SENTENZA N. 250 ANNO 2010

SENTENZA N. 250 ANNO 2010

Straniero - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Configurazione della fattispecie come reato Straniero - Reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Mancata previsione dell'assenza di un giustificato motivo come elemento costitutivo del reato; Previsione che il giudice, acquisita la notizia dell'esecuzione o del respingimento ai sensi dell'art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, pronunci sentenza di non luogo a procedere.
 
Sentenza 250/2010


Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE



Presidente AMIRANTE - Redattore FRIGO



Camera di Consiglio del 09/06/2010 Decisione del 05/07/2010

Deposito del 08/07/2010 Pubblicazione in G. U. 14/07/2010

Norme impugnate: Art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 1, c. 16°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94.

Massime: 34824 34825 34826 34827 34828 34829 34830 34831 34832 34833 34834 34835 34836 34837 34838



Titoli:

Atti decisi: ord. 292, 300/2009





SENTENZA N. 250



ANNO 2010









REPUBBLICA ITALIANA



IN NOME DEL POPOLO ITALIANO



LA CORTE COSTITUZIONALE



composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,



ha pronunciato la seguente



SENTENZA



nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, con ordinanza del 1° ottobre 2009 e dal Giudice di pace di Torino con ordinanza del 6 ottobre 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 292 e 300 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 49 e 51, prima serie speciale, dell’anno 2009.



Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;



udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.







Ritenuto in fatto



1.1. – Con ordinanza del 1° ottobre 2009, il Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del [citato] testo unico nonché di quelle di cui all’articolo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68» (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio).



Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di un cittadino extracomunitario, imputato del reato previsto dalla norma censurata «perché faceva ingresso e si tratteneva nel territorio dello Stato senza autorizzazione» (fatto che, nel capo di imputazione, viene indicato come commesso il 13 agosto 2009).



L’imputazione trae origine da un controllo effettuato da una pattuglia dei Carabinieri, in esito al quale si era accertato che lo straniero – sprovvisto di qualsiasi documento di riconoscimento – si trovava illegalmente sul territorio nazionale, non avendo richiesto nel termine di legge il permesso di soggiorno dopo l’ingresso in Italia, avvenuto nel dicembre 2007 attraverso il confine nella zona di Ventimiglia. Nei suoi confronti era stato quindi emesso decreto prefettizio di espulsione e conseguenziale ordine del Questore di Lecco di lasciare il territorio dello Stato entro cinque giorni: provvedimento, quest’ultimo, motivato con l’impossibilità tanto di procedere ad un immediato accompagnamento coattivo alla frontiera dell’espellendo, essendo necessario effettuare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità e acquisire un valido documento per l’espatrio; quanto di trattenerlo presso un centro di identificazione ed espulsione, per indisponibilità di posti. Parallelamente, lo straniero era stato tratto a giudizio per rispondere della contravvenzione di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998.



Ciò premesso in punto di fatto, il rimettente reputa che la norma impugnata sia costituzionalmente illegittima anzitutto nella parte in cui non annovera, tra gli elementi costitutivi del reato da essa delineato, l’assenza di un «giustificato motivo», così da evitare la punizione di soggetti la cui irregolare permanenza in Italia, anche se non coperta da una vera e propria causa di giustificazione, risulti comunque non «rimproverabile» per valide ragioni oggettive o soggettive.



Alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale in rapporto al reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 (sono citate le sentenze n. 5 del 2004 e n. 22 del 2007), si tratterebbe, infatti, di una previsione indispensabile al fine di rendere la fattispecie criminosa conforme ai principi di colpevolezza e di proporzionalità (art. 27 Cost.), potendo essa trovare applicazione in situazioni disparate, e anche nei confronti di soggetti che non comprendono la lingua italiana o che entrano in contatto per la prima volta con l’ordinamento nazionale.



Ne deriverebbe anche la violazione dell’art. 3 Cost., stante l’irrazionale disparità di trattamento rispetto all’ipotesi criminosa di cui al citato art. 14, comma 5-ter, che contempla, di contro, il predetto elemento negativo. Le due figure di reato risulterebbero, infatti, pienamente assimilabili, colpendo entrambe la permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato: in un caso (art. 10-bis), per generica violazione delle norme del d.lgs. n. 286 del 1998; nell’altro (art. 14, comma 5-ter), per inosservanza specifica dell’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. La differente natura dell’obbligo violato potrebbe giustificare, bensì, il diverso trattamento sanzionatorio delle due ipotesi, ma non l’adozione di difformi criteri di valutazione della rimproverabilità della condotta.



Nel caso di specie, l’omissione censurata avrebbe impedito alla difesa di fornire la prova – in quanto allo stato non rilevante – della circostanza che, dopo l’8 agosto 2009 (data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), sarebbe stato impossibile o quantomeno difficoltoso, per l’imputato, lasciare il territorio dello Stato prima di divenire destinatario del provvedimento di espulsione.



Il rimettente rileva, per altro verso, che, ai sensi del comma 5 dell’art. 10-bis, il giudice deve emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato in esame nel caso in cui lo straniero sia stato materialmente espulso, ovvero respinto ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998. Anche per tale parte la norma impugnata violerebbe i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di colpevolezza (art. 27 Cost.), trattando la medesima condotta in modo differenziato a seconda che l’autorità amministrativa – anche in conseguenza di proprie scelte organizzative – riesca ad eseguire il respingimento o l’espulsione, o, al contrario, non avendone la possibilità, impartisca allo straniero l’ordine di lasciare il territorio dello Stato, a proprie spese, nel termine di cinque giorni: nel qual caso lo straniero si troverebbe esposto alla severa pena – reclusione da uno a quattro anni – prevista dall’art. 14, comma 5-ter, per l’inottemperanza a tale ordine.



La norma censurata violerebbe, da ultimo, l’art. 117 Cost., ponendosi in contrasto con le previsioni della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri per il rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. L’art. 7, paragrafo 1, della citata direttiva identifica, infatti, la modalità ordinaria di esecuzione dell’espulsione nel rimpatrio volontario, prevedendo che, a tale fine, debba essere accordato allo straniero «un periodo congruo di durata compresa fra sette e trenta giorni, fatte salve le deroghe di cui paragrafi 2 e 4».



La configurazione come reato di qualunque ingresso o permanenza illegale nello Stato mirerebbe ad eludere tale vincolo comunitario, rendendo operante la deroga prevista dall’art. 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva, in forza della quale gli Stati membri possono decidere di non applicare la direttiva stessa «ai cittadini di paesi terzi sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di sanzione penale». In tal modo, la modalità ordinaria di esecuzione dell’espulsione resterebbe l’accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica, conformemente all’attuale previsione dell’art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998.



Né varrebbe opporre che il termine per l’adeguamento della legislazione degli Stati membri alla direttiva – fissato al 24 dicembre 2010 (art. 20) – non è ancora scaduto. Alla data dell’8 agosto 2009, infatti, la direttiva 2008/115/CE era già vigente da diversi mesi, essendo la stessa entrata in vigore il ventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (art. 22). Di conseguenza – secondo il rimettente – per escludere che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 sia contrario alla direttiva, bisognerebbe ipotizzare che la norma interna sia stata emanata con la volontà di rimuoverla o modificarla prima della scadenza del termine ultimo di adeguamento: volontà non desumibile, per contro, né dalla lettera della norma stessa – che non reca alcuna limitazione temporale di efficacia – né dalla sua ratio.



1.2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate, salvo per quanto attiene alla seconda, da reputare inammissibile.



Riguardo alla mancata previsione del «giustificato motivo», la difesa dello Stato rileva che la fattispecie criminosa resta comunque soggetta ai principi generali in materia penale, che comprendono plurime cause di non punibilità, tra cui la incolpevole ignoranza della norma incriminatrice, l’inesigibilità del comportamento lecito e la «buona fede»: donde l’insussistenza di una disparità di trattamento rispetto ad altre figure criminose previste dalla medesima fonte normativa.



Con riferimento, poi, alla prevista pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta espulsione o di respingimento dello straniero, la questione sarebbe inammissibile, in quanto il rimettente criticherebbe, in realtà, l’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, che non è oggetto di contestazione nel giudizio a quo. La censura risulterebbe comunque infondata, sia perché le due fattispecie non sarebbero assimilabili, come emerge dal diverso trattamento sanzionatorio; sia perché l’applicazione della pena dipenderebbe comunque dallo straniero interessato, che entra o si trattiene illecitamente nel territorio dello Stato, e non già dalla pubblica amministrazione, che non riesca a respingerlo alla frontiera o ad espellerlo fisicamente.



Palesemente insussistente sarebbe, infine, l’asserita violazione dell’art. 117 Cost., non essendo ancora decorso il termine per adeguare l’ordinamento nazionale alla direttiva invocata dal rimettente.



2.1. – Con ordinanza emessa il 6 ottobre 2009, nell’ambito di un processo penale nei confronti di uno straniero imputato del reato previsto dalla stessa norma censurata, il Giudice di pace di Torino ha sollevato plurime questioni di legittimità costituzionale di detta norma (art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998), in riferimento agli artt. 2, 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 97, primo comma, Cost.



Ad avviso del giudice a quo, sussisterebbe violazione dell’art. 3 Cost. per contrasto con il principio di eguaglianza, sotto un triplice profilo.



Anzitutto, perché – punendo indiscriminatamente chi sia entrato o si sia trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato – equiparerebbe situazioni assai diverse e soggetti di differente pericolosità sociale. Essa colpirebbe, infatti, allo stesso modo tanto lo straniero che, entrato clandestinamente in Italia, vi rimanga vivendo dei proventi di attività criminose, quanto colui il quale, anche se entrato irregolarmente o trattenutosi senza permesso, si sia tuttavia integrato nella comunità sociale, vivendo onestamente; quanto, ancora, chi, entrato legittimamente (a esempio, per un soggiorno di breve durata), si sia trattenuto oltre il termine del visto di ingresso per motivi puramente contingenti, non sempre configurabili come cause di forza maggiore (quali l’aver perso l’aereo o il non aver ricevuto tempestivamente dai parenti all’estero il denaro necessario per l’acquisto del biglietto di viaggio).



Lo stesso legislatore si sarebbe, del resto, reso conto della diversità delle situazioni che possono venire in rilievo, tanto da introdurre, con l’art. 1-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, uno speciale regime per gli stranieri soggiornanti in modo irregolare che risultassero svolgere attività di assistenza a terzi, consentendo loro di accedere ad una procedura di sanatoria nelle cui more il procedimento penale rimaneva sospeso.



L’irragionevolezza della nuova fattispecie penale si coglierebbe anche in rapporto al trattamento sanzionatorio, considerato nel suo complesso: cioè, non soltanto in rapporto alla comminatoria della pena dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, ma anche al divieto di sospensione condizionale della stessa (conseguente alla devoluzione del reato alla competenza del giudice di pace: art. 60 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»), nonché alla facoltà, concessa al giudice, di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione notevolmente più afflittiva, quale l’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall’art. 1, comma 16, lettera b, della legge n. 94 del 2009). Tale ultima previsione sarebbe fonte, in specie, di una irragionevole sperequazione rispetto agli altri soggetti nei cui confronti può essere disposta l’espulsione come misura sostitutiva, i quali, ai sensi del citato art. 16, comma 1, si identificano nei condannati per reato non colposo ad una pena detentiva non superiore a due anni, sempre che non ricorrano le condizioni per ordinarne la sospensione condizionale.



Una ulteriore violazione del principio di eguaglianza deriverebbe dal fatto che la norma censurata, a differenza dell’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, non subordina la punibilità della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato all’assenza di un «giustificato motivo»: formula, questa, che – come chiarito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 5 del 2004) – è diretta «ad escludere la configurabilità del reato in presenza di situazioni ostative di particolare pregnanza, le quali, anche senza integrare cause di giustificazione in senso tecnico, incidono sulla stessa possibilità soggettiva od oggettiva di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa». In tal modo, l’autore della contravvenzione prevista dall’art. 10-bis risulterebbe irrazionalmente posto in condizione deteriore rispetto all’autore del delitto di cui all’art. 14, comma 5-ter, che pure è più grave ed assorbe la contravvenzione in forza della clausola «salvo che il fatto costituisca più grave reato», con cui la norma impugnata esordisce.



Essa violerebbe, inoltre, l’art. 24, secondo comma, Cost. in quanto renderebbe punibili tutti gli stranieri irregolarmente presenti in Italia al momento dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009, i quali non si siano spontaneamente allontanati dal territorio dello Stato; e ciò, senza che siano stati previsti un termine e una «modalità operativa» per ottemperare al precetto. Con la conseguenza che a detti soggetti non rimarrebbe che uscire clandestinamente dall’Italia per non autodenunciarsi, in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere, costituente espressione del diritto di difesa.



La mancata previsione della possibilità di un allontanamento volontario e delle relative modalità colliderebbe anche con la direttiva 2008/115/CE, la quale stabilisce, all’art. 7, che – fatta eccezione per talune specifiche ipotesi – la decisione di rimpatrio debba fissare per la partenza volontaria un periodo congruo, di durata compresa tra i sette e i trenta giorni, prorogabile, ove necessario, in rapporto alle circostanze concrete.



L’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 risulterebbe incompatibile con l’art. 24, secondo comma, Cost. anche sotto un diverso profilo. A mente dell’art. 38 del medesimo decreto legislativo, difatti, i minori stranieri comunque presenti sul territorio dello Stato sono soggetti all’obbligo scolastico, al pari dei loro coetanei italiani: obbligo del cui adempimento sono responsabili i genitori, sotto comminatoria di sanzione penale (art. 731 del codice penale). A tale riguardo, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 94 del 2009, prevede, bensì, che in deroga alla regola generale ivi stabilita, lo straniero non è tenuto ad esibire alla pubblica amministrazione i documenti attestanti la regolarità del suo soggiorno ai fini dell’ottenimento dei provvedimenti riguardanti – oltre le attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e l’accesso alle prestazioni sanitarie di cui all’art. 35 – anche le prestazioni scolastiche obbligatorie. Tuttavia, mentre l’art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce espressamente che l’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola non possa comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvi i casi in cui sia obbligatorio il referto a parità di condizioni con il cittadino italiano, analoga statuizione non è ripetuta in rapporto alle prestazioni scolastiche obbligatorie. In tal modo, quindi, lo straniero – pur non dovendo presentare alcun documento attestante la regolarità del suo soggiorno ai fini dell’iscrizione dei propri figli a scuola – potrebbe essere comunque segnalato come «clandestino» dal personale scolastico che rivesta le qualifiche di cui agli artt. 361 e 362 del codice penale e che venga a conoscenza in altro modo della sua condizione di irregolarità. Stante, peraltro, la facilità con la quale detta condizione può emergere nel corso dell’attività scolastica, il migrante che voglia rispettare la legge posta a presidio del diritto-dovere all’istruzione sarebbe costretto, in pratica, ad autodenunciarsi per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, con ulteriore violazione del principio «nemo tenetur se detegere».



Censurabile sarebbe anche la circostanza che la norma impugnata non preveda alcuna forma di garanzia a favore dello straniero clandestino che intenda chiedere al tribunale per i minorenni, ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998, l’autorizzazione a permanere nel territorio italiano per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del testo unico, per gravi motivi legati alla tutela di un familiare di minore età. Con la presentazione dell’istanza in parola, lo straniero verrebbe, dunque, una volta ancora a «certificare» la propria posizione di irregolarità: con conseguente violazione tanto del principio «nemo tenetur se detegere», quanto dell’art. 3 Cost., per ingiustificata disparità di trattamento rispetto allo straniero che abbia presentato domanda di protezione internazionale. Il comma 6 dell’art. 10-bis stabilisce, infatti, che in quest’ultimo caso il procedimento penale resti sospeso e che l’accoglimento della domanda comporti la declaratoria di non luogo a procedere per il reato in esame.



Il rimettente osserva, per altro verso, come la disciplina dettata dalla norma impugnata risulti congegnata, nel suo complesso, in vista della finalità – ritenuta prioritaria – di allontanare lo straniero dal territorio dello Stato. Ai fini dell’esecuzione dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale per il reato in esame non è, infatti, richiesto il nulla osta dell’autorità giudiziaria, e, d’altro canto, una volta acquisita la notizia dell’espulsione o del respingimento dello straniero, il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere (art. 10-bis, commi 4 e 5). Gli artt. 16-bis [recte: 62-bis] del d.lgs. n. 274 del 2000 e 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 – rispettivamente aggiunto e modificato dalla legge n. 94 del 2009 – prevedono, inoltre, che il giudice di pace, nel pronunciare condanna per il reato in questione, ove non ricorrano le cause ostative previste dall’art. 14, comma 1, possa sostituire la pena con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.



Il risultato dell’allontanamento dello straniero clandestino dal territorio dello Stato era e resta, tuttavia, già conseguibile tramite l’espulsione amministrativa; sicché, una volta accertata l’illegale presenza del soggetto nel territorio dello Stato, si aprirebbero contestualmente ed automaticamente due procedimenti aventi lo stesso scopo: uno amministrativo e l’altro penale, il secondo, peraltro, subordinato al primo, dovendosi concludere con la declaratoria di non luogo a procedere ove il procedimento amministrativo – maggiormente celere – abbia concluso il suo «iter naturale». Assetto, questo, che violerebbe, oltre al principio di ragionevolezza, anche quello di buon andamento dei pubblici uffici, di cui all’art. 97, primo comma, Cost., incidendo negativamente sulla durata dei processi e provocando un inutile incremento di costi.



La norma censurata si porrebbe in contrasto, poi, con l’art. 25, comma 2, Cost., venendo a sanzionare penalmente una particolare condizione personale e sociale – in specie, quella di chi versa nella situazione di «clandestino» per non essersi uniformato alle disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998 – anziché la commissione di un fatto offensivo di un bene costituzionalmente protetto. Si tratterebbe, in sostanza, di una «colpa d’autore» o «per il modo di essere dell’agente»: scelta legislativa da reputare inaccettabile, giacché l’irrogazione di sanzioni penali potrebbe giustificarsi solo quando appaia indispensabile «per assicurare la conservazione o promuovere il progresso della comunità sociale o quando sussista il pericolo che l’individuo commetta fatti delittuosi». Nella specie, per converso, se pure è vero che taluni degli stranieri clandestini sono dediti al delitto, è altrettanto vero, tuttavia, che molti altri prestano attività lavorativa – spesso in condizioni di sfruttamento – o comunque non commettono reati né minacciano la sicurezza collettiva.



Risulterebbe violato, infine, l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale: e ciò, a causa dello stato di estrema indigenza in cui versa la quasi totalità degli immigrati clandestini.



Quanto, poi, alla rilevanza delle questioni, essa risulterebbe – ad avviso del giudice a quo – evidente. Lo straniero imputato nel giudizio principale risulta essere, infatti, entrato in Italia senza un regolare visto né risulta munito di permesso di soggiorno, sicché, allo stato, dovrebbe essere «quasi sicuramente» ritenuto colpevole del contestato reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, con possibile applicazione della misura sostitutiva dell’espulsione. Tale misura influirebbe, peraltro, pesantemente sulla sua integrazione sociale e sulla sua situazione familiare: in base alla documentazione prodotta in giudizio, l’imputato avrebbe avuto, infatti, recentemente un figlio da una cittadina extracomunitaria regolarmente soggiornante, con cui convive, e presterebbe attività lavorativa come collaboratore domestico presso una famiglia, la quale avrebbe intrapreso le pratiche per la sua regolarizzazione.



2.2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.



Secondo la difesa dello Stato sarebbero senz’altro inammissibili per difetto di rilevanza le questioni che concernono gli artt. 6, comma 2, 31 e 38 del d.lgs. n. 286 del 1998, trattandosi di disposizioni non applicabili nel giudizio a quo.



Parimenti inammissibile sarebbe la censura di violazione dell’art. 3 Cost., riferita alla possibilità di sostituzione della pena con la misura dell’espulsione, in quanto l’applicabilità di quest’ultima viene prospettata come meramente eventuale.



Altrettanto dovrebbe dirsi per la censura di violazione dell’art. 2 Cost., giacché dalla stessa ordinanza di rimessione risulta che l’imputato non versa in condizioni di indigenza, svolgendo un’attività lavorativa; come pure per la censura di violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., che apparirebbe priva di «attinenza con il processo a quo».



Le residue censure risulterebbero infondate.



La norma impugnata rappresenterebbe, infatti, espressione dell’ampia discrezionalità legislativa in ordine all’individuazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni: discrezionalità il cui esercizio non potrebbe ritenersi irragionevole per il solo fatto che la misura dell’espulsione, conseguente all’applicazione della sanzione penale, fosse già in precedenza prevista come sanzione amministrativa.



Né rileverebbe la circostanza che l’autore del fatto possa identificarsi tanto in una persona onesta che in un delinquente. La sanzione è, infatti, comminata nei confronti di chi – onesto o delinquente – si trovi illecitamente nel territorio dello Stato, onde non sussisterebbe la disparità tra le situazioni poste a raffronto dal rimettente.



Per quel che concerne, poi, la mancata previsione della «quasi esimente» del «giustificato motivo», la fattispecie criminosa in questione resterebbe comunque soggetta ai principi generali applicabili in materia penale, che comprendono varie cause di non punibilità, tra cui l’incolpevole ignoranza della norma incriminatrice, l’inesigibilità del comportamento lecito e la «buona fede».



Quanto all’assenza di disciplina transitoria, la disposizione censurata ha natura sostanziale, onde troverebbe applicazione il principio previsto dall’art. 2 del codice penale.



Inconferente sarebbe, altresì, il riferimento all’art. 97 Cost., trattandosi di disposizione inapplicabile all’amministrazione della giustizia.



Quanto, infine, alla denunciata violazione del principio di solidarietà, la norma è inserita nel corpo del d.lgs. n. 286 del 1998, onde rimarrebbero garantiti i rifugiati politici e coloro che presentano domanda di protezione internazionale, come, del resto, espressamente prevede il comma 6 dello stesso art. 10-bis.







Considerato in diritto



1. – Il Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), il quale punisce con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, «salvo che il fatto costituisca più grave reato, lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del [citato] testo unico nonché di quelle di cui all’articolo 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68».



Ad avviso del rimettente, la norma impugnata violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui non annovera, tra gli elementi costitutivi del reato, l’assenza di un «giustificato motivo». In tal modo, essa, da un lato, renderebbe punibili, in contrasto con i principi di colpevolezza e di proporzionalità, anche condotte di illecito trattenimento non «rimproverabili» all’agente per valide ragioni oggettive o soggettive; dall’altro, sarebbe fonte di una irrazionale disparità di trattamento rispetto all’analoga fattispecie criminosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 (inosservanza, «senza giustificato motivo», dell’ordine del questore di lasciare il territorio nazionale).



La disposizione censurata lederebbe i medesimi parametri costituzionali (artt. 3 e 27 Cost.) anche sotto un diverso profilo. Stabilendo, infatti, che il giudice debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere nel caso di avvenuta espulsione dell’autore del fatto o di suo respingimento ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998 (comma 5 dell’art. 10-bis), essa farebbe dipendere l’applicazione della sanzione penale dalla circostanza, del tutto indipendente dalla volontà dello straniero, che l’autorità amministrativa non riesca ad eseguire l’espulsione o il respingimento prima della condanna.



Risulterebbe leso, infine, l’art. 117 Cost., giacché la configurazione come reato di qualunque ingresso o soggiorno illegale nello Stato mirerebbe ad eludere la direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 – in forza della quale il provvedimento di espulsione deve essere di regola eseguito nella forma del rimpatrio volontario – e a rendere operante la deroga prevista dall’art. 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva stessa per i casi in cui il rimpatrio costituisca «sanzione penale» o «conseguenza di una sanzione penale».



2. – L’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 è sottoposto a scrutinio di costituzionalità anche dal Giudice di pace di Torino, che ne prospetta anzitutto il contrasto con l’art. 3 Cost. sotto plurimi profili.



In primo luogo, perché, punendo indiscriminatamente lo straniero che sia entrato o si sia trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato, equiparerebbe situazioni di fatto ben diverse e soggetti di differente pericolosità sociale.



In secondo luogo, per l’irrazionalità del trattamento sanzionatorio, caratterizzato dalla comminatoria dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro, dal divieto di concessione della sospensione condizionale della pena e dalla facoltà del giudice di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione notevolmente più afflittiva, quale l’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni: previsione, questa, che sarebbe fonte di una irragionevole sperequazione rispetto agli altri soggetti nei cui confronti la sostituzione può essere disposta in base all’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 (condannati a pena detentiva non superiore a due anni, quando non sussistano le condizioni per la sospensione condizionale).



In terzo luogo, perché – diversamente da quanto avviene per il più grave reato previsto dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – la norma impugnata non subordina la punibilità dell’illegale permanenza nel territorio dello Stato alla condizione che la violazione sia commessa «senza giustificato motivo».



Sarebbe violato, inoltre, l’art. 24, secondo comma, Cost., giacché, in mancanza di una disciplina transitoria, la nuova incriminazione costringerebbe tutti gli stranieri irregolarmente presenti in Italia al momento dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 ad uscire clandestinamente dall’Italia per non autodenunciarsi, in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere, costituente espressione del diritto di difesa.



L’art. 24, secondo comma, Cost. sarebbe leso anche per una diversa ragione. Lo straniero irregolarmente presente sul territorio dello Stato che intenda adempiere l’obbligo scolastico cui sono soggetti i figli minori (art. 38 del d.lgs. n. 286 del 1998) – obbligo presidiato da sanzione penale (art. 731 del codice penale) – pur non dovendo esibire ai fini dell’iscrizione dei figli a scuola alcun documento attestante la regolarità del suo soggiorno (art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998), finirebbe inevitabilmente per autodenunciarsi, sia per la facilità con la quale la sua condizione di irregolarità può emergere nel corso dell’attività didattica, sia per la sussistenza di un obbligo di denuncia di tale condizione da parte del personale scolastico che rivesta le qualifiche di cui agli artt. 361 e 362 cod. pen.



Un ulteriore profilo di compromissione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. si connetterebbe alla circostanza che la norma denunciata non prevede, a favore dello straniero clandestino che intenda proporre istanza di permanenza nel territorio dello Stato a fini di tutela di un familiare minore (art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998), garanzie analoghe a quelle accordate allo straniero che presenti domanda di protezione internazionale (sospensione del procedimento penale, con declaratoria di non luogo a procedere in caso di accoglimento): sicché, anche con la presentazione dell’istanza in questione, lo straniero finirebbe per «certificare» la propria posizione di irregolarità in violazione del principio nemo tenetur se detegere.



La norma impugnata violerebbe, poi, i principi di ragionevolezza e di buon andamento dei pubblici uffici (artt. 3 e 97, primo comma, Cost.), in quanto perseguirebbe, alla luce della sua complessiva struttura, una finalità – allontanare lo straniero illecitamente presente nel territorio dello Stato – già realizzabile tramite la procedura di espulsione amministrativa, la quale prende comunque avvio parallelamente al procedimento penale; il che comporterebbe pregiudizio alla ragionevole durata dei processi e inutile incremento dei costi.



Risulterebbe violato, ancora, l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata sanzionerebbe penalmente una particolare condizione personale e sociale – quella di straniero «clandestino», derivante dalla mera violazione delle norme che disciplinano l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato – e non già la commissione di un fatto offensivo di un bene costituzionalmente protetto.



Da ultimo, verrebbe leso l’art. 2 Cost., giacché, in contrasto con la garanzia di rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo e il dovere di solidarietà, la nuova previsione punitiva colpirebbe persone che versano, per la quasi totalità, in stato di estrema indigenza.



3. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni parzialmente analoghe, relative alla medesima norma, sicché i giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.



4. – Nell’approccio al thema decidendum, giova preliminarmente rilevare come, al di là della generica e indifferenziata formulazione del petitum, i giudici rimettenti sottopongano all’esame di questa Corte due diversi ordini di questioni.



Da un lato, infatti, essi contestano, sotto plurimi aspetti, la legittimità costituzionale della scelta di penalizzazione sottesa alla norma impugnata, prospettando, con ciò, doglianze che preluderebbero – ove fondate – alla integrale ablazione della norma stessa. Dall’altro lato, denunciano invece la contrarietà a Costituzione di specifiche articolazioni della disciplina sostanziale o processuale del reato in esame, formulando così censure destinate a sfociare – nel caso di accoglimento – in una declaratoria di illegittimità costituzionale solo parziale.



Ciò puntualizzato, le questioni sollevate sono in parte infondate e in parte manifestamente inammissibili.



5. – Con riferimento alle questioni del primo gruppo (volte, cioè, a censurare globalmente la scelta di penalizzazione espressa dalla norma impugnata) – sulle quali, per evidenti ragioni di pregiudizialità logica, va portata prioritariamente l’attenzione – lo scrutinio di costituzionalità non può che trovare il suo referente generale nel principio, affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, in forza del quale l’individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore: discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (ex plurimis, sentenze n. 47 del 2010, n. 161, n. 41 e n. 23 del 2009, n. 225 del 2008).



6. – Su tale premessa viene anzitutto in rilievo, per il suo carattere radicale, la censura di violazione dei principi di materialità e di necessaria offensività del reato, formulata dal Giudice di pace di Torino in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.



6.1. – Al riguardo, va disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, basata sul generico assunto che la dedotta violazione costituzionale sarebbe priva di «attinenza con il processo a quo». Risulta evidente, al contrario, come l’eventuale rimozione della norma impugnata, conseguente all’accoglimento della questione, inciderebbe sull’esito del giudizio principale, destinato altrimenti a concludersi – secondo quanto si afferma nell’ordinanza di rimessione – con una declaratoria di responsabilità dell’imputato per la contravvenzione in questione.



6.2. – Nel merito, tuttavia, il dedotto vulnus costituzionale non è riscontrabile.



Contrariamente a quanto sostiene il giudice rimettente, non si può infatti ritenere che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, introducendo nell’ordinamento la contravvenzione di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», penalizzi una mera «condizione personale e sociale» – quella, cioè, di straniero «clandestino» (o, più propriamente, «irregolare») – della quale verrebbe arbitrariamente presunta la pericolosità sociale. Oggetto dell’incriminazione non è un «modo di essere» della persona, ma uno specifico comportamento, trasgressivo di norme vigenti. Tale è, in specie, quello descritto dalle locuzioni alternative «fare ingresso» e «trattenersi» nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del testo unico sull’immigrazione o della disciplina in tema di soggiorni di breve durata per visite, affari, turismo e studio, di cui all’art. 1 della legge n. 68 del 2007: locuzioni cui corrispondono, rispettivamente, una condotta attiva istantanea (il varcare illegalmente i confini nazionali) e una a carattere permanente il cui nucleo antidoveroso è omissivo (l’omettere di lasciare il territorio nazionale, pur non essendo in possesso di un titolo che renda legittima la permanenza).



La condizione di cosiddetta “clandestinità” non è un dato preesistente ed estraneo al fatto, ma rappresenta, al contrario, la conseguenza della stessa condotta resa penalmente illecita, esprimendone in termini di sintesi la nota strutturale di illiceità (non diversamente da come la condizione di pregiudicato per determinati reati deriva, salvo il successivo accertamento giudiziale, dall’avere commesso i reati stessi).



6.3. – Né può condividersi, per altro verso, l’assunto in forza del quale si sarebbe di fronte ad un illecito «di mera disobbedienza», non offensivo – anche solo nella forma della messa in pericolo – di alcun bene giuridico meritevole di tutela: illecito la cui repressione darebbe vita ad una ipotesi di «diritto penale d’autore», al di sotto della quale si radicherebbe l’intento di penalizzare, ex se, situazioni di povertà ed emarginazione (e ciò similmente a quanto si verificava, in passato, mediante la fattispecie contravvenzionale – dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 519 del 1995 – della cosiddetta mendicità non invasiva, di cui all’art. 670, primo comma, cod. pen.).



Il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è, in realtà, agevolmente identificabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria – trattandosi, del resto, del bene giuridico “di categoria”, che accomuna buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998 – e che risulta, altresì, offendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento illegale dello straniero.



L’ordinata gestione dei flussi migratori si presenta, in specie, come un bene giuridico “strumentale”, attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici “finali”, di sicuro rilievo costituzionale, suscettivi di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata. Ciò, secondo una strategia di intervento analoga a quella che contrassegna vasti settori del diritto penale complementare, nei quali la sanzione penale – specie contravvenzionale – accede alla violazione di discipline amministrative afferenti a funzioni di regolazione e controllo su determinate attività, finalizzate a salvaguardare in via preventiva i beni, specie sovraindividuali, esposti a pericolo dallo svolgimento indiscriminato delle attività stesse (basti pensare, ad esempio, al diritto penale urbanistico, dell’ambiente, dei mercati finanziari, della sicurezza del lavoro). Caratteristica, questa, che, nel caso in esame, viene peraltro a riflettersi nell’esiguo spessore della risposta punitiva prefigurata dalla norma impugnata, di tipo meramente pecuniario.



È incontestabile, in effetti, che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un profilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio. Come questa Corte ha avuto modo di rimarcare, «lo Stato non può […] abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere: le regole stabilite in funzione d’un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza vanno dunque rispettate, e non eluse […], essendo poste a difesa della collettività nazionale e, insieme, a tutela di coloro che le hanno osservate e che potrebbero ricevere danno dalla tolleranza di situazioni illegali» (sentenza n. 353 del 1997). La regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato è, difatti, «collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in materia di immigrazione» (sentenze n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994): vincoli e politica che, a loro volta, rappresentano il frutto di valutazioni afferenti alla “sostenibilità” socio-economica del fenomeno.



Il controllo giuridico dell’immigrazione – che allo Stato, dunque, indubbiamente compete (sentenza n. 5 del 2004), a presidio di valori di rango costituzionale e per l’adempimento di obblighi internazionali – comporta, d’altro canto, necessariamente la configurazione come fatto illecito della violazione delle regole in cui quel controllo si esprime. Determinare quale sia la risposta sanzionatoria più adeguata a tale illecito, e segnatamente stabilire se esso debba assumere una connotazione penale, anziché meramente amministrativa (com’era anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009), rientra nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, il quale ben può modulare diversamente nel tempo – in rapporto alle mutevoli caratteristiche e dimensioni del fenomeno migratorio e alla differente pregnanza delle esigenze ad esso connesse – la qualità e il livello dell’intervento repressivo in materia.



6.4. – In questa prospettiva, risulta altresì priva di fondamento la tesi del giudice a quo, stando alla quale l’incriminazione introdurrebbe, nella sostanza, una presunzione assoluta di pericolosità sociale dell’immigrato irregolare, non rispondente all’id quod plerumque accidit e perciò stesso arbitraria.



Al pari di quanto avviene per il reato di inosservanza dell’ordine di allontanamento, di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – che, come già rilevato da questa Corte, «prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili» (sentenza n. 22 del 2007) – la norma impugnata non sancisce alcuna presunzione di tal fatta, ma si limita – similmente alla generalità delle norme incriminatrici – a reprimere la commissione di un fatto oggettivamente (e comunque) antigiuridico, offensivo di un interesse reputato meritevole di tutela: violazione riscontrabile – come nota anche l’Avvocatura generale dello Stato – indipendentemente dalla personalità dell’autore, la quale potrà rilevare, semmai, solo sul piano della commisurazione della pena da parte del giudice, secondo i criteri dettati dall’art. 133, secondo comma, cod. pen.



Non può essere, dunque, utilmente richiamata, ai presenti fini, l’affermazione di questa Corte, in forza della quale la condizione soggettiva connessa al «mancato possesso di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato […], di per sé, non è univocamente sintomatica […] di una particolare pericolosità sociale» (sentenza n. 78 del 2007). Si tratta, infatti, di affermazione resa in un contesto ben diverso da quello che qui rileva, e, cioè, a sostegno della declaratoria di illegittimità costituzionale di alcune norme dell’ordinamento penitenziario (artt. 47, 48 e 50 della legge 26 luglio 1975, n. 354), ove interpretate nel senso che all’immigrato irregolare sia in ogni caso precluso l’accesso alle misure alternative alla detenzione da esse previste. Tali misure si connettono, infatti, all’esigenza di individualizzazione della pena in fase esecutiva, in rapporto alla quale la valutazione di pericolosità sociale del condannato – da condursi caso per caso, e non sulla base di arbitrarie presunzioni assolute – viene, per converso, in primario rilievo.



6.5. – Quale notazione conclusiva sul punto, si deve, d’altro canto, rilevare come la scelta operata dal legislatore italiano con la novella del 2009 sia tutt’altro che isolata nel panorama internazionale.



L’analisi comparatistica rivela, difatti, come norme incriminatrici dell’immigrazione irregolare di ispirazione similare, talora accompagnate dalla comminatoria di pene anche significativamente più severe di quella prevista dalla norma scrutinata, siano presenti nelle legislazioni di diversi Paesi dell’Unione europea: e ciò tanto nell’ambito dei Paesi più vicini al nostro per tradizioni giuridiche (quali la Francia e la Germania), che fra quelli di diversa tradizione (quale il Regno Unito).



7. – Nelle considerazioni che precedono è già insita l’insussistenza della violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), denunciata dallo stesso Giudice di pace di Torino sul rilievo che, punendo indiscriminatamente lo straniero che sia entrato o si sia trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato, il nuovo art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 equiparerebbe fattispecie marcatamente eterogenee e soggetti di differente pericolosità sociale (quali lo straniero che ha varcato clandestinamente i confini nazionali e che vive dei proventi del delitto e il migrante trattenutosi irregolarmente dopo un ingresso legittimo, ma ben integrato nella comunità sociale e che svolge un’attività lavorativa).



Per un verso, infatti, si ribadisce che la norma incriminatrice in esame non è diretta a sanzionare la “condotta di vita” e i propositi del migrante irregolare (i quali, ove assumano connotazioni criminose, troveranno eventualmente risposta punitiva in altre norme), quanto piuttosto (e soltanto) l’inosservanza delle norme sull’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato.



La diversa gravità dell’inosservanza potrà essere, per altro verso, apprezzata e valorizzata dal giudice in sede di determinazione della pena in concreto nell’ambito della forbice edittale, sufficientemente ampia a tal fine, sia pure nell’ambito di una configurazione dell’illecito quale contravvenzione punita con la sola pena pecuniaria (ammenda da 5.000 a 10.000 euro). Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, è infatti consentito al legislatore includere in uno stesso paradigma punitivo una pluralità di fattispecie distinte per struttura e disvalore, spettando in tali casi al giudice far emergere la differenza tra le varie condotte tramite la graduazione della pena tra il minimo e il massimo edittale (tra le altre, sentenza n. 47 del 2010; ordinanze n. 213 del 2000, n. 145 del 1998, n. 456 del 1997, n. 220 del 1996).



Con particolare riguardo, d’altro canto, alle ipotesi a carattere “marginale” – che il giudice a quo evoca con il riferimento alla situazione dello straniero che si trattenga in Italia oltre il termine del visto di ingresso per ragioni puramente contingenti (quali l’aver perso l’aereo o il non aver ricevuto tempestivamente dai parenti all’estero il denaro per l’acquisto del biglietto di viaggio) – occorre tener conto anche della circostanza che l’attribuzione della competenza per il reato in esame al giudice di pace è atta a rendere operante l’istituto dell’esclusione della procedibilità per «particolare tenuità del fatto», previsto dall’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, un istituto che, in presenza delle condizioni stabilite da tale articolo, potrà valere a sottrarre a pena le irregolarità di più ridotto significato.



8. – In relazione, poi, alla ulteriore censura, formulata sempre dal Giudice di pace di Torino, di lesione dei diritti inviolabili dell’uomo e del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), non ha fondamento l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, basata sulla considerazione che, alla stregua di quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, l’imputato nel giudizio a quo non versa in condizioni di indigenza, svolgendo un’attività lavorativa.



L’eccezione sovrappone, infatti, i piani della rilevanza e della non manifesta infondatezza. L’idoneità a colpire persone che versano in «stato di estrema indigenza» è evocata, infatti, dal rimettente come tratto generale caratteristico della norma incriminatrice, atto a porla in asserito contrasto con il parametro costituzionale considerato: il che non comporta, tuttavia, che – ai fini dell’ammissibilità della questione – esso debba risultare riscontrabile anche nella fattispecie concreta che dà adito all’incidente di costituzionalità, rimanendo la questione comunque rilevante a fronte della già rimarcata incidenza dell’ablazione della norma impugnata sugli esiti del processo principale.



Nel merito, la violazione dedotta non è comunque ravvisabile.



Al riguardo, giova preliminarmente rilevare che, ove la tesi del rimettente fosse valida, la ragione dell’illegittimità costituzionale non risiederebbe nella scelta di configurare come reato l’inosservanza delle disposizioni sull’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato – vale a dire nella sanzione – ma, più a monte, nello stesso precetto: e, cioè, nelle regole – collocate fuori della norma oggi sottoposta a scrutinio – che precludono o limitano l’ingresso o la permanenza degli stranieri (o, quantomeno, degli stranieri “indigenti”) nel territorio dello Stato, a prescindere dal fatto che la violazione venga punita con la sanzione penale o con semplice sanzione amministrativa.



Al di là di ciò, va poi osservato che, mentre il contrasto con i diritti inviolabili dell’uomo è allegato dal rimettente in termini puramente apodittici, per quanto attiene al principio di solidarietà, è giurisprudenza costante di questa Corte – chiamata ad occuparsi del tema segnatamente in rapporto alla disciplina dei divieti di espulsione e di respingimento e del ricongiungimento familiare (artt. 19 e 29 del d.lgs. n. 286 del 1998) – che, in materia di immigrazione, «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco» (sentenza n. 353 del 1997). In particolare, «le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri» (ordinanze n. 192 e n. 44 del 2006, n. 217 del 2001): e ciò nella cornice di un «quadro normativo […] che vede regolati in modo diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. “migranti economici”» (sentenza n. 5 del 2004; ordinanze n. 302 e n. 80 del 2004). In materia il legislatore fruisce, dunque, di ampia discrezionalità nel porre limiti all’accesso degli stranieri nel territorio dello Stato, all’esito di un bilanciamento dei valori che vengono in rilievo: discrezionalità il cui esercizio è sindacabile da questa Corte solo nel caso in cui le scelte operate si palesino manifestamente irragionevoli (ex plurimis, sentenze n. 148 del 2008, n. 361 del 2007, n. 224 e n. 206 del 2006) e che si estende, secondo quanto in precedenza osservato, anche al versante della selezione degli strumenti repressivi degli illeciti perpetrati.



Le ragioni della solidarietà trovano, in questo senso, espressione – oltre che nella ricordata disciplina dei divieti di espulsione e di respingimento e del ricongiungimento familiare – nell’applicabilità, allo straniero irregolare, della normativa sul soccorso al rifugiato e la protezione internazionale, di cui al d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), fatta espressamente salva dal comma 6 dello stesso art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che prevede la sospensione del procedimento penale per il reato in esame nel caso di presentazione della relativa domanda e, nell’ipotesi di suo accoglimento, la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere (analoga pronuncia è prevista, altresì, nel caso di rilascio del permesso di soggiorno nelle ipotesi di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, e cioè quando, pur in presenza delle condizioni ostative ivi indicate, ricorrano «seri motivi […] di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano»).



9. – Va esclusa, del pari, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., prospettata dal Giudice di pace di Lecco per asserita contrarietà della norma impugnata alla direttiva 2008/115/CE, segnatamente nella parte in cui quest’ultima prefigura come modalità ordinaria di esecuzione delle «decisioni di rimpatrio» dei cittadini di paesi terzi, il cui soggiorno è irregolare, la fissazione di un termine per la «partenza volontaria» (art. 7).



Non occorre verificare, in questa sede, la reale validità dell’argomento su cui poggia la censura e consistente, in sostanza, nell’assunto per cui la facoltà degli Stati membri di non applicare la citata direttiva ai «cittadini di paesi terzi […] sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale» (art. 2, paragrafo 2, lettera b) dovrebbe ritenersi riferita, per non svuotare di senso la direttiva stessa, esclusivamente alle fattispecie penali diverse dall’ingresso o dal soggiorno irregolare.



È sufficiente osservare che il termine di adeguamento dell’ordinamento nazionale alla direttiva non è ancora scaduto, risultando fissato al 24 dicembre 2010 (art. 20): circostanza che rende, allo stato, comunque non significativo, ai fini della configurabilità della lesione costituzionale denunciata, l’ipotizzato contrasto con la disciplina comunitaria.



Peraltro, detto contrasto non deriverebbe comunque dall’introduzione del reato oggetto di scrutinio, quanto piuttosto – in ipotesi – dal mantenimento delle norme interne preesistenti che individuano nell’accompagnamento coattivo alla frontiera la modalità normale di esecuzione dei provvedimenti espulsivi (in particolare, art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998): norme diverse, dunque, da quella impugnata.



10. – Infondata è pure la censura di violazione dei principi di ragionevolezza e di buon andamento dei pubblici uffici (artt. 3 e 97 Cost.), formulata dal Giudice di pace di Torino sulla scorta della considerazione che la norma censurata perseguirebbe, nel suo complesso, un obiettivo (allontanare lo straniero illegalmente presente nel territorio dello Stato) realizzabile negli stessi termini tramite l’istituto dell’espulsione amministrativa, col risultato di dare luogo ad una inutile duplicazione di procedimenti aventi il medesimo scopo.



Per quanto attiene al primo dei due parametri invocati (il principio di ragionevolezza), è ben vero, in effetti, che le condotte che integrano il reato di cui si discute, costituendo nel contempo violazioni della disciplina sull’ingresso e il soggiorno dello straniero nello Stato, erano e restano sanzionate, in via amministrativa, con l’espulsione disposta dal prefetto ai sensi dell’art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998: onde si riscontra una sovrapposizione – tendenzialmente completa – della disciplina penale a quella amministrativa.



È altrettanto vero che, alla luce della complessiva configurazione della norma in esame, il legislatore mostra di considerare l’applicazione della sanzione penale come un esito “subordinato” rispetto alla materiale estromissione dal territorio nazionale dello straniero ivi illegalmente presente. Lo attestano univocamente le circostanze – poste in rilievo dal giudice a quo – che, in deroga al generale disposto dell’art. 13, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, lo straniero sottoposto a procedimento penale per il reato in questione possa essere espulso in via amministrativa senza il nulla osta dell’autorità giudiziaria; che, una volta avuta notizia dell’esecuzione dell’espulsione o del respingimento ai sensi dell’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere (e ciò indipendentemente dallo stadio raggiunto dal procedimento penale, a differenza di quanto previsto dall’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998); che, nel caso di condanna, la pena dell’ammenda – espressamente sottratta all’oblazione (art. 10-bis, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 286 del 1998) – possa essere sostituita dal giudice con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (artt. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 62-bis del d.lgs. n. 274 del 2000).



Tale assetto normativo – che trova la sua ratio precipuamente «nel diminuito interesse dello Stato alla punizione di soggetti ormai estromessi dal proprio territorio» (con riferimento alla previsione dell’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998, ordinanze n. 143 e n. 142 del 2006), tanto più avvertibile quando il fatto penalmente rilevante si sostanzi nella mera violazione della disciplina sull’ingresso e la permanenza nel territorio stesso – non comporta ancora, tuttavia, che il procedimento penale per il reato in esame sia destinato, a priori, a rappresentare un mero “duplicato” del procedimento amministrativo di espulsione (di norma, per giunta, più celere): e ciò, a tacer d’altro, per la ragione che – come l’esperienza attesta – in un largo numero di casi non è possibile, per la pubblica amministrazione, dare corso all’esecuzione dei provvedimenti espulsivi. La stessa sostituzione della pena pecuniaria con la misura dell’espulsione da parte del giudice – configurata, peraltro, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 come soltanto discrezionale («può») – resta espressamente subordinata alla condizione che non ricorrano le situazioni che, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del medesimo decreto legislativo, impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (necessità di procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo).



È pure difficilmente contestabile, per altro verso, che – come da più parti criticamente rimarcato – la pena dell’ammenda, applicabile nei casi di mancata esecuzione (o eseguibilità immediata) dell’espulsione, presenti una ridotta capacità dissuasiva: e ciò, a fronte della condizione di insolvibilità in cui assai spesso (ma, comunque, non indefettibilmente) versa il migrante irregolare e della difficoltà di convertire la pena rimasta ineseguita in lavoro sostitutivo o in obbligo di permanenza domiciliare (art. 55 del d.lgs. n. 274 del 2000), stante la problematica compatibilità di tali misure con la situazione personale del condannato, spesso privo di fissa dimora e che, comunque, non può risiedere legalmente in Italia.



Simili valutazioni – al pari di quella attinente, più in generale, al rapporto fra “costi e benefici” connessi all’introduzione della nuova figura criminosa, rapporto secondo molti largamente deficitario (tanto più in un sistema che già prevede, in caso di mancata esecuzione immediata dell’espulsione, l’ordine di allontanamento del questore, che innesca la più energica tutela penale predisposta dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998) – attengono, tuttavia, all’opportunità della scelta legislativa su un piano di politica criminale e giudiziaria: piano di per sé estraneo al sindacato di costituzionalità. Come già ad altro fine rimarcato, difatti, «non spetta a questa Corte esprimere valutazioni sull’efficacia della risposta repressiva penale rispetto a comportamenti antigiuridici che si manifestino nell’ambito del fenomeno imponente dei flussi migratori dell’epoca presente, che pone gravi problemi di natura sociale, umanitaria e di sicurezza» (sentenza n. 236 del 2008).



Non è superfluo comunque aggiungere che l’assoggettamento a sanzioni pecuniarie dei fatti di immigrazione irregolare è anch’esso tutt’altro che ignoto all’esperienza comparatistica (pene pecuniarie, alternative o congiunte alla pena detentiva, sono previste, ad esempio, dalle legislazioni tedesca, francese e del Regno Unito; mentre la legge spagnola contempla, per il soggiorno irregolare, la sola sanzione amministrativa pecuniaria).



Inconferente è l’altro parametro invocato dal giudice rimettente: ossia il principio di buon andamento dei pubblici uffici. Per consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, detto principio è riferibile all’amministrazione della giustizia solo per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, e non all’attività giurisdizionale in senso stretto (ex plurimis, sentenze n. 64 del 2009 e n. 272 del 2008; ordinanze n. 408 del 2008 e n. 27 del 2007).



11. – Passando, con ciò, all’esame del secondo gruppo di questioni, che investono specifici segmenti della disciplina del reato di cui si discute, viene in considerazione, anzitutto, quella afferente alla mancata reiterazione, in rapporto alla condotta dell’illegale trattenimento, della clausola «senza giustificato motivo», presente nella norma incriminatrice “finitima” di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998: norma che pure reprime – e in modo più severo – una forma speciale di indebita permanenza dello straniero nello Stato, cioè quella conseguente all’inottemperanza all’ordine del questore di lasciare entro cinque giorni il territorio nazionale, impartito ai sensi del comma 5-bis dello stesso articolo.



11.1. – La questione non è fondata.



Questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi sulla valenza della formula «senza giustificato motivo», che compare nella norma evocata come tertium comparationis, in rapporto a questioni di legittimità costituzionale volte segnatamente a denunciare il difetto di determinatezza di detta clausola e, di riflesso, della fattispecie penale in cui essa si colloca. Nel disattendere la censura, si è rilevato che il significato della locuzione è, in realtà, ricostruibile – mediante una operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito ermeneutico affidato al giudice – alla luce della specifica finalità dell’incriminazione (rimuovere, rendendo «effettivo il provvedimento di espulsione», «situazioni di illiceità o di pericolo correlate alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato») e del quadro normativo su cui l’incriminazione stessa si innesta: quadro normativo che, come già ricordato ad altro fine, vede diversamente regolato l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nello Stato, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o di rifugiati, ovvero di «migranti economici». In simile prospettiva, «la clausola in questione, se pure non può essere ritenuta evocativa delle sole cause di giustificazione in senso tecnico – lettura che la renderebbe pleonastica, posto che le scriminanti opererebbero comunque, in quanto istituti di ordine generale – ha tuttavia riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa; non anche ad esigenze che riflettano la condizione tipica del “migrante economico”, sebbene espressive di istanze in sé pienamente legittime, sempre che – come è ovvio – non ricorrano situazioni riconducibili alle scriminanti previste dall’ordinamento» (sentenza n. 5 del 2004; ordinanze n. 386 del 2006, n. 302 e n. 80 del 2004).



Alla luce di tale conclusione, si è quindi esclusa la fondatezza di ulteriori censure di costituzionalità, alla stregua delle quali la norma incriminatrice di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 avrebbe delineato, in contrasto con l’art. 27 Cost., una ipotesi di responsabilità oggettiva, assoggettando a pena anche lo straniero che si trovi nella pratica impossibilità di munirsi di documenti e di biglietto di viaggio nel ristretto termine di cinque giorni: ciò, ad esempio, per la sua «condizione di assoluta impossidenza […], che non gli consenta di recarsi nel termine alla frontiera (in particolare aerea o marittima) e di acquistare» detto biglietto; ovvero in conseguenza del «mancato rilascio, da parte della competente autorità diplomatica o consolare, dei documenti necessari, pure sollecitamente e diligentemente richiesti». In tali ipotesi, si deve, infatti, senz’altro ravvisare un «giustificato motivo» di inottemperanza all’ordine di allontanamento, con conseguente esclusione della configurabilità del reato (sentenza n. 5 del 2004; ordinanze n. 386 del 2006 e n. 302 del 2004).



11.2. – Dalle affermazioni di questa Corte ora ricordate non è lecito peraltro desumere – come mostra invece di ritenere il Giudice di pace di Lecco – che l’inserimento nella formula descrittiva dell’illecito della clausola «senza giustificato motivo» sia indispensabile al fine di assicurare la conformità al principio di colpevolezza di ogni reato in materia di immigrazione, e particolarmente di quello oggetto dell’odierno scrutinio.



Se è vero, infatti, che, come già rimarcato, la portata di detta clausola va oltre il mero richiamo alle esimenti di carattere generale, è altrettanto certo, tuttavia, che la mancanza della clausola non impedisce che le esimenti generali trovino comunque applicazione: il che è sufficiente, in ogni caso, a garantire il rispetto del principio costituzionale invocato (diversamente opinando, la clausola stessa dovrebbe rinvenirsi in qualunque norma incriminatrice).



Fuori discussione, così, è l’applicabilità anche al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato delle scriminanti comuni – e, in particolare, di quella dello stato di necessità (art. 54 cod. pen.) – come pure delle cause di esclusione della colpevolezza, ivi compresa l’ignoranza inevitabile della legge penale (art. 5 cod. pen., quale risultante a seguito della sentenza n. 364 del 1988 di questa Corte), cui fa specifico riferimento il rimettente allorché evoca, in chiave critica, le situazioni dello straniero che non comprenda la lingua italiana o che entri in contatto per la prima volta con l’ordinamento giuridico nazionale.



Con particolare riguardo, poi, alla figura dell’illecito trattenimento – cui è circoscritto il quesito di costituzionalità – rimane, altresì, operante il basilare principio ad impossibilia nemo tenetur, valevole per la generalità delle fattispecie omissive proprie. In rapporto a tali fattispecie, difatti, l’impossibilità (materiale o giuridica) di compimento dell’azione richiesta esclude – secondo una diffusa opinione – la configurabilità del reato, prima ancora che sul piano della colpevolezza, già su quello della tipicità, trattandosi di un limite logico alla stessa configurabilità dell’omissione. Ne consegue che, per questo verso, un insieme di situazioni, rilevanti come «giustificato motivo» in rapporto al reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento, ben possono venire in considerazione anche ai fini di escludere la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (si pensi, ad esempio, alla indisponibilità, da parte dello straniero, per cause indipendenti dalla sua volontà, dei documenti necessari al fine di lasciare legalmente il territorio nazionale).



11.3. – Residua pur sempre – è ben vero – una diversità di regime rispetto all’ipotesi criminosa di cui al citato art. 14, comma 5-ter, connessa alla rilevata maggiore ampiezza delle situazioni riconducibili al paradigma del «giustificato motivo» rispetto alle cause generali di non punibilità. Tale diversità non determina, tuttavia, la violazione dell’art. 3 Cost. denunciata da entrambi i giudici rimettenti: e ciò alla luce sia della differente connotazione delle fattispecie poste a confronto che dell’esistenza di una differente disciplina.



Come già in altra occasione osservato da questa Corte, infatti, «la scelta del legislatore di riconoscere efficacia giustificativa, per il reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento impartito dal questore, a situazioni ostative diverse dalle esimenti di carattere generale, trova fondamento nella peculiarità di tale forma di espulsione, la cui esecuzione è affidata allo straniero medesimo, e la cui adozione è consentita solo quando non sia possibile l’accompagnamento alla frontiera, eventualmente preceduto dal trattenimento dell’interessato in un centro di identificazione e di espulsione» (ordinanza n. 41 del 2009, che ha conseguentemente escluso la configurabilità di una esigenza costituzionale di estensione della clausola «senza giustificato motivo» alla figura criminosa, a carattere commissivo, delineata dal comma 5-quater dello stesso art. 14, che configura come delitto la condotta dello straniero che venga trovato nel territorio nazionale dopo esserne stato espulso ai sensi del precedente comma 5-ter).



I presupposti che, nel sistema della legge (art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998), autorizzano l’amministrazione ad avvalersi dello strumento dell’ordine di allontanamento, in deroga al principio di esecuzione immediata dell’espulsione in forma coattiva, richiamano, in effetti, esigenze cui frequentemente corrispondono situazioni di rilevante difficoltà di tempestivo adempimento da parte dell’intimato (sentenza n. 5 del 2004, ordinanza n. 386 del 2006). Prospettiva nella quale l’impiego della clausola in questione rappresenta, dunque, un elemento che contribuisce a rendere costituzionalmente “tollerabile” il rigore sanzionatorio che caratterizza la figura criminosa (sentenza n. 22 del 2007).



Non equiparabile, sotto questo profilo, è la contravvenzione di cui al censurato art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che reprime con semplice pena pecuniaria la generica inosservanza delle disposizioni in tema di soggiorno (oltre che di ingresso) dello straniero nel territorio dello Stato: e ciò indipendentemente dall’intervento di un ordine amministrativo individualizzato, caratterizzato da un ristretto termine di adempimento e atto ad innescare un netto “salto di qualità” della risposta punitiva.



Rispetto alla contravvenzione in questione è, d’altra parte, rinvenibile un diverso strumento di “moderazione” dell’intervento sanzionatorio, non operante in rapporto alla fattispecie criminosa posta a confronto. Si tratta, in specie, del già ricordato istituto della improcedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000), reso applicabile dall’attribuzione della competenza per il reato in esame al giudice di pace: istituto la cui disciplina – nel suo riferimento alle condizioni dell’esiguità dell’offesa all’interesse tutelato, dell’occasionalità della violazione, del ridotto grado di colpevolezza e del pregiudizio recato dal procedimento penale alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell’imputato – può valere a “controbilanciare” la mancata attribuzione di rilievo alle fattispecie di «giustificato motivo» che esulino dal novero delle cause generali di non punibilità.



12. – Manifestamente inammissibile è, per converso, la questione, sollevata dal Giudice di pace di Torino in riferimento all’art. 3 Cost., concernente la facoltà del giudice di sostituire, nel caso di condanna, la pena pecuniaria comminata per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 con la misura dell’espulsione.



A prescindere da ogni considerazione di merito, la lesione costituzionale denunciata non deriva, infatti, dalla disposizione impugnata, ma da norme distinte, non coinvolte nello scrutinio di costituzionalità: in specie, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui – a seguito della modifica operata dalla legge n. 94 del 2009 – estende l’applicabilità dell’espulsione come sanzione sostitutiva alla contravvenzione di cui all’art. 10-bis del medesimo decreto legislativo; nonché dalla disposizione correlata dell’art. 62-bis del d.lgs. n. 274 del 2000, in forza della quale – diversamente da quanto stabilito dal precedente art. 62 con riferimento alle sanzioni sostitutive previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – «nei casi stabiliti dalla legge, il giudice di pace applica la misura sostitutiva di cui all’art. 16 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».



Tale profilo di manifesta inammissibilità assorbe quello dedotto dall’Avvocatura dello Stato, relativo al carattere, in assunto, solo ipotetico dell’applicabilità della misura sostitutiva nel caso di specie.



13. – Nel denunciare la contrarietà a Costituzione del trattamento sanzionatorio complessivo del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, il Giudice di pace di Torino prospetta anche una violazione dell’art. 3 Cost., correlata al divieto di concessione della sospensione condizionale della pena.



Anche tale questione è manifestamente inammissibile.



La preclusione della sospensione condizionale non scaturisce, infatti, neppure essa dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, quanto piuttosto dalla nuova lettera s-bis) dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 274 del 2000, che attribuisce la competenza per il reato in esame al giudice di pace, rendendo così operante il disposto dell’art. 60 del medesimo decreto legislativo: norme non sottoposte a scrutinio.



In ogni caso, manca ogni motivazione sia in ordine alla rilevanza della questione (non si afferma che, nel caso di specie, l’imputato potrebbe fruire della sospensione condizionale alla luce delle generali regole codicistiche), che alla sua non manifesta infondatezza (la lesione dell’art. 3 Cost. è prospettata in modo puramente assiomatico).



14. – Analoga conclusione si impone in rapporto alla questione avente ad oggetto la disposizione del comma 5 dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, in forza della quale il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere allorché abbia notizia dell’avvenuta esecuzione dell’espulsione amministrativa dell’autore del fatto o del suo respingimento ai sensi dell’art. 10, comma 2, del testo unico: previsione che, secondo il Giudice di pace di Lecco, contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost., in quanto farebbe dipendere l’applicazione o meno della pena per il reato in esame dall’operato dell’autorità amministrativa.



Non è fondata, al riguardo, l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa dello Stato. Il riferimento del giudice a quo alla circostanza che, nel caso di impossibilità di esecuzione dell’espulsione da parte dell’autorità amministrativa, lo straniero diviene destinatario dell’ordine di lasciare il territorio dello Stato – trovandosi così esposto, in caso di inottemperanza, alla più severa pena comminata dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 – non è infatti sufficiente ad avvalorare la tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo la quale il rimettente censurerebbe, in realtà, esclusivamente quest’ultima norma, che non viene in rilievo nel giudizio principale.



La questione risulta priva di rilevanza, nondimeno, per la diversa ragione che dall’ordinanza di rimessione non consta che l’imputato nel giudizio a quo sia stato effettivamente espulso o respinto, con conseguente carenza del presupposto di applicabilità della previsione normativa censurata (per analoga declaratoria di manifesta inammissibilità, in rapporto a questione di costituzionalità attinente alla disposizione generale in tema di non luogo a procedere per avvenuta espulsione di cui all’art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998, ordinanza n. 142 del 2006).



15. – È manifestamente inammissibile anche la questione, sollevata dal Giudice di pace di Torino in riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost., volta a censurare la mancata previsione di una disciplina transitoria che salvaguardi gli stranieri illegalmente presenti nel territorio dello Stato al momento dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.



La questione si risolve, infatti, nella richiesta di una pronuncia additiva dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente obbligati. Non potrebbe essere, in effetti, questa Corte a stabilire «un termine e una modalità operativa» per consentire a detti stranieri di allontanarsi spontaneamente dall’Italia senza incorrere in responsabilità penale, trattandosi di operazione che implica scelte discrezionali di esclusiva spettanza del legislatore.



16. – Manifestamente inammissibile è pure la censura di violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., formulata dal medesimo giudice rimettente a fronte dell’asserita introduzione di un obbligo di autodenuncia nei confronti del migrante irregolare responsabile dell’adempimento dell’obbligo scolastico previsto dall’art. 38 del d.lgs. n. 286 del 1998.



La lesione costituzionale denunciata non deriverebbe, infatti, una volta ancora, dalla norma incriminatrice recata dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, ma, semmai, secondo la prospettazione del rimettente, dal difettoso coordinamento di talune disposizioni “collaterali” (artt. 6, 35 e 38 del d.lgs. n. 286 del 1998): più in particolare, dalla mancata previsione, nel citato art. 38, di una esenzione dall’obbligo di segnalazione all’autorità del migrante irregolare da parte del personale scolastico, analoga a quella sancita dall’art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 con riferimento al personale sanitario.



Dette disposizioni “collaterali” non risultano peraltro coinvolte nell’impugnativa e, comunque, non vengono in rilievo nel giudizio a quo.



17. – È manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, infine, anche la questione, sollevata dal Giudice di pace di Torino in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., attinente alla mancata previsione di garanzie a favore dello straniero che presenti istanza di permanenza in Italia per gravi motivi connessi alla tutela di familiari minori, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998.



Ciò, in quanto dall’ordinanza di rimessione non consta che l’imputato nel giudizio a quo abbia presentato una simile istanza.



per questi motivi



LA CORTE COSTITUZIONALE



riuniti i giudizi,



1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), di cui ai punti 6, 7, 8, 9, 10 e 11 del Considerato in diritto, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 27, 97, primo comma, e 117 della Costituzione, dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, e dal Giudice di pace di Torino con le ordinanze indicate in epigrafe;



2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del citato art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, di cui ai punti 12, 13, 14, 15, 16 e 17 del Considerato in diritto, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 27 della Costituzione, dal Giudice di pace di Lecco, sezione distaccata di Missaglia, e dal Giudice di pace di Torino con le medesime ordinanze.



Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2010.



F.to:



Francesco AMIRANTE, Presidente



Giuseppe FRIGO, Redattore



Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere



Depositata in Cancelleria l'8 luglio 2010.



Il Direttore della Cancelleria



F.to: DI PAOLA