Sentenza 73/2010 - Processo penale - Dibattimento - Ammissione di nuove prove - Prove in ordine alla cui ammissione si sia verificata la decadenza

SENTENZA N. 73 ANNO 2010
Processo penale - Dibattimento - Ammissione di nuove prove - Prove in ordine alla cui ammissione si sia verificata la decadenza delle parti - Potere del giudice, secondo l'interpretazione della Corte di cassazione, di disporre di ufficio l'assunzione.


Presidente AMIRANTE - Redattore FRIGO

Camera di Consiglio del 10/02/2010 Decisione del 22/02/2010
Deposito del 26/02/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 507 del codice di procedura penale.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ord. 207/2009


SENTENZA N. 73

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale promosso dal Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, nel procedimento penale a carico di C. A. con ordinanza del 21 gennaio 2009, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.



Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza dibattimentale emessa il 21 gennaio 2009 in un processo per lesioni personali aggravate e continuate, il Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, ha sollevato, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione – consente al giudice di disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando si tratti di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato o irrituale deposito della lista prevista dall’art. 468 cod. proc. pen. e, a seguito di tale decadenza, non vi sia stata alcuna acquisizione probatoria.

Il giudice rimettente riferisce che la richiesta di prova testimoniale del pubblico ministero era stata dichiarata inammissibile, a causa del tardivo deposito di detta lista. La parte pubblica aveva quindi chiesto che la prova fosse ammessa ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. – in forza del quale, «terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove» – senza peraltro indicare né le ragioni del mancato tempestivo deposito della lista né quelle della assoluta necessità di assunzione delle testimonianze. All’istanza si era opposta la difesa, eccependo l’illegittimità costituzionale della norma ora citata per violazione dell’art. 111, secondo comma, Cost.

Al riguardo, lo stesso rimettente ricorda preliminarmente come in ordine all’interpretazione dell’art. 507 cod. proc. pen. sia prevalso, dopo iniziali oscillazioni giurisprudenziali, l’orientamento meno restrittivo, fatto proprio dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 6 novembre 1992-21 novembre 1992, n. 11227, secondo il quale il potere previsto dalla norma censurata può essere esercitato dal giudice anche in rapporto a prove dalle quali le parti siano decadute (in particolare, per omessa o irrituale presentazione della lista di cui all’art. 468 cod. proc. pen.): dovendo intendersi per prove «nuove» tutte quelle non assunte in precedenza, e non già soltanto quelle sopravvenute o scoperte nel corso del dibattimento. Né, d’altro canto – sempre secondo le sezioni unite – assumerebbe valenza ostativa la circostanza che sia mancata qualsiasi acquisizione probatoria ad iniziativa delle parti: la locuzione «terminata l’acquisizione delle prove» non indicherebbe, infatti, il presupposto per l’esercizio del potere in questione, ma solo il tempo dell’istruzione dibattimentale a partire dalla conclusione del quale – nell’ipotesi normale in cui detta acquisizione vi sia stata – possono essere introdotte e assunte le nuove prove.

L’interpretazione ora ricordata – prosegue il rimettente – è stata avallata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 1993, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 cod. proc. pen. (oltre che dell’art. 468 dello stesso codice), in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 102, 111 e 112 Cost.

Nell’occasione, la Corte ha osservato che, se è vero che l’esigenza di accentuare la terzietà del giudice ha condotto ad introdurre nel nuovo codice di rito un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse, è altrettanto vero, tuttavia, che tale opzione non poteva far trascurare che fine primario del processo penale è pur sempre quello della ricerca della verità e che ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.) – che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate – nonché al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale, non sono consone norme processuali che ostacolino in modo irragionevole l’accertamento del fatto storico, necessario per pervenire ad una giusta decisione. Risulterebbe del resto contraddittorio, da un lato, garantire l’effettiva obbligatorietà dell’azione penale contro le negligenze e le deliberate inerzie del pubblico ministero, conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che questi formuli l’imputazione (art. 409, comma 5, cod. proc. pen.), e, dall’altro lato, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della medesima parte pubblica. Sicché, in conclusione, una interpretazione dell’art. 507 cod. proc. pen. diversa da quella adottata dalle sezioni unite della Corte di cassazione si sarebbe posta in contrasto non soltanto con la direttiva recata dall’art. 2, numero 73, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), ma anche con i richiamati precetti costituzionali.

Il dibattito, mai del tutto sopito, sulla corretta esegesi della norma censurata – continua il giudice a quo – è tornato, peraltro, «di attualità» a fronte del nuovo testo dell’art. 111 Cost. introdotto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, il quale, nei commi primo e secondo, stabilisce che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» e che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale».

Le sezioni unite della Corte di cassazione sono state, quindi, nuovamente chiamate a dirimere il contrasto insorto – sia pur «episodicamente» – nell’ambito delle sezioni semplici, in ordine alla possibilità di esercizio dei poteri probatori di natura officiosa del giudice nei casi di inerzia delle parti. Con la sentenza 17 ottobre 2006-18 dicembre 2006, n. 41281, dette sezioni unite hanno peraltro escluso che sull’assetto codicistico abbia influito la riforma dell’art. 111 Cost.: la quale avrebbe accentuato, bensì, il principio fondante del processo accusatorio – la formazione della prova nel contraddittorio delle parti – ma senza innovare quanto al principio dispositivo, che, pur ispirando i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo altrettanto «decisivo». Secondo la Corte di cassazione, d’altronde, il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. – esercitabile solo in caso di «assoluta necessità» – non rappresenterebbe un residuo del modello inquisitorio, ma varrebbe piuttosto ad assicurare un processo veramente «giusto», posto che, quanto più ampie sono le informazioni probatorie a disposizione del giudice, tanto più è probabile che la sentenza sia equa e aderente ai fatti. Né l’acquisizione d’ufficio delle prove da parte del giudice farebbe venir meno la sua terzietà: non comprendendosi perché non debba essere considerato «terzo» un giudice scrupoloso, il quale intenda evitare di giudicare con informazioni insufficienti, quando sarebbe possibile colmare le lacune esistenti.

Tanto premesso, il giudice a quo reputa di dover aderire all’interpretazione dominante dell’art. 507 cod. proc. pen., stante l’«autorevolezza» della decisione ora ricordata. Assume, tuttavia, che in tale lettura la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 111 Cost., in quanto lesiva del principio di terzietà ed imparzialità del giudice: principio che rappresenta l’«ineludibile strumento» di attuazione e garanzia del «giusto processo» delineato dalla Carta costituzionale.

Ad avviso del rimettente, non sarebbe infatti convincente l’affermazione secondo la quale sarebbe maggiormente «terzo» un giudice che acquisisca d’ufficio l’intero materiale probatorio, rispetto ad un giudice il quale valuti gli elementi di prova sottoposti alla sua attenzione dalle parti nel rispetto del codice di rito, e decida, solo all’esito dell’effettivo espletamento dell’istruzione dibattimentale, se sia indispensabile provvedere ad una integrazione degli anzidetti elementi.

Nell’escludere la lesione del principio costituzionale evocato, la Corte di cassazione non avrebbe, in effetti, tenuto conto adeguatamente del fatto che, nel caso di specie – tutt’altro che raro nella pratica – il giudice non si trova di fronte ad un materiale probatorio insufficiente o lacunoso, ma all’«inesistenza della prova a causa dell’inammissibilità della lista testimoniale» del pubblico ministero.

Né gioverebbe far leva, in senso contrario, sulla circostanza che il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. è esercitabile solo in caso di «assoluta necessità». In mancanza di assunzione di prove dell’accusa, l’assoluta necessità sarebbe, infatti, «in re ipsa», essendo evidente che, ove non si avvalesse di detto potere, il giudice dovrebbe pronunciare una sentenza di assoluzione per carenza di prova del fatto contestato.

La modifica dell’art. 111 Cost., d’altro canto, se pure non ha costituzionalizzato il principio dispositivo nel processo penale, ha comunque circondato di garanzie oggettive e soggettive l’acquisizione delle prove legittimamente utilizzabili per l’affermazione della responsabilità penale. Tali garanzie verrebbero, tuttavia, «inevitabilmente meno» alla luce dell’interpretazione censurata, la quale avrebbe un effetto «abrogante» non soltanto dell’art. 468 cod. proc. pen. – vanificando la sanzione di inammissibilità ivi prevista – ma anche dello stesso art. 507 cod. proc. pen. Detta interpretazione consentirebbe, difatti, al giudice – ed anzi gli imporrebbe (in forza del richiamo all’obbligatorietà dell’azione penale e alla funzione fondamentale del processo penale di ricerca della verità) – di disporre l’assunzione d’ufficio delle prove non solo nel caso di tardiva presentazione della lista dei testimoni, ma anche quando questa non sia stata depositata affatto. E ciò, persino se nel fascicolo del dibattimento non sia presente alcun atto che consenta al giudice di orientarsi nella vicenda processuale sottoposta al suo esame: con la conseguenza che egli si troverebbe ad esercitare il potere in questione senza essere a conoscenza dell’identità dei testimoni, della loro qualifica, delle circostanze su cui sono chiamati a deporre e, dunque, senza essere in grado di effettuare una seria e motivata valutazione sulla «rilevanza e pertinenza» della prova.

2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

La difesa erariale rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 111 del 1993, si è già espressa in materia, affermando che, se pure il diritto alla prova delle parti ha un ruolo centrale nella struttura del processo (come attesta il rigoroso regime di decadenza dalle prove), non è, tuttavia, possibile da ciò dedurre che tale regime abbia anche un effetto preclusivo dell’introduzione ad iniziativa del giudice delle prove necessarie per l’accertamento dei fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o dalle quali siano decadute.

Oltre che da un complesso di ulteriori previsioni – quali, segnatamente, quelle degli artt. 189, 190, comma 2, 508, comma 1, 511, 511-bis e 603, comma 3, cod. proc. pen. – è soprattutto dallo stesso art. 507 cod. proc. pen. che si desume l’inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova: norma, questa, che – come già affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 241 del 1992 – conferisce al giudice il potere-dovere di integrazione, anche d’ufficio, delle prove nell’ipotesi in cui la carenza o l’insufficienza, per qualsiasi ragione, dell’iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza dei fatti del processo, per consentirgli di pervenire ad una giusta decisione.

La disposizione censurata – connettendosi alla lata previsione della direttiva enunciata all’art. 2, numero 73, della legge delega n. 81 del 1987 («potere del giudice di disporre l’assunzione di mezzi di prova») – è stata, in effetti, introdotta «con una visione più realistica della funzione del giudice, che può e deve essere anche di supplenza dell’inerzia delle parti». Secondo la citata sentenza n. 111 del 1993, «il legislatore delegante ha cioè esattamente considerato – in armonia con l’obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall’art. 3, secondo comma, Cost. – che la “parità delle armi” delle parti normativamente enunciata può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, così evitando assoluzioni o condanne immeritate».

Né – secondo l’Avvocatura generale dello Stato – inciderebbe sulla validità di tali conclusioni la modifica apportata al testo dell’art. 111 Cost. dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, trattandosi di modifica che – per le ragioni evidenziate dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 41281 del 2006, citata dallo stesso rimettente – non ha influito sull’assetto codicistico per l’aspetto considerato.



Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione ed alla quale il rimettente reputa di dover aderire – consente al giudice di disporre l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche quando si tratti di prove dalle quali le parti sono decadute per mancato o irrituale deposito della lista prescritta dall’art. 468 cod. proc. pen. e, a seguito di tale decadenza, sia mancata ogni acquisizione probatoria.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, in tale lettura, il principio di terzietà ed imparzialità del giudice, sancito dall’art. 111 della Costituzione quale «cardine» del «giusto processo». Detto principio rimarrebbe, infatti, inevitabilmente compromesso allorché il giudice non si limiti ad integrare, all’esito dell’istruzione dibattimentale, elementi di prova insufficienti o lacunosi sottoposti alla sua attenzione dalle parti, ma acquisisca d’ufficio l’intero materiale probatorio necessario ai fini della decisione.

Né rileverebbe, in senso contrario, la circostanza che il potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. sia esercitabile solo in caso di «assoluta necessità»: giacché, in mancanza di prove dell’accusa, l’assoluta necessità sarebbe «in re ipsa», essendo evidente che, ove non si avvalesse di detto potere, il giudice dovrebbe assolvere l’imputato per carenza di prova del fatto contestato.

In tal modo, verrebbero anche meno le «garanzie oggettive e soggettive» con le quali il nuovo testo dell’art. 111 Cost. circonda l’acquisizione delle prove legittimamente utilizzabili per l’affermazione della responsabilità penale. Non soltanto, infatti, la sanzione di inammissibilità prevista dall’art. 468 cod. proc. pen. rimarrebbe vanificata, ma il giudice sarebbe costretto in ogni caso ad assumere d’ufficio le prove: e ciò, anche quando la lista delle prove orali, anziché essere depositata in ritardo, non sia stata depositata affatto e non si rinvenga, nel fascicolo per il dibattimento, alcun elemento orientativo, con conseguente insussistenza delle condizioni per effettuare una seria e motivata valutazione sulla «rilevanza e pertinenza» della prova.

2. – La questione non è fondata.

3. – Nel formulare il quesito di costituzionalità, il giudice rimettente mostra, in effetti, di muovere dall’implicito presupposto che il potere di ammissione delle prove previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. abbia carattere necessariamente officioso. Tale convinzione contrasta, tuttavia, con il dato normativo, dal quale emerge inequivocamente, al contrario, che il potere in discussione può essere esercitato dal giudice sia d’ufficio che su istanza di parte. Lo attestano le parole «anche d’ufficio», presenti nella norma censurata, e – ancor più chiaramente – le previsioni dell’art. 151 disp. att. cod. proc. pen., essenziali per una corretta esegesi della disciplina e che, nel regolare l’ordine di assunzione delle nuove prove disposte ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen., distinguono specificamente, da un lato, la situazione attinente alle prove «richieste dalle parti» (comma 1), che devono essere assunte secondo l’ordine previsto dall’art. 496 del codice; dall’altro, la situazione delle prove orali introdotte d’ufficio dal giudice (comma 2), il quale dà inizio egli stesso direttamente alla relativa assunzione e, a seconda dell’esito di essa (favorevole o no all’una o all’altra parte), stabilisce poi quale delle due debba condurre l’esame diretto (ai sensi dell’art. 498 cod. proc. pen.), restando ovviamente all’altra il diritto all’eventuale controesame.

Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo e che ha suscitato il dubbio di costituzionalità, si verte, in effetti, nella prima di queste due ipotesi. Non si tratta, cioè, di prove individuate dal giudice, da lui introdotte e alla assunzione delle quali egli stesso dovrebbe, almeno in un primo momento, dare corso. Si tratta, invece, di prove (nella specie, testimoniali) ricercate da una delle parti (nella specie, il pubblico ministero) e di cui è la parte medesima a chiedere l’ammissione, sia pure non più – a causa dell’intervenuta decadenza per tardivo deposito della lista – nell’esercizio pieno del diritto alla prova previsto dall’art. 190, comma 1, cod. proc. pen. (che imporrebbe al giudice di ammettere le prove stesse, purché non manifestamente irrilevanti o superflue), quanto piuttosto in base al diverso e più restrittivo criterio considerato dalla norma censurata (l’assoluta necessità dell’acquisizione).

In questa situazione – indipendentemente da ogni considerazione circa il problema della compatibilità col parametro costituzionale evocato degli interventi probatori officiosi del giudice (tema sul quale questa Corte ebbe a prendere posizione, anteriormente alla modifica dell’art. 111 Cost., con la sentenza n. 111 del 1993) – il vulnus lamentato dal giudice a quo resta escluso per una ragione pregiudiziale: e, cioè, che non risulta configurabile neppure una reale deroga al principio dispositivo, in base al quale il giudice è chiamato a giudicare sulla base di quanto allegato e provato dalle parti. Manca, di conseguenza, in radice la possibilità di ipotizzare una lesione del principio di imparzialità del giudice – principio cui ineriscono, più che a quello di terzietà, le censure del rimettente, in quanto relative al rapporto tra giurisdizione e decisione – con riguardo al rischio, anche soltanto astratto, di una impropria assunzione da parte del giudice di compiti dell’accusa o della difesa, atta a trasformarlo in un “alleato” dell’uno o dell’altro dei contendenti.

Irrilevante, a tali fini, è che il parametro di esercizio del potere previsto dall’art. 507 cod. proc. pen. sia distinto, e più rigoroso, di quello che presiede in via ordinaria all’ammissione delle prove in virtù dell’art. 190, comma 1, cod. proc. pen. E ciò, specie ove si consideri che, secondo quanto affermato in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (sia pure nell’ambito di un panorama interpretativo non privo di oscillazioni), ove ricorra il presupposto dell’assoluta necessità dell’assunzione, l’esercizio del potere in discorso – segnatamente se sollecitato dalle parti – è doveroso per il giudice, non essendo rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra l’acquisizione della prova e il proscioglimento (o la condanna) dell’imputato (si tratta, dunque – non diversamente da quello previsto dall’art. 190, comma 1, cod. proc. pen. – di un potere-dovere).

Né vale obiettare che, allorché il giudice ripristina, tramite l’applicazione dell’art. 507 cod. proc. pen., poteri probatori da cui una parte è decaduta, finisce inevitabilmente per favorire questa, collaborando, di fatto – laddove essa si identifichi nel pubblico ministero – alla costruzione della piattaforma probatoria d’accusa in una situazione nella quale dovrebbe altrimenti assolvere l’imputato per carenza di prova del fatto contestato. Vero è che l’esercizio del potere di cui all’art. 507 cod. proc. pen. può ridondare, in concreto, a potenziale vantaggio della parte che sollecita la prova (peraltro, solo in via di ipotesi, la cui realizzazione è comunque sempre legata al concreto risultato probatorio, al quale può concorrere e sul quale può incidere la controparte mediante il controesame). Ma ciò non può essere concepito come indice di «parzialità»: l’ammissione di una prova a richiesta di parte giova sempre, per definizione, a chi, avendo formulato la richiesta stessa (tempestiva o tardiva che sia), si veda accordato uno strumento argomentativo da impiegare a sostegno della propria tesi e pur sempre sottoposto alla verifica della escussione dialettica dibattimentale. La prospettiva del giudice è, in effetti, diversa da quella della parte: il giudice ammette la prova in quanto risponda al criterio legale, parametrato sulla sua idoneità a permettere una decisione causa cognita (nella specie, in termini di indispensabilità); che poi la prova, una volta introdotta nel processo, torni a beneficio della parte istante è una delle possibili conseguenze naturali, non un dato che entri nella valutazione del giudice in sede di ammissione.

4. – Nelle considerazioni che precedono è già insita, per altro verso, l’infondatezza dell’ulteriore assunto del rimettente, secondo il quale l’interpretazione censurata vanificherebbe la sanzione dell’inammissibilità, prevista dall’art. 468, comma 1, cod. proc. pen. per il mancato o irrituale deposito della lista dei testimoni (ovvero dei periti, dei consulenti tecnici o delle persone indicate nell’art. 210 cod. proc. pen.) di cui le parti intendano chiedere l’esame.

A prescindere dalla scarsa pertinenza di tale deduzione alla censura di compromissione dell’imparzialità del giudice – evocando essa, semmai, un profilo di incongruenza del sistema – le sezioni unite della Corte di cassazione hanno adeguatamente evidenziato, in entrambe le pronunce citate dallo stesso giudice a quo (sentenze 6 novembre 1992-21 novembre 1992, n. 11227 e 17 ottobre 2006-18 dicembre 2006, n. 41281), che diritto delle parti alla prova e potere(-dovere) di ammissione della prova ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. hanno parametri diversi: negativo il primo (non manifesta superfluità o irrilevanza); positivo la seconda (assoluta necessità).

L’esercizio del potere di cui all’art. 507 cod. proc. pen. non “neutralizza”, pertanto, la sanzione di inammissibilità, in quanto la parte decaduta ai sensi dell’art. 468, comma 1, cod. proc. pen. rischia di vedersi comunque denegata, o ristretta, l’ammissione delle prove a suo favore: e ciò, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna precedente acquisizione probatoria.

5. – Ovviamente si deve rispettare il principio del contraddittorio e il diritto di difesa, assicurando alla parte che subisce il recupero della prova avversaria (nel caso di specie, l’imputato) adeguati strumenti “di reazione”, che gli consentano di contrastare le conseguenze di comportamenti della controparte elusivi del divieto di prove a sorpresa, ad evitare le quali è preordinata la discovery prevista dall’art. 468, comma 1, cod. proc. pen.

Al riguardo, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità – e viene rimarcato anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione nelle sentenze dianzi citate – che, pur in assenza di una espressa indicazione normativa in tale senso, nel caso di esercizio del potere qui in esame, spetta ad ogni parte con interesse contrapposto il diritto alla prova contraria ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen.; diritto del quale devono essere garantiti, peraltro, in concreto, anche le condizioni e i tempi di esercizio, secondo quanto già previsto dall’art. 6, comma 3, lettere b) e d), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 111, terzo comma, Cost.

6. – Ogni altro rilievo proposto dal giudice a quo con riguardo al parametro costituzionale evocato non risulta pertinente alla situazione di specie.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dal Tribunale di Torino, sezione distaccata di Moncalieri, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA