S. 190/2010 del 26/05/2010 depositata il 28/05/2010
Camera di Consiglio del 12/05/2010, Presidente: AMIRANTE, Redattore: SILVESTRI
Oggetto: Ordinamento penitenziario - Detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione - Reclamo avverso il procedimento applicativo - Possibilità per il detenuto o l'internato e il difensore di proporre utilmente reclamo avverso il Tribunale di sorveglianza per difetto di congruità del contenuto del provvedimento del Ministro della giustizia di applicazione o di proroga del regime detentivo speciale - Preclusione.
Ordinamento penitenziario - Detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione - Limitazione della permanenza all'aperto ad una durata non superiore a due ore al giorno
Dispositivo: inammissibilità
Sentenza 190/2010
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente AMIRANTE - Redattore SILVESTRI
Camera di Consiglio del 12/05/2010 Decisione del 26/05/2010
Deposito del 28/05/2010 Pubblicazione in G. U. 03/06/2010
Norme impugnate: Art. 41 bis, c. 2° quater, lett. f), quinques e sexies, della legge 26/07/1975, n. 354, come modificati dall'art. 2, c. 25°, lett. f), g) ed h), della legge 15/07/2009, n. 94.
Massime: 34692 34693
Titoli:
Atti decisi: ord. 313/2009
SENTENZA N. 190
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quater, lettera f), 2-quinquies e 2-sexies della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Roma con ordinanza del 6 ottobre 2009, iscritta al numero 313 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 6 ottobre 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 13, secondo comma, 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quinquies e 2-sexies, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente la presentazione di un reclamo, per difetto di congruità del contenuto, avverso il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali adottato a norma del comma 2 dello stesso art. 41-bis.
Con il medesimo provvedimento, il Tribunale ha sollevato ulteriore questione di legittimità costituzionale con riguardo all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975 – per l’asserito contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost. – nella parte in cui limita ad un massimo di due ore al giorno la permanenza all’aperto dei detenuti ed internati nei cui confronti sia stato adottato il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali di cui al comma 2 dello stesso art. 41-bis.
1.1. – Il giudice a quo esamina, in apertura dell’ordinanza di rimessione, le modifiche recate all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario dall’art. 2, comma 25, lettere f), g) ed h) della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).
Si ricorda anzitutto che, prima della riforma, il comma 2-sexies della disposizione novellata prevedeva la possibilità di presentare reclamo, contro il decreto ministeriale di sospensione delle regole trattamentali, sia riguardo alla «sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento», sia riguardo alla «congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2». Con il recente intervento legislativo, la seconda delle espressioni citate è stata espunta dal testo della norma censurata.
La novella è posta dal rimettente in relazione ad un’altra modifica attuata con la legge n. 94 del 2009, che concerne l’alinea del comma 2-quater dello stesso art. 41-bis. In precedenza tale disposizione, elencando una serie di restrizioni per la vita intramuraria degli interessati, stabiliva che le stesse «potessero» essere disposte con il provvedimento applicativo del regime speciale di detenzione. Dopo la riforma, è stabilito che il provvedimento ministeriale «preveda» le restrizioni medesime.
Il rimettente ricorda, infine, che la riforma ha inciso anche sulla lettera f) del comma 2-quater, riducendo da quattro a due ore la durata massima della permanenza all’aperto: una restrizione che costituisce, a sua volta, l’oggetto delle prescrizioni che devono essere impartite con il decreto di sospensione delle regole trattamentali.
1.2. – Il giudizio principale è stato introdotto, secondo quanto riferito dal Tribunale, dal reclamo proposto da un detenuto contro il provvedimento a carattere generale mediante il quale il Ministro della giustizia, in data 6 agosto 2009, ha inteso dare attuazione alla recente riforma dell’art. 41-bis. Detto provvedimento ha disposto la sostituzione del paragrafo concernente, in ciascuno dei decreti applicativi del regime speciale in corso di esecuzione, i limiti per la permanenza all’aperto degli interessati, riducendo tale permanenza ad un massimo di due ore giornaliere, «di cui una nelle sale di biblioteca, palestra, ecc.».
Il reclamante, seguendo lo schema dell’impugnazione in punto di congruità del provvedimento ministeriale, ha sostenuto l’inconferenza di un trattamento tanto severo rispetto alle finalità proprie del regime speciale, ed ha sollecitato l’applicazione nei suoi confronti della regola ordinaria di permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno: applicazione che il Tribunale adito dovrebbe disporre dopo aver sottoposto alla Corte costituzionale questione di legittimità in ordine alla nuova disciplina della materia.
Il giudice a quo, muovendo dai rilievi del reclamante, assume in primo luogo che la riduzione delle ore di permanenza all’aperto sarebbe imposta dalla legge a prescindere dall’effettiva ricorrenza di esigenze di contenimento della pericolosità, e potrebbe risultare rischiosa per la salute degli interessati. In secondo luogo, il rimettente osserva come il Ministro della giustizia abbia fatto uso, nella specie, del proprio potere discrezionale, diminuendo da due ad una le ore di permanenza all’aperto dei detenuti in regime speciale (non potendosi considerare, allo scopo, l’ora da trascorrere in biblioteca od in palestra). Nondimeno, la riforma del 2009 avrebbe escluso l’ammissibilità di reclami in punto di congruenza delle prescrizioni adottate con il provvedimento applicativo del regime speciale.
Proprio l’ultimo rilievo induce il Tribunale a verificare la propria «competenza» in merito alla domanda proposta dal reclamante. L’esplicita soppressione del sindacato di «congruità» avrebbe espunto dalla norma censurata, infatti, anche un criterio espresso di identificazione del giudice competente a provvedere sui relativi reclami. Il rimettente richiama tuttavia la giurisprudenza costituzionale che, ancor prima della previsione nell’art. 41-bis di uno specifico procedimento di reclamo, aveva riconosciuto la sindacabilità delle scelte concernenti specifici aspetti del regime speciale, attribuendo in linea generale, al tribunale di sorveglianza, la funzione di controllo sui provvedimenti applicativi del Ministro (sono citate le sentenze n. 349 del 1993, n. 410 del 1993 e n. 351 del 1996).
Dal punto di vista territoriale, la competenza spetterebbe al Tribunale di Roma in forza di un’ulteriore modifica dell’art. 41-bis (nuovo testo del comma 2-quinquies), che individua appunto nel citato Tribunale il giudice competente per i reclami proposti avverso il «procedimento applicativo» della sospensione del trattamento.
Proseguendo la propria analisi in punto di rilevanza, il rimettente osserva che, per quanto rivolto al giudice competente, il reclamo dovrebbe essere dichiarato inammissibile, in quanto non più previsto dalla legge quale strumento per sindacare il contenuto, e non i presupposti, del provvedimento ministeriale. Proprio per tale ragione, tuttavia, sarebbe rilevante (oltre che non manifestamente infondata) la prima delle questioni proposte: se fosse reintrodotto il sindacato giudiziale a proposito delle specifiche disposizioni limitative adottate dal Ministro, il Tribunale sarebbe legittimato sia ad annullare parzialmente il provvedimento in corso di esecuzione, elevando le ore di permanenza all’aperto fino all’attuale limite massimo, sia ad eccepire («così come fa») in merito alla legittimità costituzionale della disposizione che ha ridotto della metà il numero delle ore all’aperto rispetto al testo previgente dello stesso art. 41-bis.
Nel caso di specie, la limitazione in esame colpirebbe un soggetto la cui pericolosità è adeguatamente contenuta da altre prescrizioni, non varrebbe in alcun modo a diminuire i rischi di illecita comunicazione con l’esterno, e risulterebbe nel contempo pericolosa per la salute (oltre che per la dignità) dell’interessato, anche in ragione dell’età relativamente avanzata (67 anni). Il Tribunale dunque, ove la prima questione sollevata fosse accolta, provvederebbe ad estendere fino al massimo legale di due ore la permanenza all’aperto del reclamante, ore che sarebbero portate fino a quattro se trovasse accoglimento anche la seconda questione.
1.3. – Prima di illustrare le ragioni dell’asserito contrasto con i parametri costituzionali evocati, il giudice a quo verifica ulteriormente il fondamento della propria lettura del quadro normativo, ed esclude che le norme censurate siano suscettibili di una interpretazione adeguatrice.
Il reclamo contro i contenuti del provvedimento ministeriale, già introdotto dalla giurisprudenza costituzionale nel silenzio del diritto positivo allora vigente, era stato formalmente regolato dal legislatore con la penultima riforma dell’art. 41-bis, attuata mediante la legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario). In particolare, nel comma 2-sexies della norma, al fianco di un riferimento al reclamo concernente i presupposti applicativi del regime speciale, era stato previsto un reclamo in merito alla «congruità del contenuto» del provvedimento, avuto riguardo alle «esigenze di cui al comma 2».
Con la soppressione di tale inciso, il legislatore del 2009 avrebbe espresso chiaramente la volontà di eliminare il sindacato giudiziale sulle specifiche restrizioni, scelta che del resto sarebbe congrua rispetto alla concomitante riduzione della discrezionalità accordata, in proposito, allo stesso Ministro della giustizia (in tal senso è decisiva, a parere del Tribunale, la sostituzione della parola «prevede» alle parole «può comportare» nell’alinea del comma 2-quater).
Un tentativo di recuperare margini di controllo giudiziale attraverso una estensione del concetto di «presupposti», tale da comprendere le circostanze che la stessa legge riferiva in precedenza ai «contenuti» del provvedimento applicativo, contrasterebbe, secondo il rimettente, con la lettera della legge, con il criterio storico-evolutivo dell’interpretazione, con la volontà manifesta del legislatore.
1.4. – Il fondamento della questione di legittimità costituzionale concernente l’ammissibilità del reclamo è illustrato, nell’ordinanza di rimessione, a partire dalla giurisprudenza costituzionale che si era sviluppata prima della già citata riforma del 2002. In un quadro che non conteneva riferimenti espressi al sindacato giudiziale sul provvedimento di cui all’art. 41-bis, la Corte costituzionale aveva dapprima considerato ammissibile un reclamo concernente i «presupposti» del decreto ministeriale (sentenza n. 410 del 1993), e quindi rilevato la necessità di un controllo sui «contenuti» del medesimo provvedimento, «vuoi sotto il profilo della eventuale lesione di situazioni non comprimibili, vuoi sotto quello della congruità delle misure in concreto disposte rispetto ai fini per i quali la legge consente all’amministrazione di disporre un regime derogatorio rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 351 del 1996).
È vero – prosegue il rimettente – che nella seconda delle pronunce richiamate era stato instaurato un diretto collegamento tra la natura discrezionale delle scelte amministrative e la riconosciuta ammissibilità del reclamo. Tuttavia la Corte aveva lasciato impregiudicata la possibilità che il gravame fosse proposto, anche con riguardo a contenuti vincolati, proprio allo scopo di sollevare questioni circa la legittimità costituzionale delle norme limitative. D’altro canto, la riforma del 2009 non avrebbe del tutto escluso apprezzamenti discrezionali sulle prescrizioni da imporre con il provvedimento applicativo del regime speciale. In tal senso sono richiamate la lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis (che contempla in via generale «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna»), e comunque la censurata lettera f) della medesima disposizione, che indica il solo limite massimo delle ore di permanenza all’aperto per gli interessati.
Varrebbero dunque ancor oggi le esigenze di «adeguamento» che la giurisprudenza costituzionale richiamata, nel silenzio della legge, aveva potuto assicurare in via interpretativa, e che invece, nell’attuale quadro normativo, potrebbero trovare tutela solo grazie ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
In particolare, l’attuale disciplina contrasterebbe con il secondo comma dell’art. 13 Cost., in quanto consentirebbe incisivi provvedimenti dell’Amministrazione sulla libertà personale dei cittadini senza alcuna forma di controllo giudiziale. Sarebbe vulnerato, inoltre, il principio enunciato dal primo comma dell’art. 24 Cost., non essendo riconosciuto agli interessati il mezzo per agire in giudizio a tutela dei propri diritti. Per ragioni analoghe la nuova disciplina del reclamo contrasterebbe con il primo comma dell’art. 113 Cost., non essendo apprestata alcuna forma di tutela nei confronti di comportamenti dell’Amministrazione lesivi dei diritti del detenuto. Sarebbe violato, infine, il secondo comma del citato art. 113, poiché le norme censurate «limitano a un particolare mezzo di impugnazione, cioè il reclamo sulla sussistenza dei presupposti, la tutela giurisdizionale contro il provvedimento del Ministro».
1.5. – Anche le censure mosse alla norma sulle ore di permanenza all’aperto vengono ancorate dal rimettente alla giurisprudenza costituzionale già formatasi sull’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. In particolare, con la sentenza n. 351 del 1996, la Corte aveva indicato nella disciplina del quarto comma dell’art. 14-quater (almeno due ore all’aperto per ciascun detenuto, salva la riduzione ad un’ora in casi eccezionali) il riferimento normativo utile a dare concretezza al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, e dunque alla prescrizione contenuta nel terzo comma dell’art. 27 Cost.
Secondo il Tribunale, la scelta compiuta dal legislatore del 2002 per i detenuti assoggettati al regime speciale (non più di quattro ore all’aperto) poteva considerarsi compatibile con l’insegnamento della Consulta. Altrettanto non potrebbe dirsi, invece, per il testo vigente della norma considerata, che ha indicato per i detenuti in questione un limite massimo coincidente con il limite minimo previsto per tutte le altre persone ristrette in ambiente carcerario.
È prospettata anche una violazione dell’art. 3 Cost., perché la disparità di trattamento tra soggetti in regime speciale e detenuti a regime ordinario non sarebbe giustificabile in rapporto alle esigenze di tutela che sottendono all’intera costruzione dell’art. 41-bis. In particolare, il rimettente ritiene che i rischi di contatto con l’esterno dei detenuti particolarmente pericolosi non possano essere ridotti attraverso la diminuzione del numero di ore che si consente loro di trascorrere all’aria aperta.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 26 gennaio 2010, chiedendo che sia dichiarata la manifesta infondatezza delle questioni sollevate.
Riguardo al reclamo concernente i contenuti del provvedimento sospensivo, l’Avvocatura osserva anzitutto che tale provvedimento, secondo la giurisprudenza richiamata dallo stesso rimettente, attiene alle modalità esecutive di una pena detentiva irrogata dall’autorità giudiziaria, e non assume l’autonoma veste di provvedimento restrittivo della libertà personale, di talché sarebbe privo di pertinenza il richiamo all’art. 13 Cost.
Per quanto attiene alla denunciata violazione degli artt. 24 e 113 Cost., il Tribunale di sorveglianza avrebbe preso le mosse da un’errata ricostruzione del quadro normativo. L’eliminazione del riferimento alla «congruità di contenuto» del provvedimento sospensivo non comporta infatti – secondo la difesa erariale – che l’interessato non possa denunciare vizi di legittimità del provvedimento stesso, contestando la «sua rispondenza anche nel contenuto al dettato normativo». In particolare, il reclamo potrebbe ancora avere ad oggetto limitazioni non consentite dal comma 2-quater dell’art. 41-bis, norma del resto caratterizzata, ormai, da regole predeterminate circa le prescrizioni da impartirsi con il provvedimento applicativo.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., per la discriminazione tra detenuti in ordine al numero delle ore spendibili all’aperto, l’Avvocatura dello Stato ritiene che le differenze di trattamento siano legittimate dalla pericolosità dei soggetti interessati dal regime speciale. Si osserva, inoltre, anche in riferimento al divieto di trattamenti disumani o degradanti, che il limite posto dalla norma censurata non è inferiore al minimo che viene riconosciuto agli stessi detenuti comuni, i quali anzi, per motivi eccezionali, possono subire a loro volta la riduzione ad un’ora del tempo da trascorrere all’aperto (art. 10 dell’ordinamento penitenziario). In sostanza, la legge non farebbe che riconoscere la ricorrenza delle stesse pressanti esigenze di cautela per soggetti la cui pericolosità sia tale da indurre la sospensione delle regole trattamentali.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 6 ottobre 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quinquies e 2-sexies, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente la presentazione di un reclamo, per difetto di congruità del contenuto, avverso il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali adottato a norma del comma 2 dello stesso art. 41-bis.
La normativa censurata – il cui testo è frutto delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 25, lettere g) ed h) della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – contrasterebbe anzitutto con il secondo comma dell’art. 13 della Costituzione, escludendo ogni forma di controllo giudiziale su provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria che incidono sulla libertà personale. I soggetti interessati, per la stessa ragione, sarebbero privi di mezzi per agire in giudizio a tutela dei propri diritti, in particolare riguardo ad atti lesivi della pubblica amministrazione, con diretta violazione del primo comma dell’art. 24 e del primo comma dell’art. 113 Cost. Di quest’ultima norma sarebbe violato anche il secondo comma, poiché le norme censurate «limitano a un particolare mezzo di impugnazione, cioè il reclamo sulla sussistenza dei presupposti, la tutela giurisdizionale contro il provvedimento del Ministro».
1.1. – Con lo stesso provvedimento citato in apertura, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato un’ulteriore questione di legittimità costituzionale, avuto riguardo all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui limita ad un massimo di due ore al giorno la permanenza all’aperto dei detenuti ed internati nei cui confronti sia stato adottato il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali di cui al comma 2 dello stesso art. 41-bis.
La norma censurata – il cui testo è frutto delle modifiche recate dall’art. 1, comma 25, lettera f), n. 3, della legge n. 94 del 2009 – violerebbe il divieto di trattamenti sanzionatori contrari al senso di umanità, sancito dal terzo comma dell’art. 27 Cost. Per altro verso, la discriminazione introdotta tra detenuti soggetti al regime speciale ed altri detenuti sarebbe ingiustificata, e dunque illegittima nella prospettiva dell’art. 3 Cost., perché priva di funzionalità rispetto alla ratio essenziale del regime in questione, cioè la limitazione dei «contatti con l’esterno» di soggetti particolarmente pericolosi.
2. – La prima delle questioni sollevate è inammissibile.
2.1. – La censura relativa all’asserita cancellazione di ogni controllo di legalità sul contenuto del provvedimento ministeriale applicativo delle prescrizioni dettate dall’art. 41-bis, comma 2-quater, della legge n. 354 del 1975, nel testo modificato dalla legge n. 94 del 2009, è frutto di una mancata ricostruzione sistematica del quadro normativo vigente. Da una siffatta ricostruzione il rimettente avrebbe potuto trarre elementi per pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tale da escludere il dubbio di legittimità proposto nell’atto introduttivo del presente giudizio. Viceversa, il giudice a quo è giunto a conclusioni negative, circa la possibilità di una interpretazione adeguatrice, perché si è fermato alla considerazione della sola disposizione censurata, isolandola dal contesto dell’ordinamento penitenziario, quale risulta dalle modificazioni normative succedutesi negli anni, anche in seguito alle pronunce di questa Corte.
2.2. – La reclamabilità dei provvedimenti adottati nei confronti dei detenuti – con il conseguente potere del giudice di sorveglianza di disapplicare, in tutto o in parte, il provvedimento impugnato – è stata affermata in passato dalla giurisprudenza costituzionale, sia in generale sia con riferimento all’art. 41-bis, anche in assenza di una espressa disposizione legislativa che prevedesse uno specifico diritto di reclamo. Questa Corte ha infatti statuito: «una volta affermato che nei confronti dell’amministrazione penitenziaria i detenuti restano titolari di posizioni giuridiche che per la loro stretta inerenza alla persona umana sono qualificabili come diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, occorre conseguentemente riconoscere che la tutela giurisdizionale di dette posizioni, costituzionalmente necessaria ai sensi dell’art. 24 della Costituzione, non può che spettare al giudice dei diritti e cioè al giudice ordinario. Nell’attuale quadro normativo, pertanto, in assenza di disposizioni espresse, la competenza a sindacare la legittimità dei provvedimenti adottati dall’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 41-bis deve riconoscersi a quello stesso organo giurisdizionale cui è demandato il controllo sull’applicazione, da parte della medesima Amministrazione, del regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’art. 14-ter dell’ordinamento penitenziario» (sentenza n. 410 del 1993, in conformità alla sentenza n. 349 dello stesso anno).
Nelle pronunce citate, quindi, l’art. 14-ter ord. pen. era stato individuato come norma applicabile a tutti i regimi detentivi fondati su forme qualificate di pericolosità, con la conseguenza che il reclamo in esso previsto aveva assunto il carattere di rimedio generale, esperibile anche nella mancanza di specifiche disposizioni legislative per le fattispecie analoghe alla «sorveglianza particolare».
Tale orientamento ha trovato conferma e approfondimento in una successiva sentenza di questa Corte, la quale – perdurando il silenzio normativo sulla sindacabilità dei provvedimenti di applicazione del regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen. – ha affermato che «non vi è dubbio che il sindacato giurisdizionale sulle determinazioni dell’amministrazione, per esplicare pienamente la sua funzione a tutela dei diritti dei detenuti, debba estendersi non solo alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento, ma anche al rispetto dei limiti posti dalla legge e dalla Costituzione in ordine al contenuto di questo». Concludeva la pronuncia: «Eventuali misure illegittime, lesive dei diritti del detenuto, dovranno perciò essere a questi fini disattese, secondo la regola generale per cui il giudice dei diritti applica i regolamenti e gli atti dell’amministrazione solo in quanto legittimi» (sentenza n. 351 del 1996).
2.3. – Il legislatore ha recepito il principio di tutela stabilito da questa Corte ed ha inserito nella disposizione posta ad oggetto delle odierne censure – con l’art. 4 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonché modifica della competenza sui reclami in tema di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario) – un comma 2-bis, in cui si stabiliva la competenza del tribunale di sorveglianza sui reclami avverso i provvedimenti del Ministro della giustizia di sospensione, in tutto o in parte, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, delle regole ordinarie di trattamento dei detenuti. Con il successivo comma 2-sexies – inserito dall’art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di ordinamento penitenziario) – si è attribuita al tribunale di sorveglianza la competenza a decidere, in seguito a reclamo, «sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento e sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2».
Occorre mettere in rilievo che la stessa legge n. 279 del 2002 aveva inserito nell’art. 41-bis anche un comma 2-quater, contenente un elenco di misure conseguenti alla sospensione delle regole di trattamento, attribuendo al Ministro della giustizia, con l’uso del sintagma verbale «può comportare», un ambito di discrezionalità nella scelta delle misure ritenute necessarie e sufficienti per soddisfare le esigenze di sicurezza poste a fondamento del potere di sospensione. Al tribunale di sorveglianza spettava pertanto un doppio controllo, sui presupposti e sui contenuti, questi ultimi quanto alla loro «congruità» rispetto alle esigenze di sicurezza. È evidente che tale controllo sulla congruità era strettamente correlato al potere discrezionale del Ministro, da ritenersi limitato, come ogni potere discrezionale, ai mezzi necessari a perseguire le finalità previste dalla legge.
La legge n. 94 del 2009 ha apportato plurime modifiche all’art. 41-bis ord. pen., tra cui, rilevanti ai fini del presente giudizio, quella riguardante il primo capoverso del comma 2-quater e quella concernente il comma 2-sexies. Con la prima modifica, relativa all’elenco delle restrizioni concernenti vari aspetti della vita carceraria, all’espressione «può comportare» è stata sostituita l’altra «prevede»; con la seconda novella è stato soppresso, nella disciplina del reclamo contro il decreto applicativo del regime speciale, il riferimento al controllo sulla congruità di contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza.
2.4. – Il giudice rimettente ritiene che la suddetta soppressione testuale abbia fatto venir meno il controllo di legalità, da parte del tribunale di sorveglianza, sui contenuti del provvedimento di sospensione, con conseguente violazione degli artt. 13, secondo comma, 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, Cost.
Dall’esposizione che precede si desume che tale prospettazione è frutto della mancata ricostruzione sistematica del quadro normativo. Per effetto di tale omissione, il giudice a quo non ha preso in considerazione un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, basata sulla constatazione della perdurante esistenza e utilizzabilità del rimedio previsto dall’art. 14-ter ord. pen. per tutti i regimi di sorveglianza particolare, ed anzi, più in generale, quale strumento di garanzia giurisdizionale per i diritti dei detenuti (come questa Corte, in armonia con la giurisprudenza di legittimità, ha da ultimo riconosciuto con la sentenza n. 266 del 2009).
La forte riduzione della discrezionalità ministeriale nella individuazione delle misure conseguenti alla sospensione del trattamento ordinario del detenuto, con l’introduzione di un elenco di restrizioni tassativamente indicate dalla legge, ha determinato la scomparsa del riferimento testuale al controllo sulla congruità dei mezzi rispetto ai fini, ma non ha certamente eliminato il controllo di legittimità sul contenuto dell’atto, in ordine all’eventuale violazione di diritti soggettivi del detenuto. Si è ritenuto, in altre parole, che non vi fosse più necessità di una norma specifica. Resta impregiudicato, peraltro, il rimedio generale previsto dall’ordinamento penitenziario, mai abrogato e ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte applicabile, come prima si è ricordato, anche al regime di cui all’art. 41 bis.
Venuta meno la previsione speciale si riespande quella generale, senza che si determini, sul piano dei diritti dei detenuti, un vuoto di tutela come quello denunciato dal rimettente.
La questione, per i motivi esposti, è inammissibile per l’inadeguata ricostruzione del quadro normativo di riferimento (ex plurimis, ordinanze n. 220 del 2009 e n. 334 del 2007), nel cui contesto è assicurata, contrariamente a quanto assunto dal rimettente, la necessaria tutela giurisdizionale.
3. – Anche la seconda questione sollevata con l’atto introduttivo è inammissibile.
3.1. – Non risulta chiaro se il rimettente contesti in modo radicale ogni differenziazione tra detenuti in regime ordinario e detenuti in regime speciale ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., oppure lamenti l’eccessiva esiguità del numero delle ore d’aria giornaliere (due) previsto, come limite massimo, dalla norma impugnata. La prima ipotesi sembra avvalorata dall’evocazione dell’art. 3 Cost., che sarebbe violato dalla norma censurata «in quanto pone in essere una disparità di trattamento tra detenuti, non giustificabile sulla base delle esigenze proprie del regime detentivo speciale». Secondo il rimettente, in particolare, non si comprenderebbe «in alcun modo come la limitazione delle ore di permanenza all’aperto possa ridurre il rischio che il detenuto mantenga contatti con l’esterno».
Il giudice a quo si limita alle considerazioni appena citate e non spiega, quindi, per quali motivi l’estensione indeterminata delle ore di permanenza all’aperto sarebbe ininfluente sulle gravose misure logistiche e organizzative che dovrebbero essere adottate per mantenere invariato il livello di isolamento dell’interessato, a garanzia della sicurezza interna ed esterna al carcere.
Peraltro lo stesso giudice a quo, nel prosieguo dell’atto introduttivo, dopo aver evocato l’art. 27, terzo comma, Cost. a proposito del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, richiama esplicitamente la sentenza n. 351 del 1996 di questa Corte, che ha individuato, come «particolarmente pregnanti», le indicazioni fornite dal legislatore con il quarto comma dell’art. 14-quater ord. pen., vale a dire la possibilità di una permanenza all’aperto per un minimo di due ore giornaliere. Poiché la pronuncia citata, nel ritenere congruo il limite minimo delle due ore, partiva dal presupposto che fosse ragionevole una differenziazione di trattamento per ragioni di sicurezza, la seconda censura del rimettente entra in contraddizione con la prima, giacché non viene più in questione l’ablazione radicale della norma che prevede un diverso numero di ore d’aria, per violazione del principio di eguaglianza, ma la sola opzione concernente la durata della permanenza all’aperto, per asserita violazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione. Una logica siffatta potrebbe trovare conferma nel riferimento, contenuto nell’ordinanza di rimessione, alla previgente disciplina, con la quale il legislatore avrebbe «recepito l’insegnamento della Corte costituzionale», che prevedeva come limite massimo di permanenza all’aperto quello di quattro ore giornaliere.
In definitiva, non è chiaro se il rimettente chieda a questa Corte una rimozione completa della norma che prevede una diversità di trattamento dei detenuti in regime speciale – ammessa dal dictum della sentenza n. 351 del 1996, da lui stesso posta a premessa del suo ragionamento – oppure una differente quantificazione delle ore d’aria concedibili ai detenuti in questione.
Una tale ambivalenza del petitum varrebbe per sé sola a determinare l’inammissibilità della questione sollevata (ex plurimis, ordinanza n. 411 del 2007). Ove poi si ritenesse che il rimettente abbia inteso far valere la ritenuta insufficienza del numero di ore previste per la permanenza all’aperto, resterebbe invariato l’esito di inammissibilità. Una richiesta del genere, infatti, sarebbe estranea alla competenza di questa Corte, che non può sovrapporre le proprie scelte a quelle del legislatore, anche perché il limite minimo assoluto (un’ora) rimane invariato rispetto alla disciplina previgente.
È il caso di precisare, a tale ultimo proposito, che la riduzione del limite massimo di due ore decisa con i provvedimenti applicativi può essere sempre oggetto di reclamo al tribunale di sorveglianza, da parte di singoli detenuti, per violazione di un diritto soggettivo (quale, ad esempio, il diritto alla salute), nell’ambito del perdurante controllo di legalità orientato alla tutela dei diritti, di cui s’è detto nei paragrafi che precedono. Non si tratterebbe, in tali ipotesi, di un controllo sulla «congruità» del provvedimento rispetto ai fini di sicurezza, ma dell’accertamento della eventuale lesione di un diritto fondamentale – mai giustificabile, neppure per esigenze di sicurezza – da verificare caso per caso.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quater, lettera f), 2-quinquies e 2-sexies della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate – con riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 113, primo e secondo comma della Costituzione – dal Tribunale di sorveglianza di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Camera di Consiglio del 12/05/2010, Presidente: AMIRANTE, Redattore: SILVESTRI
Oggetto: Ordinamento penitenziario - Detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione - Reclamo avverso il procedimento applicativo - Possibilità per il detenuto o l'internato e il difensore di proporre utilmente reclamo avverso il Tribunale di sorveglianza per difetto di congruità del contenuto del provvedimento del Ministro della giustizia di applicazione o di proroga del regime detentivo speciale - Preclusione.
Ordinamento penitenziario - Detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione - Limitazione della permanenza all'aperto ad una durata non superiore a due ore al giorno
Dispositivo: inammissibilità
Sentenza 190/2010
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente AMIRANTE - Redattore SILVESTRI
Camera di Consiglio del 12/05/2010 Decisione del 26/05/2010
Deposito del 28/05/2010 Pubblicazione in G. U. 03/06/2010
Norme impugnate: Art. 41 bis, c. 2° quater, lett. f), quinques e sexies, della legge 26/07/1975, n. 354, come modificati dall'art. 2, c. 25°, lett. f), g) ed h), della legge 15/07/2009, n. 94.
Massime: 34692 34693
Titoli:
Atti decisi: ord. 313/2009
SENTENZA N. 190
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quater, lettera f), 2-quinquies e 2-sexies della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Roma con ordinanza del 6 ottobre 2009, iscritta al numero 313 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 6 ottobre 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 13, secondo comma, 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quinquies e 2-sexies, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente la presentazione di un reclamo, per difetto di congruità del contenuto, avverso il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali adottato a norma del comma 2 dello stesso art. 41-bis.
Con il medesimo provvedimento, il Tribunale ha sollevato ulteriore questione di legittimità costituzionale con riguardo all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975 – per l’asserito contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost. – nella parte in cui limita ad un massimo di due ore al giorno la permanenza all’aperto dei detenuti ed internati nei cui confronti sia stato adottato il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali di cui al comma 2 dello stesso art. 41-bis.
1.1. – Il giudice a quo esamina, in apertura dell’ordinanza di rimessione, le modifiche recate all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario dall’art. 2, comma 25, lettere f), g) ed h) della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).
Si ricorda anzitutto che, prima della riforma, il comma 2-sexies della disposizione novellata prevedeva la possibilità di presentare reclamo, contro il decreto ministeriale di sospensione delle regole trattamentali, sia riguardo alla «sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento», sia riguardo alla «congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2». Con il recente intervento legislativo, la seconda delle espressioni citate è stata espunta dal testo della norma censurata.
La novella è posta dal rimettente in relazione ad un’altra modifica attuata con la legge n. 94 del 2009, che concerne l’alinea del comma 2-quater dello stesso art. 41-bis. In precedenza tale disposizione, elencando una serie di restrizioni per la vita intramuraria degli interessati, stabiliva che le stesse «potessero» essere disposte con il provvedimento applicativo del regime speciale di detenzione. Dopo la riforma, è stabilito che il provvedimento ministeriale «preveda» le restrizioni medesime.
Il rimettente ricorda, infine, che la riforma ha inciso anche sulla lettera f) del comma 2-quater, riducendo da quattro a due ore la durata massima della permanenza all’aperto: una restrizione che costituisce, a sua volta, l’oggetto delle prescrizioni che devono essere impartite con il decreto di sospensione delle regole trattamentali.
1.2. – Il giudizio principale è stato introdotto, secondo quanto riferito dal Tribunale, dal reclamo proposto da un detenuto contro il provvedimento a carattere generale mediante il quale il Ministro della giustizia, in data 6 agosto 2009, ha inteso dare attuazione alla recente riforma dell’art. 41-bis. Detto provvedimento ha disposto la sostituzione del paragrafo concernente, in ciascuno dei decreti applicativi del regime speciale in corso di esecuzione, i limiti per la permanenza all’aperto degli interessati, riducendo tale permanenza ad un massimo di due ore giornaliere, «di cui una nelle sale di biblioteca, palestra, ecc.».
Il reclamante, seguendo lo schema dell’impugnazione in punto di congruità del provvedimento ministeriale, ha sostenuto l’inconferenza di un trattamento tanto severo rispetto alle finalità proprie del regime speciale, ed ha sollecitato l’applicazione nei suoi confronti della regola ordinaria di permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno: applicazione che il Tribunale adito dovrebbe disporre dopo aver sottoposto alla Corte costituzionale questione di legittimità in ordine alla nuova disciplina della materia.
Il giudice a quo, muovendo dai rilievi del reclamante, assume in primo luogo che la riduzione delle ore di permanenza all’aperto sarebbe imposta dalla legge a prescindere dall’effettiva ricorrenza di esigenze di contenimento della pericolosità, e potrebbe risultare rischiosa per la salute degli interessati. In secondo luogo, il rimettente osserva come il Ministro della giustizia abbia fatto uso, nella specie, del proprio potere discrezionale, diminuendo da due ad una le ore di permanenza all’aperto dei detenuti in regime speciale (non potendosi considerare, allo scopo, l’ora da trascorrere in biblioteca od in palestra). Nondimeno, la riforma del 2009 avrebbe escluso l’ammissibilità di reclami in punto di congruenza delle prescrizioni adottate con il provvedimento applicativo del regime speciale.
Proprio l’ultimo rilievo induce il Tribunale a verificare la propria «competenza» in merito alla domanda proposta dal reclamante. L’esplicita soppressione del sindacato di «congruità» avrebbe espunto dalla norma censurata, infatti, anche un criterio espresso di identificazione del giudice competente a provvedere sui relativi reclami. Il rimettente richiama tuttavia la giurisprudenza costituzionale che, ancor prima della previsione nell’art. 41-bis di uno specifico procedimento di reclamo, aveva riconosciuto la sindacabilità delle scelte concernenti specifici aspetti del regime speciale, attribuendo in linea generale, al tribunale di sorveglianza, la funzione di controllo sui provvedimenti applicativi del Ministro (sono citate le sentenze n. 349 del 1993, n. 410 del 1993 e n. 351 del 1996).
Dal punto di vista territoriale, la competenza spetterebbe al Tribunale di Roma in forza di un’ulteriore modifica dell’art. 41-bis (nuovo testo del comma 2-quinquies), che individua appunto nel citato Tribunale il giudice competente per i reclami proposti avverso il «procedimento applicativo» della sospensione del trattamento.
Proseguendo la propria analisi in punto di rilevanza, il rimettente osserva che, per quanto rivolto al giudice competente, il reclamo dovrebbe essere dichiarato inammissibile, in quanto non più previsto dalla legge quale strumento per sindacare il contenuto, e non i presupposti, del provvedimento ministeriale. Proprio per tale ragione, tuttavia, sarebbe rilevante (oltre che non manifestamente infondata) la prima delle questioni proposte: se fosse reintrodotto il sindacato giudiziale a proposito delle specifiche disposizioni limitative adottate dal Ministro, il Tribunale sarebbe legittimato sia ad annullare parzialmente il provvedimento in corso di esecuzione, elevando le ore di permanenza all’aperto fino all’attuale limite massimo, sia ad eccepire («così come fa») in merito alla legittimità costituzionale della disposizione che ha ridotto della metà il numero delle ore all’aperto rispetto al testo previgente dello stesso art. 41-bis.
Nel caso di specie, la limitazione in esame colpirebbe un soggetto la cui pericolosità è adeguatamente contenuta da altre prescrizioni, non varrebbe in alcun modo a diminuire i rischi di illecita comunicazione con l’esterno, e risulterebbe nel contempo pericolosa per la salute (oltre che per la dignità) dell’interessato, anche in ragione dell’età relativamente avanzata (67 anni). Il Tribunale dunque, ove la prima questione sollevata fosse accolta, provvederebbe ad estendere fino al massimo legale di due ore la permanenza all’aperto del reclamante, ore che sarebbero portate fino a quattro se trovasse accoglimento anche la seconda questione.
1.3. – Prima di illustrare le ragioni dell’asserito contrasto con i parametri costituzionali evocati, il giudice a quo verifica ulteriormente il fondamento della propria lettura del quadro normativo, ed esclude che le norme censurate siano suscettibili di una interpretazione adeguatrice.
Il reclamo contro i contenuti del provvedimento ministeriale, già introdotto dalla giurisprudenza costituzionale nel silenzio del diritto positivo allora vigente, era stato formalmente regolato dal legislatore con la penultima riforma dell’art. 41-bis, attuata mediante la legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario). In particolare, nel comma 2-sexies della norma, al fianco di un riferimento al reclamo concernente i presupposti applicativi del regime speciale, era stato previsto un reclamo in merito alla «congruità del contenuto» del provvedimento, avuto riguardo alle «esigenze di cui al comma 2».
Con la soppressione di tale inciso, il legislatore del 2009 avrebbe espresso chiaramente la volontà di eliminare il sindacato giudiziale sulle specifiche restrizioni, scelta che del resto sarebbe congrua rispetto alla concomitante riduzione della discrezionalità accordata, in proposito, allo stesso Ministro della giustizia (in tal senso è decisiva, a parere del Tribunale, la sostituzione della parola «prevede» alle parole «può comportare» nell’alinea del comma 2-quater).
Un tentativo di recuperare margini di controllo giudiziale attraverso una estensione del concetto di «presupposti», tale da comprendere le circostanze che la stessa legge riferiva in precedenza ai «contenuti» del provvedimento applicativo, contrasterebbe, secondo il rimettente, con la lettera della legge, con il criterio storico-evolutivo dell’interpretazione, con la volontà manifesta del legislatore.
1.4. – Il fondamento della questione di legittimità costituzionale concernente l’ammissibilità del reclamo è illustrato, nell’ordinanza di rimessione, a partire dalla giurisprudenza costituzionale che si era sviluppata prima della già citata riforma del 2002. In un quadro che non conteneva riferimenti espressi al sindacato giudiziale sul provvedimento di cui all’art. 41-bis, la Corte costituzionale aveva dapprima considerato ammissibile un reclamo concernente i «presupposti» del decreto ministeriale (sentenza n. 410 del 1993), e quindi rilevato la necessità di un controllo sui «contenuti» del medesimo provvedimento, «vuoi sotto il profilo della eventuale lesione di situazioni non comprimibili, vuoi sotto quello della congruità delle misure in concreto disposte rispetto ai fini per i quali la legge consente all’amministrazione di disporre un regime derogatorio rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 351 del 1996).
È vero – prosegue il rimettente – che nella seconda delle pronunce richiamate era stato instaurato un diretto collegamento tra la natura discrezionale delle scelte amministrative e la riconosciuta ammissibilità del reclamo. Tuttavia la Corte aveva lasciato impregiudicata la possibilità che il gravame fosse proposto, anche con riguardo a contenuti vincolati, proprio allo scopo di sollevare questioni circa la legittimità costituzionale delle norme limitative. D’altro canto, la riforma del 2009 non avrebbe del tutto escluso apprezzamenti discrezionali sulle prescrizioni da imporre con il provvedimento applicativo del regime speciale. In tal senso sono richiamate la lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis (che contempla in via generale «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna»), e comunque la censurata lettera f) della medesima disposizione, che indica il solo limite massimo delle ore di permanenza all’aperto per gli interessati.
Varrebbero dunque ancor oggi le esigenze di «adeguamento» che la giurisprudenza costituzionale richiamata, nel silenzio della legge, aveva potuto assicurare in via interpretativa, e che invece, nell’attuale quadro normativo, potrebbero trovare tutela solo grazie ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale.
In particolare, l’attuale disciplina contrasterebbe con il secondo comma dell’art. 13 Cost., in quanto consentirebbe incisivi provvedimenti dell’Amministrazione sulla libertà personale dei cittadini senza alcuna forma di controllo giudiziale. Sarebbe vulnerato, inoltre, il principio enunciato dal primo comma dell’art. 24 Cost., non essendo riconosciuto agli interessati il mezzo per agire in giudizio a tutela dei propri diritti. Per ragioni analoghe la nuova disciplina del reclamo contrasterebbe con il primo comma dell’art. 113 Cost., non essendo apprestata alcuna forma di tutela nei confronti di comportamenti dell’Amministrazione lesivi dei diritti del detenuto. Sarebbe violato, infine, il secondo comma del citato art. 113, poiché le norme censurate «limitano a un particolare mezzo di impugnazione, cioè il reclamo sulla sussistenza dei presupposti, la tutela giurisdizionale contro il provvedimento del Ministro».
1.5. – Anche le censure mosse alla norma sulle ore di permanenza all’aperto vengono ancorate dal rimettente alla giurisprudenza costituzionale già formatasi sull’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. In particolare, con la sentenza n. 351 del 1996, la Corte aveva indicato nella disciplina del quarto comma dell’art. 14-quater (almeno due ore all’aperto per ciascun detenuto, salva la riduzione ad un’ora in casi eccezionali) il riferimento normativo utile a dare concretezza al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, e dunque alla prescrizione contenuta nel terzo comma dell’art. 27 Cost.
Secondo il Tribunale, la scelta compiuta dal legislatore del 2002 per i detenuti assoggettati al regime speciale (non più di quattro ore all’aperto) poteva considerarsi compatibile con l’insegnamento della Consulta. Altrettanto non potrebbe dirsi, invece, per il testo vigente della norma considerata, che ha indicato per i detenuti in questione un limite massimo coincidente con il limite minimo previsto per tutte le altre persone ristrette in ambiente carcerario.
È prospettata anche una violazione dell’art. 3 Cost., perché la disparità di trattamento tra soggetti in regime speciale e detenuti a regime ordinario non sarebbe giustificabile in rapporto alle esigenze di tutela che sottendono all’intera costruzione dell’art. 41-bis. In particolare, il rimettente ritiene che i rischi di contatto con l’esterno dei detenuti particolarmente pericolosi non possano essere ridotti attraverso la diminuzione del numero di ore che si consente loro di trascorrere all’aria aperta.
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 26 gennaio 2010, chiedendo che sia dichiarata la manifesta infondatezza delle questioni sollevate.
Riguardo al reclamo concernente i contenuti del provvedimento sospensivo, l’Avvocatura osserva anzitutto che tale provvedimento, secondo la giurisprudenza richiamata dallo stesso rimettente, attiene alle modalità esecutive di una pena detentiva irrogata dall’autorità giudiziaria, e non assume l’autonoma veste di provvedimento restrittivo della libertà personale, di talché sarebbe privo di pertinenza il richiamo all’art. 13 Cost.
Per quanto attiene alla denunciata violazione degli artt. 24 e 113 Cost., il Tribunale di sorveglianza avrebbe preso le mosse da un’errata ricostruzione del quadro normativo. L’eliminazione del riferimento alla «congruità di contenuto» del provvedimento sospensivo non comporta infatti – secondo la difesa erariale – che l’interessato non possa denunciare vizi di legittimità del provvedimento stesso, contestando la «sua rispondenza anche nel contenuto al dettato normativo». In particolare, il reclamo potrebbe ancora avere ad oggetto limitazioni non consentite dal comma 2-quater dell’art. 41-bis, norma del resto caratterizzata, ormai, da regole predeterminate circa le prescrizioni da impartirsi con il provvedimento applicativo.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., per la discriminazione tra detenuti in ordine al numero delle ore spendibili all’aperto, l’Avvocatura dello Stato ritiene che le differenze di trattamento siano legittimate dalla pericolosità dei soggetti interessati dal regime speciale. Si osserva, inoltre, anche in riferimento al divieto di trattamenti disumani o degradanti, che il limite posto dalla norma censurata non è inferiore al minimo che viene riconosciuto agli stessi detenuti comuni, i quali anzi, per motivi eccezionali, possono subire a loro volta la riduzione ad un’ora del tempo da trascorrere all’aperto (art. 10 dell’ordinamento penitenziario). In sostanza, la legge non farebbe che riconoscere la ricorrenza delle stesse pressanti esigenze di cautela per soggetti la cui pericolosità sia tale da indurre la sospensione delle regole trattamentali.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di sorveglianza di Roma, con ordinanza del 6 ottobre 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quinquies e 2-sexies, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non consente la presentazione di un reclamo, per difetto di congruità del contenuto, avverso il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali adottato a norma del comma 2 dello stesso art. 41-bis.
La normativa censurata – il cui testo è frutto delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 25, lettere g) ed h) della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – contrasterebbe anzitutto con il secondo comma dell’art. 13 della Costituzione, escludendo ogni forma di controllo giudiziale su provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria che incidono sulla libertà personale. I soggetti interessati, per la stessa ragione, sarebbero privi di mezzi per agire in giudizio a tutela dei propri diritti, in particolare riguardo ad atti lesivi della pubblica amministrazione, con diretta violazione del primo comma dell’art. 24 e del primo comma dell’art. 113 Cost. Di quest’ultima norma sarebbe violato anche il secondo comma, poiché le norme censurate «limitano a un particolare mezzo di impugnazione, cioè il reclamo sulla sussistenza dei presupposti, la tutela giurisdizionale contro il provvedimento del Ministro».
1.1. – Con lo stesso provvedimento citato in apertura, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato un’ulteriore questione di legittimità costituzionale, avuto riguardo all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui limita ad un massimo di due ore al giorno la permanenza all’aperto dei detenuti ed internati nei cui confronti sia stato adottato il provvedimento di sospensione delle regole trattamentali di cui al comma 2 dello stesso art. 41-bis.
La norma censurata – il cui testo è frutto delle modifiche recate dall’art. 1, comma 25, lettera f), n. 3, della legge n. 94 del 2009 – violerebbe il divieto di trattamenti sanzionatori contrari al senso di umanità, sancito dal terzo comma dell’art. 27 Cost. Per altro verso, la discriminazione introdotta tra detenuti soggetti al regime speciale ed altri detenuti sarebbe ingiustificata, e dunque illegittima nella prospettiva dell’art. 3 Cost., perché priva di funzionalità rispetto alla ratio essenziale del regime in questione, cioè la limitazione dei «contatti con l’esterno» di soggetti particolarmente pericolosi.
2. – La prima delle questioni sollevate è inammissibile.
2.1. – La censura relativa all’asserita cancellazione di ogni controllo di legalità sul contenuto del provvedimento ministeriale applicativo delle prescrizioni dettate dall’art. 41-bis, comma 2-quater, della legge n. 354 del 1975, nel testo modificato dalla legge n. 94 del 2009, è frutto di una mancata ricostruzione sistematica del quadro normativo vigente. Da una siffatta ricostruzione il rimettente avrebbe potuto trarre elementi per pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tale da escludere il dubbio di legittimità proposto nell’atto introduttivo del presente giudizio. Viceversa, il giudice a quo è giunto a conclusioni negative, circa la possibilità di una interpretazione adeguatrice, perché si è fermato alla considerazione della sola disposizione censurata, isolandola dal contesto dell’ordinamento penitenziario, quale risulta dalle modificazioni normative succedutesi negli anni, anche in seguito alle pronunce di questa Corte.
2.2. – La reclamabilità dei provvedimenti adottati nei confronti dei detenuti – con il conseguente potere del giudice di sorveglianza di disapplicare, in tutto o in parte, il provvedimento impugnato – è stata affermata in passato dalla giurisprudenza costituzionale, sia in generale sia con riferimento all’art. 41-bis, anche in assenza di una espressa disposizione legislativa che prevedesse uno specifico diritto di reclamo. Questa Corte ha infatti statuito: «una volta affermato che nei confronti dell’amministrazione penitenziaria i detenuti restano titolari di posizioni giuridiche che per la loro stretta inerenza alla persona umana sono qualificabili come diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, occorre conseguentemente riconoscere che la tutela giurisdizionale di dette posizioni, costituzionalmente necessaria ai sensi dell’art. 24 della Costituzione, non può che spettare al giudice dei diritti e cioè al giudice ordinario. Nell’attuale quadro normativo, pertanto, in assenza di disposizioni espresse, la competenza a sindacare la legittimità dei provvedimenti adottati dall’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 41-bis deve riconoscersi a quello stesso organo giurisdizionale cui è demandato il controllo sull’applicazione, da parte della medesima Amministrazione, del regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’art. 14-ter dell’ordinamento penitenziario» (sentenza n. 410 del 1993, in conformità alla sentenza n. 349 dello stesso anno).
Nelle pronunce citate, quindi, l’art. 14-ter ord. pen. era stato individuato come norma applicabile a tutti i regimi detentivi fondati su forme qualificate di pericolosità, con la conseguenza che il reclamo in esso previsto aveva assunto il carattere di rimedio generale, esperibile anche nella mancanza di specifiche disposizioni legislative per le fattispecie analoghe alla «sorveglianza particolare».
Tale orientamento ha trovato conferma e approfondimento in una successiva sentenza di questa Corte, la quale – perdurando il silenzio normativo sulla sindacabilità dei provvedimenti di applicazione del regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. pen. – ha affermato che «non vi è dubbio che il sindacato giurisdizionale sulle determinazioni dell’amministrazione, per esplicare pienamente la sua funzione a tutela dei diritti dei detenuti, debba estendersi non solo alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento, ma anche al rispetto dei limiti posti dalla legge e dalla Costituzione in ordine al contenuto di questo». Concludeva la pronuncia: «Eventuali misure illegittime, lesive dei diritti del detenuto, dovranno perciò essere a questi fini disattese, secondo la regola generale per cui il giudice dei diritti applica i regolamenti e gli atti dell’amministrazione solo in quanto legittimi» (sentenza n. 351 del 1996).
2.3. – Il legislatore ha recepito il principio di tutela stabilito da questa Corte ed ha inserito nella disposizione posta ad oggetto delle odierne censure – con l’art. 4 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonché modifica della competenza sui reclami in tema di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario) – un comma 2-bis, in cui si stabiliva la competenza del tribunale di sorveglianza sui reclami avverso i provvedimenti del Ministro della giustizia di sospensione, in tutto o in parte, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, delle regole ordinarie di trattamento dei detenuti. Con il successivo comma 2-sexies – inserito dall’art. 2 della legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di ordinamento penitenziario) – si è attribuita al tribunale di sorveglianza la competenza a decidere, in seguito a reclamo, «sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento e sulla congruità del contenuto dello stesso rispetto alle esigenze di cui al comma 2».
Occorre mettere in rilievo che la stessa legge n. 279 del 2002 aveva inserito nell’art. 41-bis anche un comma 2-quater, contenente un elenco di misure conseguenti alla sospensione delle regole di trattamento, attribuendo al Ministro della giustizia, con l’uso del sintagma verbale «può comportare», un ambito di discrezionalità nella scelta delle misure ritenute necessarie e sufficienti per soddisfare le esigenze di sicurezza poste a fondamento del potere di sospensione. Al tribunale di sorveglianza spettava pertanto un doppio controllo, sui presupposti e sui contenuti, questi ultimi quanto alla loro «congruità» rispetto alle esigenze di sicurezza. È evidente che tale controllo sulla congruità era strettamente correlato al potere discrezionale del Ministro, da ritenersi limitato, come ogni potere discrezionale, ai mezzi necessari a perseguire le finalità previste dalla legge.
La legge n. 94 del 2009 ha apportato plurime modifiche all’art. 41-bis ord. pen., tra cui, rilevanti ai fini del presente giudizio, quella riguardante il primo capoverso del comma 2-quater e quella concernente il comma 2-sexies. Con la prima modifica, relativa all’elenco delle restrizioni concernenti vari aspetti della vita carceraria, all’espressione «può comportare» è stata sostituita l’altra «prevede»; con la seconda novella è stato soppresso, nella disciplina del reclamo contro il decreto applicativo del regime speciale, il riferimento al controllo sulla congruità di contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza.
2.4. – Il giudice rimettente ritiene che la suddetta soppressione testuale abbia fatto venir meno il controllo di legalità, da parte del tribunale di sorveglianza, sui contenuti del provvedimento di sospensione, con conseguente violazione degli artt. 13, secondo comma, 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, Cost.
Dall’esposizione che precede si desume che tale prospettazione è frutto della mancata ricostruzione sistematica del quadro normativo. Per effetto di tale omissione, il giudice a quo non ha preso in considerazione un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, basata sulla constatazione della perdurante esistenza e utilizzabilità del rimedio previsto dall’art. 14-ter ord. pen. per tutti i regimi di sorveglianza particolare, ed anzi, più in generale, quale strumento di garanzia giurisdizionale per i diritti dei detenuti (come questa Corte, in armonia con la giurisprudenza di legittimità, ha da ultimo riconosciuto con la sentenza n. 266 del 2009).
La forte riduzione della discrezionalità ministeriale nella individuazione delle misure conseguenti alla sospensione del trattamento ordinario del detenuto, con l’introduzione di un elenco di restrizioni tassativamente indicate dalla legge, ha determinato la scomparsa del riferimento testuale al controllo sulla congruità dei mezzi rispetto ai fini, ma non ha certamente eliminato il controllo di legittimità sul contenuto dell’atto, in ordine all’eventuale violazione di diritti soggettivi del detenuto. Si è ritenuto, in altre parole, che non vi fosse più necessità di una norma specifica. Resta impregiudicato, peraltro, il rimedio generale previsto dall’ordinamento penitenziario, mai abrogato e ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte applicabile, come prima si è ricordato, anche al regime di cui all’art. 41 bis.
Venuta meno la previsione speciale si riespande quella generale, senza che si determini, sul piano dei diritti dei detenuti, un vuoto di tutela come quello denunciato dal rimettente.
La questione, per i motivi esposti, è inammissibile per l’inadeguata ricostruzione del quadro normativo di riferimento (ex plurimis, ordinanze n. 220 del 2009 e n. 334 del 2007), nel cui contesto è assicurata, contrariamente a quanto assunto dal rimettente, la necessaria tutela giurisdizionale.
3. – Anche la seconda questione sollevata con l’atto introduttivo è inammissibile.
3.1. – Non risulta chiaro se il rimettente contesti in modo radicale ogni differenziazione tra detenuti in regime ordinario e detenuti in regime speciale ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., oppure lamenti l’eccessiva esiguità del numero delle ore d’aria giornaliere (due) previsto, come limite massimo, dalla norma impugnata. La prima ipotesi sembra avvalorata dall’evocazione dell’art. 3 Cost., che sarebbe violato dalla norma censurata «in quanto pone in essere una disparità di trattamento tra detenuti, non giustificabile sulla base delle esigenze proprie del regime detentivo speciale». Secondo il rimettente, in particolare, non si comprenderebbe «in alcun modo come la limitazione delle ore di permanenza all’aperto possa ridurre il rischio che il detenuto mantenga contatti con l’esterno».
Il giudice a quo si limita alle considerazioni appena citate e non spiega, quindi, per quali motivi l’estensione indeterminata delle ore di permanenza all’aperto sarebbe ininfluente sulle gravose misure logistiche e organizzative che dovrebbero essere adottate per mantenere invariato il livello di isolamento dell’interessato, a garanzia della sicurezza interna ed esterna al carcere.
Peraltro lo stesso giudice a quo, nel prosieguo dell’atto introduttivo, dopo aver evocato l’art. 27, terzo comma, Cost. a proposito del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, richiama esplicitamente la sentenza n. 351 del 1996 di questa Corte, che ha individuato, come «particolarmente pregnanti», le indicazioni fornite dal legislatore con il quarto comma dell’art. 14-quater ord. pen., vale a dire la possibilità di una permanenza all’aperto per un minimo di due ore giornaliere. Poiché la pronuncia citata, nel ritenere congruo il limite minimo delle due ore, partiva dal presupposto che fosse ragionevole una differenziazione di trattamento per ragioni di sicurezza, la seconda censura del rimettente entra in contraddizione con la prima, giacché non viene più in questione l’ablazione radicale della norma che prevede un diverso numero di ore d’aria, per violazione del principio di eguaglianza, ma la sola opzione concernente la durata della permanenza all’aperto, per asserita violazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione. Una logica siffatta potrebbe trovare conferma nel riferimento, contenuto nell’ordinanza di rimessione, alla previgente disciplina, con la quale il legislatore avrebbe «recepito l’insegnamento della Corte costituzionale», che prevedeva come limite massimo di permanenza all’aperto quello di quattro ore giornaliere.
In definitiva, non è chiaro se il rimettente chieda a questa Corte una rimozione completa della norma che prevede una diversità di trattamento dei detenuti in regime speciale – ammessa dal dictum della sentenza n. 351 del 1996, da lui stesso posta a premessa del suo ragionamento – oppure una differente quantificazione delle ore d’aria concedibili ai detenuti in questione.
Una tale ambivalenza del petitum varrebbe per sé sola a determinare l’inammissibilità della questione sollevata (ex plurimis, ordinanza n. 411 del 2007). Ove poi si ritenesse che il rimettente abbia inteso far valere la ritenuta insufficienza del numero di ore previste per la permanenza all’aperto, resterebbe invariato l’esito di inammissibilità. Una richiesta del genere, infatti, sarebbe estranea alla competenza di questa Corte, che non può sovrapporre le proprie scelte a quelle del legislatore, anche perché il limite minimo assoluto (un’ora) rimane invariato rispetto alla disciplina previgente.
È il caso di precisare, a tale ultimo proposito, che la riduzione del limite massimo di due ore decisa con i provvedimenti applicativi può essere sempre oggetto di reclamo al tribunale di sorveglianza, da parte di singoli detenuti, per violazione di un diritto soggettivo (quale, ad esempio, il diritto alla salute), nell’ambito del perdurante controllo di legalità orientato alla tutela dei diritti, di cui s’è detto nei paragrafi che precedono. Non si tratterebbe, in tali ipotesi, di un controllo sulla «congruità» del provvedimento rispetto ai fini di sicurezza, ma dell’accertamento della eventuale lesione di un diritto fondamentale – mai giustificabile, neppure per esigenze di sicurezza – da verificare caso per caso.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2-quater, lettera f), 2-quinquies e 2-sexies della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate – con riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 113, primo e secondo comma della Costituzione – dal Tribunale di sorveglianza di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA