Sentenza 17/2010

Sentenza 17/2010
Giudizio

Presidente AMIRANTE - Redattore CRISCUOLO

Camera di Consiglio del 16/12/2009 Decisione del 13/01/2010
Deposito del 21/01/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 305 del codice di procedura civile.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ord. 165/2009


SENTENZA N. 17

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

, composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 305 del codice di procedura civile promosso dal Tribunale di Biella, nel procedimento vertente tra la Dimet s.a.s. di De Giovanni & C. e la Ge.Ber. s.n.c. di Aguiari Renata & C., con ordinanza del 6 marzo 2009, iscritta al n. 165 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 2009 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.



Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Biella, con ordinanza depositata il 6 marzo 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 305 del codice di procedura civile, nella parte in cui fa decorrere dalla interruzione del processo per l’apertura del fallimento, ai sensi dell’art. 43, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), introdotto dall’art. 41 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005 n. 80), e non dalla data di “effettiva” conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo «ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita (ovvero diversa dai soggetti che, comunque, hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento)».

2. — Il rimettente riferisce che, con citazione notificata il 24 giugno 2005, la Dimet s.a.s di De Giovanni & C. proponeva opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Biella, su istanza della Ge.Ber. s.n.c. di Aguiari Renata & C., per il pagamento della somma di euro 16.768,08, oltre interessi e spese, a titolo di prezzo per merce fornita, che l’opponente contestava di avere acquistato.

Con comparsa depositata all’udienza di prima comparizione si costituiva in giudizio la convenuta e contestava in toto le circostanze allegate da controparte.

All’udienza di prima trattazione, il giudice concedeva i termini per il deposito di memorie, ai sensi degli artt. 183 e 184 cod. proc. civ. (secondo la disciplina previgente), ed all’udienza del 17 maggio 2007, fissata per l’ammissione delle prove, il difensore dell’opposta dichiarava l’intervenuta pronunzia di fallimento della Ge.Ber. s.n.c. e dei soci illimitatamente responsabili, avvenuta con sentenza emessa dal Tribunale di Biella depositata il 17 gennaio 2007.

Alla stessa udienza del 17 maggio 2007 il processo era dichiarato interrotto.

Con ricorso depositato il 14 settembre 2007 l’opponente, dichiarandosi interessata alla prosecuzione del giudizio, chiedeva la fissazione di una nuova udienza; il 29 ottobre 2007 erano notificati il ricorso ed il pedissequo decreto ed all’udienza del 12 febbraio 2008 il fallimento della Ge. Ber. s.n.c. di Aguiari Renata & C. si costituiva eccependo, in via preliminare, l’estinzione del processo perché l’opponente non avrebbe riassunto tempestivamente la causa.

In particolare, ai sensi dell’art. 305 cod. proc. civ., il fallimento riteneva che il processo dovesse essere riassunto entro il termine perentorio di sei mesi dall’interruzione e, tenuto conto che in virtù dell’articolo 43, terzo comma, della legge fallimentare, come introdotto dall’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006, l’interruzione opera automaticamente a seguito dell’apertura del fallimento, la riassunzione era da considerare tardiva, atteso che il fallimento era stato dichiarato in data 17 gennaio 2007 e la riassunzione, invece, eseguita con ricorso depositato il 14 settembre 2007.

Nel merito, gradatamente, chiedeva il rigetto dell’opposizione.

Con ordinanza del 22 ottobre 2008, il rimettente invitava le parti alla trattazione della questione di diritto posta in evidenza; i procuratori delle parti depositavano memorie autorizzate ed erano sentiti all’udienza successiva, nella quale il giudice si riservava di provvedere.

3. — Il rimettente ritiene la questione rilevante per una pluralità di motivi.

In primo luogo sottolinea che il disposto dell’art. 43, terzo comma, della legge fallimentare si applica alla fattispecie in esame, in quanto la materia del contendere ha per oggetto rapporti di diritto patrimoniale dell’impresa dichiarata fallita in corso di causa; inoltre, il giudice a quo osserva che il disposto della norma è applicabile anche ratione temporis perché, ai sensi dell’art. 153 del d.lgs. n. 5 del 2006, la norma citata si applica a partire dal 16 luglio 2006, con la conseguenza che era vigente alla data del 17 gennaio 2007, nella quale è stato dichiarato il fallimento dell’opposta.

A quest’ultimo riguardo, il giudicante pone in evidenza che non giova il richiamo, contenuto nella disciplina transitoria dettata dall’art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, in cui è stabilito che i ricorsi per la dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare, depositate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definite secondo la legge anteriore; il giudice a quo, infatti, rileva che, nel caso di specie, non si tratta di applicare le norme che regolano la procedura concorsuale, comunque avviata successivamente al 16 luglio 2006 e, quindi, regolata dalle nuove disposizioni, quanto piuttosto di applicare ai processi pendenti la nuova disciplina processuale già in vigore all’epoca della dichiarazione di fallimento.

Ancora in tema di rilevanza della questione, il rimettente prosegue osservando che, ai sensi del novellato art. 43, terzo comma, legge fallimentare, l’interruzione del processo, a seguito di fallimento di una delle parti, opera automaticamente, a prescindere dalla dichiarazione in udienza o dalla notifica che ne faccia il procuratore di parte fallita, e deve essere rilevata anche d’ufficio. Considerando, pertanto, come dies a quo per il computo del termine di riassunzione, la data di apertura del fallimento avvenuta il 17 gennaio 2007, la riassunzione nella specie operata dall’attrice è, secondo il rimettente, tardiva, avendo questa depositato il relativo ricorso in data 14 settembre 2007, anziché entro il 17 luglio 2007.

Ad avviso del giudice a quo, l’automaticità dell’effetto interruttivo conseguente all’apertura del fallimento è espressione della volontà del legislatore, interessato ad accelerare i processi in cui sono coinvolti soggetti dichiarati falliti, mediante la previsione di un meccanismo che impone agli organi della procedura di decidere subito che cosa fare in ordine al giudizio in corso.

Il giudicante, inoltre, fonda la rilevanza della questione sulla ulteriore considerazione che, nel giudizio a quo, non emerge che l’attrice abbia avuto conoscenza della dichiarazione di fallimento della convenuta prima della dichiarazione effettuata all’udienza del 17 maggio 2007, non risultando che la stessa abbia partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento.

Neppure assume rilievo la circostanza che, ai sensi dell’art. 16 della legge in esame, gli effetti della sentenza di fallimento nei riguardi dei terzi si producono alla data di iscrizione di essa nel registro delle imprese, così richiamando, implicitamente, l’operatività dell’art. 2193 del codice civile. Sotto tale profilo, il Tribunale riferisce che la convenuta non ha indicato se e quando è stata effettuata tale iscrizione, e che, inoltre, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che la presunzione di conoscenza da parte dei terzi dei fatti di cui la legge prescrive l’iscrizione nel registro delle imprese, a norma dell’art. 2193 cod. civ., non opera in campo processuale, regolato da norme speciali (Cass., nn. 15234 e 6948 del 2007, nn. 12387 e 8908 del 2004).

Secondo il rimettente, sebbene si tratti di una giurisprudenza sorta prima della modifica dell’art. 43, terzo comma, della legge fallimentare, quando la dichiarazione di fallimento veniva ricondotta alla disciplina prevista dall’art. 300 cod. proc. civ., deve escludersi che essa debba essere rivista, in quanto la modifica del citato art. 43 conferma la specialità della disciplina prevista per la sopravvenuta dichiarazione di fallimento nei rapporti processuali pendenti.

Il giudice a quo, infine, osserva che la questione è rilevante nel giudizio in corso, perché, trattandosi di opposizione a decreto ingiuntivo, l’eventuale accoglimento dell’eccezione di estinzione del giudizio comporterebbe l’acquisto, da parte del decreto stesso, dell’efficacia esecutiva prevista dall’art. 653 cod. proc. civ.

4. — Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente riferisce che l’art. 305 cod. proc. civ., se applicato sic et simpliciter all’ipotesi disciplinata dall’art. 43, terzo comma, legge fallimentare, si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui stabilisce che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento; ciò in quanto la parte in causa, che non abbia avuto notizia della dichiarazione di fallimento, rischia, come nella specie è in concreto avvenuto, di subire gli effetti del decorso del termine semestrale per la riassunzione del processo e, quindi, la sanzione dell’estinzione del giudizio (nella specie con l’acquisto dell’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo opposto), senza che ad essa sia imputabile alcuna inerzia colpevole, non avendo avuto notizia dell’evento interruttivo.

Sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, il rimettente, a fondamento delle proprie argomentazioni, richiama le sentenze n. 159 del 1971 e n. 139 del 1967 della Corte costituzionale, le quali hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 cod. proc. civ., proprio con riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui prevedeva che il termine semestrale per la riassunzione o prosecuzione del processo interrotto decorresse dalla verificazione degli eventi contemplati negli artt. 299, 300, comma 3, e 301 cod. proc. civ., anziché dalla data in cui le parti avessero avuto conoscenza di tali eventi.

La questione, inoltre, non è manifestamente infondata anche con riferimento all’art. 3 Cost., e ciò in quanto, secondo il rimettente, vi è una evidente disparità di trattamento tra l’impresa fallita e gli eventuali creditori che abbiano partecipato alla fase prefallimentare e la parte in lite nel processo poi interrotto che, invece, a tale procedura non abbia partecipato.

Il rimettente, infine, riferisce che la norma impugnata si pone in contrasto anche con l’art. 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità.

In particolare, non vi sarebbe parità tra la parte dichiarata fallita, quelle che hanno partecipato alla fase prefallimentare e l’altra parte in lite, che non ha partecipato alla procedura, in quanto, mentre la prima non può non essere a conoscenza della intervenuta dichiarazione di fallimento, che determina l’automatica interruzione del processo e può, quindi, attivarsi nel termine di sei mesi per riassumerlo, la seconda, invece, può non essere a conoscenza della verificazione del fatto interruttivo, e vede, dunque, decorrere inutilmente detto termine.

Il rimettente, pertanto, sostiene che l’esigenza di accelerazione del processo, espressione del principio fondamentale della ragionevole durata dello stesso, «va di pari passo con il rispetto delle fondamentali garanzie di difesa e del diritto dei soggetti, nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare gli effetti, alla partecipazione al processo in condizioni di parità».

5. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 7 luglio 2009.

La difesa erariale sostiene che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Biella, dovrebbe essere ritenuta manifestamente inammissibile, perché il rimettente non avrebbe esperito il doveroso tentativo di ricercare una interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata (al riguardo, richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 191 del 2009 e n. 422 del 2008).

Nell’attuale sistema processuale, infatti, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 159 del 1971 e n. 139 del 1967, richiamate dal rimettente, e delle sentenze n. 36 del 1976 e n. 178 del 1970, è principio consolidato che l’art. 305 cod. proc. civ. vada interpretato nel senso che il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui tale evento sia venuto in forma legale a conoscenza della parte interessata alla riassunzione; in tal senso la difesa erariale indica quale pronunzia recente la sentenza n. 5348 dell’8 marzo 2007 della Corte di cassazione.

Pertanto, ad avviso della difesa erariale, a seguito dell’introduzione di una nuova ipotesi di interruzione automatica del giudizio, era doveroso per il giudice a quo valutare la possibilità di interpretare l’art. 305 cod. proc. civ. nei termini esposti.

Nell’atto d’intervento, a riprova della possibilità d’interpretare la norma impugnata in senso conforme a Costituzione, l’Avvocatura generale richiama la sentenza n. 2976 del 10 febbraio del 2009, emessa dal Tribunale di Roma, che, decidendo in ordine ad una eccezione di estinzione del processo analoga a quella oggetto del caso qui in esame, afferma «che, sebbene le pronunzie di incostituzionalità abbiano riguardato gli articoli 299, 300 e 301 cod. proc. civ. e non anche il sopravvenuto art. 43 della legge fallimentare è, però, vero che detta norma nulla dispone sull’aspetto della riassunzione, né contiene alcun elemento dal quale desumere che il legislatore abbia inteso porre regole diverse da quelle accolte dall’art. 305 cod. proc. civ. nella sua lettura costituzionalmente orientata».



Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Biella, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell’articolo 305 del codice di procedura civile, nella parte in cui «fa decorrere dalla data dell’interruzione del processo per intervenuta dichiarazione di apertura di fallimento ex art. 43, terzo comma, della legge fallimentare (comma introdotto dall’art. 41 del decreto legislativo n. 5 del 2006 – Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005 n. 80) – e non dalla data di effettiva conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita (ovvero diversa dai soggetti che comunque hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento)».

Il giudice a quo solleva la questione nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, emesso per il pagamento del corrispettivo di una fornitura di merce, che l’opponente nega di avere acquistato. Nel corso dell’udienza del 17 maggio 2007, il difensore dell’opposta ha dichiarato che, con sentenza del 17 gennaio 2007, il Tribunale di Biella ha pronunziato il fallimento della società dal difensore medesimo assistita e dei soci illimitatamente responsabili; in quella stessa udienza il giudice ha dichiarato interrotto il processo.

A seguito della riassunzione effettuata dall’opponente con ricorso depositato il 14 settembre 2007, è stata fissata per il prosieguo l’udienza del 12 febbraio 2008, nella quale il fallimento si è costituito eccependo l’estinzione del processo perché il giudizio non sarebbe stato riassunto entro il termine perentorio di sei mesi dall’interruzione, avvenuta, per effetto dell’art. 43, terzo comma, della legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa, come modificato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, e dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169), il 17 gennaio 2007, data della sentenza dichiarativa del fallimento stesso. Pertanto, la riassunzione di cui al ricorso depositato il 14 settembre 2007 sarebbe tardiva.

In questo quadro, il rimettente ritiene necessario sollevare questione di legittimità costituzionale, nei termini sopra indicati ed in riferimento ai parametri costituzionali richiamati, dell’art. 305 cod. proc. civ., in quanto, ai sensi del novellato art. 43, terzo comma, della legge fallimentare, l’interruzione del processo, a seguito del fallimento di una delle parti, opera automaticamente, a prescindere dalla dichiarazione in udienza o dalla notifica che ne faccia il procuratore della parte fallita, e deve essere rilevata d’ufficio, provocando il decorso del termine semestrale per la prosecuzione o riassunzione, in difetto delle quali il processo si estingue, ai sensi dell’art. 305 cod. proc. civ.

La disposizione impugnata, dunque, se applicata al caso contemplato dall’art. 43, terzo comma, della legge fallimentare, ad avviso del rimettente si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto introduce una disparità di trattamento tra l’impresa fallita e gli eventuali creditori che abbiano partecipato alla fase prefallimentare, da un lato, e la parte in causa nel processo interrotto, che invece a tale fase non abbia partecipato, dall’altro; inoltre, viola gli artt. 111, secondo comma, e 24 Cost., in quanto soltanto la parte dichiarata fallita e le altre parti che hanno partecipato alla fase prefallimentare possono attivarsi nel termine legale per riassumere il processo, mentre l’altra parte «vede decorrere questo termine senza che sia a conoscenza della verificazione del fatto interruttivo»; pertanto soltanto la parte, che non ha avuto notizia della dichiarazione di fallimento, subisce gli effetti del decorso del termine per la riassunzione del processo e, quindi, la sanzione dell’estinzione del giudizio senza che le sia addebitabile alcuna colpevole inerzia.

2. — La questione non è fondata, nei sensi di seguito indicati.

3. — Si deve premettere che la disciplina dell’interruzione del processo, prevista dagli articoli 298 e seguenti, cod. proc. civ., risponde alla necessità di garantire l’effettività del contraddittorio e, come ribadito da questa Corte con sentenza n. 109 del 2005, di consentire alla parte colpita dall’evento interruttivo «di difendersi in giudizio usufruendo di tutti i poteri e facoltà che la legge le riconosce».

Il legislatore, infatti, ha previsto che la morte della parte o del suo rappresentante legale, la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del rappresentante legale e la cessazione di tale rappresentanza, la morte, radiazione o sospensione del difensore costituiscono eventi che incidono in modo determinante sull’effettività del contraddittorio; al verificarsi di uno di tali fatti la parte non è più nella possibilità di difendersi adeguatamente, e dunque l’interruzione del processo è necessaria fino a quando non sia ristabilita la detta effettività.

Accanto all’esigenza primaria di tutelare la parte colpita dall’evento, vi è, però, un’ulteriore finalità sottesa all’istituto dell’interruzione, consistente nel tutelare il diritto di difesa anche della parte cui il fatto interruttivo non si riferisce; essa, quindi, deve essere in grado di conoscere se si sia o meno verificato l’evento interruttivo e, in caso positivo, deve essere posta nelle condizioni di sapere da quale momento decorre il termine semestrale per la riassunzione (ora trimestrale, per effetto dell’entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69 – Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile – non applicabile nella fattispecie qui in esame ratione temporis).

Muovendosi in tale prospettiva questa Corte, con sentenza n. 139 del 1967, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 cod. proc. civ. «per la parte in cui fa decorrere dalla data dell’interruzione del processo il termine per la sua prosecuzione e la sua riassunzione anche nei casi regolati dal precedente art. 301». Quest’ultima norma stabilisce che, se la parte è costituita a mezzo di procuratore, il processo è interrotto dal giorno della morte, radiazione o sospensione del procuratore stesso.

La citata sentenza, dopo aver rilevato che l’automaticità dell’interruzione è posta a tutela del diritto di difesa della parte che resta priva di ius postulandi, sicché far risalire l’effetto interruttivo alla data dell’evento, come disposto nell’art. 301 cod. proc. civ., risulta coerente col dettato dell’art. 24 Cost., osservò che, invece, non era conforme a tale precetto la regola stabilita dall’art. 305 cod. proc. civ., nella parte in cui faceva decorrere dalla data dell’evento ivi previsto, anziché dalla dichiarazione o dalla notificazione del medesimo, il termine stabilito per la prosecuzione o la riassunzione del processo. Infatti, il diritto di difesa deve essere assicurato in modo effettivo ed adeguato, nel rispetto dell’esigenza di non rendere impossibile il contraddittorio, che non si può svolgere senza la conoscenza delle situazioni di fatto oggettive e soggettive cui la legge collega il concreto esercizio di quel diritto.

Ispirandosi al principio ora indicato, questa Corte, con sentenza n. 34 del 1970, pronunziata in tema di sospensione del processo, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 297, primo comma, cod. proc. civ., «nella parte in cui dispone la decorrenza del termine utile per la richiesta di fissazione della nuova udienza dalla cessazione della causa di sospensione anziché dalla conoscenza che ne abbiano le parti del processo sospeso».

Con sentenza n. 159 del 1971, seguendo lo stesso iter logico delle precedenti decisioni, fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 cod. proc. civ., «nella parte in cui dispone che il termine utile per la prosecuzione o per la riassunzione del processo interrotto ai sensi dell’art. 299 dello stesso codice decorre dall’interruzione anziché dalla data in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza»; e, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), fu anche dichiarata l’illegittimità costituzionale del detto art. 305, «nella parte in cui dispone che il termine utile per la prosecuzione o per la riassunzione del processo interrotto a sensi del precedente art. 300, terzo comma, decorre dall’interruzione anziché dalla data in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza».

L’indirizzo stabilito nelle pronunzie menzionate è stato ribadito da questa Corte anche con la sentenza n. 36 del 1976, la quale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, primo comma, della legge 28 luglio 1971 n. 585 (Nuove provvidenze in materia di pensioni di guerra), nella parte in cui disponeva che il termine per la riassunzione del processo interrotto, a seguito della morte del ricorrente, decorresse dalla interruzione anziché dalla data in cui gli eredi del ricorrente ne avessero avuto conoscenza, ha segnalato la necessità, già posta in evidenza nella pronunzia n. 159 del 1971, che la tutela giurisdizionale ed il diritto di difesa siano garantiti in ogni stato e grado del procedimento.

4.— In base ai principii affermati da questa Corte si è consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento secondo cui «il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui tale evento sia venuto in forma legale a conoscenza della parte interessata alla riassunzione», con la conseguenza che il relativo dies a quo «può ben essere diverso per una parte rispetto all’altra» (ex multis: Cass., sent. nn. 24857 e 20361 del 2008, n. 5348 del 2007, n. 974 del 2006, n.16020 del 2004, n. 6654 del 2003 e n. 12706 del 2001).

Il richiamo del rimettente alla sentenza pronunziata dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite n. 7443 del 2008 non appare pertinente, perché da essa risulta che il collegio ha soltanto posto in evidenza che, per effetto della modifica dell’art. 43 della legge fallimentare, la dichiarazione di fallimento determina l’interruzione automatica del processo, senza riferirsi alla decorrenza del termine per la riassunzione, come, invece, sembra ritenere il giudice a quo.

5.— Da quanto esposto consegue che, nel vigente sistema di diritto processuale civile, è da tempo acquisito il principio secondo cui, nei casi d’interruzione automatica del processo (artt. 299, 300, terzo comma, 301, primo comma, cod. proc. civ.), il termine per la riassunzione decorre non già dal giorno in cui l’evento interruttivo è accaduto, bensì dal giorno in cui esso è venuto a conoscenza della parte interessata alla riassunzione medesima.

Orbene, l’art. 43 del r.d. n. 267 del 1942, con il terzo comma (aggiunto dall’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006), ha introdotto un nuovo caso d’interruzione automatica del processo, conseguente all’apertura del fallimento, mentre in precedenza anche nell’ipotesi di fallimento della parte, l’interruzione del processo derivava dalla dichiarazione in giudizio o dalla notificazione dell’evento interruttivo ad opera del procuratore costituito della parte medesima (ex multis: Cass., Sez. Un., n. 7443 del 2008, e giurisprudenza in essa richiamata). La disposizione menzionata, però, nulla ha previsto per la riassunzione, sicché al riguardo continua a trovare applicazione l’art. 305 cod. proc. civ., nel testo risultante a seguito delle ricordate pronunzie di questa Corte e del principio di diritto che sulla base di esse si è consolidato. Infatti, non sono ravvisabili ragioni idonee a giustificare, per la fattispecie qui in esame, una disciplina giuridica diversa rispetto alle altre ipotesi d’interruzione automatica, attesa l’identità di ratio e di posizione processuale delle parti interessate, che le accomuna.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, nessuna norma di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima sol perché è suscettibile di essere interpretata in senso contrastante con i precetti costituzionali, ma deve esserlo soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione (ex plurimis: sentenze n. 276 del 2009, n. 165 del 2008, n. 379 del 2007; ordinanze nn. 341, 268, 165 del 2008, n. 115 del 2005).

Ne segue la non fondatezza, nei sensi sopra indicati, della questione sollevata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 305 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Biella con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 gennaio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA