SENTENZA N. 178 ANNO 2010

SENTENZA N. 178 ANNO 2010
Sanità pubblica - Norme della Regione Veneto - Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario - Istituzione di una apposita "Commissione conciliativa regionale" con il compito di comporre in via stragiudiziale le controversie per danni da responsabilità civile derivanti da prestazioni sanitarie erogate dalle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, nonché dalle strutture sanitarie private provvisoriamente accreditate - Ritenuta necessità di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale dell'istituto della conciliazione incidente nelle materie dell'ordinamento civile e della giurisdizione e norme processuali, nonché lamentato contrasto con la normativa comunitaria; Sanità pubblica - Professioni - Norme della Regione Veneto - Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario - Istituzione di una apposita "Commissione conciliativa regionale" con il compito di comporre in via stragiudiziale le controversie per danni da responsabilità civile derivanti da prestazioni sanitarie erogate dalle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, nonché dalle strutture sanitarie private provvisoriamente accreditate - Nomina della Commissione demandata alla Giunta regionale, nonché durata di tre anni della stessa - Contrasto con la normativa statale di riferimento che prescrive che l'attività di mediazione sia svolta da organismi indipendenti e stabilmente destinati all'erogazione del servizio di conciliazione, lamentata creazione di una nuova figura professionale di conciliatore o mediatore, nonché contrasto con la normativa comunitaria; Sanità pubblica - Norme della Regione Veneto - Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario - Istituzione di una apposita "Commissione conciliativa regionale" con il compito di comporre in via stragiudiziale le controversie per danni da responsabilità civile derivanti da prestazioni sanitarie erogate dalle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, nonché dalle strutture sanitarie private provvisoriamente accreditate - Accordo che conclude il procedimento di conciliazione definito quale "atto negoziale di diritto privato ai sensi dell'art. 1965 del codice civile" - Lamentata interferenza con la disciplina del contratto di transazione, nonché contrasto con la normativa comunitaria.

Sentenza 178/2010
Giudizio

Presidente AMIRANTE - Redattore SILVESTRI

Udienza Pubblica del 28/04/2010 Decisione del 10/05/2010
Deposito del 14/05/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Veneto 31/07/2009, n. 15.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ric. 87/2009


SENTENZA N. 178

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 31 luglio 2009, n. 15 (Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 2-6 ottobre 2009, depositato in cancelleria il 12 ottobre 2009 ed iscritto al n. 87 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per la Regione Veneto.



Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, con ricorso notificato il 2-6 ottobre 2009 e depositato il successivo 12 ottobre, questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 31 luglio 2009, n. 15 (Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario), ed, in particolare, degli artt. 1, comma 2, 2 e 3 nonché delle «altre disposizioni inscindibilmente connesse ad essi», per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione.

Preliminarmente, il ricorrente evidenzia come la legge impugnata sia finalizzata alla riduzione del contenzioso in materia sanitaria, attraverso la promozione di «modalità di composizione stragiudiziale delle controversie insorte in occasione dell’erogazione delle prestazioni sanitarie» (art. 1, comma 1). Per il perseguimento di queste finalità «la Regione individua e disciplina le procedure funzionali alla composizione stragiudiziale delle controversie, promuovendone l’utilizzo da parte dei cittadini» (art. 1, comma 2). L’art. 2 della legge impugnata istituisce una «Commissione conciliativa regionale» con il compito di comporre in via stragiudiziale le controversie per danni da responsabilità civile derivanti da prestazioni sanitarie erogate dalle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, nonché dalle strutture private provvisoriamente accreditate. L’art. 3 attribuisce alla Giunta regionale il compito di disciplinare l’organizzazione della Commissione, il procedimento davanti alla stessa, i criteri e le modalità di presentazione delle domande, e l’indennità spettante ai componenti, ai supplenti ed ai consulenti della suddetta Commissione. Spetta alla Giunta individuare, altresì, i mezzi, le risorse, la sede ed il personale da assegnare alla Commissione per l’espletamento delle sue funzioni (comma 1). Il comma 2 dell’art. 3 stabilisce, inoltre, i principi ed i criteri direttivi cui si deve ispirare il procedimento davanti alla Commissione, fra i quali, la non obbligatorietà, volontarietà, gratuità, imparzialità, celerità e riservatezza del procedimento conciliativo (lettere a, b, c, e, g ed i), la non vincolatività della decisione della Commissione (lettera d) e la definizione della conciliazione, in caso di accordo fra le parti, con un atto negoziale di diritto privato ai sensi dell’art. 1965 del codice civile (lettera h). L’art. 4 individua le parti necessarie nel procedimento ed i soggetti che possono intervenire, anche a mezzo di rappresentanti, e stabilisce i criteri di imputazione delle spese; l’art. 5 prevede il monitoraggio dell’attività conciliativa; l’art. 6 dispone l’istituzione di un fondo regionale finalizzato a risarcire i danni da responsabilità civile di un certo ammontare ed infine l’art. 7 reca una norma relativa alla copertura finanziaria della legge in esame.

1.1. – Secondo il ricorrente, la legge reg. n. 15 del 2009 ed, in particolare, gli artt. 1, comma 2, 2 e 3 violerebbero, in primo luogo, l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché avrebbero ad oggetto l’istituto della conciliazione la cui disciplina rientra nella competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 50 e n. 384 del 2005). Sarebbe al contempo violata la competenza legislativa statale in tema di «giurisdizione e norme processuali», a causa dell’«incidenza che la previsione e la regolamentazione del tentativo di componimento bonario delle liti possono avere sullo svolgimento del processo».

La difesa dello Stato osserva che la necessità di una disciplina uniforme degli strumenti di conciliazione su tutto il territorio nazionale è confermata dall’esigenza di regolare, in modo unitario, i rapporti tra lo svolgimento del procedimento di composizione stragiudiziale della controversia e l’esercizio del diritto di azione in sede giurisdizionale, con particolare riguardo alla decorrenza dei termini di prescrizione e di decadenza durante il tempo occorrente per l’espletamento del tentativo di conciliazione.

L’Avvocatura generale sottolinea, inoltre, come di recente lo Stato abbia esercitato la propria potestà legislativa in materia con l’approvazione della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), il cui art. 60 contiene una delega al Governo in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali.

A tal proposito, il ricorrente ritiene che l’art. 2, comma 3, della legge reg. n. 15 del 2009, nella parte in cui stabilisce che la Commissione conciliativa regionale è nominata dalla Giunta regionale e dura in carica tre anni, si ponga in contrasto con l’art. 60, comma 3, lettera b), della legge n. 69 del 2009, il quale individua, tra i principi e criteri direttivi, quello secondo cui la mediazione deve essere svolta da «organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione».

La violazione della competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., sarebbe poi di tutta evidenza con riferimento all’art. 3, comma 2, lettera h), della legge reg. n. 15 del 2009, il quale prevede, tra i principi cui deve ispirarsi il procedimento davanti alla Commissione conciliativa, la «definizione della conciliazione, in caso di accordo fra le parti, con un atto negoziale di diritto privato ai sensi dell’articolo 1965 del codice civile». Secondo il ricorrente, la norma in esame qualificherebbe come transazione l’accordo che conclude il procedimento di conciliazione anche qualora non sia caratterizzato dalle «reciproche concessioni», previste dall’art. 1965 cod. civ.

1.2. – Le norme della legge reg. n. 15 del 2009 sono impugnate anche per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., avuto riguardo alla competenza concorrente in materia di «professioni». Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, l’istituzione della Commissione conciliativa regionale (art. 2, comma 1) e la disciplina della sua composizione e del suo funzionamento determinerebbero la nascita di una nuova figura professionale – di conciliatore o mediatore – diversa da quella definita nell’art. 60 della legge n. 69 del 2009.

La difesa dello Stato richiama, al riguardo, la giurisprudenza costituzionale secondo la quale la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle «professioni» deve rispettare il principio per cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi titoli abilitanti, è riservata allo Stato, mentre spetta alle Regioni la disciplina dei profili che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (sono citate le sentenze n. 153 del 2006 e n. 300 del 2007). Il ricorrente aggiunge che la giurisprudenza menzionata è stata pienamente recepita nel decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei princìpi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131).

Inoltre, le norme regionali impugnate si porrebbero in contrasto con i principi dettati, in materia di professioni, dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009, il quale, al comma 3, lettera c), ha previsto la creazione di un apposito registro degli organismi di conciliazione, sottoposto alla vigilanza del Ministero della giustizia, e alla lettera d) del medesimo comma ha regolamentato l’accesso a questa professione, prevedendo che i requisiti per l’iscrizione nel registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministro della giustizia.

1.3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta, infine, la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., da parte delle norme censurate. Queste ultime, infatti, si porrebbero in contrasto con i principi contenuti nella direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale), per il cui recepimento è stata conferita delega al Governo con l’art. 1 della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2008).

Al riguardo, la difesa dello Stato rileva come la citata direttiva comunitaria, analogamente alla normativa interna prima richiamata, preveda, quale condizione per lo svolgimento dell’attività di mediazione, i requisiti di imparzialità e di competenza del mediatore (art. 3); imponga agli Stati membri di adottare misure per consentire che gli accordi risultanti dalla mediazione abbiano efficacia esecutiva (art. 6); impegni gli Stati membri a salvaguardare il diritto di azione delle parti, che abbiano fatto ricorso al procedimento di mediazione, dagli effetti pregiudizievoli della prescrizione e della decadenza (art. 8).

Pertanto, le norme regionali impugnate, ponendosi in contrasto con le citate prescrizioni comunitarie, violerebbero gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

2. – Nel giudizio si è costituita la Regione Veneto, eccependo l’inammissibilità e deducendo comunque l’infondatezza delle censure.

2.1. – In via preliminare, la difesa regionale si sofferma sul contesto nel quale si colloca la normativa impugnata, evidenziando come negli ultimi decenni, in Italia ed in altri Stati europei, si sia assistito ad un aumento esponenziale del contenzioso sanitario. I successi della medicina moderna ed il conseguente aumento delle aspettative di vita hanno indotto il paziente a credere che l’esito infausto sia sempre e comunque attribuibile al medico, e non all’intrinseca gravità della malattia o all’imprevedibilità della risposta dell’organismo umano alle cure.

La cosiddetta overcompensation (cioè l’aumento dell’entità dei risarcimenti ed, in generale, l’aumento del contenzioso) avrebbe determinato «una pericolosa patologia» (la cosiddetta overdeterrence) della classe medica e della struttura ospedaliera, nonché, di riflesso, delle compagnie di assicurazione. In altre parole, il rischio di incorrere in procedimenti giudiziari ed eventualmente in pronunzie di condanna per il risarcimento dei danni provocati, indurrebbe molti medici ad abbandonare le specialità più a rischio o a ricorrere ad esami diagnostici superflui prima di ogni intervento (fenomeno della cosiddetta medicina difensiva). Tutto ciò determinerebbe un aumento dei rischi a carico della salute del paziente, dei costi per la spesa sanitaria e dei premi assicurativi; in qualche caso, addirittura, le compagnie di assicurazione avrebbero deciso di uscire dal mercato, rifiutandosi di assicurare medici operanti nei settori maggiormente esposti al rischio di procedimenti giudiziari per risarcimento dei danni.

Secondo la Regione Veneto, la normativa impugnata sarebbe finalizzata a contenere le crescenti spese affrontate dalle strutture sanitarie per il pagamento dei premi assicurativi (che, per l’anno 2004, ammonterebbero a 38.289.425 euro). Pertanto, la legge reg. n. 15 del 2009 (modellata su esperienze straniere, in particolare, tedesca ed austriaca), attraverso l’istituzione della Commissione conciliativa regionale, sarebbe volta a ridurre la spesa pubblica regionale e ad assicurare una migliore allocazione delle risorse, nel rispetto dei vincoli comunitari di finanza pubblica.

La resistente evidenzia, altresì, come la legge regionale censurata preveda una forma di monitoraggio dell’attività conciliativa al fine di rafforzare la gestione del rischio clinico; così facendo, la normativa impugnata darebbe attuazione all’art. 32 Cost.

Infine, la Regione Veneto precisa che la legge reg. n. 15 del 2009 ottempera a quanto sancito nell’intesa del 20 marzo 2008 (in particolare, nel punto 6) tra il Governo, le Regioni e le Province autonome, concernente, appunto, la gestione del rischio clinico e la sicurezza dei pazienti e delle cure.

2.2. – Quanto alle censure mosse dal ricorrente, la difesa regionale ne eccepisce, in primis, l’inammissibilità, poiché l’impugnativa riguarderebbe in modo generico l’intera legge reg. n. 15 del 2009.

Inoltre, l’affermazione, contenuta nel ricorso, secondo cui sono impugnate anche le altre disposizioni della legge regionale «inscindibilmente connesse» alle norme espressamente censurate, rimetterebbe alla Corte costituzionale il compito di individuare le disposizioni oggetto dell’impugnazione, in violazione del principio della domanda (ex art. 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). Quella appena rappresentata costituirebbe un’ulteriore causa di inammissibilità delle questioni.

2.3. – Nel merito, la Regione Veneto contesta le conclusioni cui è pervenuto il ricorrente.

2.3.1. – Quanto all’asserita violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., la resistente sottolinea come sia inconferente il richiamo delle sentenze della Corte costituzionale n. 50 e n. 384 del 2005, giacché queste ultime riguarderebbero fattispecie molto diverse da quella oggetto dell’odierno giudizio.

In particolare, la difesa regionale rileva che, a differenza delle norme scrutinate nei giudizi definiti con le predette sentenze, la legge reg. n. 15 del 2009 disciplina un procedimento di conciliazione facoltativo e ad esclusiva iniziativa delle parti, come si desume dall’art. 3, comma 2, lettere a) e b), della stessa legge. I caratteri di non obbligatorietà e volontarietà del procedimento di conciliazione sarebbero resi ancora più evidenti da quanto previsto nell’art. 3, comma 2, lettere d) e h), della legge reg. n. 15 del 2009.

Dalle suddette caratteristiche del procedimento conciliativo in esame la resistente deduce l’infondatezza delle questioni promosse sia rispetto all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (al quale, secondo la difesa regionale, possono essere ricondotte le sole fattispecie di tentativo obbligatorio di conciliazione), sia in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. (in quanto il procedimento di conciliazione facoltativo e ad esclusiva iniziativa delle parti non può essere ricompreso in alcuna delle materie elencate nella citata norma costituzionale).

In definitiva, la Regione Veneto ritiene che le norme impugnate siano espressione della potestà legislativa regionale residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.

Per le ragioni anzidette la resistente esclude l’esistenza di un contrasto tra la legge reg. n. 15 del 2009 e l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, recante una delega legislativa in materia di mediazione e conciliazione delle controverse civili e commerciali. La Regione Veneto precisa come non fosse affatto tenuta a rispettare il citato art. 60 (il quale riguarderebbe i soli casi di tentativo obbligatorio di conciliazione), dal momento che la disciplina del procedimento di conciliazione facoltativo e ad esclusiva iniziativa delle parti è ascrivibile alla potestà legislativa regionale residuale.

In ogni caso, le norme impugnate sarebbero «in piena sintonia» con quanto stabilito dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009. In particolare, la resistente contesta la tesi della difesa statale, secondo cui la nomina della Commissione conciliativa da parte della Giunta regionale ne minerebbe l’indipendenza, osservando che, se così fosse, non potrebbero essere considerate indipendenti neppure le diverse Autorità esistenti nell’ordinamento italiano (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Isvap, Consob ecc.) ed i cui vertici sono, quasi sempre, di nomina politica.

Inoltre, l’indipendenza e l’imparzialità della Commissione sarebbero garantite dall’art. 3 (recte, 2), comma 8, della legge reg. n. 15 del 2009, il quale prevede l’obbligo di astensione dei membri della Commissione in una serie di casi, «anche su richiesta delle parti». Nella stessa direzione andrebbe pure l’art. 3 (recte, 2), comma 7, secondo cui i componenti della Commissione «non possono essere scelti tra i dipendenti delle aziende ULSS ed ospedaliere nonché delle strutture private provvisoriamente accreditate della Regione del Veneto».

Infine, la difesa regionale ritiene che non sia condivisibile la lettura dell’art. 3, comma 2, lettera h), della legge reg. n. 15 del 2009, operata dal ricorrente, secondo cui la predetta norma qualificherebbe come transazione, ai sensi dell’art. 1965 cod. civ., l’accordo che conclude il procedimento di conciliazione «anche laddove non sia caratterizzato […] da reciproche concessioni». A tal proposito, la resistente osserva che la non vincolatività della decisione della Commissione (art. 3, comma 2, lettera d) e quindi la possibilità per le parti di adire successivamente l’autorità giudiziaria, implicano l’esistenza di reciproche concessioni tra le stesse parti, nel caso in cui queste decidano di accettare l’esito del procedimento di conciliazione.

2.3.2. – In merito all’asserita violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la Regione Veneto evidenzia l’inconferenza del riferimento, contenuto nel ricorso, alle sentenze n. 153 del 2006 e n. 300 del 2007 della Corte costituzionale. L’oggetto dei giudizi di legittimità costituzionale definiti con le predette sentenze non sarebbe, infatti, assimilabile a quello dell’odierno giudizio, in quanto la normativa oggi impugnata non istituisce una nuova figura professionale di conciliatore o mediatore a valenza generale, ma affida ad una Commissione conciliativa regionale, di cui fanno parte un magistrato a riposo, un avvocato ed un medico legale, il compito di risolvere in via stragiudiziale le sole controversie indicate nell’art. 2, commi 1 e 2, della legge reg. n. 15 del 2009.

Pertanto, la resistente ritiene che il legislatore regionale non fosse tenuto a rispettare né i principi generali in materia di «professioni» dettati dal d.lgs. n. 30 del 2006, né quelli previsti dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009. In ogni caso, la normativa impugnata sarebbe conforme ai suddetti principi.

2.3.3. – In merito all’asserita violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., la Regione Veneto sottolinea come l’ambito di applicazione della legge reg. n. 15 del 2009 sia diverso da quello della direttiva n. 2008/52/CE, la quale riguarda le controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale.

Peraltro, la normativa impugnata non si porrebbe in contrasto con la richiamata direttiva comunitaria (ed in particolare con gli artt. 6 e 8 di quest’ultima), essendo al contrario dubitabile la conformità dell’art. 60 della legge n. 69 del 2009 ai principi espressi dal medesimo atto comunitario, in quanto il citato art. 60 conterrebbe una nozione di «mediatore» meno ampia di quella recata dalla direttiva n. 2008/52/CE.

3. – In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Veneto ha depositato una memoria nella quale ribadisce quanto già affermato nell’atto di costituzione, anche alla luce del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali).

In particolare, la difesa regionale sottolinea la differenza tra la conciliazione (di cui all’art. 60 della legge n. 69 del 2009 ed al d.lgs. n. 28 del 2010) e la transazione (di cui agli artt. 1965 e seguenti cod. civ., espressamente richiamati dalla legge reg. n. 15 del 2009).



Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 31 luglio 2009, n. 15 (Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario) ed, in particolare, degli artt. 1, comma 2, 2 e 3 nonché delle «altre disposizioni inscindibilmente connesse ad essi», per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione.

1.1. – Preliminarmente, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla Regione Veneto. Quest’ultima evidenzia come il ricorrente abbia impugnato un’intera legge e richiama la giurisprudenza costituzionale che ha escluso l’ammissibilità di questioni in tal modo proposte.

Al riguardo, deve essere richiamato il costante orientamento di questa Corte, secondo cui l’impugnativa di un’intera legge è inammissibile «ove ciò comporti la genericità delle censure che non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità, mentre ammissibili sono le impugnative contro intere leggi caratterizzate da normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure» (sentenza n. 201 del 2008).

Nell’odierno giudizio l’eccezione di inammissibilità deve essere rigettata, innanzitutto, perché il ricorrente non si limita ad impugnare genericamente l’intera legge, ma formula specifiche censure agli artt. 1, comma 2, 2 e 3, oltre a precisare che le altre disposizioni (ed in particolare l’art. 4) sono inscindibilmente connesse a quelle impugnate. In secondo luogo, la legge reg. Veneto n. 15 del 2009 presenta un contenuto omogeneo, essendo finalizzata a promuovere l’utilizzo di modalità di composizione stragiudiziale delle controversie sanitarie; pertanto, anche in assenza di specifiche censure, il ricorso sarebbe stato immune dal vizio di inammissibilità rilevato dalla Regione resistente.

2. – Le questioni non sono fondate.

2.1. – La ratio della legge della Regione Veneto censurata nel presente giudizio è, secondo la resistente, quella di prevenire controversie giudiziarie connesse all’erogazione di prestazioni sanitarie, con l’intento di ridurre l’ammontare dei risarcimenti, che gravano sui bilanci delle aziende sanitarie locali. La legge in questione nasce inoltre dall’esigenza di porre rimedio al forte aumento dei premi assicurativi, anch’essi a carico dei bilanci delle ASL, determinato dal rischio crescente di condanne al risarcimento dei danni derivanti dall’attività sanitaria. Ulteriore finalità della legge è quella di ridurre il fenomeno della cosiddetta “medicina difensiva”, che porta alla prescrizione di accertamenti diagnostici non strettamente indispensabili prima di ogni intervento medico o chirurgico, al solo scopo di acquisire strumenti difensivi nella prospettiva di una eventuale, ma prevedibile, lite giudiziaria. La Regione resistente ha posto in rilievo, altresì, che le specialità mediche e chirurgiche più a rischio sono sempre meno ricercate, o addirittura abbandonate, dagli operatori e dagli specializzandi, con conseguenti difficoltà organizzative per le strutture sanitarie che intendono continuare a garantire livelli costanti di qualità e quantità delle prestazioni offerte ai cittadini.

2.2. – Quanto sopra premesso consente di individuare la materia in cui ricadono le norme impugnate nella «tutela della salute» – attribuita alla competenza legislativa concorrente, di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. – sulla base della considerazione che l’economicità, la completezza e la qualità delle prestazioni sanitarie devono necessariamente caratterizzare tutta l’organizzazione posta a tutela della salute dei cittadini. La prevenzione delle controversie, e dei loro costi elevati, rientra pienamente tra gli strumenti idonei a raggiungere i predetti obiettivi, che devono essere perseguiti dalle aziende sanitarie, con l’effetto di liberare risorse da impiegare nel miglioramento dei servizi.

3. – La suddetta individuazione della materia esclude che siano fondate le prospettazioni formulate in proposito dal ricorrente e dalla resistente.

3.1. – Non può essere condivisa l’evocazione, ad opera della difesa statale, dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., vale a dire della competenza legislativa dello Stato in tema di «giurisdizione e norme processuali» e di «ordinamento civile».

Le norme censurate, a differenza di quelle statali, non creano un sistema conciliativo imposto ai soggetti che reclamano un risarcimento per pretesi danni derivanti da prestazioni sanitarie. Infatti, l’art. 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali) dispone (comma 1): «L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale». L’art. 13 dello stesso atto normativo stabilisce inoltre: «Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta [di conciliazione], il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto».

Dalle due norme sopra richiamate – che attuano i principi ed i criteri direttivi dell’art. 60 della legge di delega n. 69 del 2009 – si ricava che la mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali è contrassegnata dalla sua obbligatorietà, quale procedimento da esperire prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria, pena l’improcedibilità della domanda. Altro effetto discendente dal procedimento conciliativo disciplinato dalle norme statali è quello sanzionatorio, previsto dal citato art. 13, per la parte che, pur avendo ricevuto una proposta di conciliazione ritenuta poi valida dal giudice, abbia costretto la controparte e l’amministrazione della giustizia ad un impiego di risorse, umane e materiali, che poteva essere evitato. In definitiva, il procedimento conciliativo disciplinato dalla legge statale, di cui il ricorrente sostiene la violazione da parte della normativa impugnata, rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria e nella sfera del diritto civile, giacché, con riferimento al caso di specie, condiziona l’esercizio del diritto di azione finalizzato al risarcimento dei danni da responsabilità civile e prevede ricadute negative per chi irragionevolmente abbia voluto instaurare un contenzioso davanti al giudice, nonostante fosse stata formulata una proposta conciliativa rivelatasi successivamente satisfattiva delle proprie ragioni.

3.2. – Nulla di tutto quanto precede si ritrova nella disciplina contenuta nella legge regionale censurata.

Innanzitutto, l’avvio del procedimento conciliativo non è obbligatorio ed è subordinato al consenso di tutte le parti (art. 3, comma 2, lettere a e b); inoltre, la decisione non è vincolante, lasciando alle parti stesse la facoltà di adire successivamente l’autorità giudiziaria (lettera d). A differenza di quanto accade nel procedimento conciliativo previsto dalle norme statali, la scelta, anche di una sola delle parti interessate, di non avvalersi dell’opportunità offerta dalla legge regionale in esame non condiziona in alcun modo l’esercizio del diritto di azione, né il rifiuto della proposta conciliativa produce conseguenze sfavorevoli su chi lo esprime, quale che sia il contenuto di eventuali pronunce giurisdizionali successive.

Da queste caratteristiche della conciliazione disciplinata dalla legge regionale si evince che la Regione si è limitata a porre a disposizione dei cittadini e delle aziende sanitarie pubbliche e di quelle private accreditate uno strumento tecnico-giuridico di facilitazione e di supporto delle trattative, che i soggetti interessati ritengano liberamente di intavolare, allo scopo di individuare soluzioni condivise in relazione a pretese risarcitorie nascenti da attività sanitaria, consentendo al cittadino un più rapido soddisfacimento delle proprie richieste ed alle amministrazioni sanitarie una riduzione dei pesi finanziari ed amministrativi di lunghe e costose controversie.

La volontarietà dell’esperimento conciliativo, prevista dalle norme regionali, rende palese l’infondatezza della censura del ricorrente, basata sulla mancata previsione – del resto impossibile – di una sospensione dei termini di prescrizione e di decadenza: i soggetti interessati al bonario componimento, infatti, non sono obbligati a ritardare l’esercizio del loro diritto fondamentale di azione – con conseguente necessità di tenerli indenni dagli effetti pregiudizievoli derivanti dalla decorrenza dei suddetti termini – e non fanno altro che svolgere un’attività di negoziazione rientrante nell’ambito della propria autonomia privata, avvalendosi, per propria libera scelta, di un servizio offerto dall’ente pubblico.

Lo stesso richiamo all’istituto della transazione, di cui agli artt. 1965 e seguenti del codice civile, contenuto nell’art. 3, comma 2, lettera h), della legge regionale impugnata, non solo non dimostra lo sconfinamento di quest’ultima nel campo dell’ordinamento civile, ma fornisce invece conferma dell’assenza di ogni condizionamento, sostanziale e processuale, sui soggetti interessati. La prova a contrario di tale ultima considerazione è fornita dall’art. 12 del d.lgs. n. 28 del 2010, che prevede invece l’efficacia esecutiva del verbale di accordo, dopo la sua omologazione da parte del Presidente del Tribunale competente per territorio. Neppure è condivisibile in proposito il rilievo del ricorrente, basato sulla presunta introduzione, da parte della normativa regionale, di un tipo di transazione, diverso da quello codicistico, in cui non avrebbero rilievo le «reciproche concessioni». La lettura del citato art. 3, comma 2, lettera h), della legge regionale impugnata dimostra viceversa che si è in presenza di un mero rinvio alle norme del codice civile, senza che vi sia traccia di alcuna innovazione o modifica, che certo sarebbe stata estranea alla competenza legislativa regionale.

In sintesi, la legge regionale, per avvalorare la natura volontaria del procedimento e la non vincolatività della pronuncia della Commissione conciliativa, si limita a precisare che tutto il procedimento è orientato a facilitare l’eventuale formazione di un accordo transattivo – teso ad evitare l’insorgenza di una lite, così come prevede l’art. 1965, primo comma, cod. civ. – che le parti possono stipulare, se lo vogliono, esattamente nei termini previsti dal medesimo codice civile.

3.3. – Neppure condivisibile è l’assunto della resistente, che inquadra la legge impugnata nella competenza legislativa residuale delle Regioni, di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.

Tale tipo di competenza legislativa, avente carattere primario, escluderebbe la stretta connessione tra il servizio reso agli utenti ed agli operatori sanitari dalla legge in oggetto e la tutela della salute, che, come chiarito prima, non implica soltanto l’obbligo delle istituzioni pubbliche di fornire adeguate prestazioni sanitarie ai cittadini, ma presuppone altresì una organizzazione in grado di contenere i costi e di razionalizzare le spese, in vista di un efficace uso delle risorse disponibili. In questo campo, il ruolo dello Stato, quale legislatore di principio, è ineliminabile, allo scopo di assicurare una coerenza ed unitarietà di disciplina e soprattutto di rendere chiari i limiti invalicabili tra attività volte alla facilitazione di accordi privati e procedimenti contenziosi, legati invece, in modo diretto o indiretto, alla tutela giurisdizionale dei diritti ed ai procedimenti che su questa incidono, di competenza esclusiva dello Stato stesso.

Lo Stato ha già esercitato in via generale la sua potestà legislativa in materia, mediante il d.lgs. n. 28 del 2010, che, nel disciplinare il procedimento di mediazione come condizione di procedibilità dell’azione giudiziale relativa alle controversie anche in materia di responsabilità medica, stabilisce (art. 2, comma 2) che la normativa statale «non preclude le negoziazioni volontarie e paritetiche relative alle controversie civili e commerciali, né le procedure di reclamo previste dalle carte dei servizi».

È evidente che negoziazioni volontarie possono sorgere nei più diversi campi e rientrare pertanto in differenti materie, di competenza legislativa dello Stato o delle Regioni, o di entrambi, a seconda dei casi. Sarà, volta per volta, necessario valutare il titolo di competenza che abilita le Regioni ad intervenire con proprie norme allo scopo di predisporre servizi di supporto a tali negoziazioni. Per quanto riguarda la materia delle richieste di risarcimento del danno derivante da responsabilità medica, si deve sottolineare che tale area di intervento è esplicitamente contemplata dall’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, con riguardo alla conciliazione obbligatoria, con la riserva contenuta nel citato art. 2, comma 2, che consente discipline non statali con riferimento a negoziazioni «volontarie e paritetiche», tali cioè da escludere qualsiasi posizione autoritativa di organi di mediazione non statali, da cui possano discendere effetti limitativi del diritto di azione.

Del resto, nell’ambito delle attività di leale collaborazione tra Stato e Regioni, è stata stipulata, in sede di Conferenza Stato-Regioni, l’Intesa del 20 marzo 2008, che, al punto 6, indica «l’opportunità di promuovere iniziative, anche di carattere normativo nazionale e regionale finalizzate a consentire l’adozione, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliero-universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico di diritto pubblico, nei limiti delle risorse finanziarie, umane e strumentali complessivamente disponibili, di misure organizzative atte a garantire la definizione stragiudiziale delle vertenze aventi ad oggetto danni derivanti da prestazioni fornite da operatori del Servizio sanitario nazionale, fermo restando il contenimento delle spese connesse al contenzioso, tenendo conto dei seguenti criteri: previsione della non obbligatorietà della conciliazione, quale strumento di composizione stragiudiziale delle controversie; garanzia della imparzialità, professionalità, celerità delle procedure e adeguata rappresentatività delle categorie interessate, con la esplicita esclusione della possibilità di utilizzare gli atti acquisiti e le dichiarazioni della procedura di conciliazione come fonte di prova, anche indiretta, nell’eventuale successivo giudizio e con la previsione che, in caso di accordo tra le parti, la conciliazione sia definita con un atto negoziale, ai sensi degli articoli 1965 e seguenti del codice civile».

Tutti i criteri previsti nell’Intesa di cui sopra sono stati recepiti nell’art. 3 della legge regionale censurata nel presente giudizio, ad eccezione di quello relativo alla non utilizzabilità degli atti e delle dichiarazioni relative alla procedura di conciliazione in un eventuale successivo giudizio, per l’evidente motivo che tale esclusione, incidendo sull’attività giurisdizionale, non spetta alle Regioni, bensì allo Stato.

La predisposizione di servizi volti a facilitare la conciliazione stragiudiziale in materia di danni da responsabilità sanitaria, mediante l’offerta di un supporto tecnico-giuridico è stata ed è oggetto di altre leggi regionali: legge della Regione Abruzzo 9 maggio 1990, n. 65 (Integrazione della legge regionale n. 20 del 2 aprile 1985, recante «Norme di salvaguardia dei diritti dell’utente dei servizi delle U.L.S.S.»); art. 65-quater della legge della Regione Lombardia 7 gennaio 1986, n. 1 (Riorganizzazione e programmazione dei servizi socio-assistenziali della Regione Lombardia), abrogata dall’art. 28, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 12 marzo 2008, n. 3 (Governo della rete degli interventi e dei servizi alla persona in ambito sociale e sociosanitario); art. 4-bis della legge della Provincia di Bolzano 5 marzo 2001, n. 7 (Riordinamento del Servizio Sanitario provinciale).

Anche enti pubblici diversi dalle Regioni hanno emanato normative in materia: si veda, ad esempio, l’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che ha istituito l’ufficio “Accordia”, quale sportello conciliativo delle controversie derivanti dai rapporti tra medici e pazienti.

In questo quadro variegato e complesso, fatto salvo nel suo insieme, e nei limiti indicati, dall’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 28 del 2010, la legge regionale de qua si pone come uno degli interventi di razionalizzazione legislativa in una materia, quella delle controversie nascenti da prestazioni sanitarie, profondamente connessa alla gestione delle strutture di competenza regionale. Lo Stato ha già stabilito, in via generale, che gli accordi, facilitati da organismi conciliativi disciplinati da fonti diverse dalla legge statale, devono avere carattere volontario e paritetico. Tale principio si riflette nei vari campi di competenza regionale, delimitando l’area di intervento della corrispondente potestà legislativa, concorrente o residuale, a seconda dei casi, senza che tuttavia possa ipotizzarsi un’attività di supporto alla negoziazione privata e stragiudiziale delle controversie in materie estranee alla competenza legislativa regionale.

In definitiva, le Regioni possono predisporre servizi come quello previsto dalla legge veneta censurata, nell’ambito delle proprie competenze nelle singole materie, prevedendo organi e procedimenti specificamente adatti alla natura delle attività coinvolte, nel rispetto del limite generale della non obbligatorietà delle procedure e della non vincolatività delle proposte conciliative.

Nel fare salve tutte le negoziazioni volontarie e paritetiche, volte alla prevenzione delle liti, nonché le norme contenute nelle carte di servizi (che, nella materia della «tutela della salute», vengono emanate ed applicate nell’ambito di strutture sanitarie territoriali o ospedaliere dipendenti dalle Regioni), lo Stato riconosce ad altri enti (ivi comprese, naturalmente, le Regioni) l’implicita capacità di regolare la composizione stragiudiziale di controversie attinenti ad attività, nei limiti della propria sfera di competenza, senza sconfinare nella disciplina della funzione giurisdizionale o comunque di atti e procedure che possono incidere sulla stessa. In definitiva, alla disciplina dell’attività volontaria e negoziale di prevenzione delle liti deve essere riconosciuta natura accessoria rispetto alla normazione delle attività ricadenti nelle singole materie, con le conseguenze che da ciò derivano in termini di limiti alla potestà legislativa regionale, di volta in volta esercitata.

4. – Deve ritenersi non fondata la censura del ricorrente basata sulla presunta violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., sotto il profilo della competenza statale ad individuare nuove figure professionali, affermata e ribadita dalla giurisprudenza costante di questa Corte.

La legge censurata non introduce alcuna nuova figura professionale, giacché, nell’art. 2, comma 4, prevede che la Commissione conciliativa regionale è composta da un magistrato a riposo, da un avvocato e da un medico legale, che possiedono già ben precisi profili professionali e non acquistano alcuna ulteriore qualificazione per effetto della loro partecipazione alle attività della Commissione stessa. Nessuna interferenza è possibile quindi ravvisare con la normativa statale, che disciplina la figura dei mediatori nell’ambito delle procedure conciliative obbligatorie, avendo la Regione scelto di avvalersi di figure professionali già esistenti.

5. – Deve essere dichiarata non fondata pure la censura relativa alla violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., basata sull’asserito contrasto della legge regionale in questione con la direttiva 21 maggio 2008 n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale). L’art. 1, comma 2, del suddetto atto normativo comunitario dispone infatti che lo stesso si applichi soltanto alle controversie transfrontaliere. Tanto vale ad escludere ogni sua attinenza con l’oggetto della legge della Regione Veneto impugnata nel presente giudizio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 2 e 3 della legge della Regione Veneto 31 luglio 2009, n. 15 (Norme in materia di gestione stragiudiziale del contenzioso sanitario), promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione, con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA

SENTENZA N. 177 ANNO 2010

SENTENZA N. 177 ANNO 2010
Processo penale - Incompatibilità del giudice - Incompatibilità a partecipare al giudizio, quale componente del Tribunale in composizione collegiale, del giudice che, investito del giudizio direttissimo conseguente ad arresto in flagranza di reato per lo stesso fatto e nei confronti delle stesse persone, all'esito del giudizio di convalida e di applicazione di misura cautelare personale, abbia proceduto a diversa qualificazione del reato e abbia dichiarato il proprio difetto di attribuzione in favore del Tribunale in composizione collegiale - Mancata previsione.

Sentenza 177/2010
Giudizio

Presidente AMIRANTE - Redattore CRISCUOLO

Camera di Consiglio del 14/04/2010 Decisione del 10/05/2010
Deposito del 14/05/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 34, c. 2°, del codice di procedura penale.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ord. 274/2009


SENTENZA N. 177

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di La Spezia nel procedimento penale a carico di P. A. G. ed altri, con ordinanza del 16 luglio 2009, iscritta al n. 274 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.



Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di La Spezia, in composizione collegiale, con ordinanza depositata in data 16 luglio 2009, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio, quale componente del tribunale in composizione collegiale, del giudice che, in precedenza investito del giudizio direttissimo conseguente ad arresto in flagranza di reato per lo stesso fatto nei confronti delle stesse persone, all’esito del giudizio di convalida e di applicazione di misura cautelare personale, abbia diversamente qualificato il reato originariamente contestato e, sulla base di tale diversa qualificazione, abbia dichiarato il proprio difetto di cognizione in favore del tribunale collegiale.

Il rimettente riferisce che, a seguito dell’arresto in flagranza di P. A. G., B. A. e P. I. C., per il reato di furto aggravato in concorso, previsto dagli articoli 110, 624, 625, nn. 2, 5 e 7, del codice penale, il Tribunale di La Spezia, in composizione monocratica, era stato investito del procedimento a carico dei predetti imputati con rito direttissimo, ai sensi degli artt. 449 e 558 cod. proc. pen.

Il giudice a quo pone in evidenza che, nel corso del giudizio di convalida e di applicazione delle misure cautelari richieste nei confronti degli arrestati, il giudice monocratico, con ordinanza del 13 luglio 2009, convalidato l’arresto, aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere e, ravvisata la diversa qualificazione giuridica del fatto, ovvero, non più furto aggravato in concorso, ma rapina impropria aggravata in concorso, aveva dichiarato, ai sensi dell’art. 33-septies cod. proc. pen., il proprio difetto di cognizione in favore del Tribunale in composizione collegiale, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero.

Il giudice a quo indica le ragioni per le quali il giudice monocratico aveva ravvisato una diversa qualificazione giuridica del fatto; in particolare, quest’ultimo aveva considerato che la condotta tenuta da B. A., a seguito dell’azione furtiva, consistita nell’ingaggiare una colluttazione con il carabiniere C., dopo essersi dato alla fuga, inducesse a ravvisare gli estremi del reato di rapina impropria, anziché quello di furto pluriaggravato a lui contestato in concorso con gli altri arrestati.

Inoltre, richiamando alcune pronunzie della Corte di cassazione in tema di concorso “anomalo”, secondo cui può essere ritenuto prevedibile sviluppo dell’azione inerente ad un furto l’uso eventuale di violenza o minaccia, che, se realizzato, fa progredire la sottrazione della cosa mobile altrui in rapina impropria, il giudice monocratico aveva ritenuto che analogo titolo di reato dovesse essere ascritto agli altri due compartecipi, ai sensi dell’art. 116 cod. pen. Il medesimo giudice, poi, aveva prospettato come configurabile l’aggravante prevista dall’art. 628, comma 3, n. 1, cod. pen., poiché il reato era stato commesso da più persone riunite.

Il Tribunale rimettente riferisce, infine, che il pubblico ministero, ricevuti gli atti, aveva disposto che si procedesse nelle forme del rito direttissimo nei confronti dei tre arrestati, i quali erano stati presentati innanzi al medesimo tribunale.

Il collegio rileva, dunque, che uno dei propri componenti è lo stesso giudice monocratico - persona fisica avanti al quale si è tenuto il primo giudizio direttissimo nella fase della convalida e dell’applicazione di misure cautelari.

Il giudice a quo, pur non ignorando il consolidato orientamento della Corte costituzionale, secondo cui non sussiste l’incompatibilità del giudice, che abbia convalidato l’arresto e che, all’atto della convalida, abbia applicato una misura cautelare, a partecipare al successivo giudizio direttissimo, osserva che la questione nella specie è differente ed, al riguardo, richiama la sentenza n. 177 del 1996, nonché le ordinanze n. 90 del 2004, nn. 316 e 284 del 1996 della Corte.

In particolare, il rimettente sottolinea che, nella fattispecie in esame, il giudice monocratico, in origine investito del giudizio, ha ex officio delibato la questione in termini di inquadramento del fatto per cui si procede in altra, diversa e più gravemente sanzionata ipotesi di reato; ritiene, inoltre, che «la valutazione incidentale del giudice monocratico in tema di corretta qualificazione del fatto reato, essendo scesa al merito delle risultanze di fatto rinvenienti dal fascicolo e dallo stesso specificamente indicate a sostegno della propria declaratoria di difetto di attribuzione, non possa assimilarsi all’ipotesi menzionata nella citata sentenza n. 177 del 1996».

Il rimettente, infatti, pone in evidenza che la Corte, nella sentenza ora citata, ha affermato che «non è prefigurabile una menomazione dell’imparzialità del giudice il quale adotta decisioni, anche incidentali, preordinate al giudizio di cui è legittimamente investito rispetto ad esso», mentre, nel caso di specie, si verserebbe in una situazione diversa «e ciò proprio perché, nel suo giudizio, il giudice monocratico ha ravvisato – sulla base di una diversa qualificazione del fatto – l’illegittimità dell’attribuzione ad esso giudice del giudizio de quo. Ed a tanto ha provveduto in base alla delibazione in fatto e in diritto delle emergenze procedimentali nei termini sopra evidenziati».

Il rimettente, inoltre, evidenzia una disparità di trattamento con le situazioni oggetto delle sentenze nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992, con le quali la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 cod. proc. pen. in alcune ipotesi in cui vi è stato un pregresso intervento del giudice, in tema di qualificazione giuridica del fatto.

Da tali pronunzie il giudice a quo ritiene di poter desumere che «il Giudice delle Leggi abbia inteso affermare il principio secondo il quale deve ritenersi incompatibile a giudicare in ordine al medesimo fatto, a prescindere dal suo ruolo nel giudizio, il giudice che abbia effettuato una precedente valutazione in base agli atti, all’esito della quale egli abbia ritenuto il fatto inquadrabile in reato diverso da quello contestato; ovvero abbia manifestato il proprio giudizio in ordine alla sua qualificazione giuridica in termini diversi rispetto a quelli oggetto di imputazione o di prospettazione delle parti; o comunque, abbia precedentemente formulato valutazioni cadenti sulla stessa res iudicanda, specie se in vista di una decisione».

Ciò posto, il Tribunale afferma che la disposizione censurata si pone in contrasto, in primo luogo, con l’art. 3 Cost., in quanto non assicura parità di trattamento normativo con situazioni simili, quali, appunto, quelle oggetto delle pronunzie della Corte nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992, in assenza di ragionevoli motivi che giustifichino la differenza di statuizioni; in tali pronunzie la Corte ha, infatti, ravvisato l’incompatibilità alla funzione del giudizio nei casi in cui il giudice abbia, in uno stadio anteriore al procedimento, espresso una valutazione nel merito della stessa materia processuale riguardante il medesimo incolpato.

Inoltre, ad avviso del rimettente, la disposizione impugnata contrasta con gli artt. 24, 25 e 111 Cost. poiché pone l’imputato nelle condizioni di non potere pienamente esercitare i propri diritti difensivi al cospetto di un organo giudicante che, per avere in precedenza espresso una valutazione incidente sullo stesso oggetto dell’imputazione al punto da determinarne la modificazione, viene a trovarsi in posizione incompatibile con l’imparzialità e terzietà richieste al giudice, essendosi, comunque, formato un convincimento sul merito dell’azione penale.

In particolare, il rimettente afferma che l’avere espresso il proprio convincimento sull’inquadramento del fatto attribuito, concludendo per la configurabilità di un’ipotesi di reato più grave e comprensiva di una condotta di violenza successiva e distinta rispetto a quella furtiva, in origine contestata, attribuita ad uno dei compartecipi, ma giudicata riferibile anche agli altri due concorrenti ai sensi dell’art. 116 cod. pen., «sembra configurare un’ipotesi di pre-giudizio del giudice monocratico inizialmente investito del rito direttissimo, tale da inficiarne, quanto meno sul piano potenziale, l’imparzialità».

Il collegio, inoltre, ritiene rilevante il dubbio di costituzionalità prospettato in quanto un’eventuale pronunzia di illegittimità costituzionale della norma censurata imporrebbe al giudice di astenersi dal partecipare al giudizio, quale componente dell’organo collegiale, con conseguente designazione di un altro magistrato che non versi in condizione di incompatibilità; in tal modo, ad avviso del giudice a quo, si eliminerebbero i pregiudizi derivanti dal vulnus all’imparzialità e terzietà del collegio investito del processo.



Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di La Spezia, in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio, quale componente del Tribunale in composizione collegiale, del giudice che, in precedenza investito del giudizio direttissimo conseguente ad arresto in flagranza di reato per lo stesso fatto nei confronti delle stesse persone, all’esito del giudizio di convalida e di applicazione di misura cautelare personale, abbia diversamente qualificato il reato originariamente contestato e, sulla base di tale diversa qualificazione, abbia dichiarato il proprio difetto di cognizione in favore del Tribunale collegiale.

Il rimettente riferisce che, a seguito dell’arresto in flagranza di tre persone, per il reato di furto aggravato in concorso, ai sensi degli articoli 110, 624, 625, nn. 2, 5 e 7, del codice penale, il Tribunale di La Spezia, in composizione monocratica, era stato investito del procedimento a carico dei predetti imputati con rito direttissimo, ai sensi degli artt. 449 e 558 cod. proc. pen.

Nel corso del giudizio di convalida e di applicazione delle misure cautelari, il giudice monocratico convalidava l’arresto, applicava la misura della custodia cautelare in carcere e, ravvisato il diverso e più grave reato di rapina impropria aggravata in concorso, dichiarava il proprio difetto di cognizione, ai sensi dell’art. 33-septies cod. proc. pen., in favore del tribunale in composizione collegiale, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero. Ciò perché, a suo avviso, la condotta tenuta da uno degli imputati, a seguito dell’azione furtiva consistita nell’ingaggiare una colluttazione con un carabiniere, dopo essersi dato alla fuga, integrava gli estremi del reato di rapina impropria. Inoltre, aveva statuito che analogo titolo di reato dovesse essere ascritto agli altri due compartecipi, ai sensi dell’art. 116 cod. pen.; infine, aveva configurato l’aggravante prevista dall’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., poiché il reato era stato commesso da più persone riunite.

Pertanto i tre arrestati erano stati presentati, nelle forme del rito direttissimo, innanzi al Tribunale in composizione collegiale, tra i cui componenti vi era lo stesso giudice monocratico - persona fisica che aveva convalidato l’arresto, applicato la misura cautelare e che, avendo ravvisato una diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, aveva dichiarato il proprio difetto di cognizione, ai sensi dell’art. 33-septies cod. proc. pen.

Il giudice a quo, pur non ignorando il consolidato orientamento della Corte costituzionale, secondo cui non sussiste l’incompatibilità del giudice che abbia convalidato l’arresto e che, all’atto della convalida, abbia applicato una misura cautelare, a partecipare al successivo giudizio direttissimo, osserva come il caso, nella specie, sia diverso in quanto il giudice monocratico, in origine investito del giudizio, ha ex officio delibato la questione in termini di inquadramento del fatto per cui si procede in altra, diversa e più gravemente sanzionata ipotesi di reato.

Ravvisa, quindi, la violazione degli artt. 24, 25 e 111 Cost., in quanto il giudice monocratico avrebbe espresso una valutazione nel merito del thema decidendi, delibando in fatto ed in diritto le emergenze procedimentali. Ritiene sussistente, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad altre ipotesi assimilabili a quella in esame, di cui alle sentenze di questa Corte nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992.

Il rimettente, infine, motiva in modo plausibile sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza.

2. — La questione non è fondata.

Si deve osservare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le norme sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste a tutela dei valori costituzionali della terzietà e della imparzialità della giurisdizione, «risultando finalizzate ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda» (sentenza n. 224 del 2001).

In particolare, l’imparzialità del giudice, ponendosi quale espressione del principio del giusto processo, è perciò «connaturata all’essenza della giurisdizione e richiede che la funzione di giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasioni di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza» (sentenza n. 155 del 1996).

La Corte, soffermandosi sui presupposti della incompatibilità endoprocessuale, ha statuito che «[…] il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res judicanda.[…] In secondo luogo – per quanto l'architettura del nuovo rito penale richieda che le conoscenze probatorie del giudice si formino nella fase del dibattimento – rilevante ai fini della incompatibilità non è la semplice “conoscenza” di atti anteriormente compiuti, riguardanti il processo: l'incompatibilità sorge quando il giudice sia stato chiamato a compiere una “valutazione” di essi, al fine di una decisione.[…] In terzo luogo, non tutte le valutazioni anzidette danno luogo a un pregiudizio rilevante ma solo quelle "non formali, di contenuto", cosicché le condizioni dell'incompatibilità si determinano quando il giudice si sia pronunciato su aspetti che riguardano il merito dell'ipotesi d'accusa, ma non anche quando abbia preso determinazioni soltanto in ordine allo svolgimento del processo, sia pure in seguito a una valutazione delle risultanze processuali […]» (sentenza n. 131 del 1996).

Ciò premesso, va rilevato che nel giudizio a quo la più grave qualificazione giuridica attribuita dal giudice monocratico al fatto, in sede di convalida dell’arresto ed applicazione di misura cautelare, come riferito dallo stesso rimettente, è avvenuta sulla base «di una valutazione incidentale del giudice monocratico», che non è scesa nel merito delle risultanze processuali.

Invero, alla luce degli anzidetti principi, la diversa e più grave qualificazione giuridica del fatto, fondata soltanto sulla valutazione degli atti del fascicolo, effettuata in sede di udienza di convalida e di applicazione di misura cautelare e, quindi, basata sul medesimo materiale processuale utilizzato per formulare l’originaria imputazione e per richiedere la misura restrittiva della libertà personale, non è di per sé idonea ad integrare il carattere di una valutazione non formale, ma di contenuto, come indicato nella sentenza da ultimo citata.

Detta qualificazione, in quanto posta in essere allo stato degli atti, si è risolta in una valutazione astratta delle risultanze processuali che, dunque, non ha implicato «valutazioni contenutistiche della consistenza dell’ipotesi accusatoria» (sentenza n. 401 del 1991).

Il dato che il rappresentante della pubblica accusa abbia omesso di considerare l’elemento della violenza, risultante dagli atti processuali anche nella disponibilità del giudice monocratico, trascurando di contestare il più grave reato di rapina impropria e così lasciando al giudice il potere di attribuire al fatto un nomen iuris diverso in base al principio iura novit curia, non integra una situazione idonea a pregiudicare la successiva fase del giudizio.

Nel caso di specie, pertanto, nessuna menomazione dell’imparzialità del giudice può essere ravvisata in relazione alla valutazione degli atti del processo da cui è derivata la diversa qualificazione giuridica del fatto, in quanto essa non ha riguardato il merito dell’accusa, ma è consistita nel ricondurre il caso concreto nella fattispecie astratta di cui all’art. 628, commi secondo e terzo, n. 1, cod. pen.

La questione sollevata dal Tribunale di La Spezia non è fondata anche con riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost.

Il giudice a quo afferma che la mancata previsione della causa di incompatibilità indicata viola il principio di uguaglianza in quanto non vi sarebbe «parità di trattamento normativo» con altre situazioni simili, cioè quelle oggetto delle sentenze della Corte nn. 455 e 453 del 1994 e n. 399 del 1992, che hanno introdotto nuove ipotesi di incompatibilità alla funzione del giudizio.

Ebbene, è agevole rilevare che le situazioni esaminate nelle pronunzie ora citate e quelle oggetto della questione sollevata dal suddetto Tribunale non sono omogenee.

Ciò che accomuna le richiamate situazioni a quella oggetto del presente scrutinio di legittimità costituzionale, ad avviso del rimettente, è il fatto che si tratta di ipotesi in cui il giudice, in uno stadio anteriore del procedimento, si sia espresso sulla qualificazione giuridica del fatto.

Si deve, al contrario, rilevare che nelle tre pronunzie sopra indicate le situazioni idonee a pregiudicare l’imparzialità concernono casi in cui il giudice ha adottato decisioni attinenti al merito dell’accusa ed intervenute all’esito di una valutazione complessiva dei dati probatori raccolti in dibattimento (sentenza n. 455 del 1994); o ancora, assunte a seguito di una valutazione complessiva delle indagini preliminari che ha comportato il rigetto della domanda di oblazione o di applicazione di pena concordata (sentenze n. 453 del 1994 e n. 399 del 1992).

In questi casi ciò che ha condotto a ravvisare la situazione di incompatibilità non è stata la valutazione sulla diversa qualificazione giuridica, quanto piuttosto il fatto che tale diversa qualificazione è derivata da un apprezzamento approfondito di elementi concernenti il merito dell’accusa; ovvero, perché il magistrato ha compiuto «una piena delibazione del merito della regiudicanda, con la conseguenza che un dibattimento bis non può non essere attribuito alla cognizione di altro soggetto, a garanzia della imparzialità e serenità di giudizio» (sentenza n. 400 del 2008).

Nella sentenza da ultimo citata, infatti, la Corte ha affermato la sussistenza della incompatibilità alla trattazione dell’udienza preliminare del giudice che abbia ordinato, all’esito di precedente dibattimento, riguardante lo stesso fatto storico a carico del medesimo imputato, la trasmissione degli atti al pubblico ministero a norma dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. Anche in tale caso, dunque, diversamente da quello in esame, l’intervento del giudice sulla qualificazione del fatto è avvenuto all’esito di una approfondita valutazione degli elementi concernenti il merito dell’accusa.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione dal Tribunale di La Spezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA

SENTENZA N. 176 ANNO 2010

SENTENZA N. 176 ANNO 2010
Lavoro e occupazione - Modifiche all'art. 49 del d.lgs. n. 276/2003, concernente la disciplina del contratto di apprendistato - Intervento sulla durata dell'apprendistato professionalizzante - Attribuzione alla fonte contrattuale della regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato professionalizzante, in luogo della fonte regionale - Lamentata interferenza nella materia di competenza regionale della formazione professionale, carenza di coinvolgimento regionale, inesistenza dei presupposti per la chiamata in sussidiarietà da parte dello Stato. Modifiche all'art. 50 del d.lgs. n. 276/2003, concernente la disciplina del contratto di apprendistato - Apprendistato per l'acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione - Inserimento del dottorato di ricerca tra i titoli di studio che possono essere acquisiti con tale tipologia di contratto - Attivazione dell'apprendistato attraverso apposite convenzioni tra datori di lavoro e Università o altre istituzioni formative - Mancato coinvolgimento delle Regioni.

Sentenza 176/2010
Giudizio

Presidente AMIRANTE - Redattore FINOCCHIARO

Udienza Pubblica del 01/12/2009 Decisione del 10/05/2010
Deposito del 14/05/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 23, c. 1°, 2°, 3° e 4° del decreto legge 25/06/2008, n. 112, convertito con modificazioni in legge 06/08/2008, n. 133.
Massime:

Titoli:
Atti decisi: ric. 69, 70, 72, 74, 76, 80, 82, 85 e 87/2008


SENTENZA N.176

ANNO 2010




REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 1, 2, 3 e 4 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, in legge con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, promossi dalle Regioni Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Toscana, Basilicata, Piemonte, Marche, Puglia e Lazio con ricorsi notificati il 20 ottobre 2008, depositati in cancelleria il 22, il 24, il 28, il 29 ed il 30 ottobre 2008, e rispettivamente iscritti ai nn. 69, 70, 72, 74, 76, 80, 82, 85 e 87 del registro ricorsi 2008.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2009 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

uditi gli avvocati Luigi Manzi per le Regioni Emilia-Romagna, Veneto e Liguria, Lucia Bora per la Regione Toscana, Angelo Pandolfo per le Regioni Piemonte e Marche, Valerio Speziale per la Regione Puglia e l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.



Ritenuto in fatto

1. – Con distinti ricorsi, nove Regioni e, precisamente, Emilia-Romagna (reg. ric. n. 69 del 2008), Veneto (reg. ric. n. 70 del 2008), Liguria (reg. ric. n. 72 del 2008), Toscana (reg. ric. n. 74 del 2008), Basilicata (reg. ric. n. 76 del 2008), Piemonte (reg. ric. n. 80 del 2008), Marche (reg. ric. n. 82 del 2008), Puglia (reg. ric. n. 85 del 2008) e Lazio (reg. ric. n. 87 del 2008) hanno impugnato in via principale, fra l’altro, i commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 23, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, in legge con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nella parte in cui modificano gli articoli 49 e 50 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30).

Va premesso che, con atto notificato il 9 gennaio 2009, la Regione Veneto – che era l’unica ad avere impugnato il comma 3 del citato art. 23 – ha rinunciato al ricorso e il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha accettato tale rinuncia con atto del 24 gennaio 2009.

2. – La Regione Toscana ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del decreto-legge n. 112 del 2008, nella parte in cui ha modificato l’articolo 49 del d.lgs. n. 276 del 2003, stabilendo che l’apprendistato professionalizzante non può comunque essere superiore a sei anni, per violazione dell’art. 117 della Costituzione.

La ricorrente osserva che, con la modifica introdotta, viene eliminata la previsione, precedentemente contenuta nell’art. 49 citato, secondo cui l’apprendistato professionalizzante non può essere inferiore a due anni, con pregiudizio alla possibilità di programmazione e gestione della formazione per contratti di durata inferiore a tale limite, con la conseguenza che l’eliminazione operata incide sulle attribuzioni regionali in materia di formazione professionale, perché, con contratti di breve durata, la formazione non può essere programmata, né assicurata. Per questo la disposizione, che irragionevolmente ha operato la prevista eliminazione, appare costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117 Cost.

2.1. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, non essendo indicato sotto quale profilo verrebbe lesa la competenza regionale, e, in particolare, se la norma censurata incida su materie di legislazione esclusiva o concorrente della Regione.

Nel merito, secondo la difesa dello Stato, la questione sollevata è, comunque, infondata in quanto la norma oggetto di impugnazione consente alle parti sociali – cui risultava già affidata la determinazione della durata del contratto – di stabilire una durata del contratto anche inferiore a due anni se funzionale alle esigenze del settore o alle caratteristiche del percorso formativo, con la conseguenza che non sarebbe lesa la competenza regionale che, se del caso, può parametrare la propria regolamentazione per i profili di sua competenza al nuovo limite di durata.

3. – Le Regioni Toscana, Piemonte, Marche, Emilia-Romagna, Liguria, Lazio, Puglia, Basilicata hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 112 del 2008, nella parte in cui inserisce il comma 5-ter nell’art. 49 del d.lgs. n. 276 del 2003, stabilendo che, in caso di formazione esclusivamente aziendale, la regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato professionalizzante non è definita dalle Regioni d’intesa con le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, ma dai contratti collettivi di lavoro, per violazione degli artt. 117, 120, 118 e 39 della Costituzione.

3.1. – Con riferimento all’art. 117 Cost., le Regioni Toscana, Piemonte, Marche, Emilia-Romagna, Liguria, Puglia e Basilicata affermano che la norma in esame assegna alla contrattazione collettiva la funzione di fonte esclusiva, in luogo di quella regionale, anche nella definizione della nozione di formazione aziendale, dei profili formativi, delle modalità di erogazione, della durata della formazione, nel riconoscimento della qualifica professionale e ciò pur in presenza di una compiuta disciplina regionale.

Osservano, poi le ricorrenti che la nuova formulazione dell’articolo 117 Cost. attribuisce la formazione professionale alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni, affidando alle stesse una competenza generale su tutto ciò che attiene agli aspetti formativi, senza necessità di distinguere tra formazione pubblica esterna e formazione privata aziendale. Quest’ultima, infatti, è sempre connessa ad un profilo di crescita e di qualificazione delle conoscenze del lavoratore che non può non essere ricompresa nell’ambito della formazione propriamente detta, cui fa riferimento il testo costituzionale.

La norma impugnata – sostengono le ricorrenti – si riferisce alla distinzione, operata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 50 del 2005, tra formazione «interna» all’azienda, che attiene al rapporto contrattuale ed è rimessa alla competenza statale, e formazione «esterna» all’azienda, da ricondurre ai profili «pubblicistici» dell’istituto, soggetta alla competenza concorrente delle Regioni.

Tuttavia, la norma non tiene conto delle strette interrelazioni che vi sono tra l’aspetto della formazione esterna e quello della formazione interna. A tale proposito la Corte costituzionale, con la stessa sentenza n. 50 del 2005, ha rilevato che «se è vero che la formazione all’interno delle aziende inerisce al rapporto contrattuale, sicché la sua disciplina rientra nell’ordinamento civile, e che spetta invece alle Regioni e alle Province autonome disciplinare quella pubblica, non è men vero che nella regolamentazione dell’apprendistato né l’una né l’altra appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro e da altri aspetti dell’istituto. Occorre perciò tener conto di tali interferenze».

3.1.1. – Secondo la difesa dello Stato, invece, la questione non sarebbe fondata in quanto la formazione professionale che la Costituzione riserva alle Regioni è esclusivamente quella pubblica o esterna, «da impartire o negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie regionali, sia in organismi privati con cui siano stipulati accordi ma, in ogni caso, al di fuori rispetto all’ambito aziendale» (sentenza n. 50 del 2005).

Per contro, la formazione che si svolge all’interno dell’azienda, per la sua diretta attinenza con il sinallagma contrattuale, rientra nella materia «ordinamento civile» ex art. 117, lett. 1), Cost., completamente sottratta, in linea di principio, alla regolamentazione regionale.

Nel caso di specie la disposizione impugnata incide sulla disciplina dell’apprendistato professionalizzante ovvero volto ad una qualificazione di tipo contrattuale, disciplinata dai contratti collettivi e, in quanto tale, rientrante nella materia dell’ordinamento civile ex art. 117 Cost., del tutto estranea, pertanto, all’ordinamento delle professioni – oggetto di potestà concorrente – di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

3.2. – Quanto all’art. 120 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, le Regioni Marche, Piemonte, Veneto, Basilicata e Puglia osservano che la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2007 ribadisce che quando sussiste «un’interferenza di materie, riguardo alle quali esistono competenze legislative diverse» è necessario procedere alla loro composizione con «gli strumenti della leale collaborazione o, qualora risulti la prevalenza di una materia sull’altra, (con) l’applicazione del criterio appunto di prevalenza».

Rileva, in particolare, la Regione Puglia che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 50 del 2005, ha affermato che in tema di crediti formativi e di qualifiche professionali deve essere assicurato il coinvolgimento delle Regioni, con strumenti opportuni che garantiscano l’esercizio della «leale collaborazione».

La disposizione impugnata, al contrario, non prevede alcuna forma di partecipazione delle Regioni per quanto riguarda le modalità di riconoscimento della qualifica professionale (rimessa esclusivamente alle parti sociali tramite enti bilaterali o atti di autonomia collettiva) e questa omissione si riflette anche sulla disciplina del riconoscimento dei crediti formativi. Infatti, «la qualifica professionale conseguita attraverso il contratto di apprendistato costituisce credito formativo per il proseguimento nei percorsi di istruzione e di formazione professionale (art. 51, d.lgs. n. 276 del 2003). Se, dunque, le Regioni non possono incidere sui criteri di definizione delle qualifiche professionali, questa esclusione si riflette indirettamente sulle modalità di riconoscimento dei crediti stessi, rispetto ai quali la Regione ha un diritto/dovere di «intesa» (ai sensi dell’art. 52, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003). In sostanza, l’art. 23, comma 2, della legge n. 133 del 2008 inibirebbe alle Regioni la partecipazione alla definizione di aspetti essenziali della formazione che, al contrario, la Corte costituzionale ritiene debbano vedere l’attiva partecipazione delle stesse.

3.2.1. – Secondo l’Avvocatura dello Stato, invece, se è vero che nell’attuale assetto del mercato del lavoro la disciplina dell’apprendistato si colloca all’incrocio di una pluralità di competenze, esclusive dello Stato (ordinamento civile, ma anche determinazione dei livelli essenziali dell’istruzione e delle norme generali in materia, ove l’apprendistato sia indirizzato all’assolvimento dell’obbligo scolastico), residuali delle Regioni (istruzione e formazione professionale), concorrenti di Stato e Regioni (tutela del lavoro, istruzione), è anche vero che, in alternativa al principio di leale collaborazione, la Corte ha altresì indicato, quale possibile criterio dirimente, quello della prevalenza della materia al fine di fondarne la rispettiva competenza. In tal senso è la sentenza n. 24 del 2007, secondo cui «È pur vero che in materia di apprendistato professionalizzante si è rilevata (anche) una interferenza di materie riguardo alle quali esistono competenze legislative diverse, alla cui composizione provvedono, quando possibile, gli strumenti di leale collaborazione o, qualora risulti la prevalenza di una materia sull’altra, l’applicazione del criterio appunto di prevalenza». In ogni caso, se è vero che, come afferma la Corte costituzionale, le molteplici interferenze di materie diverse non consentono la soluzione delle questioni sulla base di criteri rigidi, tuttavia è vero altresì che «la riserva alla competenza legislativa regionale della materia formazione professionale non può escludere la competenza dello Stato a disciplinare l’apprendistato per i profili inerenti a materie di sua competenza» (sentenza n. 50 del 2005).

In perfetta coerenza con tali principi, la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 23 del decreto-legge 112 del 2008 sarebbe volta a disciplinare, nell’ambito del contratto di apprendistato professionalizzante, solo la «formazione esclusivamente aziendale», rimettendo per tale limitata ipotesi i profili formativi alla regolamentazione che le è propria, ovvero a quella collettiva. Nella specie, pertanto, la disposizione censurata inciderebbe su profili strettamente attinenti all’ambito riservato in via esclusiva alla competenza statale – ovvero alla disciplina che i privati datori di lavoro possono impartire all’interno dell’azienda ai propri dipendenti – senza che sia dato ravvisare quelle interferenze con ambiti regionali, con la conseguente insussistenza della violazione delle disposizioni costituzionali richiamate ex adverso ma anche della prospettata violazione del principio di leale collaborazione, considerato che, venendo in rilievo la formazione esclusivamente endo-aziendale, non viene attribuita alle parti sociali e agli enti bilaterali alcuna competenza propria delle Regioni.

Del resto, quanto affermato dalla Corte costituzionale, con la già ricordata sentenza n. 50 del 2005 – secondo cui nella regolamentazione dell’apprendistato la formazione interna e la formazione esterna non appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro – varrebbe ovviamente solo per il canale formativo delineato nell’articolo 49, comma 5, là dove l’operatività del canale sussidiario aperto dal comma 5-ter vale espressamente e tassativamente per la formazione «esclusivamente aziendale» e, dunque, soltanto quando i due profili formativi (interno ed esterno) sono nettamente separati, con la conseguente esclusione di qualsivoglia sconfinamento nell’ambito di competenze regionali. Da un lato, infatti, con il censurato art. 23, comma 2, non si procede ad alcuna modifica della normativa preesistente, restando immutato il comma 5 dell’art. 49 del d.lgs. n. 276 del 2003; dall’altro, con l’introduzione del successivo comma 5-ter, si tende a creare un canale parallelo, sommando all’offerta pubblica un’offerta formativa privata in regime di piena sussidiarietà, al solo fine di rendere maggiormente effettiva la formazione nel contratto di apprendistato professionalizzante.

3.3. – Secondo le Regioni Toscana e Basilicata, il comma 2 impugnato non è conforme neppure all’art. 118 Cost., perché i profili in esame non vengono attratti allo Stato per esigenze di carattere unitario, ma sono sottratti alla potestà regionale per essere affidati alla regolamentazione dei contratti collettivi.

Secondo la Regione Lazio, la norma impugnata viola l’art. 118 Cost. in quanto si pone in contrasto con il regolamento regionale 21 giugno 2007 n. 7 (attuativo della citata legge regionale n. 9 del 2006), le cui previsioni risultano incompatibili con la nuova disciplina statale, perpetrandosi per questo aspetto una ulteriore violazione della competenza normativa regionale, sia sotto il profilo legislativo che regolamentare.

3.3.1. – Per l’Avvocatura dello Stato, una volta riconosciuta la competenza esclusiva dello Stato a disciplinare la materia dell’apprendistato all’interno dell’azienda, o perché si rientra pienamente nella materia dell’ordinamento civile o perché quest’ultima è comunque prevalente, ne discende, quale diretta conseguenza, l’insussistenza di qualsivoglia sconfinamento nell’ambito di competenze regionali quanto al principio di sussidiarietà.

3.4. – Secondo le Regioni Emilia-Romagna e Liguria, la norma di cui all’art. 23, comma 2, si pone altresì in contrasto con l’art. 39 della Costituzione, in quanto il contratto collettivo di lavoro ha efficacia generale solo se il sindacato è registrato e, quindi, data la non attuazione dell’art. 39 Cost., il contratto collettivo non può avere efficacia generale.

Osservano le due Regioni che la questione si è già posta (non essendo una novità che il legislatore rinvii ai contratti collettivi di lavoro per l’integrazione della propria disciplina) e che, in passato, la Corte costituzionale ha sottolineato l’illegittimità di leggi del genere, e le ha giustificate solo «quando si tratta di materie del rapporto di lavoro che esigono uniformità di disciplina in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro, come il lavoro a tempo parziale (...), i contratti di solidarietà, la definizione di nuove ipotesi di assunzione a termine» (sent. n. 344 del 1996).

Dal momento che i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante di certo non rappresentano una materia che esige una disciplina uniforme per gli interessi del mercato del lavoro, la «delega di funzioni paralegislative» (per usare un’espressione della sentenza n. 344 del 1996) ai contratti collettivi – operata dall’art. 23, comma 2 – costituisce una palese violazione dell’art. 39 Cost. e trasforma i contratti stessi (o gli accordi conclusi in sede di ente bilaterale) in una fonte extra-ordinem.

Poiché attraverso questa violazione si produce una menomazione delle competenze regionali (dato che la Regione viene privata di una potestà normativa che prima aveva, anche in relazione alla formazione aziendale, come risulta dall’art. 49, comma 5, del d.lgs. n. 276 del 2003) e poiché si verte in materia di competenza regionale, esisterebbero tutti gli elementi della lesione di competenza indiretta, nel senso che la violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost. si determina attraverso la violazione dell’art. 39 Cost. (vengono richiamate le sentenze n. 206 del 2001, punti 15, 16 e 34, n. 110 del 2001, n. 303 del 2003, punto 35, n. 280 del 2004, n. 355 del 1993). Di qui la legittimazione regionale a far valere la violazione dell’art. 39 e, tramite questa, della propria potestà legislativa in materia di formazione professionale. Del resto, già in un’occasione la Corte ha mostrato di non escludere a priori il riferimento all’art. 39 Cost. in un ricorso regionale (sentenza n. 219 del 1984).

3.4.1. – Secondo l’Avvocatura dello Stato la censura è inammissibile, in quanto dalla stessa prospettazione di cui al ricorso regionale non emerge alcuna attinenza tra il parametro costituzionale invocato (art. 39 Cost.) e la lamentata lesione della competenza regionale prefigurata dall’art. 117, quarto comma, Cost. lesione che «costituisce l’oggetto e il limite dell’impugnazione diretta della Regione» (sentenza n. 219 del 1984). In ogni caso, regolando la norma impugnata la sola formazione di carattere strettamente aziendale, non viene attribuita alle parti sociali e agli enti bilaterali alcuna competenza propria delle Regioni.

3.4.2. – Con memoria depositata il 9 novembre 2009, la Regione Toscana lamenta che la norma impugnata vanifica la già esistente normativa della Regione Toscana, che ha disciplinato i profili formativi, la nozione di formazione aziendale, le modalità di erogazione, la durata, il riconoscimento della qualifica professionale.

Con distinte memorie depositate entrambe il 18 novembre 2009, la Regione Liguria e la Regione Emilia-Romagna contestano quanto affermato dall’Avvocatura dello Stato, ossia che non sussisterebbe alcuna attinenza tra il parametro di cui all’art. 39 Cost. e la lamentata lesione della competenza regionale. Infatti, la lesione dell’art. 117 si determina attraverso la lesione dell’art. 39 Cost. Inoltre vi sono profili, quali «le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali» e «la registrazione nel libretto formativo» in relazione ai quali la norma impugnata non riguarda propriamente la formazione aziendale.

4. – Le Regioni Piemonte, Marche e Basilicata hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del comma 4 dell’art. 23, che, dopo le parole «e le altre istituzioni formative», aggiunge i seguenti periodi al comma 3 dell’art. 50 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276: «In assenza di regolamentazioni regionali l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione e rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le Università e le altre istituzioni formative. Trovano applicazione per quanto compatibili, i principi stabiliti all’articolo 49, comma 4, nonché le disposizioni di cui all’articolo 53», per violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, di cui all’art. 120 della Costituzione e la menomazione delle potestà legislative esclusive e concorrenti delle Regioni ex art. 117 della Costituzione, come pure della conseguente potestà amministrativa ex art. 118 della Costituzione.

4.1. – L’art. 23, comma 4, del decreto-legge n. 112 del 2008 elimina dunque l’obbligo – inizialmente previsto dal comma 3 – di sottoscrivere un’intesa con le Regioni per poter utilizzare il contratto di apprendistato di alta formazione.

L’eliminazione dell’obbligo della preventiva intesa determina l’illegittimità costituzionale della norma risultante, in quanto proprio tale obbligo era stato identificato dalla sentenza n. 50 del 2005 come strumento di attuazione del principio di leale collaborazione.

Con riferimento a questa forma di apprendistato si stabilisce addirittura il principio che l’intero percorso formativo – tanto quello svolto in azienda, quanto quello svolto all’esterno dell’azienda – può essere regolato da fonti diverse dalla norma regionale.

4.2. – Secondo l’Avvocatura dello Stato la censura è infondata, in quanto pur con la disposizione censurata resta fermo il potere della Regione di intervenire in qualsiasi momento a regolamentare l’istituto sulla base delle potestà ad essa riconosciuta dall’art. 50, comma 3, prima parte, del d.lgs. n. 276 del 2003.



Considerato in diritto

1. – Con distinti ricorsi, nove Regioni e, precisamente, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Toscana, Basilicata, Piemonte, Marche, Puglia e Lazio hanno impugnato in via principale, fra l’altro, i commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 23 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nella parte in cui modificano gli articoli 49 e 50 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), per violazione degli articoli 39, 117, 118 e 120 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione.

2. – Riservata a separate pronunce ogni decisione in ordine alle altre censure sollevate dalle stesse Regioni nei confronti della normativa citata, tutti i giudizi vanno riuniti in quanto, avendo ad oggetto questioni analoghe o connesse, ne risulta opportuna la trattazione unitaria.

3. – La Regione Veneto – che è l’unica ad aver proposto questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 23 del decreto-legge n. 112 del 2008 – con atto notificato il 9 gennaio 2009 ha rinunciato al ricorso e il Presidente del Consiglio dei Ministri ha accettato la rinuncia con atto del 24 gennaio 2009.

Il relativo processo va, pertanto, dichiarato estinto per rinuncia.

4. – L’art. 23 del decreto-legge n. 112 del 2008, introduce una serie di modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato.

Il comma 1 di tale articolo ha modificato il testo originario dell’art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, per il quale la durata del contratto di apprendistato professionalizzante non poteva essere «inferiore a due anni e superiore a sei», stabilendo che il predetto contratto non può avere una durata «superiore a sei anni», e così eliminando la previsione della durata minima.

La Regione Toscana dubita della legittimità costituzionale della modifica, per violazione dell’art. 117 della Costituzione, in quanto l’eliminazione di un termine minimo di durata inciderebbe sulle attribuzioni regionali in materia di formazione professionale, impedendo la programmazione della formazione stessa.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, nel costituirsi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità della questione proposta, per non avere la ricorrente precisato se la norma censurata incida su materia di competenza esclusiva o concorrente della Regione, nonché la sua infondatezza nel merito, dal momento che la norma impugnata consente alle parti di stabilire una durata del contratto anche inferiore a due anni se funzionale alle esigenze del settore o alle caratteristiche del percorso formativo.

4.1. – La questione è ammissibile – dovendo ritenersi che la Regione abbia implicitamente invocato la propria competenza esclusiva in tema di formazione professionale – ma non è fondata.

La norma oggi impugnata consente alle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro la conclusione di contratti di apprendistato di durata fino a sei anni, laddove la precedente consentiva tali contratti solo se fossero stati di durata compresa fra i due e i sei anni. La legge non riduce automaticamente i tempi della formazione professionale, ma attribuisce la facoltà, prima non consentita, di concludere contratti fino a due anni, senza eliminare la possibilità di concluderne anche di durata superiore. Saranno dunque le parti sociali – cui risultava già affidata la determinazione della durata del contratto – a stabilirne una anche inferiore a due anni se funzionale alle esigenze del settore o alle caratteristiche del percorso formativo. Vi sono, infatti, figure professionali per le quali un contratto di apprendistato di durata inferiore ai due anni può considerarsi sufficiente.

Non è tuttavia lesa la competenza delle Regioni, le quali possono, come prima, contribuire alla disciplina della formazione professionale, dettando norme che prevedano, per il conseguimento di determinate qualifiche professionali, una durata del rapporto non inferiore a due anni.

Non va, infatti, dimenticato che da quando, con decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469 (Conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro, a norma dell'articolo 1 della L. 15 marzo 1997, n. 59), sono stati istituiti i servizi regionali per l’impiego, tra loro coordinati nell’ambito del “sistema informativo lavoro” (SIL), le Regioni esercitano importanti funzioni di programmazione, monitoraggio e verifica nell’ambito del mercato del lavoro di rispettiva competenza e, quindi, anche sui contratti di apprendistato. Questa situazione è stata presa in considerazione nell’ambito del d.lgs. n. 276 del 2003 che, da un lato, ha previsto un incisivo coinvolgimento delle Regioni per quel che riguarda la stessa definizione di «libretto formativo del cittadino» (art. 2, comma 1, lettera i, d.lgs. n. 276 del 2003, sulla base del quale è stato emanato il decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 10 ottobre 2005, recante «Approvazione del modello di libretto formativo del cittadino, ai sensi del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 2, comma 1, lettera i») e, dall’altro lato, all’art. 51, dopo aver stabilito che «la qualifica professionale conseguita attraverso il contratto di apprendistato costituisce credito formativo per il proseguimento nei percorsi di istruzione e di istruzione e formazione professionale» (comma 1), ha precisato che le Regioni devono partecipare alla definizione delle modalità di riconoscimento dei suddetti crediti formativi (comma 2).

Su tali funzioni regionali il decreto-legge n. 112 del 2008 non ha influito ed esso, anzi, si può dire le abbia date per acquisite, come si desume sia dal fatto che, con riferimento al nuovo “canale” di accesso al contratto di apprendistato professionalizzante introdotto dal comma 5-ter dell’art. 49, si è richiamata tout court la registrazione nel libretto formativo (che, a sua volta, per la mansione svolta, rinvia alla qualifica SIL), sia dalla circostanza che l’art. 40, comma 4, del decreto-legge n. 112 del 2008 ha modificato l’art. 9, comma 6, della legge 12 marzo 1999, n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), in materia di avviamento al lavoro dei disabili, proprio nel senso di valorizzare la necessità di «assicurare l’unitarietà e l’omogeneità del sistema informativo lavoro» e di potenziare il coinvolgimento delle Regioni in materia, attraverso lo strumento dell’intesa (potenziamento che è divenuto ancora più incisivo dopo l’ulteriore modifica del suddetto comma 6 ad opera dell’art. 6, comma 5, della legge 23 luglio 2009, n. 99).

5. – L’art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 112 del 2008 ha aggiunto all’art. 49 del d.lgs. n. 276 del 2003 il seguente comma: «5-ter. In caso di formazione esclusivamente aziendale non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bilaterali. I contratti collettivi e gli enti bilaterali definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della formazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo».

Questa disposizione – che dichiara inoperante la previsione del precedente comma 5 dello stesso articolo per il quale «la regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato professionalizzante è rimessa alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano, d’intesa con le associazioni dei datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano regionale» – è stata impugnata dalle Regioni Toscana, Piemonte, Marche, Emilia-Romagna, Liguria, Lazio, Puglia, Basilicata per violazione: a) dell’art. 117 Cost. in quanto non prenderebbe in considerazione le strette interrelazioni che vi sono tra l’aspetto della formazione pubblica e quello della formazione interna, delle quali occorre tenere conto, come rilevato dalla sentenza n. 50 del 2005 di questa Corte; b) dell’art. 120 Cost. e del principio di leale collaborazione, in quanto, quando sussiste – come nella specie – un’interferenza di materie, riguardo alle quali esistono competenze legislative diverse, è necessario procedere alla loro composizione con gli strumenti della leale collaborazione; c) dell’art. 118 Cost., non sussistendo alcuna esigenza di carattere unitario che imponga una disciplina statale dell’apprendistato professionalizzante all’interno dell’azienda, che lo sottragga alla potestà regionale per affidarlo alla regolamentazione dei contratti collettivi; d) nonché dell’art. 39 Cost. in quanto il contratto collettivo di lavoro ha efficacia generale solo se il sindacato è registrato e, quindi, data la non attuazione dell’art. 39 Cost., il contratto collettivo non può avere efficacia generale.

6. – Con riferimento alla violazione dell’art. 117 Cost., le Regioni Toscana, Piemonte, Marche, Emilia-Romagna, Liguria, Puglia e Basilicata affermano che la norma in esame assegna alla contrattazione collettiva la funzione di fonte esclusiva, in luogo di quella regionale, anche nella definizione della nozione di formazione aziendale, senza tenere presente che la norma costituzionale attribuisce la formazione professionale alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni, affidando alle stesse una competenza generale su tutto ciò che attiene agli aspetti formativi, non operando alcuna distinzione tra formazione pubblica esterna e formazione privata aziendale. La nuova normativa accredita invece la possibilità che la formazione sia «esclusivamente aziendale» e, con riferimento all’atteggiarsi in questo modo della formazione relativa all’apprendistato, rimette «integralmente» ai contratti collettivi – siano essi nazionali, territoriali o solo aziendali – o agli enti bilaterali – organismi privati istituiti dalla contrattazione collettiva – la definizione dei «profili formativi»; assegnando alla contrattazione collettiva il compito di definire la nozione di formazione aziendale e, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della formazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo.

Tuttavia la norma non tiene conto delle strette interrelazioni che vi sono tra l’aspetto della formazione esterna, da ricondurre ai profili «pubblicistici» dell’istituto e soggetta alla competenza delle Regioni, e quello della formazione interna, che attiene al rapporto contrattuale ed è rimessa alla competenza statale, come rilevato dalla sentenza n. 50 del 2005 di questa Corte, la quale ha affermato la conformità a Costituzione di alcune disposizioni normative del d.lgs. n. 276 del 2003 sopra richiamato, con riguardo all’apprendistato professionalizzante, proprio per la previsione del coinvolgimento delle Regioni (chiamate a stipulare un’intesa con le associazioni di datori e prestatori di lavoro) nella regolamentazione dei profili formativi, con la conseguenza che la soluzione dovrebbe essere di segno contrario, in mancanza di tale coinvolgimento.

Rileva, in particolare, la Regione Lazio che la norma impugnata incide direttamente sul contenuto della disciplina già dettata con la legge regionale 10 agosto 2006, n. 9 (Disposizioni in materia di riforma dell’apprendistato), la quale: a) prevede che i profili formativi attinenti all’apprendistato sono definiti con deliberazione della giunta regionale previo accordo con le associazioni di categoria (art. 2); b) fornisce la definizione della nozione di formazione formale, stabilendo contestualmente le modalità di svolgimento della formazione formale interna (art. 5).

Secondo la difesa dello Stato, invece, la disposizione in esame è pienamente coerente con il disegno costituzionale in materia, in quanto la formazione professionale che la Costituzione riserva alle Regioni è esclusivamente quella pubblica o esterna (sentenza n. 50 del 2005), mentre quella che si svolge all’interno dell’azienda rientra nella materia «ordinamento civile» ex art. 117, lett. 1), Cost., sottratta alla regolamentazione regionale.

7. – Con riferimento alla violazione dell’art. 120 Cost. e al principio di leale collaborazione, le Regioni Marche, Piemonte, Veneto, Basilicata e Puglia osservano che, quando sussiste «un’interferenza di materie, riguardo alle quali esistono competenze legislative diverse», è necessario procedere alla loro composizione con «gli strumenti della leale collaborazione o, qualora risulti la prevalenza di una materia sull’altra, con l’applicazione del criterio appunto di prevalenza» (sentenza n. 24 del 2007).

Afferma in particolare la Regione Puglia che, in tema di crediti formativi e di qualifiche professionali, deve essere assicurato il coinvolgimento delle Regioni, con strumenti opportuni che garantiscano l’esercizio della «leale collaborazione» (sentenza n. 50 del 2005), mentre la disposizione impugnata, al contrario, non prevede alcuna forma di partecipazione delle Regioni per quanto riguarda le modalità di riconoscimento dalla qualifica professionale. In sostanza, l’art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 112 del 2008 inibisce alle Regioni la partecipazione alla definizione di aspetti essenziali della formazione che, al contrario, questa Corte riterrebbe debbano vedere l’attiva partecipazione delle stesse.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, in ipotesi di pluralità di competenze (esclusive e concorrenti) dello Stato e delle Regioni, in alternativa al principio di leale collaborazione, si può applicare, quale possibile criterio dirimente, quello della prevalenza della materia al fine di fondarne la rispettiva competenza (sentenza n. 24 del 2007). In perfetta coerenza con tali principi, la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 23 del decreto-legge n. 112 del 2008 sarebbe volta a disciplinare, nell’ambito del contratto di apprendistato professionalizzante, solo la formazione esclusivamente aziendale, rimettendo, per tale limitata ipotesi, i profili formativi alla regolamentazione collettiva. La disposizione censurata inciderebbe su profili strettamente attinenti all’ambito riservato in via esclusiva alla competenza statale senza interferenze con ambiti regionali, con insussistenza della violazione della disposizione costituzionale richiamata e del principio di leale collaborazione, giacché, venendo in considerazione la formazione esclusivamente endo-aziendale, non viene attribuita alle parti sociali e agli enti bilaterali alcuna competenza propria delle Regioni. Ne discende l’esclusione di qualsivoglia sconfinamento nell’ambito di competenze regionali. Da un lato, infatti, con il censurato art. 23, comma 2, non si procede ad alcuna modifica della normativa preesistente, il comma 5 dell’art. 49 d.lgs. n. 276 del 2003 restando immutato; dall’altro, con l’introduzione del successivo comma 5-ter, si tende a creare un canale parallelo, sommando all’offerta pubblica un’offerta formativa privata in regime di piena sussidiarietà, al solo fine di rendere maggiormente effettiva la formazione nel contratto di apprendistato professionalizzante.

8. – La questione è fondata nei limiti di seguito precisati.

La formazione aziendale, come ritenuto dalla citata sentenza di questa Corte n. 50 del 2005, «rientra nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile». Peraltro, nella pronuncia si afferma altresì che «se è vero che la formazione all’interno delle aziende inerisce al rapporto contrattuale, sicché la sua disciplina rientra nell’ordinamento civile, e che spetta invece alle Regioni e alle Province autonome disciplinare quella pubblica, non è men vero che nella regolamentazione dell’apprendistato né l’una né l’altra appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro e da altri aspetti dell’istituto», con la conseguenza che «occorre perciò tener conto di tali interferenze».

Interferenze che sono correlative alla naturale proiezione esterna dell’apprendistato professionalizzante e all’acquisizione da parte dell’apprendista dei crediti formativi, utilizzabili nel sistema dell’istruzione – la cui disciplina è di competenza concorrente – per l’eventuale conseguimento di titoli di studio.

Nella specie, di tali interferenze non si è tenuto conto e ciò determina l’illegittimità costituzionale della norma – per contrasto con gli artt. 117 e 120 Cost. nonché con il principio di leale collaborazione – in primo luogo con riguardo alle parole «non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi» dal momento che siffatta inapplicabilità finisce per rendere inoperante, senza alcun ragionevole motivo, il principio enunciato nel primo periodo del comma 5, secondo cui «la regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato professionalizzante, è rimessa alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano, d’intesa con le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano regionale», nel rispetto di criteri e principi direttivi successivamente enunciati, nonché, per l’effetto, della legislazione regionale intervenuta, o che potrebbe intervenire, ai sensi della disposizione citata, come rilevato dalla Regione Lazio, che fa riferimento alla propria legge regionale 10 agosto 2006, n. 9 (Disposizioni in materia di riforma dell’apprendistato).

Inoltre, si pone in contrasto con la suddetta scelta di lasciare inalterato il quadro complessivo della disciplina del settore (e, in particolare, gli artt. 51 e 53 del d.lgs. n. 276 del 2003) l’abolizione delle competenze regionali in materia di controllo circa il quantum minimo della formazione (art. 50, comma 5, lett. a, del d.lgs. n. 276 del 2003), quanto all’effettiva attuazione dell’obbligo formativo (art. 50, comma 5, lett. e, del d.lgs. n. 276 del 2003) nonché in materia di certificazione dell’avvenuta formazione (art. 50, comma 5, lett. c e d, del d.lgs. n. 276 del 2003)

Infatti, come già si è detto, la nuova disciplina non ha inciso sulle funzioni già svolte dalle Regioni in materia di mercato del lavoro, sulla base della normativa antecedente il d.lgs. n. 276 del 2003, né ha modificato la disciplina contenuta in tale ultimo decreto a proposito del libretto formativo e dei crediti formativi conseguenti allo svolgimento del contratto di apprendistato che attribuiscono un ruolo incisivo alle Regioni, nell’ambito del SIL. Del resto, ciò è finalizzato ad assicurare che i profili formativi siano coerenti con l’istituendo Repertorio delle professioni che definirà gli standard minimi nazionali (in base a quanto previsto dall’art. 52 del d.lgs. n. 276 del 2003), onde assicurare una migliore attuazione alla decisione 2241/2004/CE del 15 dicembre 2004 del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea, inerente la definizione di un «Quadro comunitario unico per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze - Europass» e favorire, così, una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale, come ribadito anche dal Consiglio dell’Unione europea e dai rappresentanti dei Governi degli Stati nella Conclusione 24 gennaio 2009, n. 2009/C18/04.

In conseguenza, occorre parimenti dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma de qua limitatamente alla parola «integralmente», la quale rimette esclusivamente ai contratti collettivi di lavoro o agli enti bilaterali i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante, nonché alle parole, riferite ai contratti collettivi e agli enti bilaterali, secondo le quali essi «definiscono la nozione di formazione aziendale e».

Le suindicate espressioni, infatti, escludendo l’applicazione del precedente comma 5, sono anch’esse lesive dei suddetti parametri costituzionali, perché si traducono in una totale estromissione delle Regioni dalla disciplina de qua. Esse, anzi, appaiono particolarmente lesive in quanto la definizione della nozione di formazione aziendale costituisce il presupposto della applicazione della normativa di cui si tratta e il fatto che lo Stato abbia stabilito come tale definizione debba avvenire e, quindi, implicitamente come vada definita la formazione esterna (di competenza regionale), denota che esso si è attribuito una “competenza sulle competenze” estranea al nostro ordinamento.

Infatti, così come le Regioni non possono, nell’esercizio delle proprie competenze, svuotare sostanzialmente di contenuto la competenza statale – come è stato sottolineato, in materia di apprendistato, fra l’altro, nella sentenza n. 418 del 2006 – analogamente non è ammissibile riconoscere allo Stato la potestà di comprimere senza alcun limite il potere legislativo regionale.

Nella specie lo Stato si è unilateralmente attribuito il potere di disciplinare le fonti normative per identificare il discrimine tra formazione aziendale (la cui disciplina gli spetta) e formazione professionale extra aziendale (di competenza delle Regioni), escludendo così qualsiasi partecipazione di queste ultime.

In sintesi, anche nell’ipotesi di apprendistato, con formazione rappresentata come esclusivamente aziendale, deve essere riconosciuto alle Regioni un ruolo rilevante, di stimolo e di controllo dell’attività formativa, sicché il testo del comma 5-ter in oggetto, a seguito delle disposte dichiarazioni di illegittimità costituzionale, risulta essere il seguente: «In caso di formazione esclusivamente aziendale i profili formativi dell’apprendistato professionalizzante sono rimessi ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bilaterali. I contratti collettivi e gli enti bilaterali determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalità di erogazione della formazione, le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo». Esso va comunque letto nell’ambito del sistema normativo nel quale si inserisce, così come sopra ricostruito.

9. – Secondo le Regioni Toscana e Basilicata, il comma 2 impugnato non trova giustificazione neppure ai sensi dell’art. 118 Cost., perché i profili in esame non vengono attratti allo Stato per esigenze di carattere unitario, ma sono sottratti alla potestà regionale per essere affidati alla regolamentazione dei contratti collettivi.

Per la Regione Lazio, la norma impugnata viola l’art. 118 Cost., in quanto si pone in contrasto con il regolamento regionale 21 giugno 2007, n. 7 (attuativo della citata legge regionale n. 9 del 2006) le cui previsioni risultano incompatibili con la nuova disciplina statale, perpetrando per questo aspetto una ulteriore violazione della competenza normativa regionale, sia sotto il profilo legislativo che regolamentare.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, invece, una volta riconosciuta la competenza esclusiva dello Stato a disciplinare la materia dell’apprendistato all’interno dell’azienda, o perché si rientra pienamente nella materia dell’ordinamento civile o perché quest’ultima è comunque prevalente, ne discende, quale diretta conseguenza, l’insussistenza di qualsivoglia sconfinamento nell’ambito di competenze regionali quanto al principio di sussidiarietà.

10. – Le Regioni Emilia-Romagna e Liguria deducono che l’art. 23, comma 2, impugnato violerebbe anche l’art. 39 Cost., in quanto, attesa l’inattuazione della richiamata norma costituzionale, la delega di funzioni paralegislative (sentenza n. 344 del 1996) – tramite la norma censurata – ai contratti collettivi, trasforma questi ultimi in una fonte extra-ordinem, determinando una menomazione delle competenze regionali. Secondo le ricorrenti, vertendosi in materia di competenza regionale, esistono tutti gli elementi della lesione di competenza indiretta, nel senso che la violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost. si determina attraverso la violazione dell’art. 39 Cost., con la conseguente legittimazione regionale a far valere tale violazione e, tramite questa, quella della propria potestà legislativa in materia di formazione professionale.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, la censura è inammissibile, in quanto dalla stessa prospettazione di cui al ricorso regionale non emerge alcuna attinenza tra il parametro costituzionale invocato (art. 39 Cost.) e la lamentata lesione della competenza regionale prefigurata dall’art. 117, quarto comma, Cost., che «costituisce l’oggetto e il limite dell’impugnazione diretta della Regione» (sentenza n. 219 del 1984). In ogni caso, regolando la norma impugnata la sola formazione di carattere strettamente aziendale, non viene attribuita alle parti sociali e agli enti bilaterali alcuna competenza propria delle Regioni.

Con distinte memorie depositate entrambe il 18 novembre 2009, la Regione Liguria e la Regione Emilia-Romagna contestano quanto affermato dall’Avvocatura dello Stato, ossia che non sussisterebbe alcuna attinenza tra il parametro di cui all’art. 39 Cost. e la lamentata lesione della competenza regionale. Infatti, la lesione dell’art. 117 Cost. si determina attraverso la lesione dell’art. 39 Cost. Inoltre vi sono profili, quali «le modalità di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali» e «la registrazione nel libretto formativo», in relazione ai quali la norma impugnata non riguarda propriamente la formazione aziendale.

11. – Per quanto riguarda sia il parametro di cui all’art. 118 Cost. che quello di cui all’art. 39 Cost., la questione relativa alla legittimità dell’art. 23, comma 2, impugnato, deve ritenersi assorbita a seguito dell’accoglimento – sia pure parziale – della questione relativamente ai parametri di cui agli artt. 117 e 120 Cost. e al principio di leale collaborazione. Infatti, tale accoglimento, determinando il riconoscimento della rilevanza del ruolo delle Regioni nel processo di formazione aziendale, fa sì che le stesse non possano più lamentare la lesione delle loro competenze in suddetta materia.

12. – L’art. 23, comma 4, del decreto-legge n. 112 del 2008 ha aggiunto all’art. 50, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, dopo le parole «e le altre istituzioni formative», i seguenti periodi: «In assenza di regolamentazioni regionali l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione è rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le Università e le altre istituzioni formative. Trovano applicazione, per quanto compatibili, i principi stabiliti all’articolo 49, comma 4, nonché le disposizioni di cui all’articolo 53».

Le Regioni Piemonte, Marche, Veneto e Basilicata hanno impugnato la norma richiamata per violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, di cui all’art. 120 Cost., e per la menomazione delle potestà legislative esclusive e concorrenti delle Regioni ex art. 117 Cost., e della conseguente potestà amministrativa ex art. 118 Cost.

La norma eliminerebbe l’obbligo di addivenire ad un accordo con le Regioni per poter utilizzare il contratto di apprendistato di alta formazione: tale eliminazione determinerebbe l’illegittimità costituzionale della norma risultante, in quanto proprio tale obbligo era stato identificato dalla sentenza n. 50 del 2005 come strumento di attuazione del principio di leale collaborazione.

Secondo le ricorrenti, l’illegittimità costituzionale della norma appare ancora più evidente se si considera che qui, al contrario di quanto disposto per l’apprendistato professionalizzante, il legislatore non distingue tra formazione aziendale e formazione esterna, di competenza regionale, ma stabilisce addirittura il principio che l’intero percorso formativo – tanto quello svolto in azienda, quanto quello svolto all’esterno dell’azienda – può essere regolato da fonti diverse dalla norma regionale.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la censura è infondata, in quanto la disposizione impugnata incide sulla competenza regionale nel solo caso di assenza di normativa regionale e nelle more di tale vacatio. La disposizione mira ad agevolare la diffusione dell’apprendistato di alta formazione, sopperendo al caso (peraltro frequente) di inerzia del legislatore regionale, facendo sì che, nelle more dell’intervento regionale, l’applicazione dell’istituto non sia impedita, introducendo una disciplina destinata a consentire, in attesa delle auspicate regolamentazioni regionali, il raccordo tra sistema educativo-formativo e mercato del lavoro nei settori dell’alta formazione. La conseguenza è – secondo l’Avvocatura – che non è ravvisabile alcuna invasione di competenze regionali né tanto meno del principio di leale collaborazione, ove si consideri che, con la disposizione censurata, resta fermo il potere della Regione di intervenire in qualsiasi momento a regolamentare l’istituto sulla base delle potestà ad essa riconosciuta dall’art. 50, comma 3, prima parte, del d.lgs. n. 276 del 2003.

12.1. – La questione non è fondata.

12.2. – Essa si basa sull’erroneo presupposto interpretativo per il quale la disposizione censurata imporrebbe, per l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione, la messa a punto di apposite convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le Università e le altre istituzioni formative.

Tale lettura non è in alcun modo confortata dalla formulazione della disposizione in oggetto. Lo Stato, infatti, indicando uno strumento per ovviare all’eventuale assenza di regolamentazione regionale, ha permesso di dar luogo effettivamente ai contratti di apprendistato di alta formazione in quelle Regioni ove ancora non sia stata posta una disciplina in tal senso, peraltro con una regolamentazione ispirata a criteri di ragionevolezza (convenzione tra datori di lavoro e Università). Nulla impedisce, poi, alle Regioni di legiferare, riappropriandosi della propria competenza in tema di formazione. L’espressione «in assenza di regolamentazioni regionali» va infatti interpretata come se equivalesse a «fino all’emanazione di regolamentazioni regionali».

Così facendo lo Stato ha introdotto una norma “cedevole”, cioè una disposizione destinata a perdere efficacia nel momento in cui la Regione eserciti il proprio potere legislativo.

Tale potere dello Stato è legittimo, in considerazione del contesto in cui è stato previsto.

Pertanto, non è ravvisabile alcuna lesione delle competenze regionali, in quanto le Regioni possono far venire meno, in qualsiasi momento, l’operatività della norma statale, dettando una disciplina in materia di apprendistato di alta formazione (per la parte di rispettiva competenza, cui si riferisce l’art. 23, comma 4, del decreto-legge n. 112 del 2008, attualmente censurato).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionali, sollevate dalle Regioni Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Toscana, Basilicata, Piemonte, Marche, Puglia e Lazio con i ricorsi indicati in epigrafe,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nella parte in cui modifica l’articolo 49 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), limitatamente alle parole «non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi», «integralmente» e «definiscono la nozione di formazione aziendale e»;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del citato decreto-legge n. 112 del 2008, sollevata, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto-legge n. 112 del 2008, sollevata, in riferimento agli articoli 117, 118 e 120 della Costituzione, dalle Regioni Piemonte, Marche e Basilicata, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara estinto il processo relativo al ricorso proposto dalla Regione Veneto quanto alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 3, del decreto-legge n. 112 del 2008.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 maggio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA