Sentenza 21/2012

Sentenza 21/2012
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore LATTANZI

Camera di Consiglio del 14/12/2011 Decisione del 25/01/2012
Deposito del 09/02/2012 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 2 ter, c. 11°, della legge 31/05/1965, n. 575.
Massime:
Atti decisi: ord. 178/2011


SENTENZA N. 21

ANNO 2012



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2-ter, undicesimo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), promosso dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nel procedimento penale a carico di D.M.T. ed altri con ordinanza del 3 marzo 2011, iscritta al n. 178 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Udito nella camera di consiglio del 14 dicembre 2011 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.



Ritenuto in fatto

1.− Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, seconda sezione penale, con ordinanza del 3 marzo 2011 (r.o. n. 178 del 2011) ha sollevato, per violazione degli articoli 24, primo e secondo comma, e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-ter, undicesimo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere).

1.1.− Il Tribunale rimettente premette di essere stato investito della proposta depositata il 30 settembre 2009 con la quale il pubblico ministero presso il Tribunale di Napoli – Direzione distrettuale antimafia faceva istanza di sequestro e di successiva confisca, a norma dell’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965, dei beni nella disponibilità di una persona deceduta il 3 novembre 2004. Il pubblico ministero aveva individuato, quali soggetti nei cui confronti avanzare la proposta, i successori a titolo universale del defunto, avverso il quale si era proceduto dinanzi alla Corte di assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per il delitto previsto dall’art. 416-bis del codice penale; il procedimento era stato definito con sentenza di estinzione del reato per morte del reo, pronunciata il 15 settembre 2005. La Corte di assise aveva rilevato che il decesso si era verificato dopo la formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero e che non poteva trovare applicazione la previsione dell’art. 129, comma 2, del codice di procedura penale, non essendo emersa dagli atti l’evidenza di una situazione probatoria idonea a giustificare un proscioglimento nel merito; l’istruttoria aveva raffigurato, attraverso numerose dichiarazioni provenienti da collaboratori, verifiche documentali ed intercettazioni telefoniche, l’esistenza di uno stabile rapporto tra l’imputato e l’organizzazione criminale, specie nel reimpiego di capitali di provenienza illecita. Nell’ottica del pubblico ministero proponente, gli elementi emersi nel corso del dibattimento svoltosi dinanzi alla corte di assise consentivano l’attivazione del procedimento di prevenzione patrimoniale, trattandosi di nuovi elementi non valutati in un precedente procedimento definito con decreto della Corte di appello di Napoli del 24 ottobre 2001 (confermato dalla Corte di cassazione), che aveva rigettato la proposta per carenza del presupposto soggettivo di cui all’art. 1 della legge n. 575 del 1965. Quanto al profilo patrimoniale, il pubblico ministero aveva rilevato un’evidente sproporzione tra il reddito dichiarato e l’attività economica svolta, da un lato, e gli ingenti investimenti realizzati in vita, dall’altro; sproporzione già compiutamente riscontrata, nel processo penale, in sede di sequestro preventivo dei beni ex art. 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nonché attraverso le perizie disposte dalla corte di assise, che avevano consentito di individuare e stimare lo stato patrimoniale dell’imputato e di verificarne l’incompatibilità con la capacità reddituale.

1.2.− Il tribunale rimettente dà quindi atto di avere disposto il sequestro anticipato dei beni già nella disponibilità del defunto e di avere fissato l’udienza per la trattazione in camera di consiglio, integrando il contraddittorio con i successori dello stesso a titolo universale. I difensori di costoro avevano contestato la sussistenza dei presupposti normativi posti a base del sequestro e, richiamate alcune pronunce della Corte di cassazione e della Corte europea dei diritti dell’uomo, avevano dedotto «il contrasto della procedura con il principio costituzionale del “giusto processo”, in quanto implicante un accertamento incidentale della “responsabilità di prevenzione di un soggetto deceduto impossibilitato a difendersi rispetto alle accuse che gli verrebbero mosse”, sia per la ontologica inesistenza del soggetto stesso, sia per la carenza di un sistema di rappresentanza che sia effettivo e plausibile».

1.3.– Anche alla luce delle argomentazioni difensive, il Tribunale ritiene che la disciplina dettata dall’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965 presenti profili di contrasto con i principi costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo.

Il rimettente ripercorre l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sul rapporto tra misure di prevenzione personali e patrimoniali, prendendo le mosse dalla precedente formulazione dell’art. 2-ter citato, che contemplava un rapporto di pregiudizialità tra le prime e le seconde, e ricorda che l’esigenza di attenuare il vincolo di stretta pregiudizialità tra la misura di prevenzione personale e quella patrimoniale è stata avvertita dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alle ipotesi di sopravvenuta morte della persona pericolosa o di cessazione della preesistente pericolosità sociale. Il rimettente richiama, in particolare, l’orientamento espresso dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 18 del 3 luglio 1996, secondo cui la confisca dei beni rientranti nella disponibilità di una persona proposta per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, una volta che siano rimasti accertati i presupposti di pericolosità qualificata della stessa, nel senso della sua appartenenza a un’associazione di tipo mafioso, e di indimostrata provenienza legittima dei beni confiscati, non viene meno a seguito della morte del proposto, intervenuta prima della definitività del provvedimento di prevenzione. In tale prospettiva, osserva ancora il rimettente, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il procedimento di prevenzione patrimoniale possa essere anche iniziato in seguito alla cessazione degli effetti dell’applicazione della misura di prevenzione personale.

L’elaborazione giurisprudenziale richiamata avrebbe trovato l’avallo della disciplina positiva, visto che «non sempre la misura patrimoniale seguiva o affiancava quella personale» (art. 2-ter, settimo e ottavo comma, della legge n. 575 del 1965) e la prospettiva tesa all’attenuazione del vincolo di pregiudizialità tra misura di prevenzione personale e patrimoniale sarebbe stata recepita dal legislatore con l’introduzione del comma 6-bis dell’art. 2-bis e dell’undicesimo comma dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, previsioni queste che hanno accentuato «la tendenza alla oggettivizzazione del procedimento patrimoniale antimafia».

Nonostante tale tendenza, sottolinea il rimettente, «il vigente sistema legislativo postula pur sempre un indefettibile collegamento con il profilo personale del soggetto cui è riferibile la proposta di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, nel senso che l’ambito di applicazione del sequestro e della confisca di prevenzione deve intendersi limitato solo nei confronti del patrimonio dei soggetti indiziati di cui all’art. 1 della l. 575/65»; l’accertamento del presupposto soggettivo rappresenterebbe un passaggio obbligato per disporre la confisca prevista dall’art. 2-ter e «tale preventiva valutazione, sia pure in via incidentale, si impone – alla luce del vigente sistema legislativo – pur nella ipotesi prevista dall’art. 2-ter, undicesimo comma, in cui la proposta di confisca venga formulata nei confronti di un soggetto già deceduto (entro il limite di cinque anni dal decesso)». Con la possibilità di attivare la procedura prevista dall’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 anche nelle ipotesi in cui nei confronti del soggetto deceduto non vi sia stato, in costanza di vita, «un accertamento definitivo – in sede di prevenzione ovvero in sede penale – della pericolosità sociale derivante dalla appartenenza ad un sodalizio mafioso», si determinerebbe, ad avviso del rimettente, «una concreta lesione del diritto di difesa e del principio del giusto processo, apparendo evidente che nell’ipotesi di soggetto già deceduto la valutazione del presupposto soggettivo di cui all’art. 1 della legge 575/1965 verrebbe di fatto operata senza che sia possibile instaurare il contraddittorio con il soggetto cui tale qualifica è attribuita».

1.4.– Richiamata la giurisprudenza costituzionale che ha chiarito alcuni concetti essenziali del sistema delle misure di prevenzione, quali quello di pericolosità sociale, il rimettente si sofferma sulla sentenza n. 335 del 1996 di questa Corte, che ha ribadito la compatibilità con gli artt. 3, 42 e 112 Cost. del sistema delle misure di prevenzione (all’epoca connotato da una scelta normativa radicalmente opposta a quella perseguita nel 2008) proprio in quanto «il legislatore era rimasto fermo nel richiedere, per l’emanazione dei provvedimenti di sequestro e confisca, un collegamento tra la cautela patrimoniale e l’esistenza di soggetti individuati, da ritenere pericolosi»; aggiunge che il tema era stato nuovamente preso in esame dall’ordinanza n. 368 del 2004, con la precisazione che «il sistema rimaneva ancorato al principio per cui le misure patrimoniali presuppongono necessariamente un rapporto tra beni di cui non sia provata la legittima provenienza e soggetti portatori di pericolosità sociale che ne dispongano».

Richiamata la configurazione della confisca dei beni rientranti nella disponibilità di un soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione personale delineata dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 18 del 1996, il rimettente sottolinea che la tesi della natura autonoma della confisca avrebbe poi trovato un preciso riscontro nelle modificazioni introdotte dalla legge 19 marzo 1990, n. 55, che ha sancito l’autonomia del procedimento penale e del procedimento di prevenzione e l’applicabilità della confisca anche in caso di assenza, residenza o dimora all’estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione, ancorché il relativo procedimento di prevenzione non sia ancora iniziato. Con la sentenza n. 335 del 1996 la Corte costituzionale aveva già rilevato che «nel caso dell’assenza e della residenza o della dimora all’estero, la pronuncia della misura patrimoniale presuppone comunque una valutazione di pericolosità della persona», mentre in altri casi «la misura di prevenzione personale è, per così dire, resa superflua o assorbita da altre misure già in atto, come le misure di sicurezza, che presuppongono anch’esse una valutazione di pericolosità della persona. In altri ancora, la pericolosità viene dalla legge desunta dall’esistenza di indizi di situazioni personali, anche penalmente rilevanti, di particolare gravità. E, infine, vi sono ipotesi in cui la rilevanza della pericolosità soggettiva è non abolita ma, per così dire, spostata da chi ha la disponibilità economica dei beni a chi dal loro impiego viene avvantaggiato nella propria attività criminosa». In nessuna di tali fattispecie, osserva il rimettente, si rileva la «pretermissione, originaria e presupposta, del contraddittorio con il proposto sia in ordine ai profili personali che patrimoniali del giudizio»; in tutti i casi indicati, infatti, e a differenza del caso oggetto del giudizio a quo, «il proposto è messo nella condizione di scegliere liberamente se e come difendersi (partecipando personalmente, nelle forme del rito di prevenzione, ovvero a mezzo di difensore di fiducia o di ufficio) e fruisce comunque della garanzia dell’assistenza tecnica, anche qualora non possa o non voglia essere presente alle udienze».

La citata pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 18 del 1996, ad avviso del rimettente, da un lato, non avrebbe considerato le eventuali problematiche, relative alla corretta instaurazione del contraddittorio e alla tutela del diritto di difesa, originate dal decesso del proposto e, dall’altro, avrebbe continuato a pretendere, ai fini della confisca, un vero e proprio accertamento dei presupposti personali e patrimoniali richiesti dalla legge antimafia e, parallelamente, la mancata dimostrazione della legittima provenienza dei beni.

Proseguendo nella ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale, il rimettente richiama la sentenza n. 368 del 2004 di questa Corte, che, pronunciandosi sulla questione relativa al rapporto tra misure di prevenzione personali e misure di prevenzione patrimoniali, avrebbe escluso un rapporto di completa autonomia tra le stesse, affermando che un intervento volto a rendere possibile l’applicazione della confisca in caso di contestuale rigetto della richiesta di una misura di prevenzione personale per mancanza del requisito della pericolosità sociale si tradurrebbe in una innovazione conseguente a una scelta di politica criminale di esclusiva spettanza del legislatore.

In questo quadro sono intervenute le riforme di cui al decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e, successivamente, alla legge 15 luglio 2009, n. 94. Quanto alla riforma del 2008, la seconda parte del novellato comma 6-bis dell’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965 va coordinata con la previsione contenuta nel nuovo comma undicesimo dell’art. 2-ter della medesima legge, che stabilisce un limite temporale massimo di cinque anni, decorrente dal decesso, entro il quale è possibile attivare il procedimento per l’applicazione della misura patrimoniale nei confronti dei successori a titolo universale o particolare. Osserva al riguardo il rimettente che «il ricorso sempre più incisivo agli strumenti di ablazione patrimoniale, li ha resi progressivamente assimilabili all’actio in rem ispirata ad un concetto di pericolosità in sé del bene, in quanto proveniente da delitto, piuttosto che di pericolosità della persona, potendosi anche prescindere – alla stregua delle evoluzioni giurisprudenziali poi consacrate in norma di legge – dall’esistenza in vita del soggetto attinto dalla misura prima della conclusione del procedimento prevenzionale, che potrà spiegare i suoi effetti anche in danno degli eredi». La legge n. 94 del 2009, continua il rimettente, è intervenuta nuovamente sull’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965 al fine di prevedere che le misure di prevenzione patrimoniali possano essere richieste e applicate «indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione». Ad avviso del rimettente, un’interpretazione letterale di tale inciso potrebbe indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso prescindere dall’accertamento della pericolosità sociale del soggetto attinto dalla confisca, il che porrebbe rilevanti problemi di compatibilità con i principi costituzionali di cui agli artt. 27, 41 e 42 Cost.; si è pertanto proposta una lettura costituzionalmente orientata della norma, per cui «la misura di prevenzione patrimoniale deve ritenersi applicabile non soltanto nei casi normativamente previsti, ma pure in ulteriori ipotesi in cui la misura personale, pur in presenza di un individuo pericoloso, o che è stato a suo tempo pericoloso, non può essere irrogata, per il ravvisato difetto di attualità della pericolosità sociale ovvero perché sia cessata l’esecuzione della misura personale medesima». Se, dunque, secondo l’elaborazione giurisprudenziale prevalente, nel giudizio finalizzato alla confisca di prevenzione non si può prescindere da un vaglio – sia pure incidentale – sulla pericolosità del soggetto proposto, si pone, ad avviso del rimettente, un problema di compatibilità delle moderne sanzioni patrimoniali con alcuni fondamentali princìpi costituzionali, soprattutto in considerazione del “nuovo” art. 111 Cost., che ha cristallizzato i princìpi del giusto processo, tra i quali il contraddittorio e la parità delle armi tra le parti. Ad avviso del rimettente, la sopravvenienza della fondamentale disposizione dell’art. 111 Cost. e della possibilità di agire con le misure di prevenzione patrimoniali nei confronti dei successori del de cuius pericoloso impone un vaglio sulla compatibilità del nuovo assetto della prevenzione patrimoniale disciplinato dal legislatore del 2008 e del 2009 con i princìpi costituzionali indicati, un vaglio da effettuare anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto la conformità della confisca antimafia prevista dalla legislazione italiana in quanto disposta sulla base di un procedimento qualificabile come pienamente giurisdizionale.

La possibilità di assicurare la partecipazione personale dell’interessato al giudizio riveste, secondo il tribunale rimettente, un’indiscutibile importanza, sia dal punto di vista della salvaguardia dei diritti della persona da giudicare, sia da quello, oggettivo, della legalità della procedura rispetto alle posizioni delle parti: sotto il primo profilo, la partecipazione costituisce «una condizione essenziale per l’esplicazione dei diritti che competono al soggetto in quanto contraddittore», mentre sotto il secondo profilo «può dirsi che sia la stessa definizione costituzionale del processo (di qualsiasi processo, alla stregua del dato testuale dell’articolo 111 della Costituzione) come contraddittorio a determinare l’essenzialità della possibile partecipazione del soggetto in ipotesi qualificabile come portatore di pericolosità personale in quanto momento di realizzazione di una situazione processuale giuridicamente rilevante». Ribadito che in ogni processo la presenza fisica dell’interessato (o almeno la possibilità astratta di partecipare) costituisce momento fondamentale del rapporto processuale, che condiziona la correttezza del giudizio, il rimettente richiama l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui il principio della parità delle armi postula la possibilità per ciascuna parte di presentare la sua causa in condizioni tali da non trovarsi in posizione di svantaggio rispetto all’altra parte.

Anche alla luce dell’art. 14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 (ratificato e reso esecutivo con legge del 25 ottobre 1977, n. 881) e della Raccomandazione n. 11 adottata il 21 maggio 1975 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, il rimettente ritiene evidente, nel caso in esame, l’inosservanza dei princìpi indicati, atteso che «il legislatore ha costruito la fattispecie prescindendo dalla posizione del de cuius pericoloso e ritenendo integrato il contraddittorio formale nei confronti dei suoi successori a titolo universale o particolare»; al contrario, «posta la correlazione tra presenza nel giudizio e possibilità di autodifesa, la compressione di tale modalità difensiva determinata dall’impossibilità oggettiva dell’imputato di partecipazione al giudizio presenta profili di incompatibilità con i princìpi minimi del contraddittorio, dal momento che – libero il proposto in vita di difendersi avvalendosi dell’attività tecnica di un difensore o di non difendersi affatto – tale libertà risulta vistosamente compressa nel caso della impossibilità materiale di essere presente».

Richiamate alcune decisioni della Corte EDU sull’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848), nonché la sentenza n. 93 del 2010 di questa Corte e la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 13426 del 25 marzo 2010 sulla inutilizzabilità, nel giudizio di prevenzione, delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel giudizio penale di cognizione, il rimettente osserva che nel caso in esame, esclusa la possibilità di una partecipazione personale del soggetto qualificabile come portatore di pericolosità ai sensi dell’art. 1 della legge n. 575 del 1965, neppure sarebbe ipotizzabile un contraddittorio con un eventuale difensore del de cuius, in quanto, da una parte, l’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge citata contempla solo i successori come soggetti nei cui confronti avanzare la proposta di confisca di prevenzione e, dall’altra, l’ordinamento non prevede tale evenienza, comportando la morte dell’interessato l’immediata estinzione del rapporto processuale. Né sarebbe praticabile una via alternativa alla questione di legittimità costituzionale, ritenendo sufficiente, ai fini del vaglio incidentale sulla pericolosità del de cuius, il «materiale istruttorio» raccolto, in contraddittorio, nell’ambito di un procedimento già svoltosi nei confronti del proposto, poi deceduto, per reati dai quali sia possibile desumere la sua qualità di indiziato ai sensi dell’art. 1 della legge n. 575 del 1965: tale soluzione, «soprattutto nelle ipotesi, come quella in esame, in cui non si sia formato un accertamento di merito sulla pericolosità del soggetto, non appare soddisfacente proprio sotto il profilo del diritto di difesa e del principio del contraddittorio e della parità delle armi, sanciti dagli articoli 24 e 111 della Costituzione». La soluzione prospettata, infatti, prescinde dalla «possibilità che il soggetto nei cui confronti si formula pur sempre un giudizio di pericolosità (ma anche di disponibilità, sproporzione ed illecita provenienza dei beni) si difenda sul punto in quella che è la sede propria dell’accertamento», ossia nel procedimento di prevenzione instaurato dopo la morte e in relazione alle sue finalità specifiche. L’esigenza di difesa non sarebbe adeguatamente soddisfatta dall’instaurazione del contraddittorio con i successori a titolo universale o particolare, apparendo la norma censurata dettata più al fine di consentire l’instaurazione del procedimento, che non a quello di assicurare un valido ed effettivo contraddittorio su ciascuna delle valutazioni demandate al giudice. Ad avviso del rimettente, infatti, «mal si comprende come potrebbero i successori difendersi efficacemente (e non ricoprire soltanto un ruolo formale di parte processuale) su vicende che hanno coinvolto il loro ascendente e delle quali potrebbero non essere a conoscenza». In secondo luogo, «non appare convincente utilizzare, in assenza di reale contraddittorio, gli esiti probatori di un diverso procedimento, svoltosi in costanza di vita del soggetto, nel giudizio di prevenzione instaurato post mortem»: osserva al riguardo il rimettente che nel processo penale è possibile acquisire e valutare, entro i limiti dell’art. 192 cod. proc. pen., le sentenze irrevocabili rese in altro giudizio e i verbali di prove di altro procedimento penale, ma ciò avviene «nell’ambito di due giudizi omogenei» e l’acquisizione e l’utilizzabilità sono valutate nel pieno contraddittorio tra le parti e, quindi, nel rispetto dei diritti di difesa e del principio del contraddittorio e del giusto processo.

2.− È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto la declaratoria di infondatezza della questione, osservando che con il principio dell’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione introdotto dal decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e successivamente rafforzato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, il legislatore ha riconosciuto la reciproca autonomia tra misure di prevenzione personali e patrimoniali: di conseguenza, «il sopravvenuto decesso del prevenuto – una volta che siano rimasti accertati i due presupposti della pericolosità qualificata e dell’indimostrata provenienza legittima dei beni oggetto di confisca – non fa venir meno la misura patrimoniale che risponde all’esigenza di scongiurare il rischio che i suddetti beni, lasciati nella libera disponibilità degli eredi, possano divenire fonte potenziale di ulteriori attività illecite». Richiamata la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 18 del 1996, l’Avvocatura dello Stato rileva che il nuovo assetto della prevenzione patrimoniale disciplinato dal legislatore del 2008 e del 2009 non è lesivo del principio del giusto processo, in quanto, nel caso in cui la misura venga proposta entro cinque anni dal decesso del de cuius, consente l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dei suoi successori a titolo universale o particolare, che potranno far valere nel processo di prevenzione gli eventuali elementi di difesa volti a contestare la sussistenza dei requisiti necessari per l’adozione della confisca (sproporzione tra reddito e investimenti realizzati, illegittima provenienza dei beni).

Circa i profili di presunta incompatibilità della norma censurata con i princìpi fissati dalla giurisprudenza della Corte EDU richiamata dal rimettente, l’Avvocatura dello Stato osserva che le motivate scelte di politica criminale del legislatore del 2008 e del 2009 non incidono sui diritti di libertà (relativi alle misure di prevenzione personale), ma sul diritto di proprietà e di iniziativa economica, che possono essere sacrificati nell’interesse delle esigenze di sicurezza e dell’utilità generale (art. 41, secondo comma, Cost.), nonché della funzione sociale della proprietà (art. 42, secondo comma, Cost.). Tali scelte rientrerebbero pertanto nell’ambito della discrezionalità riservata al legislatore e risulterebbero «supportate dall’esigenza di sottrarre i patrimoni accumulati illecitamente alla disponibilità dei soggetti che non possono dimostrarne la legittima provenienza», come ha chiarito la giurisprudenza della Corte di cassazione.

3.− Con successiva memoria illustrativa, l’Avvocatura generale dello Stato ha insistito per il rigetto della questione di legittimità costituzionale. Ricostruito il contesto normativo alla base della questione stessa, l’Avvocatura dello Stato rileva che i più recenti innesti normativi sono stati operati all’esito di «un diuturno e costante confronto con “il diritto vivente” nell’intento di recepire le opzioni ermeneutiche, costituzionalmente orientate, fornite a più riprese dalla Suprema Corte e dalla Corte costituzionale». La soluzione di rendere l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale indipendente da quella delle misure personali sarebbe sintomatica di un nuovo modo di intendere l’intervento ablativo patrimoniale, basato sulla «intrinseca pericolosità dei beni utilizzabili per la proliferazione del fenomeno mafioso più che sulla pericolosità sociale di un determinato soggetto (in sintonia, del resto, con la funzione sociale della proprietà sancita dall’art. 42 della Costituzione)»: si tratterebbe dunque di un’opzione di politica criminale non opinabile in sede di giudizio di costituzionalità.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, inoltre, al superamento della pregiudizialità delle misure preventive personali rispetto all’applicazione delle misure patrimoniali consegue la “sopravvivenza” della confisca alla morte del sottoposto, una volta che siano stati accertati i presupposti previsti dalla legge, secondo l’orientamento accolto dalla Corte di cassazione e condiviso dalla sentenza n. 335 del 1996 della Corte costituzionale.

Il nostro legislatore avrebbe introdotto nell’ordinamento un’ipotesi di “confisca antimafia” di portata allargata rispetto al tradizionale istituto della confisca, nella quale non viene più sottratto uno specifico bene, provento di uno specifico reato, bensì tutti i beni che si ritengono di origine illecita per il loro valore sproporzionato rispetto al reddito di chi ne dispone: questo principio «risponde ad una valutazione di politica legislativa che fuoriesce dal campo di applicazione della Cedu, poiché involgente una materia che costituisce uno dei terreni riservati alla sovranità degli Stati» firmatari della Convenzione. Nel caso in cui la misura patrimoniale sia proposta entro cinque anni dal decesso del de cuius, il contraddittorio deve essere instaurato nei confronti dei successori a titolo universale o particolare della persona proposta, che potranno far valere tutti gli elementi utili a contestare la sussistenza dei requisiti necessari per l’adozione della confisca. La disciplina della confisca tiene conto, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, della giurisprudenza della Corte EDU, che ha espressamente enunciato il principio secondo cui «è compito della Corte europea, chiamata a pronunciarsi sui singoli casi, stabilire se nella disciplina sub iudice è stato conservato il giusto equilibrio tra le esigenze di ordine generale (in questo caso la prevenzione sociale) e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (il diritto di proprietà), tenendo conto del margine insindacabile di valutazione (discrezionale) riconosciuto a ciascuno Stato (…)».



Considerato in diritto

1.− Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, seconda sezione penale, con ordinanza del 3 marzo 2011 (r.o. n. 178 del 2011) ha sollevato, per violazione degli articoli 24, primo e secondo comma, e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-ter, undicesimo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere). In forza di tale comma, aggiunto dall’art. 10, comma 1, lettera d), numero 4, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, come sostituito dalla legge di conversione 24 luglio 2008, n. 125, «la confisca può essere proposta, in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta, nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso». Il rimettente censura la disposizione indicata sviluppando le sue argomentazioni su un duplice piano.

1.1.− Sotto un primo aspetto, l’ordinanza di rimessione deduce la violazione delle garanzie processuali, facendo riferimento al soggetto nei confronti del quale la confisca avrebbe dovuto essere disposta, ossia al soggetto deceduto: il rimettente, tra l’altro, rileva che «neppure sarebbe ipotizzabile immaginare un contraddittorio instaurato validamente con un eventuale difensore del de cuius (che si facesse carico di difendere la sua posizione sia in ordine ai profili personali che patrimoniali della procedura)» e ciò in quanto, da una parte, l’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965 contempla solo i successori come soggetti nei cui confronti avanzare la proposta di confisca di prevenzione e, dall’altra, l’ordinamento non prevede tale evenienza, comportando la morte dell’interessato l’immediata estinzione del rapporto processuale.

1.2.− Sotto un secondo aspetto, il rimettente mette in evidenza che «il legislatore ha costruito la fattispecie prescindendo dalla posizione del de cuius pericoloso e ritenendo integrato il contraddittorio formale nei confronti dei suoi successori a titolo universale o particolare». Da questo punto di vista, il rimettente esclude la praticabilità di una via, alternativa alla questione di legittimità costituzionale, che valorizzi, ai fini del vaglio incidentale sulla pericolosità del de cuius, il «materiale istruttorio» raccolto, in contraddittorio, nell’ambito di un procedimento già svoltosi nei confronti del proposto poi deceduto per reati dai quali sia possibile desumere la sua qualità di indiziato ai sensi dell’art. 1 della legge n. 575 del 1965: tale soluzione a suo avviso «non appare soddisfacente proprio sotto il profilo del diritto di difesa e del principio del contraddittorio e della parità delle armi, sanciti dagli articoli 24 e 111 della Costituzione», in quanto prescinde dalla «possibilità che il soggetto nei cui confronti si formula pur sempre un giudizio di pericolosità (ma anche di disponibilità, sproporzione ed illecita provenienza dei beni) si difenda sul punto in quella che è la sede propria dell’accertamento», ossia nel procedimento di prevenzione instaurato dopo la morte e in relazione alle sue finalità specifiche. Secondo il rimettente, in tale procedimento l’esigenza di difesa «non appare adeguatamente soddisfatta dal meccanismo contemplato dal legislatore, ossia quello dell’instaurazione del contraddittorio con i successori a titolo universale o particolare, con una previsione che appare dettata più al fine di consentire l’instaurazione del procedimento, che non un valido ed effettivo contraddittorio su ciascuna delle valutazioni demandate al giudice (sussistenza degli indizi di appartenenza del proposto deceduto ad associazioni mafiose; verifica della disponibilità da parte di quest’ultimo di beni; verifica dei presupposti di sproporzione ed illecita provenienza)». Ad avviso del rimettente, infatti, «mal si comprende come potrebbero i successori difendersi efficacemente (e non ricoprire soltanto un ruolo formale di parte processuale) su vicende che hanno coinvolto il loro ascendente e delle quali potrebbero non essere a conoscenza».

2.− Preliminarmente deve rilevarsi che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è stato emanato il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), che all’art. 18 – inserito nel Titolo II (Le misure di prevenzione patrimoniali) del Libro I (Le misure di prevenzione) – riproduce, con alcune variazioni lessicali, la disposizione censurata; infatti, il terzo comma dell’art. 18 è così formulato: «Il procedimento di prevenzione patrimoniale può essere iniziato anche in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta la confisca; in tal caso la richiesta di applicazione della misura di prevenzione può essere proposta nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare entro il termine di cinque anni dal decesso». La nuova disposizione, tuttavia, non trova applicazione al caso in esame, in forza dell’art. 117, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 159 del 2011, a norma del quale: «Le disposizioni contenute nel libro I non si applicano ai procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione. In tali casi, continuano ad applicarsi le norme previgenti». Nel giudizio a quo, come risulta dall’ordinanza di rimessione, la richiesta di sequestro e di successiva confisca, ai sensi dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, è stata avanzata con proposta depositata il 30 settembre 2009.

3.− Sempre in via preliminare, deve rilevarsi che il dispositivo dell’ordinanza di rimessione fa riferimento alla violazione – oltre che dell’art. 24, secondo comma, e dell’art. 111 Cost. – dell’art. 24, primo comma, Cost.: quest’ultimo riferimento, tuttavia, non è accompagnato da alcuna motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione. La censura relativa al primo comma dell’art. 24 Cost. è, pertanto, inammissibile.

4.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965, sollevata in riferimento al diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, e al principio del contraddittorio sancito dall’art. 111 Cost., non è fondata.

5.− Per quanto riguarda la prima delle due prospettive argomentative sviluppate dal rimettente, è sufficiente osservare che, nel procedimento delineato dalla disposizione censurata, parti sono i «successori a titolo universale o particolare» del «soggetto nei confronti del quale [la confisca] potrebbe essere disposta» e non quest’ultimo: sono dunque del tutto prive di fondamento le argomentazioni volte a riferire le ipotizzate violazioni del diritto di difesa e del principio del contraddittorio al soggetto deceduto e non ai suoi successori, senza dire dell’erroneità dell’attribuzione ad una persona defunta della titolarità di una posizione processuale propria.

6.− La questione non è fondata anche con riguardo alla seconda prospettiva argomentativa, tesa a censurare in radice, con riguardo al diritto di difesa e al principio del contraddittorio, la legittimità costituzionale del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale a carico dei successori del «soggetto nei confronti del quale [la confisca] potrebbe essere disposta». La questione sollevata investe l’ipotizzata lesione delle garanzie processuali delle parti connessa alla possibilità generale di procedere, in sede di applicazione della confisca quale misura di prevenzione patrimoniale, a carico di soggetti diversi da quello «nei confronti del quale [la confisca] potrebbe essere disposta», ossia dei suoi successori.

Il nucleo essenziale delle censure mosse all’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965 consiste dunque in un asserito vulnus al diritto di difesa e al principio del contraddittorio che il rimettente ritiene inevitabilmente collegato alla configurazione normativa del procedimento in esame, effettuata dal legislatore «prescindendo dalla posizione del de cuius pericoloso».

Al riguardo, deve rilevarsi che al successore sono assicurati, nel procedimento in questione, i mezzi probatori e i rimedi impugnatori previsti per il de cuius, sicché ciò che può mutare è solo il rapporto di conoscenza che lega il successore stesso ai fatti oggetto del giudizio e in particolare, nella specie, a quelli integranti i presupposti della confisca. Tale circostanza, tuttavia, potrebbe, in linea astratta, incidere sugli specifici profili del procedimento relativi – per riprendere le espressioni del rimettente – alle varie «valutazioni demandate al giudice (sussistenza degli indizi di appartenenza del proposto deceduto ad associazioni mafiose; verifica della disponibilità da parte di quest’ultimo di beni; verifica dei presupposti di sproporzione ed illecita provenienza)», ma non sulla possibilità di procedere nei confronti dei successori, prevista dalla disposizione censurata; il che mette in luce, da un primo punto di vista, la non fondatezza della questione.

D’altra parte, l’individuazione, operata dal rimettente, della «presenza fisica dell’interessato» (o almeno della sua «possibilità astratta di partecipare») quale «momento fondamentale del rapporto processuale, che condiziona la correttezza globale del giudizio», in cui si sostanzia il nucleo essenziale della questione, non è giustificata con riferimento a un procedimento finalizzato all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca. Da questo punto di vista, l’argomentare del rimettente è viziato dall’impropria sovrapposizione dei connotati del procedimento penale a quelli del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, sovrapposizione messa in luce (oltre che, implicitamente, dai riferimenti al de cuius quale parte “necessaria” del procedimento in questione) dal richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: tale richiamo, che si accompagna al riferimento all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848) e all’art. 14, terzo comma, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 (ratificato e reso esecutivo con legge del 25 ottobre 1977, n. 881), è infatti indirizzato – non già alle pronunce che hanno esaminato la confisca disciplinata dall’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, sussumendola nell’ambito civile di cui all’art. 6 § 1 della CEDU (decisione 4 settembre 2001, Riela contro Italia, ric. n. 52439/99), bensì – alla giurisprudenza della Corte EDU sul giudizio penale e, in particolare, sul giudizio in absentia (ad esempio, sentenza 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia, ric. n. 56581/00).

L’erroneità di tale sovrapposizione si coglie sotto un duplice profilo.

In primo luogo, e su un piano generale, essa comporta la svalutazione della specificità della sede processuale nella quale l’accertamento di determinati fatti si svolge e dei correlati possibili esiti. Infatti, anche con riferimento al fatto-reato, altro è che il relativo accertamento si svolga nella sede penale, dove la configurazione della morte del reo quale causa di estinzione del reato costituisce, come ha affermato questa Corte, «diretto riflesso del principio – di carattere sostanziale – di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), il quale impedisce che la potestà punitiva dello Stato si eserciti su soggetti diversi dall’autore del fatto criminoso» (ordinanza n. 289 del 2011); altro è che tale accertamento si svolga in sede diversa da quella penale. Diversità di situazioni messe bene in luce dalla giurisprudenza quando ammette, ad esempio, che il giudice civile possa conoscere incidentalmente del reato, qualora la natura penale del fatto illecito venga in rilievo nel giudizio risarcitorio ad esso conseguente (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2005, n. 13972), e possa procedere, in caso di decesso dell’imputato, nei confronti dei suoi eredi (Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2000, n. 15511).

In secondo luogo, la sovrapposizione da cui è viziato l’argomentare del rimettente si traduce nello svilimento delle peculiarità del procedimento di prevenzione e, segnatamente, del procedimento per l’applicazione della confisca. Ferma la ormai acquisita configurazione giurisdizionale del procedimento di prevenzione, che impone in via di principio l’osservanza delle regole (come quelle del contraddittorio) coessenziali al giudizio in senso proprio (sentenza n. 77 del 1995), la giurisprudenza costituzionale ha rimarcato, per un verso, che «il procedimento di prevenzione, il processo penale e il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza sono dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali» e, per altro verso, che «le forme di esercizio del diritto di difesa [possono] essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione» (sentenza n. 321 del 2004).

Le peculiarità del procedimento di prevenzione devono, infine, essere valutate alla luce della specifica ratio della confisca in esame, una ratio che, come ha affermato questa Corte, da un lato, «comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al “circuito economico” di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo» e, dall’altro, «a differenza di quella delle misure di prevenzione in senso proprio, va al di là dell’esigenza di prevenzione nei confronti di soggetti pericolosi determinati e sorregge dunque la misura anche oltre la permanenza in vita del soggetto pericoloso» (sentenza n. 335 del 1996).

Le «profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e di prevenzione» (ordinanza n. 275 del 1996) e le peculiarità di quest’ultima, particolarmente significative quando, come nel caso della confisca, la sede sia funzionale all’applicazione di misure destinate ad incidere non già sulla libertà personale della parte, ma sul suo patrimonio, in uno con la considerazione della ratio dell’istituto, confermano l’infondatezza della questione, incentrata sull’assunto – valido per il processo penale – che la «presenza fisica» del «soggetto nei confronti del quale [la confisca] potrebbe essere disposta» (o almeno la sua «possibilità astratta di partecipare») sia condizione ineludibile di conformità del procedimento per l’applicazione della misura patrimoniale ai parametri costituzionali evocati dal rimettente.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-ter, undicesimo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), sollevata, in riferimento all’art. 24, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965, sollevata, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI