Sentenza 339/2011

Sentenza 339/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore CRISCUOLO

Udienza Pubblica del 18/10/2011 Decisione del 12/12/2011
Deposito del 22/12/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 3, c. 2°, e 14, c. 3°, 7°, 8°, 9° e 10°, della legge della Regione Lombardia 23/12/2010, n. 19.
Massime:
Atti decisi: ric. 13/2011


SENTENZA N. 339

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 2 e 14, commi 3, 7, 8, 9 e 10, della legge della Regione Lombardia 23 dicembre 2010, n. 19 (Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della legge regionale 31 marzo 1978, n. 34 – Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione – Collegato 2011), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 febbraio-2 marzo 2011, depositato in cancelleria il successivo 7 marzo 2011 ed iscritto al n. 13 del registro ricorsi 2011.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia;

udito nell’udienza pubblica del 18 ottobre 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Marcello Cardi e Fabio Cintioli per la Regione Lombardia.



Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso del 24 febbraio 2011, consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica il 25 febbraio 2011 e depositato il 7 marzo 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 23 dicembre 2010, n. 19 (Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della legge regionale 31 marzo 1978, n. 34 – Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione – Collegato 2011). In particolare, sono stati impugnati gli articoli 3, comma 2, e 14, commi 3, 7, 8, 9 e 10, della citata legge regionale n. 19 del 2010.

2.— L’art. 3, comma 2, lettera a), che sostituisce l’art. 25, comma 6, della legge della Regione Lombardia 7 luglio 2008, n. 20 (Testo unico delle leggi regionali in materia di organizzazione e personale), è impugnato nella parte in cui dispone che «Le economie risultanti dalla riduzione dell’organico complessivo della dirigenza possono essere destinate alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate ai sensi dell’articolo 31 del CCNL del personale del comparto Regioni-autonomie locali del 22 gennaio 2004».

Ad avviso della difesa dello Stato, tale materia sarebbe riservata alla contrattazione collettiva e, pertanto, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con le norme contenute nel Titolo III (dall’art. 40 all’art. 50) del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche), le quali indicano le procedure da seguire in sede di contrattazione collettiva, nonché l’obbligo del rispetto della normativa contrattuale. Il legislatore regionale, dunque, sarebbe andato oltre la propria competenza, invadendo la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

2.1.— L’art. 14 della legge regionale n. 19 del 2010, sotto la rubrica «Modifica alla legge regionale n. 26 del 2003, concernente disposizioni in materia di grandi derivazioni ad uso idroelettrico», introduce varie modifiche alla citata legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche).

Tra l’altro, dopo l’art. 53 di detta legge, inserisce l’art. 53-bis, il cui comma 3 dispone che «La Regione, in assenza e nelle more dell’individuazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi e dei parametri di aumento dell’energia prodotta e della potenza installata concernenti le procedure di gara, di cui all’art 12, comma 2, del d.lgs. n. 79 del 1999, provvede a determinare i suddetti requisiti e parametri entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore del presente articolo».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, con tale disposizione il legislatore regionale avrebbe invaso l’esclusiva competenza statale in materia di tutela della concorrenza, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

La disposizione de qua non regolerebbe affatto il modo di produrre l’energia, ma detterebbe soltanto misure incidenti sulle procedure di scelta del concessionario. Sul punto è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2008, alla stregua della quale la disciplina relativa all’espletamento delle gare ad evidenza pubblica rientra nella materia della tutela della concorrenza, spettante appunto alla competenza esclusiva dello Stato, come affermato anche dalla sentenza n. 401 del 2007. La difesa dello Stato prosegue rilevando che, in base a quest’ultima pronuncia, la determinazione dei «requisiti organizzativi e finanziari minimi, dei parametri di aumento di energia prodotta e della potenza installata concernenti la procedura di gara, è un atto che, da un lato, è riconducibile alla indicata competenza statale in materia di tutela della concorrenza, dall’altro, interferisce su aspetti organizzativi, programmatori e gestori della materia, di competenza concorrente, della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia (art. 117, terzo comma, della Costituzione)». In ordine a tale potere, che potrebbe coinvolgere anche aspetti di gestione del territorio, si dovrebbe prevedere la necessità di riconoscere, a fianco dei poteri specifici degli organi dello Stato, anche un coinvolgimento sul piano amministrativo delle Regioni.

A tale indicazione della giurisprudenza costituzionale il legislatore statale avrebbe ottemperato, introducendo la nuova formulazione dell’art. 12, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), come sostituito dall’art. 15, comma 6-ter, lettera c), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, alla stregua del quale è demandata al Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997, la determinazione, entro il termine di sei mesi, dei requisiti organizzativi e finanziari minimi, dei parametri e dei termini concernenti la procedura di gara, tenendo conto degli interessi strategici degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e del contributo degli impianti idroelettrici alla copertura della domanda e dei picchi di consumo.

2.2.— L’art. 14, commi 7, 8, 9 e 10 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010 violerebbe, poi, l’art. 117, comma terzo, Cost.

La normativa censurata, infatti, disporrebbe che gli impianti concernenti l’utilizzazione delle acque pubbliche demaniali delle grandi derivazioni idroelettriche sono direttamente conferiti a società pubbliche patrimoniali di scopo (comma 7); che la Regione, anche per il tramite di tali società, affida l’esercizio industriale di detti impianti mediante procedure di evidenza pubblica, ovvero direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata (comma 8); che le concessioni idroelettriche ricadenti nei territori delle Province montane, o delle Province che abbiano il 50 per cento del territorio ad una quota superiore a 500 metri sul livello del mare, siano affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata (comma 9); che la concessione per l’uso delle acque pubbliche è rilasciata, di diritto, in favore dei soggetti affidatari degli impianti.

Pertanto, tali disposizioni regionali verrebbero a prefigurare un sistema di affidamento di impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche e non, invece, un sistema di affidamento tramite gare delle concessioni idroelettriche. Ciò si porrebbe in aperto contrasto con il regime di tali concessioni e dei relativi impianti, come prefigurato dall’art. 12 del citato d.lgs. n. 79 del 1999, nonché dall’art. 25 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici). Tali norme statali enuncerebbero principi fondamentali della materia di competenza concorrente “energia”, sicché la loro violazione si tradurrebbe in violazione dell’art. 117, comma terzo, Cost.

2.3.— Inoltre, l’art. 14, commi 7, 8, 9 e 10 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010 si porrebbe in contrasto con l’art. 117, commi primo, secondo lettera e) e terzo Cost.; mentre l’art. 14, comma 7, violerebbe anche l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Il richiamo effettuato dall’art. 14, comma 1, della legge censurata al decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42), sul “federalismo demaniale”, non varrebbe a giustificare l’intervento regionale sugli impianti in questione.

In ogni caso, nella parte in cui la censurata normativa della Regione Lombardia prevede affidamenti diretti (ovvero senza gara), essa verrebbe a porsi in contrasto con i principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario in tema di concorrenza, violando, quindi, l’art. 117, primo comma, Cost.

Infine, si dovrebbe rilevare che le procedure di affidamento di beni e servizi rientrerebbero nella competenza esclusiva del legislatore statale in materia di concorrenza. Come affermato dalla Corte costituzionale (il richiamo è alla già citata sentenza n. 401 del 2007), la tutela della concorrenza avrebbe natura trasversale, non presentando i caratteri di una materia di estensione certa, bensì quelli di «una funzione esercitabile sui più diversi oggetti». Nello specifico settore degli appalti, però, l’interferenza con competenze regionali si atteggerebbe in modi peculiari, in quanto non si realizzerebbe di regola un intreccio in senso stretto con ambiti materiali di pertinenza regionale, bensì la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa. Ne conseguirebbe che la fase della procedura di evidenza pubblica, riconducibile alla tutela della concorrenza, potrebbe essere interamente disciplinata dal legislatore statale.

Con le disposizioni censurate il legislatore regionale, andando oltre la propria competenza, avrebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., per i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in materia di tutela della concorrenza, nonché l’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.

Da ultimo, limitatamente all’art. 14, comma 7, il detto legislatore regionale avrebbe violato anche l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ai sensi del quale lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

3.— La Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale e legale rappresentante pro-tempore, si è costituita con memoria depositata il 6 aprile 2011, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e, comunque, non fondato.

3.1.— In riferimento alla censura relativa all’art. 3, comma 2, della legge regionale n. 19 del 2010, la resistente ne ha eccepito l’inammissibilità, perché essa si limiterebbe ad indicare la norma oggetto di contestazione e il parametro costituzionale violato, senza argomentare in alcun modo in ordine alla doglianza mossa, compiendo un generico rinvio al titolo terzo del d.lgs. n. 165 del 2001, che poco o nulla stabilirebbe circa i meccanismi di premialità e valorizzazione del personale.

Nel merito, la censura non sarebbe fondata, perché il citato decreto legislativo consentirebbe l’intervento operato dalla Regione, seppure con determinate limitazioni. Infatti, l’art. 2, comma 2, di detto decreto prevede che eventuali disposizioni di legge, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi, e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili. A tal proposito gioverebbe ricordare che la disposizione in esame vedrebbe la sua legittimità confermata dalla recente intesa (4 febbraio 2011) tra il Governo e le associazioni sindacali del settore pubblico in tema di premialità e valutazione, laddove si prevede la possibilità di ricorrere a risorse aggiuntive derivanti da processi di ristrutturazione e razionalizzazione, purché connesse alla premialità stessa.

La norma di cui si tratta, peraltro, lungi dall’invadere la potestà legislativa statale in materia di ordinamento civile, sarebbe stata emanata in base alla potestà legislativa regionale riconosciuta in materia, in parte dalla Costituzione e in parte dal legislatore statale. Infatti, le posizioni organizzative in questione andrebbero inserite nella più ampia disciplina della dirigenza, trattandosi di posizioni assimilabili alla vice-dirigenza, figura prevista dall’art. 17-bis del d.lgs. n. 165 del 2001. Il successivo art. 27 dispone che le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà, adeguano i propri ordinamenti ai principi contenuti nel capo che disciplina la dirigenza (Capo II), tenendo conto delle relative peculiarità. Pertanto, si sarebbe in tema di organizzazione del personale regionale, in parte demandato alla potestà residuale della Regione, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., e in parte all’adeguamento degli ordinamenti regionali al decreto legislativo n. 165 del 2001 e successive modificazioni, come previsto dall’art. 1, comma 3, dello stesso.

In subordine, andrebbe considerato che la valorizzazione del personale potrebbe essere perseguita non soltanto attraverso incentivi economici, bensì anche con altri benefici, come l’accesso a percorsi di alta formazione e di crescita professionale, beneficio peraltro escluso «da quelli che sono riconosciuti a valere sulle risorse disponibili per la contrattazione collettiva integrativa».

3.2.— Passando alle censure mosse all’art. 14, commi 3, 7, 8, 9 e 10, della legge regionale n. 19 del 2010, la resistente ne eccepisce l’inammissibilità e l’infondatezza.

In via preliminare, ritiene di dover «puntualizzare i riferimenti normativi che vengono in discussione, al di là di quel che è menzionato nel ricorso governativo, nonché nell’estratto della deliberazione del Consiglio dei ministri».

A tal riguardo osserva che il censurato art. 14 contiene un solo comma con il quale, alla lettera a), dopo l’art. 53 della legge regionale della Lombardia 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), introduce l’art. 53-bis, quest’ultimo composto da 12 commi di diverso contenuto. Tuttavia, il ricorso indicherebbe erroneamente come norme impugnate i commi dell’art. 14 della legge regionale n. 19 del 2010.

Anche se la Corte volesse prescindere da tale profilo, le censure dedotte sarebbero, comunque, inammissibili, in quanto del tutto generiche ed immotivate. Esse si limiterebbero ad indicare la norma contestata ed il parametro costituzionale violato, senza porre in evidenza la norma statale interposta violata né argomentandone la violazione, sovente ricorrendo ad enunciazioni generiche ed infine alludendo ad interpretazioni della norma censurata talora persino estranee al suo tenore letterale.

Non sarebbe stato osservato, dunque, l’onere di motivazione cui la parte ricorrente è tenuta (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 462 del 2005).

3.3.— Passando al merito, la difesa regionale procede ad una ricostruzione del quadro normativo concernente l’utilizzo e la derivazione delle acque pubbliche. Osserva che oggetto della concessione prevista dalla citata normativa è l’acqua pubblica, rientrante nel demanio idrico, ai sensi dell’art. 822 del codice civile. Richiama il contenuto di tale disposizione, nonché il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e, in particolare, l’art. 143.

Rileva che, con le riforme attuate alla fine degli anni ’90, la gestione amministrativa del demanio idrico è stata trasferita alle Regioni e agli enti locali, ferma restando la titolarità dello Stato sul detto demanio (è richiamato il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59». Nell’ambito della gestione del demanio idrico, alle Regioni e agli enti locali sono trasferite tutte le funzioni amministrative relative alle derivazioni di acque pubbliche, fatte salve le concessioni di grandi derivazioni per uso idroelettrico. Questa riserva allo Stato è stata poi superata con il decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica). Pertanto, a partire dal 1° aprile 1999, anche il rilascio delle concessioni di grandi derivazioni idroelettriche è divenuto di competenza regionale.

In questo contesto – prosegue la Regione – il decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42), che prevede il cosiddetto federalismo demaniale, ossia l’attribuzione agli enti locali e alle Regioni di un proprio patrimonio, completerebbe il disegno riformatore, finalizzato ad un completo affidamento agli enti territoriali di tutti gli aspetti della materia, peraltro dopo l’emanazione dei decreti attuativi, non ancora intervenuti.

La difesa regionale, quindi, sottolinea che la disciplina relativa all’attribuzione delle grandi derivazioni e alla durata delle medesime è contenuta nell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999, che stabilisce due principi fondamentali: 1) il titolo concessorio deve essere attribuito mediante gara pubblica; 2) la concessione è temporanea (si fa riferimento ad un periodo di durata trentennale).

Sono, quindi, richiamati gli interventi di questa Corte (in particolare, la sentenza 18 gennaio 2008, n. 1) e quelli comunitari, che hanno modificato il citato art. 12, nonché la legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006). Dalla menzionata sentenza n. 1 del 2008 sono desunti i seguenti principi: a) il divieto di proroghe delle concessioni idroelettriche (ritenuto rilevante per le affermazioni circa la necessità di non procrastinare gli affidamenti delle concessioni mediante gare); b) i criteri per l’espletamento delle gare (rilevanti per le affermazioni in ordine alla competenza delle Regioni in materia e al necessario apporto delle stesse nella fissazione dei predetti criteri).

La difesa della resistente osserva ancora che, a seguito della sentenza indicata, il legislatore statale è nuovamente intervenuto sul citato art. 12, con il decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, che ha dettato il nuovo testo della norma ed ha previsto l’intesa con la Conferenza unificata (art. 15, comma 6-ter, aggiunto dalla legge di conversione).

La novella del 2010 ha introdotto, altresì, una cosiddetta “clausola di cedevolezza”, stabilendo, con l’art. 6-quater, che le disposizioni dell’art. 15, comma 6-ter, le quali per l’appunto modificano l’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999, si applicano fino all’adozione di diverse disposizioni legislative da parte delle Regioni, per quanto di loro competenza.

Ad avviso della Regione Lombardia, secondo il tenore letterale della citata norma, anche l’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 79 del 1999 (e successive modificazioni), laddove stabilisce che il Ministero debba determinare, d’intesa con la Conferenza unificata, i requisiti per la gara, è soggetto alla predetta clausola di cedevolezza, con la conseguenza che un intervento legislativo regionale in materia verrebbe a superare l’applicazione della norma menzionata.

4.— In questo quadro, la censura mossa all’art. 14, comma 3, della legge regionale n. 19 del 2010 (in realtà riferita all’art. 53-bis, comma 3, della legge regionale n. 26 del 2003, come introdotto dal citato art. 14) non sarebbe fondata perché: 1) la tutela della concorrenza è materia trasversale, che non può azzerare ogni concorrente competenza legislativa regionale; 2) nel caso di specie la normativa regionale verrebbe perfettamente ad “incastonarsi” con quella statale, la quale ultima manterrebbe la sua forza per quanto attiene a tutti gli indirizzi di fondo pro-concorrenziali; 3) nel caso in esame proprio il legislatore statale, con apposita clausola di cedevolezza, avrebbe riconosciuto la competenza legislativa regionale; 4) la legge regionale, rafforzando la tutela della concorrenza, darebbe piena attuazione a vincolanti principi del diritto comunitario, i quali, in sua mancanza, rischierebbero di essere ulteriormente sacrificati.

4.1.— Passando ad argomentare le ragioni ora riassunte, la Regione osserva che la giurisprudenza della Corte costituzionale avrebbe più volte affermato che la materia “tutela della concorrenza”, di cui all’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost., data la sua natura trasversale e funzionale, non sarebbe illimitata. In particolare, si sarebbe riconosciuto (sentenza n. 430 del 2007) che la materia de qua non sarebbe di «estensione certa» ma presenterebbe i tratti di una funzione esercitabile sui più diversi oggetti, essendo configurabile come «trasversale» (sentenza n. 401 del 2007) e caratterizzata da una portata ampia (sentenza n. 80 del 2006). Ne conseguirebbe che la competenza statale esclusiva, a tutela della concorrenza, mai potrebbe escludere del tutto la potestà legislativa regionale, ma sarebbe «intrinsecamente contenuta e limitata». La stessa sentenza n. 1 del 2008 confermerebbe tali assunti, in quanto, pur collegando la definizione dei criteri per lo svolgimento delle gare relative alle concessioni di derivazioni idroelettriche alla competenza statale in materia di tutela della concorrenza, avrebbe riconosciuto anche come necessario il coinvolgimento delle Regioni nella definizione dei predetti criteri, e ciò in forza della coesistente competenza concorrente delle Regioni medesime in tema di energia e di gestione del territorio.

Andrebbe sottolineato, poi, che nel caso di specie la norma generale andrebbe a porsi «in perfetta linea con i principi della legge statale, la quale, perlomeno in via di principio (non anche purtroppo nell’attuazione pratica) afferma la temporaneità della concessione e la necessità che vengano effettuate le gare pubbliche per il rilascio delle concessioni medesime (art. 12, comma 1, d.lgs. n. 79 del 1999)». Infine, lo stesso legislatore statale – l’argomento sarebbe dirimente – avrebbe considerato la previsione contenuta nell’art. 12, comma 2, come cedevole, consentendo dunque al legislatore regionale non soltanto di intervenire in materia, ma anche di rendere inapplicabile la stessa norma statale una volta sostituita da una propria normativa regionale.

4.2.— La questione risulterebbe infondata anche sotto altro profilo.

La Corte costituzionale, nel delimitare la materia trasversale della concorrenza, avrebbe ritenuto costituzionalmente legittime norme regionali emanate nell’esercizio di una competenza concorrente o residuale della Regione, qualora esse siano più rigorose o efficaci rispetto alle norme statali interposte proprio in materia di tutela della concorrenza (sono citate le sentenze n. 307 del 2009, n. 431 e n. 430 del 2007).

Nel caso di specie, la norma regionale censurata prevede che la Regione intervenga a determinare i requisiti concernenti la procedura di gara per l’affidamento delle concessioni, «in assenza» e «nelle more» dell’intervento dello Stato, sicché la legge regionale, attribuendo alla Regione stessa la competenza ad adottare i predetti requisiti se lo Stato rimane inerte, non farebbe altro che intervenire in favore della concorrenza, per consentire che le gare finalmente si svolgano. Ciò sarebbe certamente consentito in base alla giurisprudenza richiamata.

Con la stessa sentenza n. 1 del 2008 questa Corte avrebbe sottolineato come il procrastinare le gare pubbliche non consentirebbe di attuare i principi comunitari e sarebbe contrario alla tutela della concorrenza.

Né gioverebbe addurre che la prevista competenza statale per l’adozione dell’atto amministrativo generale previsto dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 79 del 1999 sia vincolante e insostituibile da parte regionale.

In primo luogo, andrebbe ribadito che la legge regionale non esclude la competenza amministrativa statale, bensì la sostituisce in caso di inerzia. In secondo luogo, il legislatore statale già dal 1998-1999 avrebbe stabilito in capo alle Regioni una generale competenza di gestione amministrativa delle concessioni idroelettriche e del demanio idrico, sicché in virtù di tale competenza proprio la Regione e non lo Stato sarebbe legittimata ad emanare l’atto amministrativo generale con il quale si definiscono i predetti requisiti.

In realtà la legge regionale starebbe attuando principi generali consolidati e pacifici del diritto comunitario proprio in materia di tutela della concorrenza, oltre tutto recepiti dal diritto interno. Essa, infatti, garantirebbe il duplice risultato che lo stesso art. 12 citato sembrava voler conseguire, cioè affidare le concessioni mediante gara ed assicurare l’effettiva temporaneità della durata dei rapporti concessori.

La legge regionale in questione risulterebbe conforme alle norme e ai principi del diritto comunitario, in quanto avrebbe come unico effetto quello di far cessare un’inerzia statale certamente in contrasto con quel diritto. Sotto questo aspetto, la censura potrebbe apparire perfino inammissibile per carenza d’interesse, ben potendo il Governo emanare finalmente il provvedimento previsto dall’art. 12, comma 2, e così rendere inapplicabile la legge regionale, che si attiva soltanto in caso d’inerzia e nelle more dell’adozione del provvedimento ministeriale.

5.— Del pari non fondate, ad avviso della difesa regionale, sarebbero le censure mosse all’art. 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010 (recte: art. 53-bis della legge regionale n. 26 del 2003), commi 7, 8, 9 e 10.

Il ricorrente si sarebbe limitato ad eccepire che le disposizioni impugnate prefigurano un sistema di affidamento d’impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche e non, invece, un sistema di affidamento delle concessioni mediante gara. Il che sarebbe in contrasto con il regime delle concessioni idroelettriche stabilito dall’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999, nonché dall’art. 25 del T. U. n. 1775 del 1933, costituenti principi fondamentali della materia “energia”, di competenza legislativa concorrente, con violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

Ferma l’eccezione d’inammissibilità per il carattere generico della doglianza, la Regione afferma che se «il Governo intende sostenere (ciò che, in verità, non risulta con assoluta chiarezza) che nel caso di specie sia stato violato il principio per il quale le concessioni idroelettriche siano affidate mediante gara e che si voglia dar luogo a qualche forma di affidamento diretto, è di tutta evidenza che detta violazione non sussiste».

La normativa regionale intenderebbe prevedere proprio la celebrazione di gare pubbliche per affidamento delle concessioni in questione, in perfetta coerenza con quanto richiedono l’ordinamento comunitario e quello nazionale. La lettura del dettato normativo (da leggere nella sua interezza) dimostrerebbe che non soltanto non si deroga affatto agli obblighi di tenere il confronto competitivo, ma anzi si sblocca una situazione che finora lo ha impedito. Il ruolo delle «società patrimoniali di scopo con partecipazione pubblica totalitaria incedibile» consisterebbe soltanto nell’essere titolari della mera proprietà pubblica degli impianti e delle pertinenze del demanio idrico che, divenendo oggetto della concessione, sarebbero anch’essi affidati al concessionario per la gestione. Non vi sarebbe stata, dunque, violazione dei principi fondamentali della materia, come stabiliti sia dall’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999 sia dall’art. 25 del T. U. n. 1775 del 1933. Al contrario, le norme regionali si muoverebbero nell’ambito dei predetti principi fondamentali, costituendone attuazione.

La difesa regionale richiama quindi il contenuto del comma 7, sottolinea che l’affidatario è individuato con procedura di gara ad evidenza pubblica (commi 2 e 8) e può essere anche una società a partecipazione mista pubblico-privata, a condizione che siano soddisfatti i requisiti prescritti dalle vigenti direttive comunitarie e norme nazionali (comma 8). È richiamata, poi, la disciplina prevista, in deroga ai commi 2 e 8, per il caso in cui le concessioni di derivazione ricadano in un territorio montano per più della metà della sua superficie; in tal caso l’affidatario è una società mista pubblico-privata, partecipata dalla Provincia, purché il socio privato sia scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica (comma 9). La Regione, quindi, rilascia la concessione al soggetto affidatario selezionato mediante gara (comma 10). Pertanto non vi sarebbe un sistema di affidamento di impianti, come sostiene la Presidenza del Consiglio, ma un sistema di affidamento delle concessioni mediante gara, sicché la Regione attuerebbe il disposto del citato art. 12, riprendendo peraltro un modello già presente nell’ordinamento statale (art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 per la gestione dei servizi pubblici locali, che prevede o la gara o la società a partecipazione mista, con la selezione del socio secondo procedure competitive).

Tale modello sarebbe coerente con i principi fondamentali del detto ordinamento, il quale ben conoscerebbe sia la possibilità che beni pubblici siano intestati a società in mano pubblica, sia che esso scelga la possibilità di conservare la proprietà di tali beni attraverso il conferimento di essi in una società pubblica. Questo non sarebbe un caso di affidamento diretto senza gara, perché essa sarebbe nel frattempo espletata per la scelta del gestore dell’attività economica, il quale avrà, nell’ambito del rapporto concessorio, anche il diritto di utilizzare tali beni (è richiamato, in proposito, l’art. 113 del T. U. enti locali).

Infine, proprio lo Stato avrebbe dato alla previsione dell’art. 12 citato, una configurazione cedevole, confermando implicitamente che il legislatore regionale, fermi restando i principi della materia, può disciplinare la stessa secondo moduli propri e differenti. La scelta del legislatore regionale, a favore di una modalità che rispetta il principio dell’affidamento mediante gara, nonché il principio del coinvolgimento degli enti locali nella proprietà degli impianti di derivazione, sarebbe dunque corretta.

Pertanto, le censure mosse dalla difesa statale circa presunte violazioni dell’art. 117, comma terzo, Cost., non sarebbero fondate.

6.— Prive di fondamento sarebbero anche le censure mosse sotto altro profilo alle stesse disposizioni sopra citate (art. 14, commi 7, 8, 9, 10), in riferimento all’art. 117, commi primo, secondo lettere e) ed s), nonché all’art.3 Cost.

In primo luogo l’affermazione – secondo cui il d.lgs. n. 85 del 2010 non varrebbe a giustificare l’intervento regionale, in quanto gli impianti in esso richiamati non rientrerebbero nella disponibilità della Regione – sarebbe inconferente ed inesatta. Inconferente, essendo stato dimostrato che il disegno del legislatore regionale sarebbe imperniato sulla accelerazione e gestione dei procedimenti di gara diretti ad affidare le concessioni per un tempo determinato; inesatta, in quanto gli impianti in oggetto rientrerebbero, come detto, nel demanio idrico così come individuato nelle fonti e nel diritto vivente.

Piuttosto, andrebbe considerato che la norma regionale (comma 7), laddove richiama il decreto relativo al federalismo demaniale, andrebbe interpretato nel senso che gli effetti di questo potranno prodursi soltanto a seguito dell’emanazione dei decreti attuativi, sicché solo dopo tale emanazione sarà possibile il conferimento dei beni nelle società di scopo.

Quanto all’asserita violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non vi sarebbe nella normativa regionale alcun affidamento diretto, tale non essendo l’affidamento della concessione a società mista pubblico-privata, il cui socio è però scelto con procedimento di gara ad evidenza pubblica, con gara a doppio oggetto e con riserva al privato di una quota del capitale sociale che va dal 40 al 60 per cento (comma 9) e che, nella configurazione della società, riprende il comma 8 dell’art. 12 d.lgs. n. 79 del 1999.

Ad avviso della Regione, i principi posti a tutela della concorrenza sarebbero ugualmente rispettati nel caso di affidamento a società mista quando il socio privato sia selezionato con i detti criteri. Ciò sia per l’ordinamento comunitario (è richiamata la comunicazione della Commissione sul partenariato pubblico-privato 2008/C91/02), sia per l’ordinamento nazionale (è richiamato il citato art. 23-bis). In tali casi non si verificherebbe affatto un’esenzione dal principio dell’obbligatorietà della gara, ma soltanto un mutamento dell’oggetto di questa, la quale in ogni caso dovrebbe essere esperita, anche se non più per trovare il terzo concessionario e/o gestore del servizio, bensì il partner privato della società (è richiamata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, del 15 ottobre 2010, n. 7533).

Le impugnate disposizioni regionali, quindi, non sarebbero invasive della materia relativa alla tutela della concorrenza, appartenente alla competenza esclusiva dello Stato, ma anzi presupporrebbero altrettante norme (e scelte finalistiche) compiute dalle leggi statali, alle quali darebbero corretto e armonico svolgimento.

Da ultimo, la Regione respinge la censura sollevata dal ricorrente in riferimento all’asserita violazione dell’art. 117, comma secondo, lettera s), sollevata con riguardo al solo comma 7 dell’art. 14 citato, eccependone l’inammissibilità per difetto di motivazione e l’infondatezza.

7.— In prossimità dell’udienza di discussione entrambe le parti hanno depositato memorie, con le quali hanno ulteriormente illustrato gli argomenti addotti a sostegno delle rispettive tesi.



Considerato in diritto

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Lombardia 23 dicembre 2010, n. 19 (Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della legge regionale 31 marzo 1978, n. 34 – Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione – Collegato 2011).

In particolare, sono stati impugnati gli artt. 3, comma 2, e 14, commi 3, 7, 8, 9 e 10, della citata legge regionale.

2.— L’art. 3, comma 2, lettera a), nel sostituire l’art. 25, comma 6, della legge regionale 7 luglio 2008, n. 20 (Testo unico delle leggi regionali in materia di organizzazione e personale), così dispone: «L’organico complessivo della dirigenza della Giunta regionale, contenuto nel limite di 340 unità a partire dalla legislatura 2000-2005, progressivamente ridotto nel corso delle legislature successive, è contenuto, dal 1° gennaio 2011, nel limite di 240 unità. Per assicurare il rispetto del parametro qualitativo di virtuosità, determinato dal rapporto tra personale delle categorie e personale di qualifica dirigenziale, la Giunta regionale procede ad effettuare interventi di razionalizzazione organizzativa volti alla riduzione dell’organico della dirigenza. Le economie risultanti dalla riduzione dell’organico complessivo della dirigenza possono essere destinate alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate ai sensi dell’articolo 31 del CCNL del personale del comparto Regioni-Autonomie locali del 22 gennaio 2004. La Giunta regionale provvede a quantificare i risparmi e a determinare i criteri e le modalità di utilizzo».

Come emerge dal ricorso, la norma è censurata dal ricorrente limitatamente al terzo periodo ed in quest’ambito deve ritenersi circoscritta l’impugnazione (art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87), in quanto le restanti disposizioni non si pongono in rapporto consequenziale con quella impugnata.

Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, tale disposizione concerne materia riservata alla contrattazione collettiva, sicché la disposizione stessa contrasta con le norme contenute nel Titolo terzo (dall’art. 40 all’art. 50) del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni), che indicano le procedure da seguire in sede di contrattazione collettiva, nonché l’obbligo del rispetto della normativa contrattuale.

Così disponendo, dunque, il legislatore regionale avrebbe superato la propria competenza, invadendo la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, affermata dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

2.1.— La difesa della Regione ha eccepito l’inammissibilità della censura, «in quanto si limita ad indicare la norma oggetto di contestazione ed il parametro costituzionale violato», non argomentando in nessun modo la censura stessa, facendo un generico rinvio al Titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001, che «poco o niente prevede in merito ai meccanismi di premialità e valorizzazione del personale che negli ultimi anni hanno trovato una fervida legislazione e che, ormai, informa tutta la riforma della Pubblica Amministrazione».

L’eccezione non è fondata.

La Presidenza del Consiglio dei ministri, sia pure in forma sintetica, ha indicato le ragioni per le quali la disposizione impugnata viola il parametro costituzionale evocato. Essa, infatti, ha chiarito che la norma regionale in esame, intervenendo in materia riservata alla contrattazione collettiva, si è posta in contrasto con le norme contenute nel Titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001 e, precisamente, con gli articoli da 40 a 50 che disciplinano appunto la contrattazione collettiva e la rappresentatività sindacale, così invadendo la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

In tal guisa le ragioni della censura sono state sufficientemente individuate, il che esclude la dedotta inammissibilità.

2.2.— Nel merito la questione è fondata.

La norma impugnata così dispone nel terzo periodo: «Le economie risultanti dalla riduzione dell’organico complessivo della dirigenza possono essere destinate alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate ai sensi dell’articolo 31 del CCNL del personale del comparto Regioni-Autonomie locali del 22 gennaio 2004». Essa, dunque, disciplina un aspetto del trattamento economico dei dipendenti della Regione, il cui rapporto d’impiego è stato privatizzato (ex plurimis: sentenza n. 77 del 2011, punto 3 del Considerato in diritto), sicché rientra nella materia dell’ordinamento civile, come si desume, del resto, dall’art. 45, comma 1, del citato d.lgs. n. 165 del 2001, con conseguente violazione dell’art. 117, comma secondo, lettera l), Cost.

Il richiamo della difesa regionale all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo ora menzionato, secondo cui «eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge», non è pertinente. Infatti, tale disposizione, prevedendo che eventuali norme speciali per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o per categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi, ribadisce il primato di tale fonte appartenente a pieno titolo all’ordinamento civile, come alla stessa materia riconduce proprio il disposto del citato art. 2, comma 2, prima parte, del detto decreto legislativo, alla stregua del quale «I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa».

Né può condividersi l’argomento secondo cui la norma impugnata rientrerebbe nell’organizzazione del personale regionale, in parte demandato alla potestà residuale della Regione, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., ed in parte all’adeguamento degli ordinamenti regionali al d.lgs. n. 165 del 2001. Si deve replicare che, come il testuale tenore della disposizione censurata rivela, essa attiene proprio al trattamento economico dei dipendenti della Regione, prevedendo in sostanza l’erogazione di incentivi, e dunque riguarda un profilo rientrante comunque nella materia dell’ordinamento civile.

Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, terzo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, che ha sostituito l’art. 25, comma 6, della legge della Regione Lombardia n. 20 del 2008, nella parte in cui così dispone: «Le economie risultanti dalla riduzione dell’organico complessivo della dirigenza possono essere destinate alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate ai sensi dell’articolo 31 del CCNL del personale del comparto Regioni-Autonomie locali del 22 gennaio 2004».

3.— Il ricorrente censura poi l’art. 14, comma 3, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

La norma, recante la rubrica «Modifica alla legge regionale n. 26/2003, concernente disposizioni in materia di grandi derivazioni ad uso idroelettrico», provvede appunto a modificare detta legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche).

In particolare, dopo l’art. 53, inserisce l’articolo 53-bis, il cui comma 3 (trascritto in ricorso) è del seguente tenore: «La Regione, in assenza e nelle more dell’individuazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi e dei parametri di aumento dell’energia prodotta e della potenza installata concernenti le procedure di gara, di cui all’art. 12, comma 2, del D.lgs. 79/1999, provvede a determinare i suddetti requisiti e parametri entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore del presente articolo».

Ad avviso della difesa dello Stato, il legislatore regionale, così disponendo, avrebbe superato i limiti della propria competenza, invadendo quella esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Infatti, la previsione regionale avrebbe ad oggetto le procedure di gara e non la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia. Essa detterebbe soltanto misure incidenti sulle procedure di scelta del concessionario (è diffusamente richiamata la sentenza n. 1 del 2008 di questa Corte). La difesa statale, poi, ricorda che, proprio sulla base delle indicazioni della citata sentenza, il legislatore statale ha modificato l’art. 12, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), sul quale si tornerà di qui a poco.

3.1.— La difesa della Regione Lombardia ha eccepito l’erronea identificazione della norma impugnata e il carattere generico delle censure mosse dal ricorrente, che ne determinerebbero l’inammissibilità, anche con riferimento alle altre disposizioni che saranno in prosieguo esaminate. Tali eccezioni, però, non sono fondate.

Quanto alla prima di esse, è vero che l’art. 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010 modifica la legge regionale n. 26 del 2003, introducendo, dopo l’art. 53, l’art. 53-bis, nel cui testo è inserito il comma 3, riportato nel punto 3 che precede e censurato dalla difesa erariale. Tuttavia, a parte il rilievo che la nuova disposizione è stata comunque introdotta dal citato art. 14, sicché il riferimento ad esso non può definirsi erroneo, è decisivo il rilievo che la norma impugnata è stata trascritta nel ricorso introduttivo, sicché nessun dubbio può nutrirsi sulla sua identificazione.

Quanto alla seconda eccezione, le doglianze del ricorrente non sono affatto generiche, perché individuano ed illustrano, con richiami anche alla giurisprudenza di questa Corte, le ragioni delle censure (violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) e la normativa statale ritenuta rilevante.

3.2.— Nel merito, la questione è fondata.

Si deve premettere che, come questa Corte ha già affermato, l’intera disciplina delle procedure ad evidenza pubblica è riconducibile alla tutela della concorrenza, con la conseguente titolarità della potestà legislativa, in via esclusiva, allo Stato (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.). In particolare, la disciplina delle procedure di gara, la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione mirano a garantire che le medesime si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei principi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento. La gara pubblica, dunque, costituisce uno strumento indispensabile per tutelare e promuovere la concorrenza (sentenze n. 401 del 2007 e n. 1 del 2008).

Tuttavia, con quest’ultima pronunzia la Corte rilevò che il decreto con il quale il Ministero delle attività produttive, di concerto con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, sentito il gestore della rete di trasmissione nazionale, determinava con proprio provvedimento i requisiti organizzativi e finanziari minimi, i parametri di aumento dell’energia prodotta e della potenza installata concernenti la procedura di gara, era un atto che, da un lato, era riconducibile alla indicata competenza statale in materia di tutela della concorrenza, dall’altro interferiva su aspetti organizzativi, programmatori e gestori della materia, di competenza concorrente, relativa alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia (art. 117, terzo comma, Cost.). In ordine a tale potere, idoneo a coinvolgere anche aspetti di gestione del territorio, andava riconosciuta la necessità di assicurare un potere specifico degli organi dello Stato, chiamati ad assicurare la concorrenza nel settore economico di riferimento, nonché interessi unitari alla produzione e gestione di una risorsa strategica come l’energia idroelettrica, ma, al contempo, anche la necessità di un coinvolgimento, sul piano amministrativo, delle Regioni (sentenza n. 383 del 2005). Ne seguì la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), nella parte in cui non prevedeva un coinvolgimento delle Regioni nel procedimento finalizzato all’adozione del decreto ministeriale ivi previsto.

Il legislatore statale intervenne, quindi, con l’art. 15, comma 6-ter, lettera c), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 122 del 2010, che, nel sostituire il comma 2 dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999, così dispose: «Il Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, determina, con proprio provvedimento ed entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, i requisiti organizzativi e finanziari minimi, i parametri e i termini concernenti la procedura di gara in conformità a quanto previsto al comma 1, tenendo conto dell’interesse strategico degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e del contributo degli impianti idroelettrici alla copertura della domanda e dei picchi di consumo».

Orbene, come emerge dalla lettura coordinata della disposizione ora trascritta e della norma regionale censurata, è agevole constatare che quest’ultima demanda alla Regione Lombardia l’individuazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi e dei parametri di aumento dell’energia prodotta, concernenti le procedure di gara, individuazione che invece la citata norma statale (intervenuta, peraltro, prima di quella regionale) affida per l’appunto allo Stato. Ne deriva che la disposizione regionale incide direttamente sulla disciplina delle procedure ad evidenza pubblica che, come sopra si è detto, spetta nella sua interezza alla competenza esclusiva dello Stato medesimo, onde la denunziata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. sussiste.

Non giova addurre che la tutela della concorrenza è materia trasversale che, come tale, non può azzerare ogni concorrente competenza legislativa regionale. Questa Corte ha chiarito, proprio con la sentenza n. 1 del 2008 (punto 7.3 del Considerato in diritto), che il provvedimento previsto dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79, interferisce «su aspetti organizzativi, programmatori e gestori della materia, di competenza concorrente, della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia (art. 117, terzo comma, della Costituzione»), affermando anche la necessità di un coinvolgimento – sul piano amministrativo – delle Regioni. Però ha anche aggiunto che «va rimessa alla discrezionalità del legislatore la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento regionale nell’adozione del decreto in questione». Il che, come si è detto, è avvenuto con la previsione dell’intesa in sede di Conferenza unificata, in base al dettato attuale dell’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 79 del 1999.

Non è esatto che «nel nostro caso la normativa regionale viene perfettamente ad incastonarsi con quella statale, la quale ultima mantiene la sua forza per quanto attiene a tutti gli indirizzi di fondo pro-concorrenziali». In realtà, lungi dallo “incastonarsi”, la norma censurata attribuisce alla Regione una potestà legislativa che non le compete, postulando una sorta di potere sostitutivo della Regione stessa allo Stato («in assenza e nelle more» dell’intervento di questo), che non trova alcun ancoraggio nel dettato costituzionale.

Neppure la tesi secondo cui sarebbe stato proprio il legislatore statale, «con apposita clausola di cedevolezza», a riconoscere la competenza legislativa regionale può essere condivisa.

Invero, l’art. 15, comma 6-quater, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, nella parte rimasta dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale adottata con sentenza n. 205 del 2011, nello stabilire che le disposizioni dei commi 6, 6-bis e 6-ter del medesimo art. 15 si applicano fino all’adozione di diverse disposizioni legislative da parte delle Regioni, aggiunge che ciò può avvenire «per quanto di loro competenza». La norma, dunque, stabilisce, o meglio ribadisce, che l’esercizio della detta potestà legislativa da parte delle Regioni deve rimanere nell’ambito della competenza loro propria, onde resta esclusa ogni intrusione nella competenza esclusiva dello Stato.

È esatto, poi, che la giurisprudenza di questa Corte ha ammesso la possibilità di un intervento pro-concorrenziale della legislazione regionale (ex plurimis: sentenze n. 150 del 2011 e n. 307 del 2009). Ma, nel caso di specie, manca ogni dato per qualificare tale intervento pro-concorrenziale, perché la Regione si attribuisce la potestà di individuare i requisiti e i parametri di cui alla norma censurata (già demandati dalla norma statale al Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, previa intesa con la Conferenza unificata), ma nulla dice in ordine al loro contenuto. Né la qualificazione suddetta può essere riconosciuta per il solo fatto che la Regione sarebbe intervenuta in favore della concorrenza, ponendo rimedio all’inerzia dello Stato, perché comunque una situazione di fatto non potrebbe giustificare una alterazione del riparto delle competenze legislative sancito dall’art. 117 Cost.

Sulla base delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, nella parte in cui, modificando la legge della stessa Regione Lombardia 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), dopo l’art. 53 di essa ha introdotto l’art. 53-bis, recante disposizioni in materia di grandi derivazioni ad uso idroelettrico, il cui comma 3 così dispone: «La Regione, in assenza e nelle more dell’individuazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi e dei parametri di aumento dell’energia prodotta e della potenza installata, concernenti le procedure di gara, di cui all’articolo 12, comma 2, del D.lgs. 79/1999, provvede a determinare i suddetti requisiti e parametri entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore del presente articolo».

4.— La Presidenza del Consiglio dei ministri censura l’art. 14, commi 7, 8, 9 e 10, della legge regionale lombarda n. 19 del 2010, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nonché ancora per violazione dell’art. 117, commi primo, secondo, lettera e), e terzo Cost.; infine, ritiene che l’art. 14, comma 7, della detta legge regionale si ponga in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Ad avviso della difesa statale, la normativa impugnata configurerebbe «un sistema di impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche e non, invece, un sistema di affidamento, tramite gara, delle concessioni idroelettriche».

Ciò si porrebbe in aperto contrasto con il regime di dette concessioni e degli impianti ad esse inerenti, come prefigurato dall’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999, nonché dall’art. 25 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), norme statali costituenti principi fondamentali nella materia di legislazione concorrente relativa alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la cui violazione contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost. Il richiamo, effettuato dall’art. 14, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010 al decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42) non varrebbe a giustificare l’intervento regionale sugli impianti di cui sopra, poiché questi non rientrerebbero nella disponibilità della Regione, non essendo ricompresi nel novero dei beni pubblici della Regione medesima indicati nel citato decreto legislativo. In ogni caso – prosegue la difesa statale – la normativa censurata, nella parte in cui prevede affidamenti diretti (ovvero senza gara), si porrebbe in contrasto con i principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario in tema di concorrenza e, quindi, costituirebbe violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Infine, andrebbe osservato che la disciplina delle procedure di affidamento di beni e servizi rientrerebbe nella competenza esclusiva del legislatore statale in materia di concorrenza (è ancora richiamata la sentenza n. 401 del 2007). Con la normativa censurata il legislatore statale avrebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., per i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in materia di tutela della concorrenza, nonché l’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.

4. 1.— Le questioni sono fondate.

Le disposizioni censurate (art. 14, commi 7, 8, 9, 10, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010), introdotte con l’art. 53-bis della legge regionale n. 26 del 2003, sono del seguente tenore:

«7. La Regione, ai sensi del D. Lgs. 85/2010, allo scadere delle concessioni acquisisce le opere e gli impianti di cui all’articolo 25 del R.D. 1775/1933 afferenti l’utilizzazione delle acque pubbliche demaniali delle grandi derivazioni idroelettriche e li conferisce, entro sei mesi dall’acquisizione, in proprietà a società patrimoniali di scopo, con partecipazione totalitaria di capitale pubblico incedibile, cui partecipano senza oneri gli enti locali o anche loro forme di aggregazione sovra comunale interessati per territorio. La misura della partecipazione degli enti locali interessati sarà determinata previa intesa tra gli stessi e la Regione e comunque non dovrà essere inferiore al 30 per cento; la restante quota di partecipazione è detenuta dalla Regione. Le società patrimoniali metteranno a disposizione del soggetto affidatario, individuato sia con la procedura di cui ai commi 2 e 8 sia con quella di cui al comma 9, le infrastrutture e gli impianti afferenti alla derivazione. Il soggetto affidatario esercirà le infrastrutture e gli impianti afferenti alla derivazione nel rispetto di condizioni e a fronte di un corrispettivo, da versarsi alle società patrimoniali, stabiliti dalla Giunta regionale. Il corrispettivo sarà in parte fisso e determinato sulla base della potenza nominale media annua e soggetto all’adeguamento legato al tasso annuo d’inflazione programmato, e in parte variabile e commisurato all’effettiva produzione realizzata e valorizzata in base alla collocazione dell’energia sul mercato elettrico e nel rispetto del normale rendimento di mercato dei cespiti affidati; il corrispettivo dovrà essere in parte destinato ad interventi di tutela ambientale nei territori interessati. Su richiesta delle province interessate dovrà essere costituita una società patrimoniale di scopo per ciascuna provincia, a condizione che sul territorio della stessa, a far data dall’entrata in vigore della presente norma, siano ricompresi impianti di grande derivazione idroelettrica che complessivamente raggiungano almeno 100 MW di potenza attiva nominale installata.

8. La Regione, allo scadere delle concessioni in essere, garantendo la neutralità rispetto al mercato, affida, anche per il tramite delle società di cui al comma 7, l’esercizio industriale delle infrastrutture e degli impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, ovvero direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizioni che siano soddisfatti i requisiti prescritti dalle vigenti direttive comunitarie e norme nazionali.

9. In deroga a quanto disposto dai commi 2 e 8, in attuazione dell’articolo 44, comma secondo, della Costituzione, al fine di garantire misure di compensazione territoriale, le concessioni di grande derivazione d’acqua, per uso idroelettrico, ricadenti in tutto o in parte nei territori delle province montane individuate mediante i criteri di cui all’articolo 1, comma 153, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2007), o delle province che indipendentemente dal possesso dei criteri previsti dalla stessa legge, abbiano il 50 per cento del territorio ad una quota superiore a 500 metri sul livello del mare sono affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata partecipate dalla provincia interessata, a condizione che: a) la selezione del socio privato venga effettuata mediante procedure competitive ad evidenza pubblica; b) la gara per la selezione del socio privato, svolta dalla provincia competente, abbia per oggetto la qualità del socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione industriale; c) la partecipazione del socio privato alla società mista sia compresa tra il 40 per cento e il 60 per cento del capitale sociale.

Il ricorso all’affidamento di cui al presente comma avviene su richiesta della Provincia competente che deve pervenire alla Regione entro centottanta giorni dall’adozione della deliberazione di Giunta regionale di avvio delle procedure di affidamento di cui ai commi 2 e 8.

10. La Regione provvede al rilascio della concessione per l’uso delle acque pubbliche in favore dei soggetti affidatari come individuati con le procedure di cui al presente articolo».

Ciò posto, prima di procedere allo scrutinio della normativa ora trascritta, si deve osservare che il d.lgs. n. 79 del 1999, all’art. 12, comma 2, nel testo attuale sopra riportato (punto 3.2 del Considerato in diritto), affida ad organi statali, previa intesa con la Conferenza unificata, la determinazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi, i parametri e i termini concernenti la procedura di gara, «in conformità a quanto previsto al comma 1»; e detta norma, come modificata dalla lettera a), comma 6, dell’art. 15 del d.l. n. 78 del 2010, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, dispone che l’amministrazione competente, cinque anni prima dello scadere di una concessione di grande derivazione d’acqua per uso idroelettrico e nei termini e nelle circostanze dalla norma medesima stabiliti, «indice una gara ad evidenza pubblica, nel rispetto della normativa vigente e dei principi fondamentali di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, trasparenza e non discriminazione, per l’attribuzione a titolo oneroso della concessione per un periodo di durata trentennale, avendo particolare riguardo ad un’offerta di miglioramento e risanamento ambientale del bacino idrografico di pertinenza e dell’energia prodotta o della potenza installata nonché di idonee misure di compensazione territoriale».

La legislazione statale, dunque, è chiara nel richiedere le procedure di gara ad evidenza pubblica, la cui disciplina, come già si è notato, è riconducibile per intero alla tutela della concorrenza, con conseguente titolarità della potestà legislativa, in via esclusiva, allo Stato (ex multis: sentenza n. 401 del 2007, già citata). La normativa regionale censurata viola, nel suo complesso, la detta competenza legislativa esclusiva.

Come risulta dal dettato del comma 7, la Regione Lombardia, allo scadere delle concessioni, acquisisce le opere e gli impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche e li conferisce a società patrimoniali di scopo, con partecipazione totalitaria di capitale pubblico incedibile. Tali società patrimoniali metteranno a disposizione del soggetto affidatario, individuato sia con la procedura di cui ai commi 2 e 8 sia con quelle di cui al comma 9, le infrastrutture e gli impianti afferenti alla derivazione.

Orbene, già l’incipit del comma 7 diverge dall’art. 12, comma 1 (testo vigente), del d.lgs. n. 79 del 1999, perché mentre quest’ultimo affida alla «amministrazione competente» l’indizione delle gare ad evidenza pubblica, la norma regionale demanda a società patrimoniali di scopo, all’uopo costituite (il cui ruolo non è ben precisato) la «messa a disposizione» del «soggetto affidatario», «individuato sia con la procedura di cui ai commi 2 e 8, sia con quella di cui al comma 9» delle infrastrutture e degli impianti relativi alla derivazione.

Tuttavia, a parte questo pur rilevante profilo, è l’individuazione del soggetto affidatario che si pone in palese contrasto con la normativa statale. Infatti, il comma 7 stabilisce che a tale individuazione si farà luogo sia con le procedure di cui ai commi 2 e 8, sia con quella di cui al comma 9. Però, mentre in effetti il comma 2 prevede l’indizione di gare ad evidenza pubblica, con esplicito rinvio all’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 79 del 1999, il comma 8 dispone che l’esercizio industriale delle infrastrutture e degli impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche sia affidato «mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, ovvero direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che siano soddisfatti i requisiti prescritti dalle vigenti direttive comunitarie e norme nazionali». Il comma 9, poi, dispone che, in deroga a quanto previsto nei commi 2 e 8, le concessioni di grande derivazione d’acqua per uso idroelettrico ricadenti in tutto o in parte nelle province montane individuate dal comma stesso, sono affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata partecipate dalle Province interessate, a condizione che siano soddisfatti i requisiti dalla norma medesima previsti per la selezione del socio privato (da effettuare mediante procedure competitive ad evidenza pubblica), per le modalità della relativa gara e per la misura della partecipazione del socio privato.

In questo quadro, risulta evidente che l’affidamento mediante gare ad evidenza pubblica è rimesso alla mera discrezionalità del soggetto affidante, cui è demandata la scelta tra le dette procedure di gara (comma 2) e l’affidamento diretto, di cui al comma 7, che richiama anche i commi 8 e 9, e, per l’appunto, al comma 8, sia pure a condizione che siano soddisfatti i requisiti prescritti dalle vigenti direttive comunitarie e norme nazionali; queste ultime, tuttavia, come si è visto, nel settore de quo prescrivono l’indizione di gare ad evidenza pubblica, senza alternative, e, come questa Corte ha già chiarito, al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – quali sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario: sentenza n. 325 del 2010, punto 6.1 del Considerato in diritto. Il comma 9, infine, stabilisce che l’affidamento diretto sia addirittura l’unica forma, con i requisiti sopra indicati.

L’assenza di criteri di scelta tra l’una o l’altra modalità di affidamento ne conferma il carattere meramente discrezionale. Ma si tratta, per l’appunto, di una conferma, perché per il resto la violazione della normativa statale, e della competenza legislativa esclusiva dello Stato nel contesto della quale la detta normativa va inquadrata ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., è palese.

4.2.— Alla luce dei dati ora richiamati, desunti dal testuale tenore della normativa censurata, la tesi della difesa della Regione, secondo cui sarebbe previsto un sistema di affidamento delle concessioni mediante gara, non è esatta. Questo sistema risulta essere una semplice opzione del soggetto affidante, il quale però può decidere anche per l’affidamento diretto a società a partecipazione mista pubblica e privata (comma 8 e, per il rinvio al medesimo operato, anche il comma 7), mentre in forza del comma 9 tale modalità è disciplinata come esclusiva, onde è evidente che il disposto dell’art. 12, commi 1 e 2, della legge n. 79 del 1999, e successive modificazioni, non è attuato.

Né giova il richiamo della difesa regionale all’art. 23-bis del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, perché detta norma, a parte l’abrogazione referendaria subita, riguarda il settore dei servizi pubblici locali e non il mercato interno dell’energia elettrica. E per la stessa ragione non è pertinente il richiamo alle normative introdotte in altri e diversi settori dell’ordinamento.

Quanto al decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, in attuazione dell’articolo 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42), si deve osservare che l’art. 5 di esso esclude dal trasferimento agli enti territoriali una nutrita serie di beni e di infrastrutture, tra cui «le reti di interesse statale, ivi comprese quelle stradali ed energetiche». Si tratta di una formula abbastanza elastica, sicché è necessario attendere i decreti attuativi per una più precisa identificazione dei beni e delle infrastrutture oggetto di trasferimento. A parte ciò, la citata normativa non appare rilevante in questa sede, nella quale non si discute della proprietà dei beni e degli impianti, bensì della disciplina delle procedure di affidamento delle concessioni.

Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, nella parte in cui, modificando la legge della stessa Regione Lombardia n. 26 del 2003, dopo l’art. 53 di essa ha inserito l’art. 53-bis, e in questo i censurati commi 7, 8, 9, 10 (norma, questa, di esecuzione dei commi precedenti). Lo stretto intreccio esistente tra le dette disposizioni ne impone la totale caducazione.

Ogni altro profilo resta assorbito.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 2, terzo periodo, della legge della Regione Lombardia 23 dicembre 2010, n. 19 (Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’art. 9-ter della legge regionale 31 marzo 1978, n. 34 – Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione – Collegato 2011), che ha sostituito l’articolo 25, comma 6, della legge regionale 7 luglio 2008, n. 20 (Testo unico delle leggi regionali in materia di organizzazione e personale), nella parte in cui così dispone: «Le economie risultanti dalla riduzione dell’organico complessivo della dirigenza possono essere destinate alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta alle risorse annualmente stanziate ai sensi dell’articolo 31 del CCNL del personale del comparto Regioni-Autonomie locali del 22 gennaio 2004»;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, nella parte in cui, modificando la legge della stessa Regione Lombardia 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), dopo l’articolo 53 di essa ha introdotto l’articolo 53-bis, recante disposizioni in materia di grandi derivazioni ad uso idroelettrico, il cui comma 3 così dispone: «La Regione, in assenza e nelle more dell’individuazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi e dei parametri di aumento dell’energia prodotta e della potenza installata concernenti le procedure di gara, di cui all’art. 12, comma 2, del d.lgs. 79/1999, provvede a determinare i suddetti requisiti e parametri entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore del presente articolo»;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, nella parte in cui, modificando la legge della stessa Regione Lombardia n. 26 del 2003, dopo l’articolo 53 di essa, ha introdotto l’articolo 53-bis e in questo i censurati commi 7, 8, 9 e 10, trascritti in motivazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 dicembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Sentenza 2/2012

Sentenza 2/2012
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore GALLO

Udienza Pubblica del 13/12/2011 Decisione del 09/01/2012
Deposito del 12/01/2012 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 1, c. 1° e 2°, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23/12/2010, n. 15.
Massime:
Atti decisi: ric. 21/2011


SENTENZA N. 2

ANNO 2012



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23 dicembre 2010, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2011 e per il triennio 2011-2013 – legge finanziaria 2011), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 4-9 marzo 2011, depositato in cancelleria il 14 marzo 2011 ed iscritto al n. 21 del registro ricorsi 2011.

Visto l’atto di costituzione della Provincia autonoma di Bolzano;

udito nell’udienza pubblica del 13 dicembre 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’avvocato dello stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano.



Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso spedito il 4 marzo 2011, ricevuto dalla destinataria Provincia autonoma di Bolzano il 9 marzo successivo e depositato il 14 marzo 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni principali di legittimità costituzionale, oltre che di altre disposizioni della stessa legge provinciale, dell’art. 1, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23 dicembre 2010, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2011 e per il triennio 2011-2013 − legge finanziaria 2011), per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119 della Costituzione e degli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).

1.1.− I commi censurati dell’art. 1 della citata legge provinciale n. 15 del 2010 stabiliscono che: a) «A decorrere dal periodo d’imposta 2010, i soggetti aventi un reddito imponibile ai fini dell’addizionale regionale IRPEF non superiore a 12.500,00 euro sono esentati dal pagamento dell’addizionale regionale IRPEF di cui all’articolo 50 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modifiche» (comma 1); b) «A decorrere dal periodo d’imposta 2010, i soggetti con figli a carico aventi un reddito imponibile ai fini dell’addizionale regionale IRPEF non superiore a 25.000,00 euro sono esentati dal pagamento dell’addizionale regionale IRPEF di cui all’articolo 50 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modifiche» (comma 2).

Il ricorrente afferma anzitutto che le disposizioni censurate eccedono le competenze legislative provinciali definite dagli evocati parametri statutari e richiama, al riguardo, il comma 1-bis dell’art. 73 del d.P.R. n. 670 del 1972, secondo il quale: «Le province, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, possono in ogni caso modificare aliquote e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale». Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, detta disposizione statutaria permetterebbe alle Province autonome del Trentino-Alto Adige di modificare la disciplina dei tributi erariali solo nei limiti in cui ciò è consentito dalla legislazione dello Stato concernente ciascuno specifico tributo («relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità»); interpretazione che sarebbe stata fatta propria anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 357 del 2010.

Nel caso di specie, relativo all’addizionale regionale all’IRPEF, la legislazione statale di riferimento è costituita dall’art. 50, comma 3, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), secondo cui: «L’aliquota di compartecipazione dell’addizionale regionale di cui al comma 1 è fissata allo 0,50 per cento. Ciascuna regione, con proprio provvedimento, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 31 dicembre dell’anno precedente a quello in cui l’addizionale si riferisce, può maggiorare l’aliquota suddetta fino all’1 per cento. Le regioni possono deliberare che la maggiorazione, se più favorevole per il contribuente rispetto a quella vigente, si applichi anche al periodo di imposta al quale si riferisce l’addizionale». Il ricorrente sottolinea che, in base al citato art. 50 del d.lgs. n. 446 del 1997, alle Regioni è attribuita la facoltà di maggiorare l’aliquota fissata dalla legge statale, ma non anche di introdurre esenzioni dell’imposta, quali quelle previste dai due commi impugnati. Ne consegue che questi ultimi, «eccedendo le possibilità disposte dalla legge statale di riferimento», si pongono in contrasto con il comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto di autonomia.

Alla stregua di tali argomentazioni risulterebbero «contestualmente violati» anche gli evocati parametri della Costituzione, «che riservano allo Stato la competenza a disciplinare i propri tributi ed impongono alle Regioni e alle Province autonome di emanare norme tributarie nel rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema fiscale».

2. – Si è costituita in giudizio la Provincia autonoma di Bolzano, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile, «oltre che, in ogni caso», manifestamente infondata.

La resistente Provincia autonoma eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità della questione promossa in riferimento agli artt. 8 e 9 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige per la sua «genericità e indeterminatezza», in quanto il ricorrente si è limitato ad affermare la violazione di tali parametri statutari, senza specificare né quale delle materie in essi menzionate venga, nella specie, in rilievo né quale dei limiti alla potestà legislativa provinciale in essi indicati sia stato violato, rendendo così impossibile l’esercizio del diritto di difesa della Provincia.

Nel merito, la Provincia autonoma deduce che le esenzioni dell’addizionale regionale all’IRPEF previste dai censurati commi 1 e 2 dell’art. 1 della legge prov. Bolzano n. 15 del 2010, lungi dal contrastare con il comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto speciale, ne costituiscono, al contrario, attuazione.

A proposito di quest’ultima disposizione statutaria, la parte resistente premette che essa è stata aggiunta al Titolo VI dello statuto di autonomia dall’art. 2, comma 107, lettera c), numero 2), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2010) e che tale comma 107 è stato, a sua volta, adottato, «ai sensi e per gli effetti» dell’art. 104, primo comma, dello statuto (art. 2, comma 106, della legge n. 191 del 2009), in séguito all’accordo preventivo intervenuto tra lo Stato e le Province autonome del Trentino-Alto Adige, noto come “Accordo di Milano”.

Secondo la difesa provinciale, il comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto attribuisce alle Province autonome la facoltà «in ogni caso», per i tributi erariali per i quali lo Stato prevede una possibilità di intervento delle Regioni e delle Province autonome («relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità») –attualmente, l’addizionale regionale all’IRPEF e l’IRAP – di modificare aliquote e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni, con il solo limite costituito dal rispetto delle «aliquote superiori» fissate dalla legge statale. Nella specie – sempre ad avviso della difesa della Provincia autonoma di Bolzano − la previsione, ad opera delle disposizioni denunciate, di esenzioni dell’addizionale regionale all’IRPEF è consentita dal comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto perché: a) riguarda un tributo erariale (l’addizionale regionale all’IRPEF) il cui gettito è interamente devoluto alle Province autonome (alle quali deve, quindi, essere lasciata la responsabilità della scelta di una minore entrata tributaria per effetto delle esenzioni medesime); b) trova fondamento nel riconoscimento, da parte dello Stato, di una possibilità di intervento delle Regioni e delle Province autonome in ordine a detto tributo; c) rispetta il limite delle «aliquote superiori» stabilite dalla legge statale in quanto comporta una riduzione del gettito; d) è riferita agli anni di imposta decorrenti dal 2010.

La negazione della potestà legislativa provinciale comporterebbe, d’altro canto, ad avviso della Provincia, sia l’«elusione» di uno dei punti dell’accordo concluso tra lo Stato e le Province autonome del Trentino-Alto Adige preliminarmente alle modifiche dello statuto speciale introdotte dalla legge n. 191 del 2009, sia il disconoscimento delle esigenze di sostegno dei meno abbienti che costituiscono il fondamento dell’intervento legislativo provinciale.

3. – In prossimità della pubblica udienza, la Provincia autonoma di Bolzano ed il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato memorie illustrative.

3.1.– La resistente Provincia autonoma ribadisce le argomentazioni esposte nel proprio atto di costituzione in giudizio e rinnova le conclusioni in esso rassegnate.

In particolare, dopo avere rinnovato la richiesta di dichiarare inammissibile la questione proposta in riferimento agli artt. 8 e 9 del d.P.R. n. 670 del 1972, ribadisce che le disposizioni impugnate trovano fondamento nell’art. 73, comma 1-bis, dello statuto speciale che − come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 357 del 2010 − ha ampliato la potestà legislativa provinciale di intervento sui tributi erariali, consentendo alla Provincia di modificare aliquote e prevedere esenzioni «ogniqualvolta la legge statale ammetta la possibilità di un intervento emendativo sulla disciplina del tributo».

3.2.– La difesa dello Stato deduce che l’art. 73, comma 1-bis, dello statuto di autonomia non è invocabile nella specie perché la normativa statale in materia di addizionale regionale all’IRPEF (art. 50, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997), alla quale rinvia la disposizione statutaria («ove la legge statale consenta loro una qualche manovra sulle aliquote, sulle agevolazioni o sulle esenzioni»), non prevede la possibilità per le Regioni di introdurre esenzioni.



Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119 della Costituzione ed agli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23 dicembre 2010, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2011 e per il triennio 2011-2013 − legge finanziaria 2011).

La trattazione delle questioni relative a tali commi è stata separata da quella delle altre questioni promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il medesimo ricorso, per le quali questa Corte ha ritenuto opportuno procedere ad un esame distinto.

2.– I commi impugnati stabiliscono, rispettivamente, che: a) «A decorrere dal periodo d’imposta 2010, i soggetti aventi un reddito imponibile ai fini dell’addizionale regionale IRPEF non superiore a 12.500,00 euro sono esentati dal pagamento dell’addizionale regionale IRPEF di cui all’articolo 50 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modifiche» (comma 1); b) «A decorrere dal periodo d’imposta 2010, i soggetti con figli a carico aventi un reddito imponibile ai fini dell’addizionale regionale IRPEF non superiore a 25.000,00 euro sono esentati dal pagamento dell’addizionale regionale IRPEF di cui all’articolo 50 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modifiche» (comma 2).

Il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che tali disposizioni si pongono in contrasto con l’art. 50, comma 3, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), il quale attribuisce alle Regioni la facoltà solo di maggiorare l’aliquota dell’addizionale regionale all’IRPEF e non quella di introdurre le esenzioni di tale imposta previste dalle disposizioni impugnate. Infatti, il citato art. 50, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997, dopo aver fissato l’aliquota di compartecipazione dell’addizionale regionale nello 0,50 per cento, si limita a stabilire che «Ciascuna regione, con proprio provvedimento, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 31 dicembre dell’anno precedente a quello in cui l’addizionale si riferisce, può maggiorare l’aliquota suddetta fino all’1 per cento. Le regioni possono deliberare che la maggiorazione, se più favorevole per il contribuente rispetto a quella vigente, si applichi anche al periodo di imposta al quale si riferisce l’addizionale». Le suddette aliquote dello 0,50 per cento e dell’1 per cento sono state successivamente elevate, rispettivamente, allo 0,9 per cento e all’1,4 per cento dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 56 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale, a norma dell’art. 10 della legge 13 maggio 1999, n. 133).

Poste tali premesse, il ricorrente deduce che il denunciato contrasto della normativa provinciale con quella statale comporta che le impugnate disposizioni: a) eccedono le competenze legislative della Provincia stabilite dagli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; b) violano gli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119 Cost., i quali riservano allo Stato la disciplina dei tributi erariali, salvi, appunto, gli interventi consentiti alla Provincia dallo stesso comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto.

3.– La difesa della Provincia autonoma ha eccepito l’inammissibilità della questione promossa in riferimento agli artt. 8 e 9 del d.P.R. n. 670 del 1972 per «genericità e indeterminatezza», perché il ricorrente si è limitato ad affermare la violazione di tali parametri statutari, senza specificare né quale delle materie in essi menzionate venga, nella specie, in rilievo né quale dei vincoli alla potestà legislativa provinciale sia stato violato.

L’eccezione non è fondata.

Affermando che le norme censurate eccedono «i limiti della competenza statutaria della Provincia, come definiti dagli artt. 8, 9 e 73, comma 1 bis, del d.p.r. n. 670/1972», il ricorrente ha inteso sostenere, con tutta evidenza, che i commi 1 e 2 dell’art. 1 della legge prov. Bolzano n. 15 del 2010 incidono su una materia che non rientra in alcuna delle competenze legislative primarie o concorrenti attribuite alle Province del Trentino-Alto Adige dai suddetti parametri statutari. La deduzione dell’insussistenza, in tali due parametri statutari, di qualsiasi previsione legittimante, rende evidentemente inutile l’indicazione delle competenze provinciali cui sarebbe estranea la previsione di esenzioni di tributi erariali. La questione è, perciò, ammissibile.

4.– Nel merito, le questioni promosse non sono fondate.

Le esenzioni dell’addizionale regionale all’IRPEF previste dalle disposizioni provinciali impugnate sono, infatti, consentite dal comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, come riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte.

4.1.– Detto comma, aggiunto, con effetto a decorrere dal 1° gennaio 2010, dall’art. 2, comma 107, lettera c), numero 2), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2010), stabilisce che «Le province, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, possono in ogni caso modificare aliquote e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale». Come già chiarito da questa Corte con le sentenze n. 323 del 2011 n. e n. 357 del 2010, detta disposizione statutaria va interpretata nel senso che, nell’ipotesi in cui il gettito di un tributo erariale sia interamente devoluto alle Province autonome, queste, ove la legge statale consenta loro una qualche manovra sulle aliquote, sulle esenzioni, sulle detrazioni o sulle deduzioni («ne prevede la possibilità»), possono liberamente («in ogni caso») compiere una qualsiasi di tali manovre, purché essa non abbia l’effetto economico di superare il limite delle «aliquote superiori» fissate dalla legge statale. In particolare, non può essere condivisa la tesi – sostenuta dal ricorrente Presidente del Consiglio − secondo cui, in base allo statuto di autonomia, le Province potrebbero adottare solo la specifica modifica del tributo erariale espressamente loro consentita dalla legge statale. Al contrario, il comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto attribuisce alle Province autonome ampia libertà di manovra e le autorizza ad introdurre modifiche anche diverse da quelle indicate dalla legge dello Stato e, quindi, ad influire sul gettito del tributo erariale ad esse destinato, alla duplice condizione che la legge statale consenta loro di influire sul gettito attraverso modifiche legislative e che tali modifiche non determinino una pressione tributaria maggiore di quella derivante dall’applicazione dell’aliquota massima fissata dalla legge statale. Nel rispetto di tale limite quantitativo, dunque, le Province autonome «potranno prevedere esenzioni o detrazioni anche nell’ipotesi in cui la legge statale consenta solo la variazione dell’aliquota» (sentenza n. 323 del 2011).

4.2. – Nella specie, i denunciati commi 1 e 2 dell’art. 1 della legge prov. Bolzano n. 15 del 2010 rispettano le condizioni ed i limiti richiesti dal citato comma 1-bis per l’introduzione, da parte della Provincia autonoma, di agevolazioni fiscali relative ad un tributo erariale. Le disposizioni impugnate, infatti, nell’introdurre esenzioni dell’addizionale regionale all’IRPEF: a) hanno ad oggetto un tributo erariale (sentenze n. 193 del 2007, n. 2 del 2006, n. 381 del 2004; ordinanza n. 148 del 2006) il cui gettito è interamente devoluto alle Regioni (ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 446 del 1997) e, quindi, alle Province autonome; b) traggono fondamento da una norma statale (il comma 3 dell’art. 50 del medesimo d.lgs. n. 446 del 1997), che consente a dette Province di maggiorare l’aliquota base; c) comportano necessariamente una diminuzione del gettito del tributo e, pertanto, rispettano i «limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale».

Dal rispetto di tali limiti e condizioni deriva che le esenzioni dell’addizionale provinciale all’IRPEF introdotte dalle disposizioni censurate non violano gli evocati parametri, ma trovano il loro fondamento nell’art. 73, comma 1-bis, dello statuto speciale. Di qui, la non fondatezza delle questioni.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23 dicembre 2010, n. 15 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2011 e per il triennio 2011-2013 − legge finanziaria 2011) promosse con il ricorso indicato in epigrafe,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, della legge prov. Bolzano n. 15 del 2010, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119 della Costituzione ed agli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 gennaio 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Ordinanza 65/2012

Ordinanza  65/2012
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente QUARANTA - Redattore FRIGO

Camera di Consiglio del 15/02/2012    Decisione  del 07/03/2012
Deposito del 21/03/2012   Pubblicazione in G. U. 28/03/2012
Norme impugnate: Artt. 10 bis e 16, c. 1°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, rispettivamente aggiunto e modificato dall'art. 1, c. 16°, della legge 15/07/2009, n. 94; art. 62 bis del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274, aggiunto dall'art. 1, c. 17°, lett. d), della legge 15/07/2009, n. 94.
Massime: 36166  
Atti decisi: ord. 189/2011
 
ORDINANZA N. 65
ANNO 2012
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,
 
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), rispettivamente aggiunto e modificato dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’articolo 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della citata legge n. 94 del 2009, promosso dal Giudice di pace di Lentini nel procedimento penale a carico di G.O., con ordinanza del 28 ottobre 2010, iscritta al n. 189 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2012 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
 
Ritenuto che, con ordinanza del 28 ottobre 2010, pervenuta alla Corte il 2 agosto 2011, il Giudice di pace di Lentini ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), rispettivamente aggiunto e modificato dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’articolo 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della citata legge n. 94 del 2009;
che il giudice a quo così testualmente motiva l’ordinanza di rimessione: «ritenuta la non manifesta infondatezza che il D.Lvo n. 286/1998 e 62 bis D.Lvo n. 274/2000 introdotti dall’art. 1 co. 16, 17 Legge n. 94/2009 essendo in contrasto con gli artt. 3-13-25-27 della Costituzione, ordina la sospensione del giudizio in corso e rimette gli atti alla Corte Costituzionale per il relativo giudizio di legittimità»;
che all’ordinanza di rimessione risulta, altresì, allegato un modulo prestampato, non compilato, della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, nel quale sono evidenziati plurimi asseriti profili di illegittimità costituzionale – per violazione del principio di offensività (artt. 13, 25 e 27 Cost.) e dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) – della disciplina concernente il reato di ingresso e soggiorno illegale nello Stato, previsto dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998;
che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per carente descrizione della fattispecie concreta e per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
Considerato che l’ordinanza di rimessione presenta evidenti carenze, tali da precludere l’esame del merito della questione;
che il giudice a quo omette, infatti, totalmente di descrivere la fattispecie concreta e di motivare in ordine alla rilevanza della questione;
che il rimettente omette, altresì, totalmente di esporre le ragioni per le quali, a suo avviso, le norme denunciate violerebbero i parametri costituzionali evocati;
che tale ultima carenza non può ritenersi sanata dalla mera allegazione all’ordinanza di rimessione di un modulo prestampato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, recante argomentazioni a sostegno della illegittimità costituzionale delle norme censurate: modulo al quale l’ordinanza non fa, peraltro, neppure un esplicito rinvio;
che, infatti, anche qualora si volesse ritenere implicito tale rinvio, è giurisprudenza consolidata di questa Corte che la non manifesta infondatezza della questione non può essere motivata per relationem, tramite il mero riferimento ad atti estranei all’ordinanza di rimessione, dovendo il giudice rendere esplicite le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma con motivazione autosufficiente (ex plurimis, sentenze n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010);
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
 
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 10-bis e 16, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), rispettivamente aggiunto e modificato dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e dell’articolo 62-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), aggiunto dall’art. 1, comma 17, lettera d), della citata legge n. 94 del 2009, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, dal Giudice di pace di Lentini con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: MELATTI