Ordinanza 307/2011

Ordinanza 307/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore TESAURO

Camera di Consiglio del 19/10/2011 Decisione del 09/11/2011
Deposito del 11/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 1 ter, c. 13°, del decreto legge 01/07/2009, n. 78, convertito dalla legge 03/08/2009, n. 102.
Massime:
Atti decisi: ord. 140/2011


ORDINANZA N. 307

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,



ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia-Giulia nel procedimento vertente tra R.A. e l’U.T.G. - Prefettura di Udine ed altri, con ordinanza del 24 febbraio 2011, iscritta al n. 140 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 18 ottobre 2011 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.



Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia-Giulia, con ordinanza del 24 febbraio 2011, ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13, (recte: art. 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102;

che, secondo l’ordinanza di rimessione, nel giudizio principale, R.A., cittadino del Bangladesh, ha impugnato il provvedimento che ha rigettato l’istanza di regolarizzazione della propria posizione lavorativa, proposta in virtù del citato art. 1-ter, in quanto egli ha riportato una condanna per il reato di cui agli artt. 624 e 625 del codice penale, inflitta con sentenza pronunciata dal Tribunale di Roma, a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale;

che, ad avviso del TAR, le censure di violazione di legge e difetto di motivazione del provvedimento impugnato proposte dal ricorrente sarebbero infondate, poiché l’art. 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito dalla legge n. 102 del 2009, dispone che non possono essere ammessi alla «procedura di emersione», prevista da detta norma, i lavoratori extracomunitari «che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 del medesimo codice», tra i quali rientra quello ascritto a R. A.;

che, tuttavia, secondo il giudice a quo, siffatta disposizione violerebbe l’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente «all’Amministrazione che istruisce il procedimento [di] valutare la gravità del reato, l’allarme sociale che lo stesso ha procurato, la condotta successiva tenuta» dal lavoratore extracomunitario e «l’attuale pericolosità» del medesimo;

che il rimettente ha accolto la domanda cautelare, sino all’esito della decisione della sollevata questione di legittimità costituzionale, ritenuta rilevante, in quanto l’art. 1-ter, comma 13, lettera c), comporterebbe il rigetto del ricorso proposto nel giudizio principale;

che, nel merito, secondo il TAR, la norma censurata violerebbe il suindicato parametro costituzionale ed i «principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché stabilisce la «medesima, grave conseguenza della non ammissione alla procedura di emersione» per i lavoratori extracomunitari i quali «hanno compiuto reati di rilevante gravità, e che generano allarme sociale», e per quelli di essi «incorsi in una sola azione disdicevole, di scarsissimo rilievo penale, e che abbiano successivamente seguito un percorso di riabilitazione o, avendo compreso il disvalore del proprio operato, abbiano in prosieguo tenuto una condotta di vita esente da mende»;

che detta disposizione si porrebbe, inoltre, in contrasto con il principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.), a causa dello «automatismo» che la connota, in quanto stabilisce un’identica disciplina per «soggetti che si sono resi colpevoli di azioni di rilevanza penale, ma profondamente diverse per gravità e intensità del dolo», avendo questa Corte affermato che la disciplina della permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato è riservata alla discrezionalità del legislatore ordinario, il quale, tuttavia, deve rispettare «il limite della ragionevolezza e proporzionalità (sentenze n. 104 del 1969, n. 144 del 1970 e n. 62 del 1994)»;

che, infine, il giudice a quo si dichiara «ben consapevole» del fatto che questioni analoghe a quella in esame, concernenti l’automatismo del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno nel caso di commissione di determinati reati, sono state dichiarate da questa Corte inammissibili o non fondate, ma, a suo avviso, soltanto perché «la giurisprudenza (in alcuni casi) aveva fornito un’interpretazione più “morbida” della norma», ovvero perché lo stesso legislatore ordinario avrebbe «mitigato il rigore» della disciplina, escludendo, in alcune ipotesi, la possibilità di rigettare l’istanza proposta dallo straniero extracomunitario a causa dell’irrogazione di una condanna penale e prevedendo la necessità di «valutare altri ed ulteriori elementi»;

che nel giudizio davanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata;

che, secondo l’interveniente, questa Corte avrebbe già dichiarato inammissibili censure analoghe a quelle in esame (sentenza n. 206 del 2007; ordinanze n. 218 del 2007, n. 44 del 2006, n. 126 del 2005), affermando che la disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri richiede il bilanciamento di una molteplicità di interessi, riservato all’ampia discrezionalità del legislatore ordinario (sentenza n. 62 del 1994), e, quindi, la questione sarebbe inammissibile, per difetto di motivazione della rilevanza, poiché il TAR avrebbe indicato «in modo generico e apodittico» gli elementi di differenziazione della fattispecie in esame da quelle già valutate dalla giurisprudenza costituzionale;

che, a suo avviso, la questione sarebbe inammissibile anche perché il rimettente non avrebbe «esplorato la possibilità di pervenire a un’interpretazione delle norme impugnate conforme a Costituzione»;

che, nel merito, la questione sarebbe infondata, poiché, secondo questa Corte, la disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri richiede il bilanciamento di una molteplicità di interessi, riservato all’ampia discrezionalità del legislatore ordinario (sentenza n. 62 del 1994), occorrendo garantire la valutazione della pericolosità sociale «solo per l’espulsione come misura di sicurezza», mentre il cosiddetto automatismo espulsivo «altro non è che il riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione e che costituisce anche per gli stranieri presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell’autorità amministrativa» (sono richiamate la sentenza n. 129 del 1995 e l’ordinanza n. 146 del 2002);

che, quindi, il citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), non sarebbe manifestamente irragionevole e lesivo del principio di parità di trattamento, anche in quanto la sentenza n. 78 del 2005, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni omologhe a tale norma (art. 33, comma 7, lettera c, della legge 30 luglio 2002, n. 189, recante «Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo», ed art. 1, comma 8, lettera c, del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195, recante «Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari», convertito dalla legge 9 ottobre 2002, n. 222), nella parte in cui prevedevano il rigetto dell’istanza di regolarizzazione della posizione lavorativa dello straniero extracomunitario in conseguenza della mera presentazione di una denuncia per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 cod. proc. pen., esclusivamente perché la denuncia «è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce»;

che, in definitiva, secondo l’interveniente, la norma censurata, escludendo la regolarizzazione della posizione lavorativa degli stranieri extracomunitari non in virtù della mera denuncia per determinati reati, bensì soltanto qualora sia stata pronunciata sentenza penale di condanna, che «costituisce adeguata e ragionevole “prova riguardo alla colpevolezza e pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce”», si sottrarrebbe alle censure svolte dal TAR.

Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia-Giulia, con ordinanza del 24 febbraio 2011, ha sollevato, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13, (recte: art. 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102;

che, secondo il rimettente, detta norma, avente ad oggetto la disciplina della regolarizzazione della posizione lavorativa degli stranieri extracomunitari, violerebbe l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone che «non possono essere ammessi alla procedura di emersione prevista» dalla stessa coloro i quali abbiano riportato condanna «per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381» del codice di procedura penale e non consente «all’Amministrazione che istruisce il procedimento [di] valutare la gravità del reato, l’allarme sociale che lo stesso ha procurato, la condotta successiva tenuta» dal lavoratore extracomunitario e «l’attuale pericolosità» del medesimo;

che, ad avviso del TAR, il citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), recherebbe vulnus al suindicato parametro costituzionale ed ai «principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché prevede la «medesima, grave conseguenza della non ammissione alla procedura di emersione» per i lavoratori extracomunitari i quali «hanno compiuto reati di rilevante gravità, e che generano allarme sociale», e per quelli di essi «incorsi in una sola azione disdicevole, di scarsissimo rilievo penale, e che abbiano successivamente seguito un percorso di riabilitazione o, avendo compreso il disvalore del proprio operato, abbiano in prosieguo tenuto una condotta di vita esente da mende»;

che detta disposizione violerebbe anche il principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.), a causa dello «automatismo» che la connota, in quanto stabilisce un’identica disciplina per «soggetti che si sono resi colpevoli di azioni di rilevanza penale, ma profondamente diverse per gravità e intensità del dolo» e, inoltre, benché la disciplina della permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato sia riservata alla discrezionalità del legislatore ordinario, questi è tenuto ad osservare il «limite della ragionevolezza e proporzionalità (sentenze n. 62 del 1994, n. 144 del 1970 e n. 104 del 1969)»;

che, infine, il giudice a quo si dichiara «ben consapevole» del fatto che questioni analoghe a quella in esame, concernenti l’automatismo del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno nel caso di commissione di determinati reati, sono state dichiarate da questa Corte inammissibili o non fondate, ma, a suo avviso, soltanto perché «la giurisprudenza (in alcuni casi) aveva fornito un’interpretazione più “morbida” della norma», oppure perché lo stesso legislatore ordinario avrebbe «mitigato il rigore» della disciplina, escludendo, in alcune ipotesi, la possibilità di rigettare l’istanza proposta dallo straniero extracomunitario a causa dell’irrogazione di una condanna penale e prevedendo la necessità di «valutare altri ed ulteriori elementi»;

che, in linea preliminare, va osservato che il rimettente ha concesso la misura cautelare sul presupposto della non manifesta infondatezza della questione sollevata e sino all’esito della decisione della stessa e, quindi, non ha esaurito la propria potestas iudicandi, con la conseguenza che, sotto questo profilo, la questione è ammissibile (per tutte, ordinanza n. 211 del 2011);

che l’eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione della rilevanza, proposta dall’interveniente sul rilievo che sarebbero state dichiarate inammissibili questioni analoghe a quella in esame, non è fondata, poiché la mancata, specifica valutazione di precedenti e di argomenti già svolti da questa Corte potrebbe comportare la manifesta infondatezza, non la manifesta inammissibilità della questione;

che l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo che il giudice a quo non avrebbe verificato la «possibilità di pervenire a un’interpretazione delle norme impugnate conforme a Costituzione» è del pari non fondata, poiché il TAR ha implicitamente, ma chiaramente indicato gli argomenti che impedirebbero di offrire un’interpretazione del citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), in grado di renderlo immune dalle censure proposte;

che, tuttavia, sempre in linea preliminare, va rilevato che l’ordinanza di rimessione presenta carenze in punto di descrizione della fattispecie e di esatta identificazione della fattispecie normativa censurata, tali da precludere lo scrutinio nel merito della questione;

che il giudice a quo ha contestato l’automatismo del diniego di regolarizzazione conseguente alla condanna irrogata per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 cod. proc. pen., ai quali rinvia l’art. 1-ter, comma 13, lettera c), senza tuttavia precisare, come sarebbe stato necessario, quale di dette disposizioni rilevi nella fattispecie oggetto del giudizio principale e, a fortiori, a quale delle molteplici ipotesi dalle stesse previste siano riferibili le censure;

che il TAR ha, infatti, dedotto soltanto che il ricorrente nel giudizio principale ha riportato condanna «per il reato di cui agli artt. 624 e 625 c.p.» ed ha omesso di specificare con la dovuta precisione le aggravanti contestate al ricorrente (riportando con la necessaria esattezza l’ipotesi di reato oggetto della sentenza di applicazione della pena), indicazione questa imprescindibile al fine di stabilire la riconducibilità del reato all’art. 380, comma 2, lettera e), ovvero all’art. 381, comma 2, lettera g), cod. proc. pen., con la conseguenza che la fattispecie normativa rilevante nel processo principale ed oggetto di censura da parte del giudice a quo non risulta puntualmente individuata;

che siffatta omissione è di pregnante rilievo anche perché il rimettente, dolendosi dell’automatismo del diniego dell’istanza di regolarizzazione nel caso di sentenza di condanna irrogata per reati di differente rilevanza penale, alcuni dei quali, a suo avviso, sono «di rilevante gravità» e «generano allarme sociale», ha dimostrato di non voler affatto contestare la previsione da parte del citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), di detto automatismo per tutti i reati elencati negli articoli 380 e 381 cod. proc. pen. e, pertanto, avrebbe dovuto indicare con l’indispensabile precisione per quale di essi (rilevante nel giudizio principale) lo abbia censurato;

che, peraltro, a tale lacuna questa Corte non può porre rimedio né mediante un’identificazione meramente congetturale (operata cioè sulla scorta dei soli elementi di fatto genericamente indicati dal rimettente) dell’ipotesi di reato per la quale vi è stata condanna, né mediante l’esame degli atti processuali, non consentita in questa sede in ossequio al principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione (da ultimo, ordinanza n. 260 del 2011);

che, pertanto, indipendentemente da ogni ulteriore valutazione in ordine all’ambiguità del petitum, connotato da profili di scarsa chiarezza ed indeterminatezza in ordine al contenuto dell’addizione richiesta, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia-Giulia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI