237 del 2009, vale a dire che la disposizione in esame costituisce «effettivamente espressione di princípi fondamentali della materia del coordinamento della finanza pubblica. […]. Ciò in quanto il [suo] scopo è quello di contribuire, su un piano generale, al contenimento della spesa pubblica corrente nella finanza pubblica allargata e nell’ambito di misure congiunturali dirette a questo scopo nel quadro della manovra finanziaria».

3.– La seconda questione sollevata dalla Regione Liguria è relativa alla previsione di un criterio altimetrico come unico riferimento per stabilire le modalità e i destinatari della riduzione dei trasferimenti. Detto criterio, a parere della ricorrente, sarebbe del tutto irragionevole poiché non dipenderebbero dalla mera altimetria «le condizioni di maggiore o minore isolamento, di maggiore o minore difficoltà di comunicazione ed ogni altra condizione che possa suggerire di sostenere determinate comunità». Tale irragionevolezza si riverberebbe sull’esercizio dei poteri spettanti alla Regione in materia di comunità montane ex art. 117, quarto comma, Cost. e art. 27 decreto legislativo n. 267 del 2000.

La questione è fondata.

La censura svolta dalla Regione è strettamente connessa con quella relativa ai commi da 17 a 22 dell’art. 2 della legge n. 244 del 2007 (legge finanziaria per l’anno 2008) in tema di comunità montane. Nella precedente legge finanziaria il legislatore statale aveva disposto che le Regioni, con proprie leggi, procedessero ad un riordino della disciplina delle comunità montane ad integrazione di quanto previsto dall’articolo 27 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, in modo da ridurre, a regime, la spesa corrente per il loro funzionamento (art. 2, comma 17, della legge finanziaria per l’anno 2008). Le Regioni, nelle leggi di riordino, dovevano tener conto di alcuni criteri, indicati nel comma 18 dell’art. 2 della medesima legge finanziaria 2008, che venivano definiti «principi fondamentali».

Tali norme sono state oggetto del giudizio di costituzionalità conclusosi con la sentenza n. 237 del 2009 e sono state ritenute immuni dai vizi denunciati in quanto riconducibili alla materia del coordinamento della finanza pubblica e rispondenti ai requisiti che la giurisprudenza costituzionale richiede alle norme statali che fissano i relativi principi.

In particolare la Corte, affrontando la questione relativa al citato comma 18 dell’art. 2 della legge finanziaria per l’anno 2008, ha affermato che «il legislatore statale, con il predetto comma, in funzione dell’obiettivo di riduzione della spesa corrente per il funzionamento delle comunità montane, e senza incidere in modo particolare sull’autonomia delle Regioni nell’attuazione del previsto riordino, si limita a fornire al legislatore regionale alcuni “indicatori” che si presentano non vincolanti, né dettagliati, né autoapplicativi e che tendono soltanto a dare un orientamento di massima alle modalità con le quali deve essere attuato tale riordino».

Tra i suddetti “indicatori” vi era anche quello altimetrico che, dunque, è stato ritenuto non costituzionalmente illegittimo solo in quanto espresso in modo generico, non vincolante e tendente a dare un orientamento di massima al riordino.

La previsione, viceversa, di un criterio altimetrico rigido, quale quello individuato dall’art. 76, comma 6-bis, come strumento per attuare la riduzione dei trasferimenti erariali diretti alle comunità montane esorbita dai limiti della competenza statale e viola l’art. 117 Cost. Si impone, pertanto, la declaratoria di illegittimità costituzionale della citata disposizione nella parte in cui prevede che le comunità destinatarie della riduzione devono prioritariamente essere individuate tra quelle che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare.

4.– La Regione Liguria, infine, solleva una terza questione avente ad oggetto l’attuazione delle prescrizioni contenute nel comma 6-bis dell’art. 76 tramite un decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza la compartecipazione delle Regioni, lamentando la violazione del principio di leale collaborazione.

La questione è fondata.

Come si è detto, alle comunità montane è stata attribuita la natura giuridica di ente autonomo, quale «proiezione dei comuni che ad essa fanno capo» o di «unioni di comuni, enti locali costituiti fra comuni montani» (sentenza n. 244 del 2005) e si è stabilito che spetta alle Regioni in via residuale, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost., la competenza legislativa in ordine alla loro disciplina, salva la possibilità di ricondurre ai principi di coordinamento della finanza pubblica quelle norme dettate per il contenimento della spesa pubblica.

Pertanto, pur riconoscendosi come adeguato il livello di governo scelto dal legislatore, è necessario il pieno coinvolgimento delle Regioni nella individuazione dei criteri da adottare per la realizzazione della riduzione del fondo da destinare alle comunità montane, esistendo, come sostiene la Regione, una connessione indissolubile tra i problemi del finanziamento e i problemi della stessa esistenza ed articolazione delle comunità montane.

La disposizione deve essere pertanto dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede per l’emanazione del decreto non regolamentare di attuazione, finalizzato all’attuazione della riduzione dei trasferimenti erariali alle comunità montane, lo strumento dell’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113, proposte dalla Regione Liguria con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 6-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113, nella parte in cui prevede che «i destinatari della riduzione, prioritariamente, devono essere individuati tra le comunità che si trovano ad una altitudine media inferiore a settecentocinquanta metri sopra il livello del mare»;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 6-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008 nella parte in cui non prevede che all’attuazione del medesimo comma si provvede con decreto del Ministro dell’interno, da adottare di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze «d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali)»;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 76, comma 6-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008 avente ad oggetto la riduzione dell’importo di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010 e 2011, dei trasferimenti erariali a favore delle comunità montane promossa, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 119 della Costituzione, dalla Regione Liguria con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA