Ordinanza 65/2012

Ordinanza  65/2012
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente QUARANTA - Redattore FRIGO

Camera di Consiglio del 15/02/2012    Decisione  del 07/03/2012
Deposito del 21/03/2012   Pubblicazione in G. U. 28/03/2012
Norme impugnate: Artt. 10 bis e 16, c. 1°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, rispettivamente aggiunto e modificato dall'art. 1, c. 16°, della legge 15/07/2009, n. 94; art. 62 bis del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274, aggiunto dall'art. 1, c. 17°, lett. d), della legge 15/07/2009, n. 94.
Massime: 36166  
Atti decisi: ord. 189/2011
 
ORDINANZA N. 65
ANNO 2012
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
 
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), rispettivamente aggiunto e modificato dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’articolo 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della citata legge n. 94 del 2009, promosso dal Giudice di pace di Lentini nel procedimento penale a carico di G.O., con ordinanza del 28 ottobre 2010, iscritta al n. 189 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
 
Ritenuto che, con ordinanza del 28 ottobre 2010, pervenuta alla Corte il 2 agosto 2011, il Giudice di pace di Lentini ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), rispettivamente aggiunto e modificato dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’articolo 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della citata legge n. 94 del 2009;
che il giudice a quo così testualmente motiva l’ordinanza di rimessione: «ritenuta la non manifesta infondatezza che il D.Lvo n. 286/1998 e 62 bis D.Lvo n. 274/2000 introdotti dall’art. 1 co. 16, 17 Legge n. 94/2009 essendo in contrasto con gli artt. 3-13-25-27 della Costituzione, ordina la sospensione del giudizio in corso e rimette gli atti alla Corte Costituzionale per il relativo giudizio di legittimità»;
che all’ordinanza di rimessione risulta, altresì, allegato un modulo prestampato, non compilato, della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, nel quale sono evidenziati plurimi asseriti profili di illegittimità costituzionale – per violazione del principio di offensività (artt. 13, 25 e 27 Cost.) e dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) – della disciplina concernente il reato di ingresso e soggiorno illegale nello Stato, previsto dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per carente descrizione della fattispecie concreta e per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Considerato che l’ordinanza di rimessione presenta evidenti carenze, tali da precludere l’esame del merito della questione;
che il giudice a quo omette, infatti, totalmente di descrivere la fattispecie concreta e di motivare in ordine alla rilevanza della questione;
che il rimettente omette, altresì, totalmente di esporre le ragioni per le quali, a suo avviso, le norme denunciate violerebbero i parametri costituzionali evocati;
che tale ultima carenza non può ritenersi sanata dalla mera allegazione all’ordinanza di rimessione di un modulo prestampato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, recante argomentazioni a sostegno della illegittimità costituzionale delle norme censurate: modulo al quale l’ordinanza non fa, peraltro, neppure un esplicito rinvio;
che, infatti, anche qualora si volesse ritenere implicito tale rinvio, è giurisprudenza consolidata di questa Corte che la non manifesta infondatezza della questione non può essere motivata per relationem, tramite il mero riferimento ad atti estranei all’ordinanza di rimessione, dovendo il giudice rendere esplicite le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma con motivazione autosufficiente (ex plurimis, sentenze n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010);
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
 
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), rispettivamente aggiunto e modificato dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’articolo 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della citata legge n. 94 del 2009, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, dal Giudice di pace di Lentini con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI
 

Sentenza 64/2012

Sentenza  64/2012
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE

Presidente QUARANTA - Redattore GALLO F.

Udienza Pubblica del 21/02/2012    Decisione  del 07/03/2012
Deposito del 21/03/2012   Pubblicazione in G. U. 28/03/2012
Norme impugnate: Artt. 2, c. da 1° a 4°, e 14, c. 2°, del decreto legislativo 14/03/2011, n. 23.
Massime: 36163  36164  36165  
Atti decisi: ric. 51/2011
 
SENTENZA N. 64
ANNO 2012
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
 
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, commi da 1 a 4, e 14, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) promosso dalla Regione siciliana con ricorso notificato il 23 maggio 2011, depositato in cancelleria il 30 maggio 2011 ed iscritto al n. 51 del registro ricorsi 2011.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2012 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Marina Valli e Beatrice Fiandaca per la Regione siciliana e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
 
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 23 maggio 2011 e depositato il successivo 30 maggio, la Regione siciliana ha promosso questioni principali di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 14, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale), nonché «delle ulteriori disposizioni del medesimo decreto ad essi correlati che possono pregiudicare l’autonomia finanziaria della Regione». La ricorrente denuncia che dette disposizioni violano: a) tutte, gli artt. 36 e 37 dello statuto della Regione siciliana (r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, recante «Approvazione dello statuto della Regione siciliana», convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2) e le «relative» norme di attuazione di cui al d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria); b) il solo art. 2, anche l’art. 14, lettera o), dello statuto della Regione siciliana; c) il solo art. 14, comma 2, e le «ulteriori disposizioni del medesimo decreto ad essi correlati che possono pregiudicare l’autonomia finanziaria della Regione», anche gli artt. 81 e 119, quarto comma, della Costituzione e «l’autonomia finanziaria dei Comuni».
1.2.– Quanto all’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2011, la ricorrente richiama, in particolare, i commi 1, 2, 3 e 4, ritenendo che l’attribuzione ai Comuni del gettito o delle quote del gettito dei tributi in essi elencati «sottrae alla Regione cespiti di spettanza regionale». Tali commi stabiliscono che: «In attuazione della citata legge n. 42 del 2009, e successive modificazioni, ed in anticipazione rispetto a quanto previsto in base al disposto del seguente articolo 7, a decorrere dall’anno 2011 sono attribuiti ai comuni, relativamente agli immobili ubicati nel loro territorio e con le modalità di cui al presente articolo, il gettito o quote del gettito derivante dai seguenti tributi: a) imposta di registro ed imposta di bollo sugli atti indicati all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131; b) imposte ipotecaria e catastale, salvo quanto stabilito dal comma 5; c) imposta sul reddito delle persone fisiche, in relazione ai redditi fondiari, escluso il reddito agrario; d) imposta di registro ed imposta di bollo sui contratti di locazione relativi ad immobili; e) tributi speciali catastali; f) tasse ipotecarie; g) cedolare secca sugli affitti di cui all’articolo 3, con riferimento alla quota di gettito determinata ai sensi del comma 8 del presente articolo [comma 1]. Con riferimento ai tributi di cui alle lettere a), b), e) ed f), del comma 1, l’attribuzione del gettito ivi prevista ha per oggetto una quota pari al 30 per cento dello stesso [comma 2]. Per realizzare in forma progressiva e territorialmente equilibrata la devoluzione ai comuni della fiscalità immobiliare di cui ai commi 1 e 2, è istituito un Fondo sperimentale di riequilibrio. La durata del Fondo è stabilita in tre anni e, comunque, fino alla data di attivazione del fondo perequativo previsto dall’articolo 13 della citata legge n. 42 del 2009. Il Fondo è alimentato con il gettito di cui ai commi 1 e 2, nonché, per gli anni 2012, 2013 e 2014, dalla compartecipazione di cui al comma 4 secondo le modalità stabilite ai sensi del comma 7 [comma 3]. Ai comuni è attribuita una compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto; con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare d’intesa con la Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è fissata la percentuale della predetta compartecipazione e sono stabilite le modalità di attuazione del presente comma, con particolare riferimento all’attribuzione ai singoli comuni del relativo gettito, assumendo a riferimento il territorio su cui si è determinato il consumo che ha dato luogo al prelievo. La percentuale della compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto prevista dal presente comma è fissata, nel rispetto dei saldi di finanza pubblica, in misura finanziariamente equivalente alla compartecipazione del 2 per cento al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. In sede di prima applicazione, e in attesa della determinazione del gettito dell’imposta sul valore aggiunto ripartito per ogni comune, l’assegnazione del gettito ai comuni avviene sulla base del gettito dell’imposta sul valore aggiunto per provincia, suddiviso per il numero degli abitanti di ciascun comune [comma 4]».
Il parimenti denunciato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011, nel disciplinare l’àmbito di applicazione del decreto legislativo, dispone che: «Al fine di assicurare la neutralità finanziaria del presente decreto, nei confronti delle regioni a statuto speciale il presente decreto si applica nel rispetto dei rispettivi statuti e in conformità con le procedure previste dall’articolo 27 della citata legge n. 42 del 2009, e in particolare: a) nei casi in cui, in base alla legislazione vigente, alle regioni a statuto speciale spetta una compartecipazione al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche ovvero al gettito degli altri tributi erariali, questa si intende riferita anche al gettito della cedolare secca di cui all’articolo 3; b) sono stabilite la decorrenza e le modalità di applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 2 nei confronti dei comuni ubicati nelle regioni a statuto speciale, nonché le percentuali delle compartecipazioni di cui alla lettera a); con riferimento all’imposta municipale propria di cui all’articolo 8 si tiene conto anche dei tributi da essa sostituiti».
1.3. – La difesa regionale premette che il d.lgs. n. 23 del 2011 è stato adottato in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione) ed evidenzia che nel preambolo del decreto sono menzionati, in particolare, gli artt. 2, comma 2, 11, 12, 13, 21 e 26 di detta legge di delegazione. A proposito di quest’ultima, la ricorrente rammenta che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 201 del 2010, resa su un ricorso della stessa Regione siciliana, aveva chiarito che l’«art. 1, comma 2, della legge n. 42 del 2009 stabilisce univocamente che gli unici princípi della delega sul federalismo fiscale applicabili alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome sono quelli contenuti negli artt. 15, 22 e 27» ed aveva conseguentemente ritenuto non applicabili alla Regione siciliana i princípi e criteri di delega contenuti nelle disposizioni della legge n. 42 che essa aveva impugnato, fra le quali vi erano gli artt. 11 e 12 (rectius: artt. 11, comma 1, lettere b ed f, e 12, comma 1, lettere b e c). «Sennonché» − prosegue la ricorrente – il d.lgs. n. 23 del 2011 ha dedicato agli enti ad autonomia speciale i commi 2 e 3 dell’art. 14. In particolare, l’impugnato comma 2 dell’art. 14, pur affermando di perseguire il «fine di assicurare la neutralità finanziaria» del d.lgs. n. 23 del 2011, stabilisce, tuttavia, che tale decreto «si applica» nei confronti delle Regioni a statuto speciale. Né la previsione, contenuta nell’alinea dello stesso comma 2, secondo la quale l’applicazione del decreto nei confronti degli enti ad autonomia speciale deve avvenire «nel rispetto dei rispettivi statuti e in conformità con le procedure previste dall’articolo 27 della […] legge n. 42 del 2009», può essere interpretata nel senso che «il legislatore delegato abbia inteso solo ribadire la clausola della legge delega». Tale interpretazione è infatti smentita, ad avviso della ricorrente, sia dalle successive lettere a) e b) del comma 2 dell’art. 14, sia dal comma 3 dello stesso articolo (relativo agli enti ad autonomia speciale «che esercitano le funzioni in materia di finanza locale»). Al riguardo, la ricorrente sottolinea, in particolare, che la lettera b) dell’impugnato comma 2 opera un «rinvio alla sede pattizia» soltanto per stabilire la «decorrenza e le modalità di applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 2 nei confronti dei comuni ubicati nelle regioni a statuto speciale», nonché per stabilire le percentuali delle compartecipazioni delle medesime Regioni al gettito della cedolare secca sugli affitti di cui all’art. 3 dello stesso d.lgs. n. 23 del 2011, in tale modo «ribadendo […] l’obbligo dell’osservanza dell’applicazione dei contenuti del provvedimento in parola». Risulterebbe dunque confermato – conclude, sul punto, la ricorrente – che, per effetto delle «suenunciate disposizioni […] impugnate […], in violazione dei principi recati dalla legge delega, viene in buona sostanza importato in ambito siciliano il nuovo sistema di finanziamento stabilito per gli enti locali situati nelle regioni a statuto ordinario».
Detta applicazione del d.lgs. n. 23 del 2011 nei confronti della Regione siciliana e, in particolare, la devoluzione ai Comuni del gettito o delle quote del gettito «derivante dai tributi elencati nell’articolo 2, ai commi 1, 2, 3 e 4» dello stesso decreto, lederebbero anzitutto l’autonomia finanziaria della Regione, garantita dagli artt. 36 e 37 del suo statuto di autonomia e dal d.P.R. n. 1074 del 1965, sottraendole «cespiti di spettanza regionale». In base a tali parametri, spettano alla Regione siciliana, «Ai sensi del primo comma dell’articolo 36 dello Statuto […], tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate», ad eccezione soltanto delle «nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime» (art. 2, primo comma, del d.P.R. n. 1074 del 1965), e delle entrate riservate allo Stato (cioè delle entrate derivanti dalle imposte di produzione, dal monopolio dei tabacchi e dal lotto e dalle lotterie a carattere nazionale; artt. 36, secondo comma, dello statuto e 2, secondo comma, del d.P.R. n. 1074 del 1965). Detta disciplina dell’autonomia finanziaria regionale, in base alla quale «la Regione risulta titolare dell’intero cespite tributario», che «non dovrebbe subire decurtazioni», verrebbe violata dalle norme impugnate che impongono alla Regione siciliana la devoluzione ai Comuni del gettito o di quote del gettito di tributi ad essa spettanti (la ricorrente menziona, in particolare, «IRPEF, IVA, tributi vari relativi ad atti aventi ad oggetto immobili, cedolare secca»); entrate regionali di cui il legislatore statale delegato avrebbe disposto per finanziare gli enti locali. La ricorrente sottolinea ancora che la «forte contrazione» delle entrate regionali derivante dalle norme impugnate contraddice il fine, dichiarato dallo stesso legislatore statale, «di assicurare la neutralità finanziaria» del d.lgs. n. 23 del 2011 nei confronti delle Regioni a statuto speciale; infatti, la compartecipazione delle Regioni a statuto speciale al gettito della cedolare secca e dell’imposta municipale propria, secondo quanto previsto dall’art. 14, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 23 del 2011, «non è idonea ad assicurare la neutralità finanziaria nei confronti della Regione siciliana, né sotto il profilo quantitativo né sotto il profilo dell’autonomia finanziaria statutariamente garantita», tenuto conto che detta Regione, a differenza di altri enti ad autonomia speciale, è «titolare dell’intero cespite tributario» e che essa, «tuttavia, […] non potrebbe sottrarsi alla devoluzione ai Comuni di una quota compartecipativa». La fondatezza delle doglianze avanzate dalla Regione troverebbe, infine, conferma, nella relazione della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (COPAFF) del 30 giugno 2010 allegata alla relazione trasmessa dal Governo alle Camere ai sensi dell’art. 2, comma 6, della legge n. 42 del 2009.
Secondo la ricorrente, le disposizioni impugnate, comportando una contrazione delle entrate regionali che sarebbe quantificabile, «da prime e approssimative stime, elaborate utilizzando come fonte primaria la relazione della COPAFF del 30 giugno 2010», in circa settecento milioni di euro per ciascun anno, determinerebbero inoltre, in assenza di meccanismi compensativi, uno squilibrio nelle disponibilità finanziarie regionali tale da pregiudicare la possibilità, per la Regione, di esercitare le proprie funzioni, con conseguente violazione anche degli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost. (sono citate, a proposito delle conseguenze, sul piano costituzionale, di un siffatto squilibrio, le sentenze della Corte costituzionale n. 307 del 1983, n. 123 del 1992, n. 370 del 1993, n. 138 del 1999, n. 376 del 2003, n. 260 del 2004 e n. 417 del 2005).
Quanto, in particolare, al primo di detti parametri costituzionali, la Regione ricorrente evidenzia che «le richiamate disposizioni del D.Lgs. 23/2011 sottraggono alla Regione siciliana un cospicuo gettito finanziario senza stabilire con quali risorse finanziarie esso possa essere sostituito».
Quanto al secondo di detti parametri, la ricorrente afferma di essere consapevole della sua applicabilità alle Regioni a statuto speciale, ai sensi dell’art. 10, comma 1, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 1 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), solo per le parti in cui prevede forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite. La Regione siciliana «tuttavia» ne deduce la violazione per lesione sia delle proprie attribuzioni che di quelle degli enti locali siciliani (in ordine alla legittimazione delle Regioni ad impugnare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, la ricorrente cita le sentenze della Corte costituzionale n. 196 del 2004, n. 417 del 2005, n. 95 e n. 169 del 2007 e n. 298 del 2009), perché «non solo la Regione ma pure i Comuni siciliani, in applicazione del decreto, verrebbero a disporre di mezzi finanziari insufficienti per l’adempimento dei propri compiti». Con riguardo, in particolare, alla lesione delle attribuzioni dei Comuni siciliani, la ricorrente afferma che «l’ammontare del gettito della devoluzione e/o compartecipazione ai tributi erariali, nella previsione del decreto legislativo in esame […] non risulta idoneo a garantire un ammontare uguale agli attuali trasferimenti provenienti dallo Stato». Ciò anche considerando le nuove entrate previste dal d.lgs. n. 23 del 2011 costituite dall’imposta di soggiorno di cui all’art. 4, dall’imposta di scopo di cui all’art. 6, dal recupero dell’evasione fiscale e dalla cedolare secca di cui all’art. 3 (a proposito della quale ultima la ricorrente osserva, peraltro, che essa «comunque si ascrive integralmente alla spettanza regionale» e che «ammesso che, nella emananda normativa di attuazione, si scelga la compartecipazione agli enti locali», il suo gettito è assai aleatorio tenuto conto della facoltatività dell’opzione per il regime di detta cedolare). La ricorrente sottolinea infine la difficile applicabilità, per i Comuni siciliani, dei sistemi perequativi, tenuto conto che il sistema dell’autonomia finanziaria della Regione siciliana «ascrive alla integrale spettanza della medesima quei tributi che nella relativa previsione dovrebbero alimentare il fondo».
Secondo la ricorrente, infine, l’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2011, attribuendo ai Comuni il gettito o quote del gettito di tributi di spettanza della Regione siciliana, víola anche l’art. 14, lettera o), dello statuto speciale, «in quanto finisce col far carico alla Regione siciliana di ulteriori competenze che, come di recente ribadito da Codesta Corte con la sentenza n. 442 del 2008, non sono riconducibili alla previsione dell’art. 14, lett. o) dello Statuto siciliano e non possono comunque assegnarsi con legge ordinaria».
2.– Si è costituto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che tutte le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.− Secondo la difesa dello Stato, le questioni promosse sarebbero, anzitutto, inammissibili, perché, ai sensi dell’impugnato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011 – sia del suo alinea che delle sue due lettere a) e b), le quali si limiterebbero ad elencare «oggetti e criteri […] che costituiscono meri elementi di orientamento da tenere in particolare considerazione in vista dell’applicazione del richiamato art. 27» della legge n. 42 del 2009 − «l’ingresso delle disposizioni del decreto legislativo […] nell’ordinamento delle Regioni speciali in tanto potrà avvenire in quanto le stesse siano recepite nelle fonti di attuazione dello statuto, ovvero si addivenga ad una revisione di quest’ultimo, secondo le forme previste ed ove effettivamente necessario».
Siffatta lettura dell’art. 14, comma 2, si imporrebbe anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 201 del 2010. Con tale pronuncia la Corte, da un canto, ha affermato che, in base all’art. 1, comma 2, delle legge n. 42 del 2009, gli unici princípi di tale legge di delegazione sul federalismo fiscale applicabili alle Regioni a statuto speciale sono quelli contenuti negli artt. 15, 22 e 27, con conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto dalla Regione siciliana avverso disposizioni della stessa legge n. 42 del 2009 contenenti princípi e criteri di delega non applicabili alla Regione; d’altro canto, ha chiarito gli àmbiti operativi e le funzioni del «tavolo di confronto» tra il Governo e ciascuna Regione a statuto speciale e Provincia autonoma istituito, presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, dall’art. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009, precisando che detto «tavolo» «rappresenta […] il luogo in cui si realizza, attraverso una permanente interlocuzione, il confronto tra lo Stato e le autonomie speciali per quanto attiene ai profili perequativi e finanziari del federalismo fiscale delineati dalla citata legge di delegazione, secondo il principio di leale collaborazione espressamente richiamato dalla stessa disposizione censurata». Sarebbe quindi «chiaro» − secondo la parte resistente − che, «fino a quando non sarà ultimato l’iter procedurale previsto dall’art. 27 della legge n. 42/2009, [...] richiamato dall’art. 14, comma 2, del D.lgvo n. 23 del 2011, non potrà verificasi alcuna concreta ed immediata violazione delle norme statutarie e delle relative disposizioni di attuazione»; in effetti, neppure «la decorrenza e le modalità di applicazione» delle disposizioni di cui alle lettere a) e b) del comma 2 dell’art. 14 «sono fissate dalla norma ma devono essere stabilite con le procedure di cui all’art. 27 della legge n. 42/2009 e, quindi, con specifiche norme di attuazione degli statuti di autonomia, la cui approvazione ha come presupposto l’intesa con la regione interessata». Risulterebbe «a questo punto […] evidente» − sempre secondo la difesa dello Stato − «che la ratio della disposizione di cui all’art. 14, comma 2, del d.lgvo n. 23 del 2011 sia garantire, con il rinvio all’art. 27 della legge n. 42 del 2009, che l’attuazione della riforma sia rispettosa delle competenze e delle attribuzioni delle autonomie speciali preoccupandosi che venga effettivamente assicurata la neutralità finanziaria nei confronti degli enti di autonomia differenziata».
Tale interpretazione delle disposizioni denunciate troverebbe ulteriore conferma sia nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 23 del 2011 – in particolare, nella parte di essa relativa all’art. 2 − sia nella circostanza che i provvedimenti di attuazione del d.lgs. n. 23 del 2011, il cui iter di adozione era ancora in corso, si riferivano soltanto alle Regioni a statuto ordinario.
La difesa dello Stato afferma, conclusivamente, che «nessuna concreta lesione si è verificata, né può verificarsi, in danno alla Regione siciliana, delle altre Regioni a Statuto speciale e delle Province autonome, in considerazione degli spazi di autonomia che ad esse sono assicurati».
2.2.− Le questioni promosse sarebbero, poi, inammissibili o, comunque, infondate, con riguardo alle doglianze avanzate dalla ricorrente in ordine allo squilibrio finanziario che le disposizioni impugnate determinerebbero sul bilancio regionale e in ordine alla lesione che esse recherebbero alle attribuzioni dei Comuni siciliani. Secondo la parte resistente, infatti, tali doglianze sarebbero: a) «generiche e del tutto indimostrate»; b) «non supportate da indicazione di pertinenti parametri costituzionali». Quanto, in particolare, a questo secondo aspetto, la difesa dello Stato osserva che: a) l’art. 37 dello statuto della Regione siciliana «riguarda l’imposta sui redditi delle società, norma che non ha attinenza con l’argomento in esame»; b) l’art. 81 Cost. è «manifestamente fuori tema».
2.3.– Quanto, infine, alla questione avente ad oggetto l’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2011, promossa in riferimento all’art. 14, lettera o), dello statuto regionale, la parte resistente deduce: a) l’inammissibilità della stessa per la non pertinenza del parametro evocato, atteso che «Ove fosse fondata la prospettazione della Regione siciliana di considerare la disposizione in esame come una sorta di “velata” norma di attuazione realizzata attraverso una legge ordinaria, la Regione avrebbe dovuto invocare la violazione dell’art. 43 dello Statuto»; b) comunque, la sua infondatezza, perché l’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2011 «non comporta alcuna attribuzione di competenza in materia di finanza locale alla Regione Sicilia».
3.– In prossimità della pubblica udienza la Regione siciliana ha depositato una memoria nella quale ha dedotto l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità delle questioni avanzata dalla difesa dello Stato ed ha confermato le argomentazioni esposte nel ricorso in ordine all’illegittimità delle disposizioni impugnate.
In particolare, quanto all’ammissibilità delle questioni, la difesa regionale ribadisce che l’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2011, «tenuto conto della divergenza del suo contenuto rispetto a quanto indicato nella legge delega, rende cogente anche per le regioni a statuto speciale le disposizioni del Decreto legislativo […] rinviandosi alla sede pattizia solo la fissazione di decorrenze e modalità applicative».
 
Considerato in diritto
1.– La Regione siciliana ha promosso questioni principali di legittimità costituzionale degli artt. 2 [recte: i soli commi da 1 a 4 di tale articolo] e 14, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale), nonché «delle ulteriori disposizioni del medesimo decreto ad essi correlati [recte: correlate] che possono pregiudicare l’autonomia finanziaria della Regione».
1.1.– L’art. 2 è impugnato solo nei commi da 1 a 4 (mancando ogni censura riferita agli altri commi), i quali prevedono, nel quadro del federalismo fiscale municipale introdotto dal decreto legislativo, la devoluzione ai Comuni, a decorrere dall’anno 2011, del gettito o delle quote del gettito di alcuni tributi erariali e stabiliscono, in particolare, che: 1) «In attuazione della […] legge n. 42 del 2009, e successive modificazioni, ed in anticipazione rispetto a quanto previsto in base al disposto del seguente articolo 7, a decorrere dall’anno 2011 sono attribuiti ai comuni, relativamente agli immobili ubicati nel loro territorio e con le modalità di cui al presente articolo, il gettito o quote del gettito derivante dai seguenti tributi: a) imposta di registro ed imposta di bollo sugli atti indicati all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131; b) imposte ipotecaria e catastale, salvo quanto stabilito dal comma 5; c) imposta sul reddito delle persone fisiche, in relazione ai redditi fondiari, escluso il reddito agrario; d) imposta di registro ed imposta di bollo sui contratti di locazione relativi ad immobili; e) tributi speciali catastali; f) tasse ipotecarie; g) cedolare secca sugli affitti di cui all’articolo 3, con riferimento alla quota di gettito determinata ai sensi del comma 8 del presente articolo» [comma 1]; 2) «Con riferimento ai tributi di cui alle lettere a), b), e) ed f), del comma 1, l’attribuzione del gettito ivi prevista ha per oggetto una quota pari al 30 per cento dello stesso» [comma 2]; 3) «Per realizzare in forma progressiva e territorialmente equilibrata la devoluzione ai comuni della fiscalità immobiliare di cui ai commi 1 e 2, è istituito un Fondo sperimentale di riequilibrio. La durata del Fondo è stabilita in tre anni e, comunque, fino alla data di attivazione del fondo perequativo previsto dall’articolo 13 della citata legge n. 42 del 2009. Il Fondo è alimentato con il gettito di cui ai commi 1 e 2, nonché, per gli anni 2012, 2013 e 2014, dalla compartecipazione di cui al comma 4 secondo le modalità stabilite ai sensi del comma 7» [comma 3]; «Ai comuni è attribuita una compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto; con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare d’intesa con la Conferenza unificata ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è fissata la percentuale della predetta compartecipazione e sono stabilite le modalità di attuazione del presente comma, con particolare riferimento all’attribuzione ai singoli comuni del relativo gettito, assumendo a riferimento il territorio su cui si è determinato il consumo che ha dato luogo al prelievo. La percentuale della compartecipazione al gettito dell’imposta sul valore aggiunto prevista dal presente comma è fissata, nel rispetto dei saldi di finanza pubblica, in misura finanziariamente equivalente alla compartecipazione del 2 per cento al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. In sede di prima applicazione, e in attesa della determinazione del gettito dell’imposta sul valore aggiunto ripartito per ogni comune, l’assegnazione del gettito ai comuni avviene sulla base del gettito dell’imposta sul valore aggiunto per provincia, suddiviso per il numero degli abitanti di ciascun comune» [comma 4].
1.2.– Il parimenti censurato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011, nel disciplinare l’àmbito di applicazione dello stesso decreto legislativo rispetto alle Regioni ad autonomia differenziata, dispone che: «Al fine di assicurare la neutralità finanziaria del presente decreto, nei confronti delle regioni a statuto speciale il presente decreto si applica nel rispetto dei rispettivi statuti e in conformità con le procedure previste dall’articolo 27 della […] legge n. 42 del 2009, e in particolare: a) nei casi in cui, in base alla legislazione vigente, alle regioni a statuto speciale spetta una compartecipazione al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche ovvero al gettito degli altri tributi erariali, questa si intende riferita anche al gettito della cedolare secca di cui all’articolo 3; b) sono stabilite la decorrenza e le modalità di applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 2 nei confronti dei comuni ubicati nelle regioni a statuto speciale, nonché le percentuali delle compartecipazioni di cui alla lettera a); con riferimento all’imposta municipale propria di cui all’articolo 8 si tiene conto anche dei tributi da essa sostituiti».
1.3.– Ad avviso della Regione ricorrente, i commi da 1 a 4 dell’art. 2 ed il comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011 – in combinato disposto con le non meglio precisate «ulteriori disposizioni» del medesimo decreto «che possono pregiudicare l’autonomia finanziaria della Regione» – prescrivono, da un lato, che il decreto si applichi («il presente decreto si applica») alle Regioni a statuto speciale (comma 2 dell’art. 14) e, dall’altro, che siano devoluti ai Comuni siciliani («sono attribuiti ai comuni»), e non alla Regione siciliana, il gettito derivante da alcuni tributi specificamente elencati dal decreto stesso (commi da 1 a 4 dell’art. 2) e riscossi nell’àmbito del territorio della Regione. Tale normativa, per la ricorrente, víola: a) gli art. 36 e 37 dello statuto speciale (r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455, recante «Approvazione dello statuto della Regione siciliana», convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2) e le correlative norme di attuazione (in specie, l’art. 2 del d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, recante «Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria»), perché sottrae alla Regione siciliana entrate tributarie che, invece, le competono in base a detti parametri, in forza dei quali «spettano» alla Regione siciliana (salvo talune particolari eccezioni, nella specie non sussistenti) tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate; b) l’art. 81 Cost., perché sottrae alla Regione siciliana «un cospicuo gettito finanziario senza stabilire con quali risorse finanziarie esso possa essere sostituito»; c) l’art. 119, quarto comma, Cost., nonché «l’autonomia finanziaria dei Comuni», perché determina una contrazione delle entrate della Regione e dei Comuni siciliani per effetto della quale «non solo la Regione ma pure i Comuni siciliani, in applicazione del decreto, verrebbero a disporre di mezzi finanziari insufficienti per l’adempimento dei propri compiti».
1.4.– L’art. 2 (commi da 1 a 4) del d.lgs. n. 23 del 2011 viene altresí impugnato per violazione dell’art. 14, lettera o), dello statuto speciale, perché, prevedendo l’attribuzione ai Comuni siciliani di tributi o quote di tributi di spettanza della Regione, «finisce col far carico alla Regione siciliana di ulteriori competenze» che non sono riconducibili alla previsione del suddetto evocato parametro – il quale attribuisce all’Assemblea regionale la competenza legislativa esclusiva in materia di «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative» − e «non possono comunque assegnarsi con legge ordinaria».
2.– Preliminarmente, deve essere dichiarata l’inammissibilità delle questioni aventi ad oggetto le «ulteriori disposizioni del medesimo decreto […] che possono pregiudicare l’autonomia finanziaria della Regione». Avendo fatto uso di tale generica formulazione, infatti, la ricorrente ha omesso di indicare puntualmente le disposizioni impugnate e, pertanto, ne ha indebitamente demandato l’individuazione a questa Corte. In tal modo non ha adempiuto quanto richiesto dal combinato disposto degli artt. 34, primo comma, e 23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), secondo cui il ricorrente deve indicare nel ricorso – a pena di inammissibilità della questione − le «disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale».
3. – L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni, perché «nessuna concreta lesione si è verificata, né può verificarsi, in danno alla Regione siciliana». Ad avviso della difesa dello Stato, la clausola di salvaguardia contenuta nell’impugnato comma 2 dell’art. 14 – in base alla quale il d.lgs. n. 23 del 2011 si applica nei confronti delle Regioni a statuto speciale «nel rispetto dei rispettivi statuti e in conformità con le procedure previste dall’articolo 27 della […] legge n. 42 del 2009» − rende «evidente» che «l’ingresso delle disposizioni del decreto legislativo […] nell’ordinamento delle Regioni speciali in tanto potrà avvenire in quanto le stesse siano recepite nelle fonti di attuazione dello statuto, ovvero si addivenga ad una revisione di quest’ultimo, secondo le forme previste» e garantisce, perciò, il rispetto delle attribuzioni delle autonomie speciali.
L’eccezione non può essere accolta, perché la predetta Avvocatura adduce un argomento di merito – quale è quello dell’inapplicabilità alla Regione ricorrente delle disposizioni impugnate − al fine di sostenere l’inammissibilità, in rito, delle questioni. Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa dello Stato, infatti, la valutazione delle questioni in punto di ammissibilità attiene alla prospettazione della ricorrente e deve essere tenuta distinta da quella in punto di fondatezza. Nella specie, la ricorrente sostiene che le norme impugnate si applicano alla Regione siciliana e da tale applicazione deduce la violazione della propria autonomia finanziaria e di quella dei Comuni siciliani. Appare perciò evidente che l’eventuale inapplicabilità alla Regione delle norme denunciate comporterebbe l’infondatezza delle prospettate questioni e non la loro inammissibilità.
4.– Nel merito, le questioni non sono fondate nei termini di séguito precisati.
4.1.– La ricorrente deduce che l’applicazione alla Regione siciliana del d.lgs. n. 23 del 2011, prevista – a suo avviso – dal denunciato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011, si pone in contrasto con il richiamato disposto degli artt. 36 e 37 dello statuto d’autonomia e con le relative norme di attuazione, perché la compartecipazione dei Comuni al gettito di determinati tributi erariali (l’IVA ed i tributi concernenti la «fiscalità immobiliare»), stabilita dai pure censurati commi da 1 a 4 dell’art. 2 dello stesso decreto, comporta la devoluzione ai Comuni siciliani di un gettito tributario che, derivando da tributi riscossi nel territorio regionale, spetta, invece, alla Regione.
La questione non è fondata, perché, pur non potendosi negare la spettanza alla Regione siciliana del gettito degli indicati tributi riscossi nel suo territorio e, quindi, la potenziale sussistenza del denunciato contrasto, deve ritenersi che proprio questo contrasto rende operante la clausola di “salvaguardia” degli statuti speciali contenuta nel parimenti censurato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011, secondo cui il decreto «si applica nei confronti delle regioni a statuto speciale» solo «nel rispetto dei rispettivi statuti». Ne consegue l’inapplicabilità alla Regione ricorrente dei censurati commi dell’art. 2, in quanto “non rispettosi” dello statuto d’autonomia.
Tale conclusione è coerente con i princípi contenuti nella legge di delegazione 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione), la quale, essendo assunta a fondamento del d.lgs. n. 23 del 2011, ne definisce anche i limiti di applicazione. Detta legge, nel suo art. 1, comma 2, al fine di garantire la peculiare autonomia finanziaria riconosciuta alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome, limita la propria applicazione alle Regioni a statuto ordinario, precisando che agli enti ad autonomia differenziata «si applicano […] esclusivamente le disposizioni di cui agli articoli 15, 22 e 27», purché «in conformità con gli statuti» (sentenza n. 201 del 2010). Una siffatta generale clausola di “salvaguardia” delle autonomie speciali è ribadita dal richiamato art. 27 della stessa legge di delegazione, il quale stabilisce che il concorso delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome al «conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti, nonché al patto di stabilità interno ed all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitario», deve avvenire, appunto, nel «rispetto degli statuti speciali» e secondo «criteri e modalità» stabiliti da «norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi».
Cosí interpretata la suddetta clausola di salvaguardia, ne risulta, dunque, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove la Regione ricorrente, secondo cui le norme censurate sancirebbero l’«obbligo» di applicare il d.lgs. n. 23 del 2011 nei confronti delle Regioni a statuto speciale. Da tale erroneità consegue l’insussistenza del dedotto vulnus degli evocati parametri.
4.2. – Dalla rilevata inapplicabilità alla Regione siciliana delle disposizioni denunciate discende l’infondatezza non solo della prima questione prospettata dalla ricorrente, ma anche di tutte le altre questioni promosse, le quali muovono dalla medesima erronea premessa interpretativa che alla Regione si applichino dette disposizioni anche in caso di contrasto con lo statuto speciale.
 
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi da 1 a 4 dell’art. 2 e del comma 2 dell’art. 14 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale), promosse, in riferimento agli artt. 14, lettera o), 36 e 37 dello statuto speciale della Regione siciliana (r.d.lgs. legislativo 15 maggio 1946, n. 455, recante «Approvazione dello statuto della Regione siciliana», convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2) ed alle «relative» norme di attuazione di cui al d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria), nonché agli artt. 81 e 119, quarto comma, della Costituzione e alla «autonomia finanziaria dei Comuni», dalla Regione siciliana con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle «ulteriori disposizioni del medesimo decreto ad essi correlati che possono pregiudicare l’autonomia finanziaria della Regione», promosse, in riferimento agli artt. 36 e 37 dello statuto speciale della Regione siciliana ed alle «relative» norme di attuazione di cui al d.P.R. n. 1074 del 1965, nonché agli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost. e alla «autonomia finanziaria dei Comuni», dalla Regione siciliana con il medesimo ricorso.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI
 

Sentenza 63/2012

Sentenza  63/2012
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE

Presidente QUARANTA - Redattore TESAURO

Udienza Pubblica del 24/01/2012    Decisione  del 07/03/2012
Deposito del 21/03/2012   Pubblicazione in G. U. 28/03/2012
Norme impugnate: Artt. 30, c. 4°, 53, c. 4°, e 67, c. 1°, dello Statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19/07/2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22/02/2011.
Massime: 36160  36161  36162  
Atti decisi: ric. 30/2011
 
SENTENZA N. 63
ANNO 2012
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
 
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 30, comma 4, 53, comma 4, e 67, comma 1, dello statuto della Regione Molise approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 29 marzo/1° aprile 2011, depositato in cancelleria il 5 aprile 2011 ed iscritto al n. 30 del registro ricorsi 2011.
Udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
udito l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
 
Ritenuto in fatto
1.― Con ricorso spedito per la notifica in data 29 marzo/1°aprile 2011, depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 5 aprile, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 30, comma 4, 53, comma 4, e 67, comma 1, dello statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 7, edizione straordinaria, del 2 marzo 2011, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l), e quinto comma, della Costituzione, ed agli articoli 121, secondo comma, e 123 della Costituzione.
1.1.― Secondo il ricorrente, l’art. 30, comma 4, dello statuto della Regione Molise, nella parte in cui stabilisce che le commissioni consiliari permanenti, al fine di svolgere la funzione di “vigilanza” sull’andamento dell’amministrazione regionale, «possono altresì convocare funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti i quali, in seduta non pubblica, sono esonerati dal segreto d’ufficio» si porrebbe in contrasto con la disciplina statale in materia di segreto d’ufficio, violando l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza legislativa statale esclusiva la materia dell’ordinamento civile e penale, nonché l’art. 123 Cost. che regola la potestà statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria. La norma impugnata, infatti, escludendo, peraltro genericamente, l’obbligo del segreto d’ufficio in relazione a qualsiasi atto dell’amministrazione, porrebbe eccezioni al principio contenuto nell’art. 326 del codice penale, che prevede il reato di rivelazione di segreti d’ufficio e che può essere derogato solo con normativa statale, in violazione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale.
1.2.― Anche l’art. 53, comma 4, dello statuto, il quale stabilisce che, con riguardo agli enti, aziende ed agenzie regionali, «il personale degli enti pubblici non economici è equiparato al personale regionale», sarebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza legislativa statale esclusiva la materia dell’ordinamento civile e con l’art. 123 Cost. che regola la potestà statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria. Detta norma, equiparando a quello regionale il personale degli enti pubblici non economici, peraltro genericamente, così da generare anche incertezza sul regime giuridico del medesimo, impedirebbe «il corretto evolversi della disciplina contrattuale collettiva dei vari comparti interessati, sottraendo per legge materia alla contrattazione, in violazione del principio generale dettato sin dalla legge 29 marzo 1983, n. 93 (Legge quadro sul pubblico impiego), che ha riservato alla contrattazione collettiva per comparti la competenza primaria di regolazione del rapporto di lavoro pubblico».
1.3.― Infine, il ricorrente impugna l’art. 67, comma 1, dello statuto, che regola i rapporti della Regione con l’Unione europea, nella parte in cui prevede che la Giunta regionale «realizza la partecipazione» alla cosiddetta fase ascendente dell’attività normativa europea e, nella fase discendente, «provvede all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea». Così disponendo, tale norma sarebbe costituzionalmente illegittima, in primo luogo, in quanto riserva la competenza in materia alla Giunta regionale, laddove l’art. 117, quinto comma, Cost. la attribuisce alla Regione e quindi a tutti i suoi organi, e poi, in particolare con riferimento alla fase cosiddetta discendente (di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea), in quanto riserva la competenza a svolgere le connesse attività alla Giunta, che ha solo competenze di natura provvedimentale, laddove per le attività di natura legislativa e regolamentare, pure coinvolte, la competenza non può che essere del Consiglio regionale, ai sensi dell’art. 121, secondo e terzo comma, Cost.
2.― La Regione Molise non si è costituita in giudizio.
3.― Nell’imminenza dell’udienza pubblica il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, con la quale ha insistito nel chiedere l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso. In particolare, il ricorrente ha ulteriormente precisato, quanto all’art. 30, comma 4, che detta norma invaderebbe la sfera di competenza statale esclusiva in materia di ordinamento penale, posto che la disciplina del segreto d’ufficio è assistita dalla sanzione penale (di cui all’art. 326 cod. pen.), in vista della salvaguardia degli interessi generali dello Stato, ed è garantita mediante la previsione dell’esclusione della rimovibilità del medesimo segreto in sede processuale (art. 201, comma 1, cod. proc. pen.). Essa, di conseguenza, sarebbe palesemente in violazione del precetto dell’armonia con la Costituzione (limite all’autonomia statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria), ed in contrasto con i principi generali in materia di pubblico impiego, posto che le norme sul segreto d’ufficio costituirebbero, appunto, principi generali della materia in questione, idonei, ad imporsi, ancorché come vincoli generali, alla potestà statutaria regionale.
 
Considerato in diritto
1.― Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale in via principale degli articoli 30, comma 4, 53, comma 4, e 67, comma 1, del nuovo statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera l), e quinto comma, dell’articolo 121, secondo comma, e dell’articolo 123 della Costituzione.
2.― L’art. 30, comma 4, è impugnato nella parte in cui, disciplinando le funzioni delle commissioni permanenti del Consiglio regionale, stabilisce che queste ultime, al fine di svolgere la funzione di “vigilanza” sull’andamento dell’amministrazione regionale, «possono altresì convocare funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti, i quali, in seduta non pubblica, sono esonerati dal segreto d’ufficio».
In tal modo, ad avviso del ricorrente, la predetta disposizione, escludendo, genericamente, l’obbligo del segreto d’ufficio in relazione a qualsiasi atto dell’amministrazione, porrebbe eccezioni al principio contenuto nell’art. 326 cod. pen., che prevede il reato di rivelazione di segreti d’ufficio, in violazione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale, oltre che in violazione dei limiti che l’art. 123 Cost. pone all’autonomia statutaria delle Regioni. Detta norma, infatti, invaderebbe la sfera di competenza statale esclusiva in materia di ordinamento penale, posto che la disciplina del segreto d’ufficio è assistita dalla sanzione penale (di cui all’art. 326 cod. pen.), in vista della salvaguardia degli interessi generali dello Stato, ed è garantita mediante l’esclusione della rimovibilità del medesimo segreto in sede processuale (art. 201, comma 1, cod. proc. pen.). Essa sarebbe, di conseguenza, in contrasto anche con il limite generale dell’armonia con la Costituzione, posto dall’art. 123 Cost. all’autonomia statutaria delle Regioni ad autonomia ordinaria, oltre che con i principi generali in materia di pubblico impiego.
2.1.― La questione non è fondata.
2.1.1.― La disposizione impugnata è inserita in un articolo del nuovo statuto della Regione Molise, l’art. 30 (intitolato “funzioni delle commissioni”), volto a disciplinare le funzioni delle commissioni permanenti nelle quali si articola il Consiglio regionale. Fra tali funzioni vi è quella di “vigilanza sull’andamento dell’amministrazione regionale”. Nel disciplinare tale competenza, il comma 4 del predetto articolo – analogamente a quanto stabilito in altri statuti regionali (come, ad esempio, all’art. 53, comma 5, dello statuto dell’Umbria, all’art. 38, comma 13, dello statuto dell’Emilia-Romagna, all’art. 45 dello statuto della Regione Campania) – dispone che le citate commissioni possono, fra l’altro, «richiedere al Presidente ed ai componenti della Giunta regionale chiarimenti su questioni relative alle materie di rispettiva competenza. Possono altresì convocare funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti i quali, in seduta non pubblica, sono esonerati dal segreto d’ufficio».
Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il potere di controllo sull’amministrazione regionale e, più in generale, sugli organi esecutivi della Regione, attribuito alle commissioni consiliari, in quanto articolazioni dei Consigli regionali, è un «potere connaturato ed implicito nelle varie funzioni spettanti ai Consigli medesimi» e rappresenta un «modo di estrinsecazione di dette funzioni» (sentenza n. 29 del 1966). A tale potere di controllo, inoltre, è strumentale il potere di acquisizione di tutti i dati, delle informazioni e dei documenti che siano riconducibili all’attività dei predetti organi. Esso è, pertanto, un «potere istituzionale» del Consiglio regionale, e quindi anche delle sue commissioni, il quale consiste nel «sindacato, strettamente inerente ai suoi compiti di controllo politico, sull’operato degli organi esecutivi della Regione» (sentenza n. 29 del 1966).
L’oggetto diretto ed esclusivo di un simile potere di controllo e vigilanza affidato alle commissioni consiliari nei confronti delle “attività dell'amministrazione regionale e degli enti sottoposti al suo controllo” va, pertanto, «individuato nel funzionamento della amministrazione regionale e degli enti sottoposti al suo controllo, caratterizzandosi, di conseguenza, come strumentale rispetto all’esercizio di competenze proprie della Regione» (sentenza n. 4 del 1991).
Sulla base di tali premesse, questa Corte ha riconosciuto, in primo luogo, che non contrasta con alcuna norma di rango costituzionale la previsione, da parte del legislatore regionale, della facoltà delle predette commissioni consiliari di audizione di pubblici amministratori, di dipendenti dell’amministrazione regionale e degli enti sottoposti a vigilanza della Regione, dal momento che tali commissioni possono «solo appellarsi agli ordinari vincoli di responsabilità politica e amministrativa che legano gli amministratori e i dipendenti regionali all’ente di appartenenza» (sentenza n. 4 del 1991). In secondo luogo, non lede la competenza esclusiva statale in materia penale la norma regionale che detti una disciplina del segreto d’ufficio, attribuendo alle medesime commissioni il potere di apporre il segreto d’ufficio su fatti, atti o documenti ritenuti non divulgabili di cui siano venute a conoscenza nell’esercizio dei predetti poteri di controllo. Una simile disciplina, infatti, «viene ad operare entro i limiti ordinari del segreto di ufficio, la cui determinazione, per quanto concerne l’attività svolta da un organo regionale quale è la Commissione, non può spettare altro che alla valutazione discrezionale della stessa regione» (sentenza n. 4 del 1991).
Considerato che l’oggetto tutelato dal segreto d’ufficio e dalla previsione del divieto di rivelazione dello stesso è costituito dal buon andamento, inteso anche come normale funzionamento della pubblica amministrazione (Cass., 14 novembre 2008, n. 42689; di recente v. Cass. 24 giugno 2011, n. 25366), non può che spettare al legislatore regionale, nell’ambito della propria sfera di competenza, individuare i casi nei quali la tutela del buon andamento e del normale funzionamento dell’amministrazione regionale e degli enti da essa dipendenti debba essere assicurata attraverso l’apposizione del segreto d’ufficio. E, con tutta evidenza, spetta egualmente al medesimo legislatore regionale prevederne le eventuali eccezioni.
Né può ritenersi che l’identificazione, da parte del legislatore regionale, nel quadro delle proprie competenze, di ipotesi di segreto d’ufficio inerenti all’attività svolta dall’amministrazione regionale e dagli enti da essa dipendenti, nonché delle correlative ipotesi di esonero dallo stesso, incidendo sull’applicazione della sanzione penale posta dal legislatore statale all’art. 326 cod. pen., determini una violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento penale.
Questa Corte, fin da epoca risalente, ha affermato che, ferma la competenza esclusiva statale in materia penale, «alle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali (cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 210 del 1972 e n. 142 del 1969) né concorrere ad attuare le stesse norme»; e che «la tutela penale dei beni rientranti nelle materie regionali, “esclusive” o “concorrenti”, può ben esser autonomamente fornita, attraverso l’incriminazione di violazioni agli stessi beni, dalla legge penale statale», con il risultato di giungere a riconoscere una competenza regionale a «concorrere a definire elementi costitutivi (es. “dovere”, “atto d’ufficio” ecc.) delle fattispecie tipiche incriminate», in relazione ad alcune ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione (sentenza n. 487 del 1989).
A seguito della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione tali conclusioni non possono che essere confermate. Se, infatti, è oggi espressamente previsto dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che la materia dell’ordinamento penale è di esclusiva competenza dello Stato, con la conseguenza che «le Regioni non dispongono di alcuna competenza che le abiliti a introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato in tale materia», è anche necessario tener conto che «la “materia penale”, intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori» : essa «nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatici e ciò può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni» (sentenza n. 185 del 2004). Pertanto, la relativa competenza legislativa statale esclusiva si rivela «potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle Regioni, le cui scelte potranno risultarne talvolta rafforzate e munite di una garanzia ulteriore, talaltra semplicemente inibite». Sulla base di ciò, non può negarsi a queste ultime quanto in precedenza già ad esse riconosciuto e cioè il potere di concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali, nonché a definire elementi costitutivi di talune fattispecie tipiche incriminate, nell’esercizio delle proprie competenze.
2.1.2.― In tale quadro, risultano prive di fondamento le censure di lesione della competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e di conseguente violazione dei limiti posti dall’art. 123 della Costituzione all’autonomia statutaria regionale, promosse nei confronti dell’art. 30, comma 4, del nuovo statuto della Regione Molise, nella parte in cui attribuisce alle commissioni consiliari permanenti, la facoltà di esonerare dal segreto d’ufficio i funzionari dell’amministrazione regionale e degli enti dipendenti che siano convocati, con la precisazione che l’acquisizione delle notizie deve avvenire in seduta segreta, con conseguente estensione dell’obbligo di segretezza in capo ai membri della commissione.
3.― Ulteriore disposizione oggetto di censura è l’art. 53, comma 4, del nuovo statuto molisano.
La disposizione è censurata nella parte in cui, dopo aver stabilito che la Regione, «per lo svolgimento delle proprie attività, può istituire con legge enti, aziende e agenzie regionali» (comma 1), dispone che «il personale degli enti pubblici non economici è equiparato al personale regionale» (comma 4).
Tale equiparazione, ad avviso del ricorrente, oltre a generare «incertezza sul regime giuridico del personale genericamente equiparato a quello regionale», determinerebbe una violazione della competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. «perché impedirebbe il corretto evolversi della disciplina contrattuale collettiva dei vari comparti interessati, sottraendo per legge materia alla contrattazione». In tal modo la disposizione in esame violerebbe anche i limiti posti dall’art. 123 Cost. alla potestà statutaria delle Regioni.
3.1.― La questione non è fondata.
Le richiamate censure muovono dall’erroneo presupposto secondo il quale la disciplina del personale dell’amministrazione regionale sarebbe attribuita per intero alla competenza del legislatore regionale e, quindi, l’equiparazione ad esso del personale degli enti pubblici regionali non economici sottrarrebbe illegittimamente tale categoria alla contrattazione collettiva, con conseguente violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile.
Tale assunto è contraddetto dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale, in base alla nuova formulazione dell’art. 117 Cost., e tenuto conto che nel frattempo è intervenuta la privatizzazione del lavoro pubblico (art. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»), l’impiego pubblico regionale deve ricondursi, per i profili privatizzati del rapporto, all’ordinamento civile (e quindi alla competenza legislativa statale esclusiva) e solo per i profili “pubblicistico-organizzativi” all’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale (e quindi alla competenza legislativa residuale regionale) (fra le altre, sentenze n. 233 del 2006 e n. 2 del 2004; più di recente sentenze n. 339 e n. 77 del 2011). In particolare, questa Corte ha più volte ribadito che il rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo privatizzato, è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro di tale tipo ed è perciò soggetto alle regole che ne garantiscono l’uniformità. Di conseguenza, la legge statale, in tutti i casi in cui viene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, costituisce un limite alla competenza residuale regionale in tema di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, nonché dello stato giuridico ed economico del relativo personale e va quindi applicata anche ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni e degli enti locali (sentenza n. 95 del 2007).
Alla luce di tali indicazioni, risulta evidente che l’equiparazione del personale degli enti pubblici non economici regionali al personale regionale, operata dalla norma censurata, non comporta la temuta sottrazione per legge di una materia di per sé riservata alla contrattazione collettiva per comparti, posto che anche il rapporto di lavoro del personale regionale è – come, peraltro, espressamente previsto dall’art. 52, comma 2, del medesimo testo statutario – «regolato dalla legge e dai contratti». Tale espressa previsione comporta che la norma impugnata non può che essere interpretata nel senso di rinviare, quanto al trattamento del personale degli enti pubblici non economici e di quello del personale regionale, alla disciplina del rapporto di lavoro contenuta nei contratti collettivi stipulati in relazione ai comparti interessati, senza alcuna lesione della riserva di competenza attribuita alla contrattazione collettiva.
La censura di violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. – alla quale è connessa quella di violazione dei limiti posti all’autonomia statutaria delle Regioni dall’art. 123 Cost. – è, pertanto, priva di fondamento.
4.― È, infine, censurato l’art. 67, comma 1, del nuovo statuto della Regione Molise, nella parte in cui, regolando i rapporti della Regione con l’Unione europea, prevede che la Giunta regionale «realizza la partecipazione» alla cosiddetta fase ascendente dell’attività normativa europea e, nella fase discendente, «provvede all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea».
Tale disposizione, così statuendo, sarebbe, innanzitutto, in contrasto con l’art. 117, quinto comma, Cost. in quanto riserverebbe la competenza in materia alla Giunta regionale, laddove l’art. 117, quinto comma, Cost. la attribuisce, genericamente, alla Regione e quindi a tutti i suoi organi. Essa sarebbe, poi, anche in contrasto con l’art. 121 Cost., commi secondo e terzo, nella parte in cui, specie in riferimento alla fase cosiddetta discendente (di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea), riserverebbe la competenza a svolgere le connesse attività alla Giunta, che ha solo competenze di natura provvedimentale, laddove per le attività di natura legislativa e regolamentare, pure coinvolte, la competenza non può che essere del Consiglio regionale.
4.1.― La questione non è fondata.
Le censure proposte muovono da un’interpretazione della disposizione impugnata che si rivela erronea già dall’esame della formulazione testuale della stessa.
Quest’ultima recita: «La Giunta regionale, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, della legge comunitaria e degli indirizzi impartiti dal Consiglio regionale, realizza la partecipazione della Regione alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvede all’attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione Europea». Essa, quindi, richiama espressamente sia la legge statale recante norme di procedura, sia la legge comunitaria, statale e regionale, sia gli indirizzi impartiti dal Consiglio regionale, vincolando la Giunta al rispetto di quanto ivi prescritto, in conformità con quanto stabilito dall’art. 117, quinto comma, Cost., nonché dall’art. 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3) e dagli artt. 5 e 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), oltre che in linea con le indicazioni della giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentenza n. 151 del 2011; in specie, sentenza n. 239 del 2004).
La norma impugnata, inoltre, si inserisce in un contesto normativo, costituito dai commi seguenti del medesimo art. 67, che espressamente individuano le competenze in materia sia della Giunta che del Consiglio, al quale ultimo sono attribuite le competenze legislative e normative coinvolte, in conformità al riparto delineato dall’art. 121, secondo e terzo comma, della Costituzione. Tanto è confermato, ad esempio, dal fatto che al comma 4 del medesimo articolo è prescritto che «Con legge regionale sono stabiliti modalità e tempi per l’approvazione dell’annuale legge comunitaria regionale. La legge comunitaria, nei casi in cui deferisce al regolamento regionale l’attuazione degli atti dell’Unione europea, ne stabilisce i criteri e i principi direttivi».
Le censure proposte nei confronti dell’art. 67, comma 1, pertanto, sono prive di fondamento.
 
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30, comma 4, dello statuto della Regione Molise, approvato, in prima lettura, con deliberazione del Consiglio regionale n. 184 del 19 luglio 2010, confermato, in seconda lettura, con deliberazione n. 35 del 22 febbraio 2011, pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 7, edizione straordinaria, del 2 marzo 2011, in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera l), e 123 della Costituzione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 53, comma 4, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera l), e 123 della Costituzione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 67, comma 1, del predetto statuto, in riferimento agli articoli 117, quinto comma, e 121, secondo e terzo comma, della Costituzione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI
 

Sentenza 62/2012

Sentenza  62/2012
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE

Presidente QUARANTA - Redattore GALLO F.

Udienza Pubblica del 22/02/2012    Decisione  del 07/03/2012
Deposito del 21/03/2012   Pubblicazione in G. U. 28/03/2012
Norme impugnate: Art. 5, c. 6°, lett. g), della legge della Regione Puglia 30/05/2011, n. 9; artt. 2, c. 1°, 5 e 9, c. 1°, della legge della Regione Puglia 20/06/2011, n. 11.
Massime: 36155  36156  36157  36158  36159  
Atti decisi: ric. 81 e 83/2011
 
SENTENZA N. 62
ANNO 2012
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
 
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, lettera g), della legge della Regione Puglia 30 maggio 2011, n. 9 (Istituzione dell’Autorità idrica pugliese), nonché dell’art. 2, comma 1, dell’art. 5 e dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Puglia 20 giugno 2011, n. 11 (Gestione del servizio idrico integrato. Costituzione dell’Azienda pubblica regionale “Acquedotto pugliese – AQP”), promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi notificati il 1°- 4 agosto 2011 e l’8-12 agosto 2011, depositati in cancelleria il 10 ed il 17 agosto 2011 ed iscritti al n. 81 (concernente la legge reg. n. 9 del 2011) ed al n. 83 (concernente la legge reg. n. 11 del 2011) del registro ricorsi 2011, pubblicati, rispettivamente, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 42 del 5 ottobre 2011 e n. 43 del 12 ottobre 2011.
Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia nel giudizio di cui al ricorso n. 83 del 2011;
udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;
udito l’avvocato dello Stato Alessandro De Stefano per il Presidente del Consiglio dei ministri.
 
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale, spedito il 1° agosto 2011, ricevuto il 4 agosto successivo e depositato il 10 agosto 2011 (registro ricorsi n. 81 del 2011), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni principali di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, lettera g), e dell’art. 11, comma 1, della legge della Regione Puglia 30 maggio 2011, n. 9 (Istituzione dell’Autorità idrica pugliese), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 87 del 3 giugno 2011 ed entrata in vigore lo stesso giorno della pubblicazione
1.1.− L’impugnato comma 6, lettera g), dell’art. 5 della legge della Regione Puglia n. 9 del 2011, nel testo vigente al momento della proposizione del ricorso, stabiliva che il Direttore generale dell’«Autorità idrica pugliese» (autorità istituita dall’art. 1 della stessa legge regionale «per il governo pubblico dell’acqua» e dotata di personalità giuridica di diritto pubblico) «predispone lo schema di convenzione diretto a regolare i rapporti tra l’Autorità e il gestore del servizio idrico integrato, da sottoporre all’approvazione del Consiglio direttivo».
Nel ricorso si denuncia il contrasto tra tale disposizione e la legislazione statale, perché la norma impugnata, nel riservare al Direttore generale del predetto ente pubblico regionale il cómpito di “predisporre” l’indicata convenzione, gli attribuisce una funzione che l’art. 10, comma 14, lettera b), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo. Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, assegna invece all’«Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua», ente statale istituito con il comma 11 del medesimo articolo 10. Infatti, prosegue il ricorso, il citato comma 14, lettera b), dell’art. 10 stabilisce che la menzionata Agenzia nazionale «predispone una o più convenzioni tipo di cui all’articolo 151 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152», cioè le convenzioni tipo dirette a disciplinare i rapporti tra Autorità d’àmbito e gestori del servizio idrico integrato. Del resto, aggiunge la difesa dello Stato, il comma 15 dell’art. 10 del decreto-legge n. 70 del 2011 precisa che alla menzionata Agenzia nazionale «sono trasferite le funzioni già attribuite alla Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche dall’articolo 161 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e dalle altre disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto» e, quindi, anche la funzione di “predisporre” «con delibera una o più convenzioni tipo di cui all’articolo 151» dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006; delibera da trasmettersi «al Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare, che la adotta con proprio decreto sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano» (art. 161, comma 4, lettera c).
Ad avviso del ricorrente, poiché la sopra citata vigente normativa statale costituisce esercizio della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e, pertanto, non è derogabile dal legislatore regionale, il rilevato contrasto tra la normativa regionale e quella statale si risolve nella violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
1.2.– Il parimenti impugnato comma 1 dell’art. 11 della stessa legge reg. Puglia n. 9 del 2011 stabiliva, nel testo vigente al momento della proposizione del ricorso, che: «Il personale assunto a tempo indeterminato alla data del 1° gennaio 2010 presso ATO Puglia è trasferito all’Autorità idrica pugliese, che provvede all’inquadramento nello stesso profilo professionale e relative attribuzioni economiche». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, tale disposizione víola gli artt. 3, 51 e 97, terzo comma, Cost.
Il Presidente della Corte costituzionale ha disposto il rinvio della trattazione di tale questione, separandola dall’altra, in ragione dell’opportunità di esaminare in una stessa udienza, ancora da stabilirsi, le censure prospettate avverso il predetto comma 1 dell’art. 11 della legge reg. Puglia n. 9 del 2011 sia nel testo originario, impugnato con il ricorso n. 81 del 2011, sia nel testo sostituito ad opera del comma 1 dell’art. 3 della legge della Regione Puglia 13 ottobre 2011, n. 27 (Modifiche alla legge regionale 30 maggio 2011, n. 9 – Istituzione dell’Autorità idrica pugliese), anch’esso impugnato dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 170 del 2011.
2.− Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale, spedito l’8 agosto 2011, ricevuto il 12 agosto successivo e depositato il 17 agosto 2011 (registro ricorsi n. 83 del 2011), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni principali di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, dell’art. 5 e dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Puglia 20 giugno 2011, n. 11 (Gestione del servizio idrico integrato. Costituzione dell’Azienda pubblica regionale “Acquedotto pugliese – AQP”), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 96 del 20 giugno 2011 ed entrata in vigore il 5 luglio 2011.
2.1.− L’impugnato comma 1 dell’art. 2 della legge reg. Puglia n. 11 del 2011 stabilisce che «Il servizio idrico integrato della Puglia è affidato a un’azienda pubblica regionale che realizza la parte prevalente della propria attività con l’ente pubblico che la controlla, anche per beneficiare delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento del servizio e con l’obbligo del reinvestimento nel servizio di almeno l’80 per cento degli avanzi netti di gestione. Ai fini della presente legge, per avanzo netto di gestione si intende il risultato economico di esercizio del soggetto di cui all’articolo 5 [cioè l’Azienda pubblica regionale denominata «Acquedotto pugliese (AQP)», istituita da tale articolo] al netto degli ammortamenti, accantonamenti, interessi, imposte e tasse».
Tale comma, secondo il ricorrente, nell’affidare direttamente, mediante una norma di legge, la gestione del «servizio idrico integrato» (SII) ad un ente pubblico regionale controllato dalla Regione Puglia (AQP), víola: a) l’art. 117, primo comma, Cost., perché si pone in contrasto con i princípi del diritto dell’Unione europea vigenti in materia di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), direttamente applicabili nell’ordinamento italiano, a séguito dell’abrogazione, con referendum popolare, dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, riguardante, in particolare, le forme di gestione dei servizi pubblici locali (SPL) di rilevanza economica; b) l’art. 117, secondo comma, lettere e) ed s), Cost., perché, pur avendo rango di fonte legislativa regionale, statuisce nelle materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente, riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Con riguardo alla censura sub a), l’Avvocatura generale dello Stato premette che il SII costituisce un «servizio pubblico locale» (SPL) di rilevanza economica e, quindi, rientra nella nozione (caratteristica del diritto dell’Unione europea) di SIEG, che, in base all’art. 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), è soggetto alle regole di concorrenza fissate nei trattati dell’Unione e, in particolare, alla regola dell’affidamento della sua gestione a terzi mediante gara ad evidenza pubblica, salvo che lo Stato membro ritenga che l’applicazione di tali regole possa ostacolare la «speciale missione» attribuita al servizio dall’ordinamento giuridico (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 187 del 2011, n. 325 del 2010, n. 246 del 2009 e le sentenze della Corte di giustizia UE 10 settembre 2009, in causa C-573/07, Sea s.r.l., e 11 gennaio 2005, in causa C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49). Da tale premessa e dalla conseguente «natura derogatoria ed eccezionale degli affidamenti» della gestione dei SIEG, mediante l’in house providing, «ad aziende pubbliche controllate», l’Avvocatura fa derivare la necessità che tali eccezionali affidamenti avvengano «mediante provvedimenti suscettibili di controllo giurisdizionale e sorretti da congrua e logica motivazione sulle ragioni che giustificano una tale scelta, secondo canoni di ragionevolezza, di proporzionalità e di adeguatezza». Ne segue, per il ricorrente, che la disposizione denunciata, individuando mediante non un atto amministrativo, ma un atto legislativo – cioè con un atto di volontà politica, per sua natura privo di una formale motivazione – il soggetto affidatario della gestione del SII, impedisce il sindacato giurisdizionale sulla correttezza delle ragioni che giustificano la deroga all’ordinaria regola pro concorrenziale, posta dal diritto dell’Unione, di affidamento mediante gara ad evidenza pubblica.
Con riguardo alla censura sub b), il ricorrente osserva che l’art. 1, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2 (Interventi urgenti concernenti enti locali e regioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 marzo 2010, n. 42, ha inserito nell’art. 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), il comma 186-bis, il quale: 1) da un lato, sopprime le Autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO) di cui agli articoli 148 e 201 del d.lgs. n. 152 del 2006 (e successive modificazioni), enti originariamente competenti a provvedere sull’affidamento della gestione del SII; 2) dall’altro, stabilisce che «le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate» dalle AATO, «nel rispetto dei princípi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza». In forza di tale normativa, secondo l’interpretazione del ricorrente (il quale valorizza l’uso, da parte del legislatore statale, delle espressioni “attribuzione delle funzioni” e “princípi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”), le Regioni debbono limitarsi ad individuare con legge gli enti e gli organi ai quali devolvere le funzioni già esercitate dalle AATO ed ai quali spetta il cómpito di determinare in via amministrativa le forme della gestione e le modalità di affidamento del SII, ferma restando – attenendo alle materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente − la competenza legislativa esclusiva statale ad individuare le suddette funzioni ed a disciplinarne l’esercizio. La difesa dello Stato conclude nel senso che la disposizione impugnata − affidando direttamente, mediante una norma di legge, ed a tempo indeterminato la gestione del SII ad un ente regionale e consentendo la revoca di tale gestione in ogni tempo mediante un contrarius actus legislativo – si pone in contrasto con la predetta normativa statale e víola gli evocati parametri costituzionali.
2.2. – È impugnato anche l’art. 5 della stessa legge reg. Puglia n. 11 del 2011, il quale istituisce l’Azienda pubblica regionale «Acquedotto pugliese (AQP)» e stabilisce il subentro di tale azienda nel patrimonio e nei rapporti della s.p.a. Acquedotto pugliese, a suo tempo costituita, quale successore nei rapporti del disciolto «Ente autonomo per l’acquedotto pugliese», con d.lgs. 11 maggio 1999, n. 141 (Trasformazione dell’Ente autonomo acquedotto pugliese in società per azioni, a norma dell’articolo 11, comma 1, lettera b, della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, tale disposizione, pur non incidendo formalmente sulla normativa statale e pur non provocando l’estinzione della s.p.a. Acquedotto pugliese (operante, in forza di detto decreto legislativo, fino al 31 dicembre 2018, per l’esercizio delle attività di captazione, adduzione, potabilizzazione, distribuzione di acqua ad usi civili, nonché di fognatura e depurazione delle acque reflue, cioè per l’esercizio delle attività in cui si articola il SII), víola ugualmente l’art. 117, secondo comma, lettere e) ed s), Cost., perché finisce «per privare di qualsiasi funzione la società» e, quindi, «per svuotare di qualsiasi efficacia» il predetto decreto legislativo, dettato in materie ascrivibili alla tutela della concorrenza ed alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, appartenenti alla sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
2.3.– In base al parimenti impugnato comma 1 dell’art. 9 della medesima legge reg. Puglia n. 11 del 2011, «Il personale in servizio presso l’Acquedotto pugliese S.p.A. alla data di costituzione dell’AQP transita nell’organico dell’AQP alla data della costituzione della medesima, conservando tutti i diritti giuridici ed economici acquisiti, senza ulteriori e maggiori oneri. Nell’attuazione di tale progetto sono assicurate le relazioni sindacali».
Ad avviso del ricorrente, la suddetta disposizione, nel prevedere il trasferimento del personale dalla s.p.a. Acquedotto pugliese all’Azienda pubblica regionale AQP, a prescindere dalla circostanza che il personale sia inquadrato nel comparto pubblico con procedura selettiva concorsuale, víola: a) l’art. 3 Cost., perché irragionevolmente consente al solo personale in servizio presso la s.p.a. Acquedotto pugliese di essere inquadrato nei ruoli dell’AQP, prescindendo dalla regola della selezione concorsuale che si impone invece per la generalità dei pubblici dipendenti; b) l’art. 51 Cost., perché, privilegiando il personale già in servizio presso la s.p.a. Acquedotto pugliese rispetto ad altri possibili aspiranti all’assunzione presso l’AQP, non permette a tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge; c) l’art. 97, terzo comma, Cost., perché il generalizzato ed automatico inquadramento di tutti i dipendenti in servizio presso la s.p.a. Acquedotto pugliese nei ruoli dell’AQP contrasta con la regola di accesso agli impieghi pubblici tramite concorso pubblico, posta a tutela non solo dei potenziali aspiranti, ma anche dell’interesse pubblico alla scelta dei candidati migliori, nonché all’imparzialità ed al buon andamento della pubblica amministrazione (vengono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 52 del 2011; n. 81 del 2006; n. 159 del 2005; n. 205 e n. 34 del 2004); d) l’art. 117, terzo comma, Cost., perché si pone in contrasto con l’art. 17, commi da 10 a 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, il quale, con norma integrante un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, preclude alle amministrazioni pubbliche, a decorrere dal gennaio 2010, ogni procedura di stabilizzazione del personale non di ruolo diversa dalla valorizzazione dell’esperienza professionale acquisita attraverso l’espletamento di concorsi pubblici con parziale riserva di posti.
3.– Nel giudizio di cui al ricorso n. 83 del 2011 si è costituita la Regione Puglia chiedendo la dichiarazione di inammissibilità e di infondatezza del ricorso.
3.1.– Con riferimento all’impugnato comma 1 dell’art. 2 della legge reg. Puglia n. 11 del 2011, la difesa della resistente eccepisce l’inammissibilità della censura prospettata, perché il ricorrente non ha esperito alcun tentativo di fornire una interpretazione secundum Constitutionem della disposizione denunciata (vengono richiamate le pronunce della Corte costituzionale n. 177 del 2006; n. 89 del 2005; n. 356 del 1996). La Regione osserva, al riguardo, che tale disposizione può essere interpretata – in coerenza con l’art. 2, comma 2, lettera f), della legge reg. Puglia n. 9 del 2011, secondo cui all’Autorità idrica pugliese è attribuita, tra le altre, la funzione concernente «l’affidamento della gestione del servizio idrico integrato» – nel senso che il SII è affidato non necessariamente all’azienda pubblica regionale denominata AQP (istituita dall’art. 5 della stessa legge regionale), ma ad una qualunque «azienda pubblica regionale che realizza la parte prevalente della propria attività con l’ente pubblico che la controlla, […] con l’obbligo del reinvestimento nel servizio di almeno l’80 per cento degli avanzi netti di gestione». Da ciò deriva, per la resistente, che: a) la disposizione impugnata non prevede l’affidamento diretto della gestione del SII all’AQP e, pertanto, non può essere qualificata come legge-provvedimento; b) per l’affidamento di tale servizio è necessaria, invece, l’adozione – all’esito «di una valutazione comparativa dell’offerta dell’azienda pubblica regionale e di eventuali imprese private concorrenti» – di un provvedimento amministrativo da parte dell’Autorità idrica pugliese, motivato e pienamente sindacabile in via giudiziale; c) la suddetta disposizione si limita ad orientare l’autorità idrica (con una norma di mero indirizzo, inidonea a vincolarne la discrezionalità), nel senso di indurla a valorizzare, nell’affidamento del SII, la «speciale missione» che, in base all’art. 106 del TFUE, consente l’eccezionale affidamento in house della gestione del servizio stesso, al fine di favorire il soddisfacimento – non sempre sufficientemente garantito dagli automatismi del mercato – dei bisogni vitali incomprimibili connessi all’uso del bene comune “acqua” (art. 1 della medesima legge reg. n. 11 del 2011). La difesa della Regione aggiunge che comunque, al fine di dissipare ogni equivoco interpretativo e far venir meno l’interesse dello Stato a ricorrere, è intenzione della Giunta regionale di modificare nel senso seguente la prima parte della disposizione impugnata, prima ancora che questa trovi applicazione: «Il servizio idrico integrato della Puglia è affidato dall’autorità idrica pugliese, nel rispetto della normativa comunitaria, a un’azienda pubblica regionale […]».
3.2.– Con riferimento alle censure relative all’art. 5 della legge reg. Puglia n. 11 del 2011, istitutivo dell’Azienda pubblica regionale «Acquedotto pugliese (AQP)», la difesa della resistente osserva che la trasformazione in società per azioni dell’Ente autonomo per l’acquedotto pugliese era stata disposta dal d.lgs. n. 141 del 1999 ben prima della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione ed a fini non già di tutela della concorrenza e dell’ambiente, ma solo di riordino degli enti pubblici nazionali (ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera b, della legge 15 marzo 1997, n. 59, recante «Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa»), per favorire la privatizzazione, evitare aggravi per la finanza pubblica, favorire il riassetto funzionale ed organizzativo, migliorare l’efficienza della gestione (ai sensi dell’art. 1, comma 83, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»), cosí da incidere, se mai, nella materia, di competenza legislativa concorrente, armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica (art. 117, terzo comma, Cost., nel testo vigente). Il rispetto, da parte della Regione, dei princípi fondamentali posti dalla legislazione statale nelle suddette materie di competenza legislativa concorrente fa concludere la resistente per l’inammissibilità o la non fondatezza della questione in esame.
3.3.– Con riferimento, infine, all’art. 9 della legge reg. Puglia n. 11 del 2011, la difesa della resistente afferma che è intenzione della Giunta regionale di modificare tale disposizione «in senso aderente alla giurisprudenza costituzionale formatasi sull’art. 97, comma terzo, della Costituzione», al fine di far venir meno l’interesse dello Stato al ricorso.
 
Considerato in diritto
1.− Con il ricorso n. 81 del 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso due questioni principali di legittimità costituzionale aventi ad oggetto, la prima, l’art. 5, comma 6, lettera g), della legge della Regione Puglia 30 maggio 2011, n. 9 (Istituzione dell’Autorità idrica pugliese); la seconda, l’art. 11, comma 1, della stessa legge.
Con il ricorso n. 83 del 2001, il medesimo ricorrente ha promosso tre questioni principali di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 20 giugno 2011, n. 11 (Gestione del servizio idrico integrato. Costituzione dell’Azienda pubblica regionale “Acquedotto pugliese – AQP”), aventi ad oggetto, rispettivamente, l’art. 2, comma 1, l’art. 5 e l’art. 9, comma 1, di tale legge.
Il Presidente della Corte costituzionale ha successivamente disposto il rinvio della trattazione della questione riguardante l’art. 11, comma 1, della legge reg. n. 9 del 2011, promossa con il ricorso n. 81 del 2011. Ne deriva che il thema decidendum è limitato alla questione riguardante l’art. 5, comma 6, lettera g), della legge reg. Puglia n. 9 del 2011, promossa con il ricorso n. 81 del 2011, ed a quelle promosse con il ricorso n. 83 del 2011.
Cosí precisato l’oggetto del decidere, va ulteriormente rilevato che le questioni da esaminare riguardano leggi della Regione Puglia in tema di servizio idrico integrato (SII). L’identità del tema e delle parti ricorrenti e resistenti (Stato e Regione Puglia) rende opportuna la riunione dei giudizi, affinché questi siano congiuntamente trattati e decisi.
2.− La questione promossa con il ricorso n. 81 del 2011 ha ad oggetto, come visto, l’art. 5, comma 6, lettera g), della legge reg. Puglia n. 9 del 2011, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 87 del 3 giugno 2011 ed entrata in vigore lo stesso giorno della pubblicazione. Tale lettera g) stabiliva – nel testo vigente al momento della proposizione del ricorso – che il Direttore generale dell’«Autorità idrica pugliese» (autorità dotata di personalità giuridica di diritto pubblico ed istituita dall’art. 1 della medesima legge regionale «per il governo pubblico dell’acqua») «predispone lo schema di convenzione diretto a regolare i rapporti tra l’Autorità e il gestore del servizio idrico integrato, da sottoporre all’approvazione del Consiglio direttivo». La disposizione impugnata, secondo il ricorrente, si pone in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, perché attribuisce al Direttore generale dell’Autorità idrica pugliese una funzione che la normativa emessa dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva nella materia tutela dell’ambiente e dell’ecosistema – cioè l’art. 10, comma 14, lettera b), del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo. Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106 – assegna invece all’ente statale «Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua», prevedendo che tale Agenzia «predispone una o più convenzioni tipo di cui all’articolo 151 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152», ossia (sempre ad avviso del ricorrente) le convenzioni tipo dirette a disciplinare i rapporti tra Autorità d’àmbito e gestori del servizio idrico integrato.
In ordine alla questione deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere. Dopo la proposizione del ricorso, il comma 1 dell’art. 2 della legge della Regione Puglia 13 ottobre 2011, n. 27 (Modifiche alla legge regionale 30 maggio 2011, n. 9 – Istituzione dell’Autorità idrica pugliese), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 165 del 21 ottobre 2011 ed entrata in vigore il giorno stesso della pubblicazione, ha soppresso la disposizione impugnata, la quale è rimasta in vigore, pertanto, soltanto dal 3 giugno 2011 al 21 ottobre dello stesso anno. Durante tale periodo di vigenza non risulta predisposta, da parte del Direttore generale dell’Autorità idrica pugliese, alcuna convenzione tipo diretta a disciplinare i rapporti tra Autorità d’àmbito e gestori del servizio idrico integrato. Ne deriva che l’abrogazione disposta dal citato ius superveniens è idonea a superare le censure prospettate dal ricorrente ed è intervenuta quando la norma abrogata non aveva ancora avuto applicazione. Di qui la cessazione della materia del contendere.
3.− Con la prima questione promossa con il ricorso n. 83 del 2011 viene impugnato l’art. 2, comma 1, della legge reg. Puglia n. 11 del 2011, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 96 del 20 giugno 2011 ed entrata in vigore il 5 luglio 2011, in forza del quale «Il servizio idrico integrato della Puglia è affidato a un’azienda pubblica regionale che realizza la parte prevalente della propria attività con l’ente pubblico che la controlla, anche per beneficiare delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento del servizio e con l’obbligo del reinvestimento nel servizio di almeno l’80 per cento degli avanzi netti di gestione. Ai fini della presente legge, per avanzo netto di gestione si intende il risultato economico di esercizio del soggetto di cui all’articolo 5 [cioè l’Azienda pubblica regionale denominata «Acquedotto pugliese (AQP)», istituita da tale articolo] al netto degli ammortamenti, accantonamenti, interessi, imposte e tasse».
Per il ricorrente, tale comma víola, in primo luogo, l’art. 117, primo comma, Cost., perché si pone in contrasto con i princípi del diritto dell’Unione europea vigenti in materia di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), che sono direttamente applicabili nell’ordinamento italiano a séguito dell’abrogazione, con referendum popolare, dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, riguardante, in particolare, le forme di gestione dei SPL di rilevanza economica. Secondo la difesa dello Stato, detto parametro è violato in base alle seguenti considerazioni: a) il servizio idrico integrato (SII) costituisce un «servizio pubblico locale» (SPL) di rilevanza economica e, quindi, rientra nella nozione (caratteristica del diritto dell’Unione europea) di SIEG, che, in base all’art. 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), è soggetto alle regole di concorrenza fissate nei trattati dell’Unione e, quindi, alla regola dell’affidamento della sua gestione a terzi mediante gara ad evidenza pubblica, salvo che lo Stato membro ritenga che l’applicazione di tali regole possa ostacolare la «speciale missione» attribuita al servizio dall’ordinamento giuridico; b) la conseguente «natura derogatoria ed eccezionale degli affidamenti» della gestione dei SIEG, mediante l’in house providing, «ad aziende pubbliche controllate», esige che tali eccezionali affidamenti avvengano «mediante provvedimenti suscettibili di controllo giurisdizionale e sorretti da congrua e logica motivazione sulle ragioni che giustificano una tale scelta, secondo canoni di ragionevolezza, di proporzionalità e di adeguatezza»; c) la disposizione denunciata, individuando mediante non un atto amministrativo ma un atto legislativo – cioè mediante un atto di volontà politica, per sua natura privo di una formale motivazione – il soggetto affidatario della gestione del SII, impedisce il sindacato giurisdizionale sulla correttezza delle ragioni che giustificano la deroga all’ordinaria regola pro concorrenziale, posta dal diritto dell’Unione, di affidamento mediante gara ad evidenza pubblica. In secondo luogo, viene dedotta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed s), Cost., perché la disposizione impugnata, pur avendo rango di fonte legislativa regionale, statuisce nelle materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente, riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, in quanto affida la gestione del SII, direttamente ed a tempo indeterminato, ad uno specifico ente regionale, tanto da porsi in contrasto con il vigente comma 186-bis dell’art. 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), in base al quale le Regioni debbono limitarsi ad individuare con legge gli enti e gli organi ai quali devolvere le funzioni già esercitate dalle AATO (Autorità d’àmbito territoriale ottimale) ed ai quali soltanto spetta il cómpito di determinare in via amministrativa le forme della gestione e le modalità di affidamento del SII, ferma restando – attenendo alle indicate materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente − la competenza legislativa esclusiva statale ad individuare le suddette funzioni ed a disciplinarne l’esercizio.
La questione è fondata in riferimento all’evocato art. 117, secondo comma, lettere e) ed s), Cost., assorbito ogni altro profilo.
3.1.– Al riguardo, la Regione resistente eccepisce preliminarmente l’inammissibilità della censura, perché il ricorrente non avrebbe esperito alcun tentativo di fornire una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione denunciata. Questa, secondo la Regione, sarebbe interpretabile nel senso che non sancisce l’affidamento diretto della gestione del SII all’AQP, ma si limita ad imporre all’Autorità idrica pugliese di provvedere all’affidamento ad un’azienda pubblica regionale (anche diversa dall’AQP), la quale possieda il duplice requisito di realizzare «la parte prevalente della propria attività con l’ente pubblico che la controlla» e di reinvestire «nel servizio […] almeno l’80 per cento degli avanzi netti di gestione». Solo in tal modo, soggiunge la resistente, la normativa impugnata sarebbe coerente con l’art. 2, comma 2, lettera f), della precedente legge reg. Puglia n. 9 del 2011, il quale riserva all’Autorità idrica pugliese la funzione di provvedere con un proprio atto all’«affidamento della gestione del servizio idrico integrato».
L’eccezione non può essere accolta sia perché nel giudizio di legittimità costituzionale promosso in via principale il ricorrente – a differenza del giudice rimettente nell’incidente di costituzionalità – non ha l’onere di esperire, a pena di inammissibilità della questione, un tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione impugnata, sia perché il denunciato art. 2, comma 1, della legge reg. n. 11 del 2011 non è interpretabile nel senso indicato dalla Regione.
Sotto il primo aspetto, è sufficiente ricordare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la questione di legittimità costituzionale promossa in via principale, pur non potendo avere per oggetto la definizione di un mero contrasto sulla interpretazione della norma (sentenza n. 19 del 1956), è ammissibile anche quando la richiesta di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma di legge, accompagnata dall’indicazione del vizio denunciato, sia prospettata in base alla tesi interpretativa prescelta dal ricorrente (ex multis, sentenze n. 412 del 2001; n. 244 del 1997 e n. 482 del 1991), senza il previo esperimento del tentativo di giungere ad una interpretazione alternativa, idonea a superare i dubbi di costituzionalità. Questa conclusione si giustifica in ragione della radicale differenza delle questioni promosse in via principale rispetto a quelle sollevate in via incidentale: nelle prime è lo stesso ricorrente (Stato o Regione), parte nel giudizio di costituzionalità, ad avanzare una propria interpretazione della norma denunciata, con riferimento all’astratta possibilità di applicazione della norma stessa; nelle seconde, cioè in quelle sollevate in via incidentale, è il giudice rimettente a dover fornire la dimostrazione della rilevanza del dubbio di costituzionalità, cioè del fatto che, in concreto, il giudizio a quo «non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale» (art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale») e quindi, in particolare, che il dubbio di costituzionalità non possa essere risolto facendo uso degli strumenti interpretativi a disposizione dell’autorità giurisdizionale. Solo per l’incidente di costituzionalità dunque – e non per il giudizio di legittimità costituzionale promosso in via di azione – è richiesto al rimettente, a pena di inammissibilità della questione, un previo tentativo di interpretazione conforme a Costituzione, nel senso che «la risoluzione dell’eventuale dubbio interpretativo in ordine alla norma impugnata è lasciata alla preliminare valutazione del rimettente, vuoi ai fini della richiesta motivazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel giudizio a quo vuoi in ossequio all’obbligo, pure posto a carico dello stesso giudice, della interpretazione adeguatrice, ove possibile, alla Costituzione» (citata sentenza n. 412 del 2001).
Sotto il secondo aspetto, va rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla resistente, la legge regionale n. 11 del 2011 può essere interpretata solo nel senso che essa stessa provvede all’affidamento diretto della gestione del SII all’AQP. Infatti detta legge, nel disporre che la gestione del SII è affidata ad un’azienda pubblica regionale con particolari caratteristiche e nell’istituire contestualmente una specifica azienda con tali caratteristiche (a quanto consta, l’unica del genere) con il fine di gestire il SII, individua proprio in tale azienda (l’AQP) l’affidataria della gestione del servizio e – attraverso la determinazione delle caratteristiche generali degli affidatari – anche le forme di gestione utilizzabili, inibendo cosí all’Autorità idrica pugliese di procedere alla scelta, previa valutazione comparativa delle modalità di gestione e degli affidatari. In tal modo la legge reg. n. 11 del 2011 risulta incompatibile con il citato art. 2, comma 2, lettera f), della legge reg. Puglia n. 9 del 2011 – secondo il quale è, invece, l’Autorità idrica pugliese a provvedere all’affidamento della gestione del SII – e ne ha perciò determinato, in quanto lex posterior incompatibile, l’abrogazione tacita.
3.2. – Nel merito, occorre sottolineare che la disciplina dell’affidamento della gestione del SII attiene, come piú volte affermato da questa Corte, alle materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente, riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 187 del 2011; n. 128 del 2011; n. 325 del 2010; n. 142 del 2010; n. 307 del 2009; n. 246 del 2009). Nella specie, anche dopo l’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (con effetto dal 21 luglio 2011, ad opera dell’art. 1, commi 1 e 2, del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113, recante «Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica»), resta vigente il disposto del terzo periodo del comma 186-bis dell’art. 2 della legge n. 191 del 2009 (inserito dall’art. 1, comma 1-quinquies, del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, convertito con modificazioni, dalla legge 26 marzo 2010, n. 42), in forza del quale alla legge regionale spetta soltanto disporre l’attribuzione delle funzioni delle soppresse Autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO), «nel rispetto dei princípi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza», e non spetta, di conseguenza, provvedere direttamente all’esercizio di tali funzioni affidando la gestione ad un soggetto determinato. Da ciò deriva, in particolare, che, in base alla normativa statale, la legge regionale deve limitarsi ad individuare l’ente od il soggetto che eserciti le competenze già spettanti all’AATO e, quindi, anche la competenza di deliberare la forma di gestione del servizio idrico integrato e di aggiudicare la gestione di detto servizio. Queste funzioni, infatti, erano attribuite all’AATO dai commi 1 e 2 dell’art. 150 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), i quali aggiungevano, rispettivamente, che la forma di gestione era deliberata «fra quelle di cui all’articolo 113, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267», recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (comma 1) e che l’aggiudicazione avveniva «mediante gara […] in conformità ai criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 […]» (comma 2). Va precisato che la disciplina di cui ai richiamati commi 5 e 7 dell’art. 113 è stata delegificata ed abrogata dal combinato disposto dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (in quanto «incompatibili» con tale art. 23-bis) e dell’art. 12, comma 1, lettera a), del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) e che, prima ancora, questa Corte, con sentenza n. 272 del 2004, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo e del terzo periodo del comma 7. Tuttavia tale abrogazione e l’indicata dichiarazione di illegittimità costituzionale hanno fatto venir meno soltanto il vincolo che i due commi abrogati imponevano alle AATO (e, pertanto, anche ai successori di queste, individuati con legge regionale) di adottare esclusivamente alcune specifiche forme di gestione e di rispettare particolari criteri e, perciò, non hanno soppresso la funzione propria delle AATO medesime di deliberare le forme di gestione del SII e di aggiudicare tale gestione, nel rispetto dei princípi e delle disposizioni vigenti nel diritto dell’Unione europea. In proposito, è appena il caso di sottolineare che i piú volte menzionati commi 5 e 7 dell’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000 non hanno ripreso vigore a séguito della dichiarazione dell’avvenuta abrogazione dell’intero art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 per effetto dell’esito del referendum indetto con d.P.R. 23 marzo 2011. Come questa Corte ha piú volte affermato, infatti, dall’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, non consegue la reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo (sentenze n. 320 e n. 24 del 2011; sull’esclusione, di regola, dell’effetto retroattivo dell’abrogazione referendaria, ordinanza n. 48 del 2012).
Nella specie, la norma regionale impugnata si pone in contrasto con la suddetta normativa statale, perché – disponendo che la gestione del SII è affidata ad un’azienda pubblica regionale avente determinate caratteristiche – da un lato esclude che l’ente regionale successore delle competenze dell’AATO (ossia l’Autorità idrica pugliese) deliberi con un proprio atto le forme di gestione del SII e provveda all’aggiudicazione della gestione del servizio al soggetto affidatario e dall’altro, con disposizione che tiene luogo di un provvedimento, stabilisce essa stessa che il SII sia affidato ad un’azienda pubblica regionale, da identificarsi necessariamente nell’unica (a quanto consta) azienda pubblica regionale istituita al fine di detta gestione, cioè nell’azienda denominata «Acquedotto pugliese – AQP», prevista dalla medesima legge reg. Puglia n. 11 del 2011 (artt. da 5 a 14). Poiché, come già rilevato, la normativa statale non consente che la legge regionale individui direttamente il soggetto affidatario della gestione del SII e che stabilisca i requisiti generali dei soggetti affidatari di tale gestione (cosí determinando, indirettamente, anche le forme di gestione), appare evidente la violazione dell’evocato art. 117, secondo comma, lettere e) ed s), Cost., con la conseguente illegittimità costituzionale dell’impugnata normativa regionale (sulla legittimità costituzionale delle leggi statali, emesse nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva dello Stato, che vietino l’esercizio in via legislativa della funzione amministrativa regionale, ex plurimis, sentenze n. 20 del 2012; n. 44 del 2010; n. 271 e n. 250 del 2008; ordinanza n. 405 del 2008).
4.− La seconda questione promossa con il ricorso n. 83 del 2011 ha ad oggetto l’art. 5 della suddetta legge reg. Puglia n. 11 del 2011, che istituisce – come sopra ricordato − l’Azienda pubblica regionale «Acquedotto pugliese (AQP)» e stabilisce il subentro di tale azienda nel patrimonio e nei rapporti della s.p.a. Acquedotto pugliese, a suo tempo costituita, mediante trasformazione del preesistente «Ente autonomo per l’acquedotto pugliese», con il d.lgs. 11 maggio 1999, n. 141 (Trasformazione dell’Ente autonomo acquedotto pugliese in società per azioni, a norma dell’articolo 11, comma 1, lettera b, della legge 15 marzo 1997, n. 59). L’articolo è impugnato per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere e) ed s), Cost., perché – pur non incidendo formalmente sulla normativa statale e pur non provocando l’estinzione della s.p.a. Acquedotto pugliese (la quale è destinata ad operare, in base al predetto decreto legislativo, fino al 31 dicembre 2018, per l’esercizio delle attività di captazione, adduzione, potabilizzazione, distribuzione di acqua ad usi civili, nonché di fognatura e depurazione delle acque reflue, cioè per l’esercizio delle attività in cui si articola il SII) – finisce «per privare di qualsiasi funzione» la s.p.a. Acquedotto pugliese e, quindi, finisce «per svuotare di qualsiasi efficacia» il predetto decreto legislativo n. 141 del 1999, riconducibile alle materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, appartenenti alla sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
La questione è fondata.
Va premesso, al riguardo, che la normativa regionale denunciata deve essere valutata in riferimento al quadro costituzionale vigente al momento della sua emanazione, cioè a quello successivo alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, e non (come invece pare adombrare la resistente Regione Puglia) alle norme costituzionali esistenti al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 141 del 1999, il quale ha direttamente costituito la s.p.a. Acquedotto pugliese, il cui patrimonio ed i cui rapporti sono oggetto del censurato “subentro” in favore dell’AQP. Di qui la pertinenza dei parametri costituzionali evocati dal ricorrente.
Ciò posto, non è dubbio che detta normativa regionale incide sul patrimonio e sui rapporti attivi e passivi di una società per azioni costituita con legge statale; società nel cui oggetto sociale rientra la «gestione del ciclo integrato dell’acqua» e che è destinata ad operare (in base al citato d.lgs. n. 141 del 1999) almeno fino al 31 dicembre 2018. In considerazione di tale contenuto e, in particolare, della sua attinenza (proprio perché trasferisce le risorse ed i rapporti dell’indicata società per azioni) alla gestione del servizio idrico integrato, la norma regionale impugnata è riconducibile – oltre che alla materia ordinamento civile – alle materie tutela della concorrenza e tutela dell’ambiente, entrambe riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in base agli evocati parametri costituzionali (come evidenziato dalle sopra citate sentenze n. 187 del 2011; n. 128 del 2011; n. 325 del 2010; n. 142 del 2010; n. 307 del 2009; n. 246 del 2009). La previsione del subentro dell’AQP nel patrimonio e nei rapporti della s.p.a. Acquedotto pugliese, ponendosi in palese contrasto con la suddetta disciplina statale (che non prevede tale subentro), integra, perciò, la denunciata illegittimità costituzionale.
5.− La terza questione promossa con il ricorso n. 83 del 2011 ha ad oggetto l’art. 9, comma 1, della medesima legge reg. Puglia n. 11 del 2011, in base al quale «Il personale in servizio presso l’Acquedotto pugliese S.p.A. alla data di costituzione dell’AQP transita nell’organico dell’AQP alla data della costituzione della medesima, conservando tutti i diritti giuridici ed economici acquisiti, senza ulteriori e maggiori oneri. Nell’attuazione di tale progetto sono assicurate le relazioni sindacali». Per il ricorrente, tale normativa, nel prevedere il trasferimento del personale dalla s.p.a. Acquedotto pugliese all’Azienda pubblica regionale AQP, a prescindere dalla circostanza che il personale sia inquadrato nel comparto pubblico con procedura selettiva concorsuale, víola: a) l’art. 3 Cost., perché irragionevolmente consente al solo personale in servizio presso la s.p.a. Acquedotto pugliese di essere inquadrato nei ruoli dell’AQP, prescindendo dalla regola della selezione concorsuale che si impone invece per la generalità dei pubblici dipendenti; b) l’art. 51 Cost., perché, privilegiando il personale già in servizio presso la s.p.a. Acquedotto pugliese rispetto ad altri possibili aspiranti all’assunzione presso l’AQP, non permette a tutti i cittadini di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge; c) l’art. 97, terzo comma, Cost., perché il generalizzato ed automatico inquadramento di tutti i dipendenti in servizio presso la s.p.a. Acquedotto pugliese nei ruoli dell’AQP contrasta con la regola di accesso agli impieghi pubblici tramite concorso pubblico, posta a tutela non solo dei potenziali aspiranti, ma anche dell’interesse pubblico alla scelta dei candidati migliori, nonché all’imparzialità ed al buon andamento della pubblica amministrazione; d) l’art. 117, terzo comma, Cost., perché si pone in contrasto con l’art. 17, commi da 10 a 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, il quale, con norma integrante un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, preclude alle amministrazioni pubbliche, a decorrere dal gennaio 2010, ogni procedura di stabilizzazione del personale non di ruolo diversa dalla valorizzazione dell’esperienza professionale acquisita attraverso l’espletamento di concorsi pubblici con parziale riserva di posti.
Anche tale questione è fondata.
La normativa impugnata dispone un generale ed automatico transito del personale di una persona giuridica di diritto privato, la s.p.a. Acquedotto pugliese, nell’organico di un soggetto pubblico regionale, l’Azienda pubblica regionale denominata AQP, senza il previo espletamento di alcuna procedura selettiva. Le modalità di tale transito costituiscono, pertanto, una palese deroga al principio del concorso pubblico, al quale debbono conformarsi − come piú volte affermato da questa Corte – le procedure di assunzione del personale delle pubbliche amministrazioni (ex plurimis, sentenza n. 190 del 2005). Il mancato ricorso a tale forma generale e ordinaria di reclutamento del personale della pubblica amministrazione non trova, nella specie, alcuna peculiare e straordinaria ragione giustificatrice (che non risulta dal testo della legge regionale, non è indicata dalla Regione resistente e, allo stato degli atti, neppure appare ricavabile aliunde), tanto da risolversi in un privilegio indebito per i soggetti che possono beneficiare della norma impugnata (sulla necessità che le eccezioni alla regola di cui all’art. 97 Cost. rispondano a peculiari e straordinarie esigenze di servizio, ex plurimis, sentenze n. 363, n. 205 e n. 81 del 2006). Risulta, dunque, violato l’art. 97 Cost. Le ulteriori censure restano assorbite.
 
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, dell’art. 5 e dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Puglia 20 giugno 2011, n. 11 (Gestione del servizio idrico integrato. Costituzione dell’Azienda pubblica regionale “Acquedotto pugliese – AQP”), oggetto delle questioni di legittimità costituzionale promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso n. 83 del 2011, indicato in epigrafe;
2) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6, lettera g), della legge della Regione Puglia 30 maggio 2011, n. 9 (Istituzione dell’Autorità idrica pugliese), promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, con il ricorso n. 81 del 2011, indicato in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI