Ordinanza 34/2014

Ordinanza  34/2014
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente SILVESTRI - Redattore MAZZELLA
Camera di Consiglio del 12/02/2014    Decisione  del 24/02/2014
Deposito del 28/02/2014   Pubblicazione in G. U. 05/03/2014
Norme impugnate: Art. 22, c. 3°, della delibera legislativa statutaria della Regione autonoma Sardegna 25/06/2013.
Massime:
Atti decisi:ric. 82/2013

ORDINANZA N. 34
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 3, della delibera legislativa statutaria della Regione autonoma Sardegna 25 giugno 2013 (Legge statutaria elettorale ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto speciale per la Sardegna), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’8-19 agosto 2013, depositato in cancelleria il 22 agosto 2013 ed iscritto al n. 82 del registro ricorsi 2013.
Udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2014 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione ed al principio di ragionevolezza, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 3, della delibera legislativa statutaria della Regione autonoma Sardegna 25 giugno 2013 (Legge statutaria elettorale ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto speciale per la Sardegna);
che il ricorrente premette che la norma, nel regolare il sistema elettorale del Presidente della Regione e del Consiglio regionale, stabilisce che, qualora debbano svolgersi le elezioni senza che sia stata approvata una legge di adeguamento al sistema elettorale introdotto con la stessa legge statutaria, «Il Presidente della Regione che si sia dimesso dalla carica determinando la cessazione anticipata della legislatura non può in ogni caso essere nuovamente candidato al successivo turno elettorale regionale»;
che, secondo la difesa dello Stato, nessuna norma statutaria prevede che la legge regionale possa disporre, sia pure per un periodo transitorio, specifiche limitazioni alla possibilità per i soggetti eleggibili di presentare la propria candidatura a Presidente della Regione e che l’art. 51 Cost. garantisce a tutti i cittadini il diritto di accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza;
che il Presidente del Consiglio dei ministri ricorda la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale la disciplina regionale d’accesso alle cariche elettive deve essere strettamente conforme ai principi della legislazione statale e il principio di cui all’art. 51 Cost. svolge il ruolo di garanzia generale di un diritto politico fondamentale, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità;
che, secondo il ricorrente, detti principi cardine dell’ordinamento democratico trovano applicazione anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale, dovendo lo Stato garantirne l’uniforme applicazione su tutto il territorio nazionale e discipline legislative differenziate possono essere ammissibili solamente laddove si contempli la situazione di categorie di soggetti che si presentino diverse, messe a raffronto con quelle proprie delle stesse categorie di soggetti nel restante territorio nazionale ed in ogni caso per motivi ragionevoli finalizzati alla tutela di un interesse generale, ma ciò ai soli fini di assicurare la primaria esigenza dell’autenticità della competizione elettorale e nei limiti strettamente necessari alla tutela di altro interesse costituzionalmente protetto e secondo la regola della necessità e della ragionevole proporzionalità;
che invece, ad avviso della difesa dello Stato, nella fattispecie in esame l’ineleggibilità e l’incandidabilità del Presidente della Regione al successivo turno elettorale, in caso di dimissioni rassegnate dallo stesso, non è ragionevolmente giustificabile, non avendo il legislatore regionale chiarito quali situazioni peculiari della Regione o comunque quali specifici e ragionevoli motivi, finalizzati alla tutela dell’interesse generale, giustificherebbero una simile regolamentazione;
che, con atto depositato il 17 ottobre 2013 il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinunciato al ricorso, affermando che le ragioni dell’impugnazione sono venute meno dopo che l’art. 1 della delibera legislativa statutaria della Regione autonoma Sardegna 28 agosto 2013 (Abrogazione del comma 3 dell’articolo 22 della legge statutaria elettorale approvata il 25 giugno 2013 – Legge statutaria elettorale ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto speciale per la Sardegna) ha abrogato la norma censurata che non ha mai avuto concreta applicazione.
Considerato che il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione ed al principio di ragionevolezza, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 3, della delibera legislativa statutaria della Regione autonoma Sardegna 25 giugno 2013 (Legge statutaria elettorale ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto speciale per la Sardegna);
che la Regione autonoma Sardegna non si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale;
che il 17 ottobre 2013 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di rinuncia al ricorso, affermando che le ragioni dell’impugnazione sono venute meno dopo che l’art. 1 della delibera legislativa statutaria della Regione autonoma Sardegna 28 agosto 2013 (Abrogazione del comma 3 dell’articolo 22 della legge statutaria elettorale approvata il 25 giugno 2013 – Legge statutaria elettorale ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto speciale per la Sardegna) ha abrogato la norma censurata, la quale non ha mai avuto concreta applicazione;
che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso comporta, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara estinto il processo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Ordinanza 33/2014

Ordinanza  33/2014
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SILVESTRI - Redattore CASSESE
Camera di Consiglio del 12/02/2014    Decisione  del 24/02/2014
Deposito del 28/02/2014   Pubblicazione in G. U. 05/03/2014
Norme impugnate: Omesse norme impugnate.
Massime:
Atti decisi:ord. 145/2013

ORDINANZA N. 33
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Tribunale di Savona, sezione penale, nel procedimento penale a carico di R.E.F. ed altri con ordinanza dell’8 febbraio 2013, iscritta al n. 145 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione di R.E.F. e della Regione Liguria;
udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2014 il Giudice relatore Sabino Cassese.

Ritenuto che il Tribunale di Savona, sezione penale, con ordinanza dell’8 febbraio 2013, depositata in pari data nella cancelleria di questa Corte (reg. ord. n. 145 del 2013), ha sollevato una questione di legittimità costituzionale i cui termini non sono precisati nella medesima ordinanza di rimessione, la quale, in particolare, non indica né le disposizioni censurate, né i parametri costituzionali asseritamente violati, rinviando integralmente all’istanza depositata dal pubblico ministero, non allegata all’ordinanza;
che il giudice rimettente espone di aver esaminato gli atti del procedimento penale dinanzi a lui pendente e, in particolare, «l’istanza di sospensione del processo e di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale […] depositata dal pubblico ministero in data 8/1/2013, con riferimento al reato contestato sub c) dell’imputazione»;
che, richiamato il contenuto di tale atto e del decreto di citazione a giudizio emesso dal pubblico ministero il 12 novembre 2012, nonché della memoria depositata dalla difesa degli imputati, il giudice a quo rileva che «allo stato appaiono da accogliere le osservazioni svolte con articolata motivazione dal P.M. nell’istanza depositata in data 8/1/2013»;
che, ciò premesso, il Tribunale rimettente, sul presupposto che il giudizio principale non possa essere definito «indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata dal P.M.» e che tale questione «non appare manifestamente infondata sulla base della motivazione svolta dallo stesso P.M. nella sua istanza», «dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal P.M. con istanza depositata in Cancelleria in data 8/1/2013, da intendersi qui integralmente richiamata»;
che, con atto depositato il 15 luglio 2013, si è costituito un imputato nel giudizio principale, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venga dichiarata manifestamente inammissibile e infondata;
che la difesa della parte privata, riassumendo i contenuti dell’istanza del pubblico ministero, afferma che la questione di legittimità costituzionale dal medesimo prospettata (e fatta propria dall’ordinanza di rimessione) riguarderebbe gli artt. 2, commi 1, 3 e 8, e 4 della legge della Regione Liguria 6 agosto 2001, n. 24 (Recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti);
che tali disposizioni legislative, consentendo interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti, in deroga alla disciplina stabilita dalla strumentazione urbanistica comunale vigente, avrebbero, innanzitutto, l’effetto di esimere dalla responsabilità penale in caso di violazione dell’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che qualifica come illecito penale ogni intervento edilizio difforme dalle disposizioni di piano, con conseguente lesione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia penale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione;
che, inoltre, le predette disposizioni legislative regionali – sempre nella prospettazione del pubblico ministero, richiamata dall’ordinanza di rimessione, quale esposta nell’atto di costituzione dell’imputato nel giudizio principale – qualificando come ristrutturazione edilizia interventi comportanti un incremento volumetrico e/o superficiario, si porrebbero in contrasto con la definizione di ristrutturazione edilizia dettata dalla disciplina statale, sotto tale profilo violando l’art. 117, terzo comma, Cost., che in materia di «governo del territorio» demanda alla legislazione statale la determinazione dei principi fondamentali;
che secondo la difesa dell’imputato nel giudizio principale la questione sarebbe manifestamente inammissibile, atteso che la condotta dell’imputato – lecita al momento della commissione del fatto – risulterebbe comunque non punibile anche in caso di accoglimento della stessa e considerato che l’ordinanza di rimessione ha motivato per relationem in ordine alla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione stessa, mediante un mero richiamo ad un atto del pubblico ministero, che non è stato neppure allegato;
che, nel merito, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ritiene la questione infondata, sul rilievo che la disciplina statale, contrariamente a quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione (recte: nell’istanza del pubblico ministero), consentirebbe di qualificare in termini di ristrutturazione edilizia anche interventi che comportino un incremento di volume, entro limiti dimensionali che devono essere definiti dalla disciplina di dettaglio regionale, la quale, peraltro, potrebbe anche derogare agli strumenti urbanistici comunali, ove giustificato dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio;
che, con memoria depositata in data 22 gennaio 2014, la difesa dell’imputato nel giudizio principale ha ribadito e sviluppato le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione in giudizio;
che, con atto depositato il 16 luglio 2013, è intervenuta in giudizio la Regione Liguria, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;
che, in punto di ammissibilità, la difesa regionale rileva, fra l’altro, che l’ordinanza di rimessione si limita «ad asserire la fondatezza e rilevanza della questione come prospettata in un atto di parte, che non risulta neppure allegato all’ordinanza medesima»;
che, nel merito, la Regione Liguria, quanto alla asserita violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia penale, osserva che le norme integratrici della fattispecie penale – ordinariamente proprie dei Comuni, attraverso i loro strumenti urbanistici – possono essere integrate da norme di settore provenienti anche dal legislatore regionale, secundum legem;
che, quanto alla pretesa lesione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio» di cui agli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, la difesa regionale rileva che le disposizioni censurate si riferiscono ad interventi edilizi che, nella misura in cui non comportano la demolizione e ricostruzione dell’edificio, sono qualificabili come interventi di ristrutturazione edilizia «pesante» ammessi dalla citata disciplina statale e non quali interventi di nuova costruzione, come erroneamente ritenuto dall’ordinanza di rimessione.
Considerato che il Tribunale di Savona, sezione penale, con ordinanza dell’8 febbraio 2013, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale i cui termini non sono precisati dal giudice a quo, il quale rinvia integralmente all’istanza depositata dal pubblico ministero, senza peraltro allegarla alla propria ordinanza;
che, in particolare, l’ordinanza di rimessione non indica le disposizioni censurate, né i parametri costituzionali asseritamente violati;
che l’ordinanza di rimessione non delimita pertanto in alcun modo l’oggetto e il parametro del giudizio di legittimità costituzionale che pretenderebbe di instaurare, non descrivendo inoltre la fattispecie concreta sottoposta al suo esame, né fornendo alcuna motivazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione che intenderebbe sollevare;
che una siffatta mancanza degli elementi essenziali dell’atto introduttivo del giudizio costituzionale ne determina l’inesistenza giuridica e, comunque, preclude l’esame del merito della questione;
che tali gravissime carenze non possono ritenersi sanate per effetto del rinvio, contenuto nell’ordinanza di rimessione, all’istanza depositata dal pubblico ministero nel giudizio principale, che secondo il giudice a quo sarebbe «da intendersi integralmente richiamata» nell’ordinanza di rimessione;
che, infatti, a prescindere dalla circostanza che l’istanza del pubblico ministero non è neppure allegata all’ordinanza, comunque, per costante giurisprudenza di questa Corte, non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di costituzionalità questioni motivate solo per relationem, dovendo il rimettente rendere esplicite le ragioni per le quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata (ex plurimis, sentenze n. 175 del 2013 e n. 234 del 2011, nonché ordinanze n. 239 e n. 65 del 2012);
che, a fortiori, non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale questioni che siano non soltanto motivate, ma addirittura sollevate per relationem;
che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Savona, sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Sabino CASSESE, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 32/2014

Sentenza  32/2014
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SILVESTRI - Redattore CARTABIA
Udienza Pubblica del 11/02/2014    Decisione  del 12/02/2014
Deposito del 25/02/2014   Pubblicazione in G. U. 05/03/2014
Norme impugnate:Artt. 4 bis e 4 vicies-ter, c. 2°, lett. a), e 3°, lett. a), n. 6, del decreto legge 30/12/2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 21/02/2006, n. 49.
Massime:
Atti decisi:ord. 227/2013

SENTENZA N. 32
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, promosso dalla Corte di cassazione, sezione terza penale, con ordinanza dell’11 giugno 2013, iscritta al n. 227 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione di M.V., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2014 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Michela Porcile e Giovanni Maria Flick per M.V. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata in data 11 giugno 2013 (r.o. n. 227 del 2013), la Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.
Più precisamente, la rimettente ha dubitato della legittimità costituzionale del citato art. 4-bis «nella parte in cui ha modificato l’art. 73 del testo unico sulle sostanze stupefacenti di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e segnatamente nella parte in cui, sostituendo i commi 1 e 4 dell’art. 73, parifica ai fini sanzionatori le sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dal previgente art. 14 a quelle di cui alle tabelle I e III, e conseguentemente eleva le sanzioni per le prime della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468 a quella della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000». Parimenti, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6) «nella parte in cui sostituisce gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 309 del 1990, unificando le tabelle che identificano le sostanze stupefacenti, ed in particolare includendo la cannabis e i suoi prodotti nella prima di tali tabelle».
1.1.– La Corte di cassazione ha premesso di essere investita del ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza con la quale la Corte d’appello di Trento ha confermato la sentenza del Tribunale di Trento, che aveva dichiarato V.M. colpevole del reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in relazione alla ricezione e al trasporto di kg 3,860 di sostanza stupefacente di tipo hashish, condannando l’imputato, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di quattro anni di reclusione ed euro ventiseimila di multa. Ritenuti infondati i motivi di ricorso concernenti la prova della colpevolezza e la concessione dell’attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, la Corte riteneva rilevante il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla difesa in relazione ai citati artt. 4-bis e 4-vicies ter, avuto riguardo al motivo di ricorso con il quale è stata chiesta la riduzione della pena in modo da ottenere il beneficio della relativa sospensione condizionale. A tale proposito, il giudice di legittimità ha rimarcato che, dovendosi ritenere plausibile la fissazione della pena in misura prossima al minimo edittale, l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale avrebbe effettivamente consentito di ridurre la pena nei limiti previsti per la concessione dell’invocata sospensione condizionale. Infatti, secondo la rimettente, la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno sostituito, in tutto o in parte, e (a suo avviso) conseguentemente abrogato le corrispondenti disposizioni e norme del d.P.R. n. 309 del 1990, determinerebbe la reviviscenza del più favorevole trattamento sanzionatorio previgente, che stabiliva la pena edittale della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 a euro 77.468 per i fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere, anziché quella attuale della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro ventiseimila a euro duecentosessantamila. In particolare, la Corte di cassazione si è richiamata alla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 314 del 2009 e n. 108 del 1986), secondo cui l’accertamento della invalidità di una norma abrogatrice e la sua dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, specialmente se per vizi di forma o procedurali, comporta la caducazione dell’effetto abrogativo e il conseguente ripristino della norma abrogata.
Ha precisato, inoltre, il Collegio rimettente che il deteriore trattamento sanzionatorio quale stabilito dal citato art. 4-bis, sospettato di illegittimità costituzionale, trova il suo presupposto nell’unificazione delle tabelle che identificano le sostanze stupefacenti, con inclusione della cannabis nella prima di esse, insieme alle cosiddette “droghe pesanti”: ciò determinerebbe, pertanto, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale anche dell’art. 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del citato d.l. n. 272 del 2005, che tale unificazione ha operato sostituendo il previgente testo degli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 309 del 1990.
1.2.– La Corte di cassazione ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 4-bis e 4-vicies ter in relazione all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto mancherebbe il requisito della omogeneità tra le norme originarie del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione. In proposito, i rimettenti hanno rammentato la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012), secondo cui sussiste nel nostro ordinamento detto principio costituzionale di necessaria omogeneità, in quanto l’art. 77, secondo comma, Cost. istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario, anche sotto il profilo della particolare rapidità e accelerazione dei tempi. La sussistenza del predetto principio risulterebbe poi confermata dal regolamento del Senato della Repubblica e dai messaggi e dalle lettere del Presidente della Repubblica, da questi inviate alle Camere. Quando venga spezzato il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione, non sussisterebbe una illegittimità delle disposizioni introdotte nella legge di conversione per mancanza dei presupposti di necessità e urgenza delle norme eterogenee, ma una illegittimità per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire un decreto-legge (sentenza n. 355 del 2010). Sarebbe, quindi, preclusa la possibilità di inserire, nella legge di conversione, emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario, in quanto si tratta di una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei: in tale ultimo caso il limite all’introduzione di ulteriori disposizioni in sede di conversione è rappresentato dal rispetto della ratio del decreto-legge (ordinanza n. 34 del 2013).
L’applicazione di tali principi al caso di specie deve, secondo i rimettenti, portare a ritenere insussistente il requisito dell’omogeneità dei censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter rispetto alle norme originarie contenute nel decreto-legge. Le finalità di quest’ultimo, infatti, sarebbero state quelle di: rafforzare le forze di polizia e la funzionalità del Ministero dell’interno per prevenire e combattere la criminalità organizzata e il terrorismo nazionale e internazionale; garantire il finanziamento per le olimpiadi invernali; favorire il recupero dei tossicodipendenti detenuti; assicurare il diritto di voto degli italiani residenti all’estero. Pur nella pluralità degli scopi si sarebbe potuta ravvisare una sostanziale omogeneità finalistica del decreto-legge, ravvisabile nella comunanza di ratio delle disposizioni, quella di garantire l’effettivo e sicuro svolgimento delle olimpiadi invernali.
In ogni caso, le norme originarie riguardavano non la disciplina delle sostanze stupefacenti, ma lo specifico e circoscritto tema dell’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei tossicodipendenti recidivi con un programma terapeutico in corso. Nei confronti di questi ultimi, infatti, l’allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta “legge ex Cirielli”, con il suo art. 8 aveva aggiunto l’art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990 – riducendo da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l’affidamento in prova per l’attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza – e con l’art. 9 aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell’art. 656 del codice di procedura penale, escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, compresi i tossicodipendenti con in corso un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza o alcooldipendenza. Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l’efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l’art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto, anche se recidivi.
La rimettente ha quindi rimarcato la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle nuove norme introdotte in sede di conversione, ciò non solo in riferimento alla ratio complessiva dell’intervento governativo – che era quella di garantire sotto l’aspetto finanziario e di polizia l’effettivo e sicuro svolgimento delle olimpiadi invernali, ma anche rispetto alle specifiche previsioni normative contenute nell’art. 4 citato. Questa, infatti, è l’unica disposizione che presenta un labile riferimento al tema degli stupefacenti, ma riguarda esclusivamente l’esecuzione della pena dei recidivi già condannati, come può desumersi dal titolo della disposizione e dal preambolo del provvedimento d’urgenza, in cui si dichiara espressamente che la ratio e la finalità dell’intervento sono quelle di «garantire l’efficacia dei programmi terapeutici di recupero per le tossicodipendenze anche in caso di recidiva». Con la legge di conversione, invece, all’art. 4 sono stati fatti seguire ben ventitre articoli aggiuntivi, composti da numerosissimi commi con relativi allegati, che non hanno apportato modifiche funzionalmente interrelate con le previsioni originarie, ma hanno piuttosto completamente ridisegnato l’apparato repressivo in materia di stupefacenti, sostituendo l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e incidendo in modo pervasivo sul sistema classificatorio delle sostanze psicotrope, così da pervenire alla equiparazione tra cosiddette “droghe leggere” e “droghe pesanti”.
Secondo la Corte di cassazione non potrebbe, quindi, ravvisarsi alcuna omogeneità materiale o teleologica tra la disposizione abrogatrice di cui all’art. 4 del decreto d’urgenza e la riforma organica del testo unico sugli stupefacenti realizzata con la legge di conversione. Né, ad avviso del giudice di legittimità, la mera circostanza che l’art. 4, comma 1, del decreto d’urgenza richiami il d.P.R. n. 309 del 1990, per sopprimere la disposizione di cui all’art. 94-bis, potrebbe legittimare l’intera riscrittura del testo unico sugli stupefacenti, posto che, altrimenti, si sarebbe potuto riscrivere, con apposito “maxi-emendamento” d’aula, (saltando, quindi, l’esame in sede referente), tutta la disciplina dell’esecuzione penale, posto che veniva richiamato anche l’art. 656 cod. proc. pen. In tal modo, ad avviso dei rimettenti, si finirebbe per consentire ad ogni Governo, e alla sua maggioranza, di approfittare di qualsiasi effimera emergenza per riformare interi settori dell’ordinamento, strumentalizzando la speciale procedura privilegiata prevista per la legge di conversione, che costituisce, invece, una fonte funzionale e specializzata.
Ad avviso del Collegio rimettente, pertanto, il legislatore, con l’introduzione delle nuove norme e, in particolare, di quelle, poste dagli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), avrebbe travalicato i limiti della potestà emendativa del Parlamento, quali tracciati dalle citate sentenze della Corte costituzionale.
A riprova della disomogeneità delle norme impugnate, la Corte di cassazione ha citato il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera nella seduta del 1° febbraio 2006, come pure le opinioni manifestate da diversi parlamentari della minoranza in sede di dibattito sulla legge di conversione, sia al Senato sia alla Camera. Del resto, hanno rimarcato i giudici rimettenti, la disomogeneità delle nuove norme deve ritenersi ammessa ed enunciata dalla stessa legge di conversione, che ha dovuto modificare il titolo del decreto-legge per rendere conto del nuovo contenuto ivi introdotto: sono state aggiunte, infatti, le parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309».
La Corte rimettente ha poi evidenziato che, pur essendo prospettata una violazione procedurale ai sensi dell’art. 77, secondo comma, Cost., ciò nondimeno una eventuale pronuncia di accoglimento potrebbe incidere non sulle disposizioni, ma sulle singole norme introdotte dalla legge di conversione che, da un lato, sono totalmente estranee all’oggetto e alla ratio del decreto-legge e, dall’altro, assumono rilevanza nel giudizio a quo. Si tratterebbe, segnatamente, delle norme che – sostituendo i commi 1 e 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e unificando le tabelle che identificano le sostanze stupefacenti – parificano ai fini sanzionatori le sostanze di cui alle tabelle II e IV (tra le quali l’hashish), previste dal previgente art. 14 dello stesso d.P.R., a quelle di cui alle precedenti tabelle I e III e, conseguentemente, elevano le sanzioni per le prime.
1.3.– In via subordinata, la Corte di cassazione ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter negli stessi limiti di cui sopra, per difetto del requisito della necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77, secondo comma, Cost.
Secondo la rimettente, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, e si dovessero ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto al decreto-legge, dovrebbe allora sindacarsi la sussistenza, per le nuove norme introdotte, dei citati requisiti di necessità ed urgenza, ritenuti in tal caso necessari dalla sentenza n. 355 del 2010 di questa Corte. Del resto, il Collegio rimettente evidenzia come altra giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007) abbia osservato che la legge di conversione non sana i vizi del decreto d’urgenza, in sede di sua conversione, di tal che non possano introdursi disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza legittimanti l’intervento governativo.
1.4.– Il Collegio rimettente ha ritenuto, viceversa, assorbita la terza eccezione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, per contrasto delle medesime norme di cui sopra con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti) – che esigerebbe una disciplina differenziata in ragione della diversa pericolosità delle tipologie di sostanze stupefacenti e psicotrope – e con il principio di proporzionalità delle pene di cui all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
2.– Con atto depositato in data 19 novembre 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.– In primo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, in quanto la rimettente avrebbe omesso di considerare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alla fattispecie concreta mediante l’applicazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
2.2.– Nel merito la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha ritenuto palesemente infondate la questioni sollevate, in quanto l’originario decreto-legge avrebbe già contenuto disposizioni in materia di tossicodipendenza, di tal che le norme introdotte in sede di conversione si sarebbero dovute considerare in linea con la ratio e con la finalità dell’intervento governativo, rispondendo anche ad una esigenza di straordinaria urgenza e necessità nel disciplinare una materia di fondamentale importanza ai fini della tutela della salute individuale e collettiva, nonché ai fini della salvaguardia della sicurezza pubblica, attraverso il rigoroso e fermo contrasto al traffico e allo spaccio degli stupefacenti e del recupero dei tossicodipendenti, anche in caso di recidiva.
3.– Con memoria depositata in data 18 novembre 2013, V.M., imputato nel procedimento penale pendente in Cassazione, si è costituito in giudizio, insistendo perché vengano accolte le sollevate questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, ulteriormente illustrando i motivi già esposti dalla Corte di cassazione, in relazione alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., sia per difetto di omogeneità materiale e teleologica rispetto a contenuto, finalità e ratio dell’originario testo del decreto-legge, sia, in via subordinata, per difetto dei requisiti di necessità e urgenza. In ultimo, la parte ha rimarcato che l’impugnato art. 4-bis si pone inoltre in duplice contrasto con il diritto dell’Unione europea, in quanto violerebbe sia l’art. 4 della citata decisione quadro n. 2004/757/GAI sia l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
4.– In data 10 febbraio 2014, la difesa dell’imputato ha depositato note di discussione, con le quali ha rimarcato che l’Avvocatura generale dello Stato, nel ritenere sussistente un nesso tra l’art. 4 originariamente contenuto nel decreto governativo e le disposizioni oggi impugnate, avrebbe confuso l’oggetto di diritto sostanziale (la disciplina che individua e punisce le violazioni alla disciplina sugli stupefacenti) con il soggetto (cioè il condannato tossicodipendente): l’art. 4, infatti, avrebbe riguardato quest’ultimo, vale a dire il soggetto, mentre le norme introdotte dalla legge di conversione avrebbero inciso sul primo, id est l’oggetto. Nel ribadire e richiamare le argomentazioni già esposte in punto di fondatezza della questione di legittimità costituzionale, la difesa ha altresì evidenziato che l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri, si è basata sull’erroneo presupposto che la Corte di cassazione potesse applicare nella specie la disposizione di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990: il giudice di legittimità, invece, ha espressamente ritenuto infondati i motivi di ricorso relativi al riconoscimento del fatto di lieve entità, contestualmente considerando congrua, specifica e adeguata la motivazione della sentenza impugnata che lo escludeva.


Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.
Ad avviso del Collegio rimettente, le disposizioni impugnate, introdotte dalla legge di conversione, mancherebbero del requisito di omogeneità con quelle originarie del decreto-legge. Detto requisito, infatti, è richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost. che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012), istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. La legge di conversione, pertanto, rappresenta una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico.
Nella specie, ha osservato il Collegio rimettente, le disposizioni originariamente contenute nel decreto-legge riguardavano la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi invernali (che di lì a poco si sarebbero svolte a Torino), la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno e il recupero di tossicodipendenti recidivi. Invece, le disposizioni impugnate, introdotte con la sola legge di conversione, non avrebbero nessuna correlazione con le prime, in quanto volte ad attuare una radicale e complessiva riforma del testo unico sugli stupefacenti e del trattamento sanzionatorio dei reati ivi contenuti.
In particolare, ha osservato la Corte di cassazione, il citato artt. 4-bis – modificando l’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – ha previsto una medesima cornice edittale per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, unificando il trattamento sanzionatorio che, in precedenza, era differenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o psicotrope incluse nelle tabelle II e IV (cosiddette “droghe leggere”) ovvero quelle incluse nelle tabelle I e III (cosiddette “droghe pesanti”): la legge di conversione, infatti, con l’art. 4-vicies ter ha parallelamente modificato il precedente sistema tabellare stabilito dagli artt. 13 e 14 dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990, includendo nella nuova tabella I gli stupefacenti che prima erano distinti in differenti gruppi.
Per effetto di tali modifiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette “droghe leggere” e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite nell’intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000.
Considerata la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle citate nuove norme introdotte in sede di conversione, i rimettenti reputano che sia stato violato l’art. 77, secondo comma, Cost. sotto il profilo del difetto del requisito di omogeneità ovvero del nesso di interrelazione funzionale richiesto dalla citata disposizione costituzionale.
In via subordinata, tuttavia, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter, per difetto del requisito della necessità ed urgenza, richiesto dal medesimo art. 77, secondo comma, Cost. Secondo i rimettenti, infatti, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, e dovesse ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto a questo, allora, poiché la legge di conversione non sana i vizi del decreto (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007), non potrebbe considerarsi legittima l’introduzione, in sede di conversione, di disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza legittimanti l’intervento governativo, ragioni evidentemente insussistenti nella specie.
2.– In via preliminare, in ordine alle deduzioni della parte privata, deve osservarsi che – ferma l’ammissibilità del suo intervento, in quanto persona imputata nel procedimento a quo e, quindi, parte del giudizio (ex plurimis, sentenze n. 304 del 2011, n. 138 del 2010 e n. 263 del 2009) – esse introducono profili di illegittimità costituzionale non prospettati nell’ordinanza di rimessione, in vista di un ampliamento del thema decidendum. Nella memoria di costituzione, infatti, viene dedotta anche una duplice violazione della normativa dell’Unione europea, in relazione sia alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti), sia all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Va rilevato, invero, che si tratta di un percorso argomentativo e di una eccezione difensiva già ritenuti manifestamente infondati dalla Corte di cassazione e che la disamina di tale profilo non può ritenersi ammissibile nel presente giudizio incidentale, in quanto la parte privata costituita non può estendere i limiti della questione, quali precisati nell’ordinanza di rimessione dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2009, n. 86 del 2008, n. 174 del 2003). Ciò a prescindere dalla carente indicazione delle disposizioni costituzionali rispetto alle quali la normativa dell’Unione europea assumerebbe rilevanza nel presente giudizio.
3.– In punto di ammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione, deve osservarsi che l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle medesime, in quanto il giudice a quo avrebbe omesso di sperimentare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alle differenti tipologie di stupefacenti, attraverso l’applicazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, che prevede pene più miti per i fatti di lieve entità.
L’eccezione non è fondata, in quanto la Corte di cassazione ha espressamente precisato, nel corpo stesso della sua ordinanza, che la Corte d’appello di Trento ha fornito congrua, specifica e adeguata motivazione delle ragioni per le quali non è riconoscibile nella specie il fatto di lieve entità, ai sensi del citato art. 73, comma 5.
È appena il caso di aggiungere che, alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna incidenza sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall’art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10. Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni non applicabili nel giudizio a quo, non si ravvisa la necessità di una restituzione degli atti al giudice rimettente, dal momento che le modifiche, intervenute medio tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa l’applicazione nella specie, e sono tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti. Inoltre, gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima.
4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito dall’art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, è fondata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle impugnate, introdotte nella legge di conversione.
4.1.– In proposito va richiamata la giurisprudenza di questa Corte, con particolare riguardo alla sentenza n. 22 del 2012 e alla successiva ordinanza n. 34 del 2013, nella quale si è chiarito che la legge di conversione deve avere un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge. Ciò in ossequio, prima ancora che a regole di buona tecnica normativa, allo stesso art. 77, secondo comma, Cost., il quale presuppone «un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 22 del 2012).
La legge di conversione – per l’approvazione della quale le Camere, anche se sciolte, si riuniscono entro cinque giorni dalla presentazione del relativo disegno di legge (art. 77, secondo comma, Cost.) – segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.
Dalla sua connotazione di legge a competenza tipica derivano i limiti alla emendabilità del decreto-legge. La legge di conversione non può, quindi, aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, come del resto prescrivono anche i regolamenti parlamentari (art. 96-bis del Regolamento della Camera dei Deputati e art. 97 del Regolamento del Senato della Repubblica, come interpretato dalla Giunta per il regolamento con il parere dell’8 novembre 1984). Diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare. Pertanto, l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua.
È bene sottolineare che la richiesta coerenza tra il decreto-legge e la legge di conversione non esclude, in linea generale, che le Camere possano apportare emendamenti al testo del decreto-legge, per modificare la normativa in esso contenuta, in base alle valutazioni emerse nel dibattito parlamentare; essa vale soltanto a scongiurare l’uso improprio di tale potere, che si verifica ogniqualvolta sotto la veste formale di un emendamento si introduca un disegno di legge che tenda a immettere nell’ordinamento una disciplina estranea, interrompendo il legame essenziale tra decreto-legge e legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall’art. 77, secondo comma, Cost.
Ciò vale anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo, come quello di specie. In relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità (sentenza n. 22 del 2012) – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso.
Nell’ipotesi in cui la legge di conversione spezzi la suddetta connessione, si determina un vizio di procedura, mentre resta ovviamente salva la possibilità che la materia regolata dagli emendamenti estranei al decreto-legge formi oggetto di un separato disegno di legge, da discutersi secondo le ordinarie modalità previste dall’art. 72 Cost.
L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare, che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge.
4.2.– Nel caso di specie, dunque, la Corte è chiamata a verificare se il contenuto delle disposizioni impugnate, introdotte in fase di conversione, sia funzionalmente correlato al decreto-legge n. 272 del 2005, al fine di giudicare il corretto uso del potere di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. da parte delle Camere.
A tal fine va osservato che le norme originarie contenute nel decreto-legge riguardano l’assunzione di personale della Polizia di Stato (art. 1), misure per assicurare la funzionalità all’Amministrazione civile dell’interno (art. 2), finanziamenti per le olimpiadi invernali (art. 3), il recupero dei tossicodipendenti detenuti (art. 4) e il diritto di voto degli italiani residenti all’estero (art. 5).
Come può facilmente rilevarsi, e come del resto ha osservato l’Avvocatura dello Stato, l’unica previsione alla quale, in ipotesi, potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l’art. 4, la cui connotazione finalistica era ed è quella di impedire l’interruzione del programma di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi.
Nei confronti di questi ultimi era, infatti, intervenuta l’allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta “legge ex Cirielli”, che con il suo art. 8 aveva aggiunto l’art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990, riducendo così da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l’affidamento in prova per l’attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza; inoltre, l’art. 9 della medesima legge aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell’art. 656 del codice di procedura penale, escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, anche se tossicodipendenti inseriti in un programma terapeutico di recupero.
Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l’efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l’art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto alle condizioni precedentemente previste.
L’art. 4 contiene, pertanto, norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Esse riguardano, cioè, la persona del tossicodipendente e perseguono una finalità specifica e ben determinata: il suo recupero dall’uso di droghe, qualunque reato egli abbia commesso, sia esso in materia di stupefacenti o non.
Non così le impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente. Inoltre, esse sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti.
Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite.
4.3.– Tra gli elementi sintomatici che confermano tale conclusione, si può richiamare la circostanza che lo stesso Parlamento ha dovuto modificare, in sede di conversione, il titolo originario del decreto-legge, ampliandolo con l’aggiunta delle parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309», per includervi la materia disciplinata dalle disposizioni introdotte solo con la legge di conversione. Ciò è indice del fatto che lo stesso legislatore ha ritenuto che le innovazioni introdotte con la legge di conversione non potevano essere ricomprese nelle materie già disciplinate dal decreto-legge medesimo e risultanti dal titolo originario di quest’ultimo.
D’altra parte, non meno significativo è il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati (nella seduta del 1° febbraio 2006) sul disegno di legge C. 6297 di conversione in legge del decreto-legge n. 272 del 2005. In tale parere si rileva che il disegno di legge «reca un contenuto i cui elementi di eterogeneità – peraltro già originariamente presenti nella originaria formulazione di 5 articoli […] – sono stati notevolmente accentuati a seguito dell’inserimento, durante il procedimento di conversione presso il Senato, di una vasta mole di ulteriori disposizioni (recate in 25 nuovi articoli) riguardanti principalmente, ma non esclusivamente, misure di contrasto alla diffusione degli stupefacenti, mutuate da un disegno di legge da tempo all’esame del Senato (S. 2953)».
4.4.– Del resto, la disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto-legge da convertire assume caratteri di assoluta evidenza, anche alla luce della portata della riforma recata dagli impugnati artt. 4-bis e 4-vicies ter e della delicatezza e complessità della materia incisa dagli stessi.
Infatti, benché contenute in due soli articoli, le modifiche introdotte nell’ordinamento apportano una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina.
Una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge, ex art. 72 Cost.
Si aggiunga che un intervento normativo di simile rilievo – che, non a caso, faceva parte di un autonomo disegno di legge S. 2953 giacente da tre anni in Senato in attesa dell’approvazione – ha finito, invece, per essere frettolosamente inserito in un “maxi-emendamento” del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno di legge di conversione, presentato direttamente nell’Assemblea del Senato e su cui il Governo medesimo ha posto la questione di fiducia (nella seduta del 25 gennaio 2006), così precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta.
Inoltre, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, è stato anche impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo, dal momento che all’oggetto della questione di fiducia, non possono essere riferiti emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi e che su tale oggetto è altresì vietata la votazione per parti separate.
Né la seconda e definitiva lettura presso l’altro ramo del Parlamento ha consentito successivamente di rimediare a questa mancanza, visto che anche in quel caso il Governo ha posto, nella seduta del 6 febbraio 2006, la questione di fiducia sul testo approvato dal Senato, obbligando così l’Assemblea della Camera a votarlo “in blocco”.
Va inoltre osservato che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l’esame referente richiesto dal primo comma dell’art. 72 Cost.
Per di più, l’imminente fine della legislatura (intervenuta con il d.P.R. 11 febbraio 2006, n. 32, recante «Scioglimento del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati») e l’assoluta urgenza di convertire alcune delle disposizioni contenute nel decreto-legge originario, tra cui quelle riguardanti la sicurezza e il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, impedivano di fatto allo stesso Presidente della Repubblica di fare uso della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., non disponendo, tra l’altro, di un potere di rinvio parziale.
In questo senso sono, infatti, i rilievi contenuti nei ripetuti interventi da parte del Presidente della Repubblica – lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell’iter parlamentare di conversione in legge del decreto-legge c.d. “salva Roma” (decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126); lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; lettera inviata il 22 febbraio 2011 ai Presidenti del Senato e della Camera; messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) – e, recentemente, anche da parte del Presidente del Senato (comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013), interventi tutti volti a segnalare l’abuso dell’istituto del decreto-legge e, in particolare, l’uso improprio dello strumento della legge di conversione, in violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
Ben si comprende, pertanto, proprio alla luce di quanto accaduto nel caso di specie, come il rispetto del requisito dell’omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. sia di fondamentale importanza per mantenere entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa.
4.5.– Conclusivamente sul punto, deve osservarsi che, nel caso sottoposto all’esame della Corte, risultano contestualmente presenti plurimi indici che rendono manifesta l’assenza di ogni nesso di interrelazione funzionale tra le disposizioni impugnate e le originarie disposizioni del decreto-legge.
In difetto del necessario legame logico-giuridico, richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost., i censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter devono ritenersi adottati in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere legislativo di conversione e perciò costituzionalmente illegittimi.
Trattandosi di un vizio di natura procedurale, che peraltro – come si è detto – si evidenzia solo ad un’analisi dei contenuti normativi aggiunti in sede di conversione, la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per intero le due disposizioni impugnate e soltanto esse, restando impregiudicata la valutazione di questa Corte in relazione ad eventuali ulteriori impugnative aventi ad oggetto altre disposizioni della medesima legge.
5.– In considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate.
Il potere di conversione non può, infatti, considerarsi una mera manifestazione dell’ordinaria potestà legislativa delle Camere, in quanto la legge di conversione ha natura «funzionalizzata e specializzata» (sentenza n. 22 del 2012 e ordinanza n. 34 del 2013). Essa presuppone un decreto da convertire, al cui contenuto precettivo deve attenersi, e per questo non è votata articolo per articolo, ma in genere è composta da un articolo unico, sul quale ha luogo la votazione – salva la eventuale proposizione di emendamenti, nei limiti sopra ricordati – nell’ambito di un procedimento ad hoc (art. 96-bis del Regolamento della Camera; art. 78 del Regolamento del Senato), che deve necessariamente concludersi entro sessanta giorni, pena la decadenza ex tunc del provvedimento governativo. Nella misura in cui le Camere non rispettano la funzione tipica della legge di conversione, facendo uso della speciale procedura per essa prevista al fine di perseguire scopi ulteriori rispetto alla conversione del provvedimento del Governo, esse agiscono in una situazione di carenza di potere.
In tali casi, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010). Sotto questo profilo, la situazione risulta assimilabile a quella della caducazione di norme legislative emanate in difetto di delega, per le quali questa Corte ha già riconosciuto, come conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale, l’applicazione della normativa precedente (sentenze n. 5 del 2014 e n. 162 del 2012), in conseguenza dell’inidoneità dell’atto, per il radicale vizio procedurale che lo inficia, a produrre effetti abrogativi anche per modifica o sostituzione.
Deve, dunque, ritenersi che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo.
È appena il caso di aggiungere che la materia del traffico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di penalizzazione, in virtù di normative dell’Unione europea. Più precisamente la decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
6.– Stabilito, quindi, che una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate riprende applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate, resta da osservare che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabilisce sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni).
È bene ribadire che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sin dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.) di «configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore.
Quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo.
Analogamente, rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione.
7.– La decisione di cui sopra assorbe l’ulteriore questione sollevata in via subordinata dalla Corte di cassazione.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Ordinanza 31/2014

Ordinanza  31/2014
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente SILVESTRI - Redattore LATTANZI
Udienza Pubblica del 14/01/2014    Decisione  del 24/02/2014
Deposito del 25/02/2014   Pubblicazione in G. U. 05/03/2014
Norme impugnate: Art. 1 della legge della Regione Basilicata 21/12/2012, n. 33.
Massime:
Atti decisi:ric. 37/2013

ORDINANZA N. 31
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Basilicata 21 dicembre 2012, n. 33 (Approvazione localizzazione, in Agro di Calciano, di un impianto di distribuzione carburanti e relativi servizi accessori in variante al Piano territoriale paesistico di area vasta nel bosco di Gallipoli Cognato e Piccole Dolomiti Lucane), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19-21 febbraio 2013, depositato in cancelleria il 5 marzo 2013 ed iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2013.
Udito nell’udienza pubblica del 14 gennaio 2014 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
udito l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ricorso spedito per la notificazione il 19 febbraio 2013, ricevuto il successivo 21 febbraio e depositato il 5 marzo 2013 (reg. ric. n. 37 del 2013), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione alle «norme interposte» di cui agli artt. 135 e 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nonché in riferimento al principio di leale collaborazione, ed inoltre, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 5 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Basilicata 21 dicembre 2012, n. 33 (Approvazione localizzazione, in Agro di Calciano, di un impianto di distribuzione carburanti e relativi servizi accessori in variante al Piano territoriale paesistico di area vasta nel bosco di Gallipoli Cognato e Piccole Dolomiti Lucane), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Basilicata 21 dicembre 2012, n. 48;
che, secondo quanto premette il ricorrente, l’art. 1 della legge regionale n. 33 del 2012 stabilisce che, «In attuazione dell’art. 19 della legge regionale 4 agosto 1987, n. 20, è approvata la localizzazione, in Agro di Calciano, di un impianto di distribuzione carburanti e relativi servizi accessori (ALLEGATO A) in Variante al Piano Territoriale Paesistico di area vasta del Bosco Gallipoli-Cognato e Piccole Dolomiti Lucane, di cui alla Delib.G.R. 18 marzo 2010, n. 512»;
che tale norma postulerebbe erroneamente la perdurante vigenza dell’art. 19 della legge della Regione Basilicata 4 agosto 1987, n. 20 (Funzioni amministrative riguardanti la protezione delle bellezze naturali), il quale, invece, per effetto della legge 10 febbraio 1953, n. 62 (Costituzione e funzionamento degli organi regionali), sarebbe stato abrogato implicitamente dal d.lgs. n. 42 del 2004, data la palese incompatibilità della norma regionale del 1987 rispetto alla successiva legislazione statale;
che il d.lgs. n. 42 del 2004 avrebbe reso possibile la variante al piano in questione solo mediante la pianificazione paesaggistica congiunta fra Stato e Regione, ai sensi degli artt. 135 e 143;
che la disposizione impugnata, pertanto, contrasterebbe con gli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., e in particolare con le «norme interposte» degli artt. 135 e 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, che prevedono l’elaborazione congiunta dei nuovi piani paesaggistici ovvero «l’adeguamento di quelli eventualmente vigenti ai dettami prescrittivi e contenutistici dell’art. 143 del codice», nonché con il principio di leale collaborazione;
che la Regione avrebbe dovuto «concordare le modifiche nella appropriata sede della nuova concertazione di riforma e modifica congiunta del piano medesimo, come, peraltro, previsto dal Protocollo d’Intesa tra la Regione Basilicata ed il Ministero per i beni e le attività culturali, sottoscritto in data 14 settembre 2011, ai sensi dell’art. 156, comma 3, del Codice di settore, per la definizione congiunta del piano paesaggistico regionale»;
che inoltre, secondo il ricorrente, la variante prevista dalla norma regionale, per la parte in cui non menziona la «valutazione di incidenza», risulterebbe priva delle valutazioni ambientali previste dalla normativa nazionale, considerato che il territorio «ricade in area SIC/ZPS (siti di interesse comunitario e zone di protezione speciale) per la quale è obbligatoria la valutazione di incidenza» di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997;
che, quindi, anche sotto questo aspetto, la norma regionale sarebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali;
che la Regione Basilicata non si è costituita.
Considerato che, ai sensi dell’art. 31, comma 4, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il ricorso deve essere depositato nella cancelleria di questa Corte entro il termine di dieci giorni dalla notificazione;
che tale termine decorre dal momento in cui l’atto perviene al destinatario (sentenza n. 318 del 2009);
che il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, spedito per la notificazione il 19 febbraio e pervenuto al destinatario il 21 febbraio 2013, è stato depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 5 marzo 2013;
che il termine per il deposito, scadendo domenica 3 marzo 2013, era prorogato fino a lunedì 4 marzo;
che il 5 marzo 2013 tale termine era ormai definitivamente decorso;
che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il termine per il deposito è perentorio (ordinanze n. 344 e n. 218 del 2006, e n. 20 del 2005);
che, conseguentemente, la questione è manifestamente inammissibile.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Basilicata 21 dicembre 2012, n. 33 (Approvazione localizzazione, in Agro di Calciano, di un impianto di distribuzione carburanti e relativi servizi accessori in variante al Piano territoriale paesistico di area vasta nel bosco di Gallipoli Cognato e Piccole Dolomiti Lucane), promossa, in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, e al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 30/2014

Sentenza  30/2014
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SILVESTRI - Redattore CAROSI
Camera di Consiglio del 15/01/2014    Decisione  del 24/02/2014
Deposito del 25/02/2014   Pubblicazione in G. U. 05/03/2014
Norme impugnate: Art. 55, c. 1°, lett. d), del decreto legge 22/06/2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 07/08/2012, n. 134, sostitutivo dell'art. 4 della legge 24/03/2001, n. 89.
Massime:
Atti decisi:ord. 151/2013

SENTENZA N. 30
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, sostitutivo dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, promosso dalla Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, nel procedimento vertente tra D’Aversa Concettina e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 18 marzo 2013, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Riferisce il giudice a quo che la ricorrente del giudizio principale, lavoratrice dipendente di un imprenditore individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di lavoro, per ottenere il pagamento di alcune differenze retributive. Interrottosi il giudizio a causa del fallimento del convenuto, in data 27 marzo 1997 la ricorrente aveva chiesto di essere ammessa al passivo fallimentare, ottenendo l’ammissione del credito per un importo pari ad euro 6.878,47. Di tale somma la ricorrente aveva ricevuto dei pagamenti parziali (nel 2002 e nel 2010) per un totale di euro 6.541,32. Ancora creditrice del residuo, con ricorso depositato il 19 dicembre 2012, aveva adito la Corte d’appello rimettente, chiedendo l’indennizzo del danno non patrimoniale da eccessiva durata della procedura concorsuale (quantificato in euro 8.000,00), oltre accessori e spese legali, sebbene detta procedura, come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare del 14 febbraio 2013, fosse ancora pendente e non fosse definitiva l’attribuzione della minor somma rispetto a quella ammessa al passivo fallimentare.
1.1.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 – prevedendo nel testo attualmente in vigore che «La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva», precluderebbe la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.
Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un processo che si è concluso, e non anche a chi si dolga dell’eccessiva durata di quello ancora pendente, nonostante nel secondo caso la lesione appaia più grave. Siffatta discriminazione non sarebbe giustificata dall’esigenza di permettere una valutazione unitaria dell’intero processo, considerato che l’improponibilità della domanda sussisterebbe anche in caso di notevole ritardo già maturato, peraltro con riferimento al diritto primario alla retribuzione lavorativa.
Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., «in quanto il diritto di agire per l’equa riparazione costituisce ormai una forma di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo presupposto».
Il rimettente, infine, ritiene che il testo dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto) attualmente in vigore violi l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Sostiene al riguardo che tale disposizione, pur obbligando gli Stati aderenti a garantire il diritto delle parti all’esame della loro causa entro un tempo ragionevole, non imponga la previsione di specifici rimedi risarcitori in caso di violazione. Tuttavia, quale forma di attuazione del principio di sussidiarietà nella tutela del diritto, il rimedio previsto dalla legge Pinto sarebbe visto con favore dalla Corte EDU, tanto da rimettere alla giurisdizione interna le richieste di risarcimento del danno da eccessiva durata del processo in quegli ordinamenti in cui erano state assunte omologhe iniziative legislative. In tale contesto, il predetto rimedio dovrebbe essere dotato del carattere dell’effettività e consentire la massima conformazione possibile del giudice nazionale alla CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Diversamente, la norma censurata avrebbe configurato solo in apparenza un adempimento al vincolo convenzionale, impedendo – secondo il significato univocamente attribuibile alla disposizione censurata, che ne precluderebbe un’interpretazione «convenzionalmente» orientata – l’esperibilità del rimedio in relazione ai cosiddetti processi presupposti non ancora definiti ma già di durata irragionevole. Con riferimento ad essi, la parte danneggiata potrebbe soltanto rivolgersi alla Corte EDU per ottenere il risarcimento, anche in casi, come nella specie, di grave ritardo nella soddisfazione di un diritto primario. Tale preclusione, peraltro, non si giustificherebbe con il fine di ridimensionare la problematica dell’eccessiva durata dei processi, che rimarrebbe inalterata.
1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente premette che, secondo la giurisprudenza di legittimità, per il creditore fallimentare la durata della procedura, rilevante ai fini della valutazione di ragionevolezza, si calcola dalla data di proposizione della domanda di ammissione al passivo, mentre il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione è individuato nel momento in cui il decreto di chiusura del fallimento assume definitività o con quello dell’eventuale soddisfacimento integrale del credito ammesso al passivo, senza che abbia rilievo l’esecuzione di ripartizioni parziali in corso di procedura. Sulla base di tali premesse, la Corte d’appello di Bari esclude che la domanda di equa riparazione formulata dalla ricorrente sia tardiva, in mancanza di definizione della procedura presupposta e di rilievo dei riparti parziali, ritenendola peraltro prematura alla stregua del nuovo testo dell’art. 4, che non contiene più l’inciso secondo cui la domanda di riparazione «può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata». Tale eliminazione, unitamente al mantenimento del termine semestrale di decadenza, avrebbe il significato univoco di precludere, dal momento di entrata in vigore del predetto testo di legge, la proposizione della domanda di equa riparazione quando il procedimento presupposto sia ancora pendente.
Nel caso di specie, poiché la ricorrente del giudizio principale ha agito per l’equa riparazione nel corso del procedimento presupposto, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – nel testo applicabile ratione temporis – la domanda, diversamente da quanto in precedenza previsto, non sarebbe proponibile, sebbene il fallimento duri da un tempo (oltre quindici anni) ben superiore al termine di sei anni considerato ragionevole dall’art. 2, comma 2-bis, della legge Pinto, per la conclusione di procedure concorsuali non particolarmente complesse.
2.– Con atto depositato il 16 luglio 2013 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della questione sollevata.
2.1.– Secondo il Presidente del Consiglio, la questione sarebbe inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del rimettente, il quale non avrebbe fornito nessuna concreta indicazione sullo stato attuale della procedura fallimentare, impedendo di ritenere la sicura applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo.
Inoltre, ad avviso della difesa statale, la pretesa indennitaria vantata dalla ricorrente nel giudizio principale, quantificata in euro 8.000,00, potrebbe ritenersi inaccoglibile alla stregua dell’art. 2-bis, comma 3, della legge n. 89 del 2001, secondo cui la misura dell’indennizzo non può mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice, con riverbero sulla rilevanza della questione sollevata.
2.2.– Ad avviso del Presidente del Consiglio, la questione sarebbe in ogni caso infondata nel merito.
La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell’ambito di un più ampio intervento normativo finalizzato ad accelerare la procedura per ottenere l’indennizzo da eccessiva durata dei processi, nell’intento di rendere effettivi i principi di cui agli artt. 24 e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e di ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre, mirerebbe a ridurre il contenzioso davanti alla Corte EDU per l’eccessiva durata dei processi e per il ritardo nel pagamento degli indennizzi liquidati, così come riconosciuto nel maggio del 2013 dall’Ufficio di monitoraggio dell’esecuzione delle decisioni CEDU.
L’intervenuto sostiene che l’art. 4 della legge n. 89 del 2001, nella originaria formulazione, che consentiva la proponibilità della domanda di equa riparazione in pendenza del processo presupposto, comportava la difficoltà pratica di determinare la maturazione del diritto ed il frazionamento della pretesa, con onerose conseguenze per il bilancio dello Stato. La sostituzione operata dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, accompagnata all’adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla previsione di criteri corrispondenti a quelli enunciati dalla giurisprudenza nazionale e della Corte EDU quanto a durata ragionevole e misura dell’indennizzo, non precluderebbe il soddisfacimento del diritto, ma solo il suo differimento, giustificato alla stregua delle esigenze menzionate. Si evita, in tal modo, un inutile dispendio di risorse pubbliche per effetto della deflazione del contenzioso, assicurando al contempo il buon andamento dell’amministrazione della giustizia. Le considerazioni che precedono escluderebbero la denunciata disparità di trattamento ed il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Il differimento, inoltre, non inciderebbe sull’effettività del rimedio indennitario, che rimarrebbe intatto nella sostanza, salvo essere posticipato, alla definizione del giudizio presupposto, così imponendo alla parte una correttezza di comportamento in linea con l’esigenza generale di economia processuale.

Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il giudice a quo riferisce che la ricorrente del giudizio principale, lavoratrice dipendente di un imprenditore individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di lavoro per ottenere il pagamento di alcune differenze retributive. Interrottosi il giudizio a causa del fallimento del convenuto, in data 27 marzo 1997 aveva chiesto ed ottenuto di essere ammessa al passivo fallimentare. Ricevuti dei pagamenti parziali ed ancora creditrice del residuo, con ricorso depositato il 19 dicembre 2012 aveva adito la Corte d’appello rimettente, chiedendo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – cosiddetta legge Pinto – l’indennizzo del danno non patrimoniale da eccessiva durata della procedura concorsuale, sebbene quest’ultima, come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare, fosse ancora pendente.
Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge Pinto – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 – precluderebbe la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.
Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un processo che si è concluso e non a chi si dolga dell’eccessiva durata di quello che non si è ancora concluso – nonostante nel secondo caso la lesione appaia più grave – anche quando sia già maturato un notevole ritardo e con riferimento ad un diritto primario quale quello alla retribuzione lavorativa.
Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto il diritto di agire per l’equa riparazione costituirebbe ormai una forma di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del cosiddetto processo presupposto.
Il rimettente, infine, ritiene che la versione dell’art. 4 della legge Pinto applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio principale violi l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Il rimedio interno previsto dalla legge Pinto dovrebbe essere dotato del carattere dell’effettività e consentire la massima conformazione possibile del giudice nazionale alla CEDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Così non sarebbe per effetto della norma censurata, che configurerebbe solo in apparenza un adempimento al vincolo convenzionale, impedendo l’esperibilità del rimedio in relazione ai processi presupposti non ancora definiti ma già di durata irragionevole.
È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, secondo il quale la questione sarebbe inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del rimettente, che non avrebbe fornito nessuna concreta indicazione sullo stato attuale della procedura fallimentare, impedendo di ritenere la sicura applicabilità della norma censurata.
Inoltre, ad avviso dell’intervenuto, la pretesa indennitaria vantata dalla ricorrente nel giudizio principale, quantificata in euro 8.000,00 a fronte dell’ammissione al passivo fallimentare per euro 6.878,47, sarebbe inaccoglibile alla stregua dell’art. 2-bis, comma 3, della legge Pinto, secondo cui la misura dell’indennizzo non può mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice, con riverbero sulla rilevanza della questione sollevata.
Nel merito, secondo il Presidente del Consiglio la questione sarebbe infondata.
La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell’ambito di un più ampio intervento normativo finalizzato ad accelerare la procedura per ottenere l’indennizzo dovuto per l’eccessiva durata dei processi, nell’intento di rendere effettivi i principi di cui agli artt. 24 e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e di ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre, mirerebbe a ridurre il contenzioso davanti alla Corte EDU per l’eccessiva durata dei processi e per il ritardo nel pagamento degli indennizzi accordati.
Secondo l’intervenuto, l’art. 4 della legge Pinto, nella sua originaria formulazione, consentendo la proponibilità della domanda di equa riparazione in pendenza del processo presupposto, comportava la difficoltà pratica di determinare la maturazione del diritto ed il frazionamento della pretesa, con onerose conseguenze per il bilancio dello Stato. La sua sostituzione ad opera dell’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012, accompagnata all’adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla previsione di criteri corrispondenti a quelli enunciati dalla giurisprudenza nazionale e della Corte EDU quanto a durata ragionevole e misura dell’indennizzo, non precluderebbe il soddisfacimento del diritto, ma solo il suo differimento, giustificato alla stregua delle esigenze menzionate, evitando un inutile dispendio di risorse pubbliche attraverso la deflazione del contenzioso ed assicurando al contempo il buon andamento dell’amministrazione della giustizia.
2.– Prima di affrontare l’esame della questione proposta e delle eccezioni sollevate dalla difesa erariale, è opportuno dar conto, seppur sinteticamente, della genesi della legge Pinto, intervenuta in un contesto di riconoscimento del bene costituzionale della ragionevole durata del processo, «che, già implicito nell’art. 24 Cost., è ora oggetto di specifica enunciazione nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., sulla scia dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (ordinanza n. 305 del 2001).
Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89 del 2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall’art. 35 della CEDU – secondo cui: «la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne […]» – e su cui si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo. Da detto principio di sussidiarietà deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la Convenzione di garantire agli individui la tutela dei diritti da essa riconosciuti in modo «effettivo» (ai sensi dell’art. 13 della CEDU), ossia tale da porre rimedio alla doglianza, senza la necessità di adire la Corte EDU. Prima della legge n. 89 del 2001 non esisteva nell’ordinamento italiano un rimedio interno, con la conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per la violazione dell’art. 6 della CEDU venivano indirizzati direttamente alla Corte di Strasburgo, sovraccaricandone il ruolo. A fronte di simile situazione, la Corte EDU rilevava come le inadempienze dell’Italia riflettessero una situazione perdurante, «alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione» (sentenze 28 luglio 1999, Bottazzi contro Italia, Di Mauro contro Italia, Ferrari contro Italia ed A.P. contro Italia).
L’originario tessuto normativo della legge n. 89 del 2001 ha subito significative modifiche – appresso meglio precisate – ad opera dell’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012.
In particolare, l’art. 4 della legge Pinto è stato sostituito dalla norma impugnata.
La disposizione originaria prevedeva che: «La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui àmbito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva».
A seguito della sostituzione, l’art. 4 della legge Pinto stabilisce che: «La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva».
Il nuovo testo, sul piano puramente letterale, non esclude espressamente la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del processo presupposto.
Alla esclusione tuttavia si perviene attraverso un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore, come emerge: a) dal fatto che la nuova versione differisce dalla previgente unicamente per l’espunzione dell’inciso che consentiva la proponibilità «durante la pendenza», altrimenti inspiegabile; b) dalla lettura della disposizione unitamente all’art. 3 della legge Pinto, che al comma 1 prevede che «La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata. […]» ed al comma 3, lettera c), dispone che: «Unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti: […] il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili» – previsioni, queste, che non avrebbero senso ove dovesse continuarsi ad ammettere la proponibilità della domanda nel corso del processo presupposto; c) dal condizionamento di an e quantum del diritto all’indennizzo (tale qualificato dalla legge medesima) alla definizione del giudizio, come meglio verrà precisato; d) dall’obbiettivo dichiarato nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 83 del 2012 di ridurre il carico gravante sulle corti d’appello rappresentato dai ricorsi per equa riparazione; e) dai lavori preparatori della legge di conversione.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve ritenere che la norma censurata precluda la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata.
3.– Tanto premesso, sono infondate le eccezioni d’inammissibilità sollevate dalla difesa erariale.
In primo luogo, essa deduce l’insufficiente descrizione della fattispecie da parte del rimettente, che non avrebbe fornito nessuna concreta indicazione sullo stato attuale della procedura fallimentare, impedendo di ritenere senz’altro applicabile la norma censurata.
La circostanza è chiaramente smentita dall’ordinanza di rimessione, in cui il giudice a quo riferisce espressamente che la domanda di equa riparazione – cui, ratione temporis, deve essere applicata la norma impugnata – è stata proposta quando la procedura concorsuale era ancora pendente, come certificato dalla cancelleria del tribunale fallimentare.
In secondo luogo, il Presidente del Consiglio assume che la domanda avanzata nel giudizio principale non potrebbe essere accolta in ragione dell’art. 2-bis, comma 3, della legge Pinto, secondo cui la misura dell’indennizzo non può mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice. Ciò in quanto la ricorrente ha quantificato l’indennizzo richiesto in euro 8.000,00 a fronte di un credito ammesso al passivo fallimentare solo per l’ammontare di euro 6.878,47.
L’eccezione deve essere respinta, atteso che il ricorso ben potrebbe essere accolto per il minore importo rispetto a quello domandato, come peraltro è implicitamente previsto dall’art. 3, comma 6, della legge Pinto, laddove consente l’opposizione nel caso di accoglimento parziale.
4.– Nondimeno, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU – è inammissibile per due ordini di ragioni, inscindibilmente connessi. Infatti, l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non è possibile, sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perché la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo.
4.1.– Per dar conto di tali ragioni di inammissibilità occorre preliminarmente descrivere, seppur sinteticamente, il complesso delle modifiche apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 alla legge n. 89 del 2001.
Alcune di esse hanno riguardato il procedimento attraverso il quale riconoscere l’equa riparazione per l’irragionevole durata e, mantenendo la competenza della corte d’appello in unico grado di merito, ora in composizione monocratica, prevedono che la domanda venga proposta e decisa su base documentale, secondo un meccanismo simile a quello del procedimento per decreto ingiuntivo (art. 3 della legge Pinto, come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera c, del d.l. n. 83 del 2012). L’instaurazione del contraddittorio è posticipata alla successiva ed eventuale fase di opposizione, proposta dall’amministrazione o dal ricorrente insoddisfatto (in tutto o in parte) della pronuncia, da svolgersi davanti alla corte d’appello in composizione collegiale secondo le forme semplificate del procedimento camerale (art. 5-ter della legge Pinto, come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera f, del d.l. n. 83 del 2012). Il ricorso ad un procedimento di tipo monitorio è reso possibile dal fatto che la nuova normativa, rifacendosi in gran parte all’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e della Corte di cassazione, indica anche i termini entro i quali la durata del processo non può essere dichiarata irragionevole (art. 2, commi da 2-bis a 2-quater, della legge Pinto, come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 83 del 2012) e la misura dell’indennizzo per anno o frazione di anno superiore a sei mesi eccedente il termine di ragionevole durata (art. 2-bis, comma 1, della legge Pinto, come aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera b, del d.l. n. 83 del 2012).
Ulteriori modifiche apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 alla legge n. 89 del 2001 hanno dato rilievo normativo ad una serie di circostanze incidenti sull’an (art. 2) e sul quantum (art. 2-bis) dell’indennizzo.
In particolare, l’art. 2, comma 2-ter, della legge Pinto considera comunque rispettato il termine ragionevole di durata se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. È evidente che la norma in questione presuppone la conclusione del processo, solo all’esito potendosene constatare la durata complessiva.
Similmente, postulano la definizione del giudizio le ipotesi di esclusione dell’indennizzo contemplate dal medesimo art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) (a favore della parte condannata per cosiddetta “lite temeraria” a norma dell’art. 96 cod. proc. civ.), b) (nel caso di accoglimento della domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa: art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ.), c) (nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta nella mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali: art. 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali») e d) (nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte).
Infine, in ordine alla determinazione della misura dell’indennizzo, l’art. 2-bis, comma 2, lettera a), della legge Pinto impone di tenere conto dell’esito del processo, mentre il successivo comma 3 esclude che detta misura possa eccedere il valore della causa o quello del diritto accertato dal giudice, se inferiore al primo. Evidentemente, questi criteri possono operare solo a seguito della conclusione del procedimento presupposto.
Condizionando l’an ed il quantum dell’indennizzo, l’art. 2 e l’art. 2-bis della legge Pinto – rispettivamente modificato ed introdotto dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 – finiscono per conformare in modo peculiare il diritto all’equa riparazione, riconoscendolo solo all’esito, e non anche in pendenza, del processo presupposto.
Nel descritto contesto normativo i meccanismi indennitari introdotti dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 prevedono condizioni irrealizzabili con riguardo alla fattispecie di cui si vorrebbe parificare la disciplina.
Quanto considerato preclude l’intervento additivo richiesto.
In ogni caso, peraltro, esso non sarebbe “a rime obbligate” in ragione della pluralità di soluzioni normative configurabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo.
Occorre rammentare che «A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, questa Corte ha costantemente ritenuto che “le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”» (sentenza n. 264 del 2012).
Ha chiarito la Corte EDU che «l’articolo 6 § 1 impone agli Stati contraenti l’obbligo di organizzare i propri sistemi giudiziari in modo tale che i loro giudici possano soddisfare ciascuno dei suoi requisiti, compreso l’obbligo di trattare i casi in un tempo ragionevole […]. Laddove il sistema giudiziario è carente in questo senso, la soluzione più efficace è quella di un mezzo di ricorso inteso a snellire il procedimento per evitare che questo diventi eccessivamente lungo. Un tale mezzo di ricorso offre un innegabile vantaggio rispetto ad un mezzo di ricorso che fornisca solo un indennizzo, in quanto evita anche di constatare violazioni successive rispetto al medesimo tipo di procedimento e non ripara meramente la violazione a posteriori come fa, ad esempio, il tipo di mezzo di ricorso risarcitorio previsto dalla legge italiana. […] Appare inoltre chiaro che per i paesi dove esistono già violazioni legate alla durata del procedimento, un mezzo di ricorso inteso ad accelerare il procedimento, per quanto auspicabile per l’avvenire, potrebbe non essere adeguato a riparare una situazione in cui il procedimento stesso è già stato palesemente troppo lungo. […] Diversi tipi di mezzo di ricorso possono riparare la violazione in modo adeguato. […] Inoltre, taluni Stati […] hanno compreso la situazione perfettamente, decidendo di combinare due tipi di mezzo di ricorso, uno volto a snellire il procedimento e l’altro a fornire un indennizzo […]. Tuttavia, gli Stati possono anche scegliere di introdurre solo dei mezzi di ricorso risarcitori, così come ha fatto l’Italia, senza che tale mezzo di ricorso non sia considerato effettivo» (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia).
Sempre secondo la Corte EDU, «Quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un rimedio risarcitorio, la Corte deve lasciare allo Stato un margine di valutazione più ampio per consentirgli di organizzare il rimedio in un modo coerente con il proprio ordinamento giuridico […]» e «[…] può effettivamente avvenire che le regole di procedura applicabili non siano esattamente le stesse di quelle relative alle richieste ordinarie di risarcimento danni. Sta ad ogni Stato decidere, sulla base delle norme applicabili nel proprio sistema giudiziario, quale sia la procedura che rispetti al meglio il carattere obbligatorio di “effettività” […]» (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia).
Dunque, la Convenzione accorda allo Stato aderente ampia discrezionalità nella scelta del tipo di rimedio interno tra i molteplici ipotizzabili, ma nel caso in cui opti per quello risarcitorio, detta discrezionalità incontra il limite dell’effettività, che deriva dalla natura obbligatoria dell’art. 13 CEDU (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella contro Italia), secondo il quale: «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale […]».
È specificamente sotto tale profilo – peraltro oggetto di censura da parte del rimettente – che il rimedio interno, come attualmente disciplinato dalla legge Pinto, risulta carente. La Corte EDU, infatti, ha ritenuto che il differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività e lo renda incompatibile con i requisiti al riguardo richiesti dalla Convenzione (sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia).
Il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia (sentenza n. 279 del 2013).

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI