SENTENZA N. 44
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, promossi dalle Regioni Toscana, Lazio, Puglia, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia e dalla Regione autonoma Sardegna, con ricorsi notificati il 14-18, il 14-16, il 14, il 15, il 17, il 15-17 e il 15 novembre 2011, depositati in cancelleria il 17, il 18, il 23 ed il 24 novembre 2011, e rispettivamente iscritti ai numeri 133, 134, 141, 144, 145, 146, 147, 153, 155 e 160 del registro ricorsi 2011, e nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, promossi dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania, dalla Regione autonoma Sardegna e dalla Regione Puglia, con ricorsi notificati il 12-17, il 12, il 13-17, il 12 e il 15-18 ottobre 2012, depositati in cancelleria il 16, il 17, il 18, il 19 e il 24 ottobre 2012, e rispettivamente iscritti ai numeri 145, 151, 153, 160 e 172 del registro ricorsi 2012.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2013 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Marcello Cecchetti per le Regioni Toscana e Puglia, Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Giandomenico Falcon, Franco Mastragostino e Luigi Manzi per le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria, Luigi Manzi, Daniela Palumbo e Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per le Regioni Campania e Lombardia, Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna e l’avvocato dello Stato Raffaele Tamiozzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 14-18 novembre 2011 e depositato in cancelleria il 17 novembre 2011 (reg. ric. n. 133 del 2011) la Regione Toscana ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, e, tra queste, dell’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, da 10 a 15, 16, 17, lettera a), da 19 a 21, e 28, che disciplinano l’esercizio associato delle funzioni comunali, in riferimento agli artt. 3, 97, 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo, quarto e sesto comma, 118, 119, 120, secondo comma, 133, secondo comma, della Costituzione, nonché per violazione del principio di leale collaborazione.
Il ricorso è articolato su una pluralità di questioni che hanno ad oggetto singoli commi o gruppi di essi.
La Regione, in premessa, prospetta, in termini generali, «l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15, nonché commi 16, 17, lettera a), e da 19 a 21, nella parte in cui prevede e disciplina le unioni di comuni, per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost., nonché per violazione del principio di leale collaborazione».
Successivamente, procede alla illustrazione delle singole questioni.
A) Con la prima la ricorrente censura l’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15, nonché commi 16, 17, lettera a), e commi da 19 a 21 nella parte in cui prevede una disciplina puntuale in materia di unioni di Comuni, non riconducibile nell’ambito delle competenze statali stabilite dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
B) Ad avviso della Regione Toscana, poi, l’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15, nonché commi 16, 17, lettera a), e da 19 a 21, nella parte in cui: 1) stabilisce che i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative, e non solo quelle fondamentali, mediante un’unione di Comuni, ai sensi dell’art. 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali); 2) prevede una disciplina di dettaglio che comprime i margini di autonomia dei piccoli Comuni, dando luogo, di fatto, ad una sostanziale fusione degli stessi, con conseguente modifica delle relative circoscrizioni; 3) interviene sull’ordinamento degli enti locali e, dunque, in una materia che ricade nella competenza residuale delle Regioni, si pone in contrasto con l’art. 133, secondo comma, Cost., il quale stabilisce che «La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni», anche in relazione agli artt. 114 e 117, quarto comma, Cost.
Più in particolare, la ricorrente lamenta la lesione dell’autonomia riconosciuta ai Comuni dall’art. 114 Cost., per effetto di quanto stabilito dai commi 4 e 5, i quali, in particolare: a) affidano alle unioni la programmazione economico-finanziaria e di gestione contabile; b) prevedono la successione dell’unione in tutti i rapporti giuridici in essere in capo ai Comuni; c) prevedono il trasferimento alle unioni di tutte le risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro affidati, ai sensi dei commi 1, 2 e 4, nonché dei relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio.
Nella stessa prospettiva, la Regione evidenzia che il citato comma 5 prevede, a decorrere dal 2014, l’assoggettamento delle unioni di Comuni alla disciplina del patto di stabilità interno per gli enti locali, prevista per i Comuni aventi corrispondente popolazione.
La ricorrente, inoltre, ritiene lesive dell’autonomia riconosciuta ai Comuni anche le seguenti disposizioni: a) commi da 10 a 15, i quali individuano gli organi ed il funzionamento delle unioni alla stregua di vere e proprie fusioni di Comuni (la ricorrente ne trae conferma dal fatto che il comma 14 assegna alle unioni anche l’autonomia statutaria); b) comma 8, primo periodo, che prevede un termine perentorio entro il quale i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, con deliberazione del consiglio comunale da adottare a maggioranza dei componenti, devono avanzare alla Regione una proposta di aggregazione per l’istituzione della rispettiva unione; c) comma 8, secondo e terzo periodo, ai sensi del quale la Regione provvede, entro il termine perentorio del 31 dicembre 2012, secondo il proprio ordinamento, a sancire l’istituzione di tutte le unioni del proprio territorio come determinate nelle proposte di cui al primo periodo e, qualora la proposta di aggregazione manchi o non sia conforme alle disposizioni della norma in esame, la Regione provvede comunque.
Poste tali premesse, la ricorrente afferma che le disposizioni impugnate impongono, di fatto, la fusione di piccoli Comuni e la conseguente modifica delle circoscrizioni comunali, in violazione della procedura prevista dall’art. 133, secondo comma, Cost.
Al riguardo, la Regione Toscana richiama la sentenza n. 261 del 2011 con la quale la Corte costituzionale ha chiarito che, fatta eccezione per l’ambito di competenza esclusiva statale delineato dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., l’ordinamento degli enti locali è materia di competenza regionale esclusiva che, in relazione al mutamento delle circoscrizioni comunali, trova specifico fondamento nell’art. 133, secondo comma, Cost.
Secondo la Regione, l’istituzione obbligatoria di una unione, i cui consigli comunali sono peraltro destinati ad operare in qualità di meri organi di partecipazione alla forma associativa, determina il venir meno delle prerogative tipiche dell’ente partecipante. Infatti, l’unione, dotata di propri organi, per i quali si prevede in futuro l’elezione a suffragio universale, finisce per acquisire la legittimazione democratica propria degli enti territoriali, sopprimendo di fatto i Comuni che vi partecipano. Questi, inoltre, risulterebbero sottoposti ad un regime differenziato rispetto agli altri, in violazione dell’art. 114 Cost., che prevede solo cinque forme di enti territoriali, configurati come elementi costitutivi, a pari titolo, della Repubblica.
Con particolare riferimento alla asserita violazione della potestà legislativa regionale di carattere residuale, la ricorrente osserva, testualmente, «come non è nella competenza del legislatore statale creare nuovi livelli di governo a natura obbligatoria e “sostitutivi” di quelli previsti dall’art. 114 Cost., egualmente non è nelle competenze del legislatore statale modificare la circoscrizione dei Comuni o istituirne di nuovi». Del resto, l’art. 133 Cost. «definisce un procedimento specifico, prevedendo anche l’obbligo di sottoporre a referendum delle popolazioni interessate le scelte, che poi sono rimesse alla legge regionale». Pertanto, conclude sul punto la Regione, la disciplina relativa alle unioni di Comuni (commi da 1 a 15 dell’art. 16) appare in netto contrasto col quadro costituzionale e, in particolare, con gli artt. 114, 117, quarto comma, e 133 Cost.
C) La ricorrente, poi, censura l’art. 16, comma 1, nella parte in cui, nel prevedere l’allocazione di tutte le funzioni amministrative in capo alle unioni di Comuni, anche per le materie attribuite alla potestà legislativa concorrente o residuale delle Regioni, si pone in contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost.
La Regione evidenzia che, ai sensi dell’art. 118 Cost., sulla base dei principi di differenziazione e adeguatezza, spetta al legislatore regionale prevedere forme di associazione per l’esercizio delle funzioni. Per contro, la disposizione censurata si riferisce a tutte le funzioni amministrative, comprese quelle riconducibili alle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., e «pretende di allocare tutte le funzioni amministrative che riguardano i “servizi pubblici” svolti dagli enti locali, i quali, per pacifica giurisprudenza costituzionale, rientrano nell’ambito affidato alla competenza legislativa residuale regionale» (è richiamata la sentenza n. 272 del 2004).
La legge statale, aggiunge la ricorrente, è competente in via esclusiva solo per quanto riguarda le funzioni fondamentali, ma deve escludersi che possa imporre forme associate di esercizio con riferimento alle funzioni proprie dei Comuni (rientranti nell’autonomia organizzativa degli stessi) e a quelle ad essi assegnate da leggi regionali. Al legislatore regionale, in base ai criteri di differenziazione ed adeguatezza previsti dall’art. 118 Cost., spetta stabilire se attribuire le funzioni a condizione che le stesse vengano esercitate in forma associata.
D) La Regione impugna, inoltre, l’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15, evidenziando che la disciplina puntuale delle forme associative degli enti locali, secondo il pacifico orientamento della Corte costituzionale, rientra nella competenza residuale delle Regioni (sono richiamate le sentenze n. 27 del 2010, n. 237 del 2009, n. 456 e n. 244 del 2005).
La ricorrente, inoltre, osserva che anche prima della sentenza n. 244 del 2005, relativa alle comunità montane, la giurisprudenza costituzionale, in particolare con la sentenza n. 343 del 1991, aveva individuato la Regione quale «centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali», anche per quanto attiene all’organizzazione delle funzioni e all’individuazione, quindi, del livello ottimale di esercizio.
Secondo la Regione Toscana, dunque, i commi impugnati lederebbero le prerogative del legislatore regionale, in relazione all’art. 117, quarto comma, e 118 Cost., in quanto contenenti una disciplina puntuale della forma associativa.
Sviluppando ulteriormente le premesse, la ricorrente sottolinea che i commi 1, 3, 4, 7 ed 8, che individuano una disciplina specifica ed autoapplicativa della forma associativa, il comma 5, il quale prevede la successione ex lege da parte dell’unione dei rapporti facenti capo ai Comuni, e i commi da 10 a 15, che disciplinano nel dettaglio gli organi, violerebbero i seguenti parametri costituzionali, sulla base delle motivazioni di seguito indicate: 1) l’art. 114 Cost., sotto il profilo del vulnus inferto al principio di pari dignità costituzionale di Comuni, Province e Città metropolitane da una disciplina che, come osservato anche dal Consiglio delle autonomie locali, illegittimamente prevede un regime differenziato, destinato a vincolare i soli Comuni con meno di 1.000 abitanti; 2) l’art. 117, quarto comma, Cost. per violazione della potestà legislativa regionale, posto che la Corte costituzionale, con riferimento alle Comunità montane, ha affermato che la disciplina delle forme associative degli enti locali rientra nella competenza residuale delle Regioni ed ha altresì precisato, con riferimento alla costituzione e/o alla soppressione di forme associative tra enti locali, che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. deve essere interpretato in maniera restrittiva; 3) l’art. 118 Cost., con riferimento ai principi costituzionali a cui la legge deve attenersi nell’attribuzione delle funzioni amministrative ed al principio di leale collaborazione, in quanto il legislatore statale avrebbe imposto unilateralmente la disciplina agli enti locali; 4) gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., sotto il duplice profilo della potestà legislativa concorrente e dell’autonomia finanziaria riconosciuta a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, non potendosi, nella specie, ricondurre l’intervento del legislatore statale alla regolazione dei principi fondamentali in materia di finanza pubblica.
E) La Regione Toscana, poi, censura l’art. 16, comma 16, nella parte in cui prevede «l’alternatività delle forme associative possibili, unione e convenzione, rimessa ai Comuni e all’apprezzamento del Ministero dell’interno» nonostante «la discrepanza fra i due modelli», e comma 17, lettera a), nella parte in cui ridefinisce il numero degli organi comunali e dei loro componenti sulla base delle soglie demografiche, non prevedendo più la giunta municipale per i Comuni fino a 1.000 abitanti, anche qualora detti Comuni esercitino le loro funzioni in convenzione.
La ricorrente deduce la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., per contrasto con il principio di ragionevolezza e di buon andamento, nonché dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., sotto il profilo del mancato rispetto della potestà legislativa regionale.
F) La Regione, inoltre, impugna i commi 19, 20 e 21 nella parte in cui pongono vincoli di orari e di modalità di svolgimento delle sedute degli organi collegiali di governo degli enti territoriali, per violazione dei seguenti parametri: 1) art. 117, terzo e quarto comma, Cost., sotto il profilo dell’incidenza sulle funzioni di competenza regionale; 2) art. 117, sesto comma, ultima parte, Cost. il quale recita «I Comuni, le Province, le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite», sotto il profilo della lesione dell’autonomia organizzativa dei Comuni.
G) La ricorrente, con riferimento ad un diverso profilo, censura ancora l’art. 16, comma 16, nella parte in cui prevede un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle unioni di Comuni. In particolare, la disposizione confliggerebbe con gli artt. 114 e 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché con il principio di leale collaborazione sotto un duplice profilo: perché «reintroduce» un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle unioni; perché contiene una disciplina di dettaglio non riconducibile al coordinamento della finanza pubblica.
La Regione osserva che la norma, dopo aver previsto l’esenzione dall’obbligo di associarsi in unione per quei Comuni che, alla data del 30 settembre 2012, risultino esercitare mediante convenzione le funzioni amministrative e i servizi pubblici indicati al comma 1, prevede l’obbligo per gli stessi di trasmettere, entro il 15 ottobre 2012, al Ministero dell’interno un’attestazione comprovante il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione in convenzione delle rispettive attribuzioni, rinviando ad un decreto ministeriale per la determinazione di contenuti e modalità di tali attestazioni.
La previsione di tale controllo ministeriale, secondo la ricorrente, non soltanto contrasterebbe con lo spirito della modifica del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, con il quale sono state soppresse le funzioni statali di controllo sugli enti locali in ragione della rafforzata autonomia prevista dall’art. 114 Cost., ma violerebbe gli artt. 117, quarto comma, 118 Cost., nonché il principio di leale collaborazione, nella parte in cui prevede, in via unilaterale e senza delineare alcun ruolo delle Regioni, un inammissibile controllo sulle forme associative di enti locali, la cui disciplina – come visto – è riservata alla competenza esclusiva regionale. La ricorrente, al riguardo, deduce che, in seguito alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, la materia dei controlli è divenuta estranea alla sfera di competenza statale, essendo riservata alla potestà legislativa regionale e/o a quella regolamentare degli enti locali.
In quest’ottica, dunque, la Regione, richiamando la sentenza n. 417 del 2005, evidenzia che la Corte costituzionale ha affermato la legittimità costituzionale delle (sole) norme che disciplinano «gli obblighi di trasmissione di dati finalizzati a consentire il funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di regioni ed enti locali, riconducendole ai principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, con funzione regolatrice della cosiddetta “finanza pubblica allargata”, allo scopo di assicurare il rispetto del patto di stabilità». Per contro, la disposizione impugnata consente una puntuale valutazione da parte del Ministero dell’interno sulla gestione svolta dagli enti locali tramite le convenzioni.
H) Infine, la Regione Toscana censura l’art. 16, comma 28, nella parte in cui autorizza l’esercizio di un potere sostitutivo straordinario da parte del Prefetto, denunciando il contrasto con i seguenti parametri: 1) art. 117, terzo e quarto comma, in quanto l’intervento del legislatore statale attiene ad una materia, quella dell’ordinamento degli enti locali, riconducibile alla potestà legislativa regionale di carattere residuale; 2) l’art. 120, secondo comma, Cost., poiché la norma prevede un potere sostitutivo in assenza dei presupposti tassativi e dei limiti precisati dalla Corte costituzionale che, pur avendo ritenuto l’ammissibilità di interventi sostitutivi, ha però ribadito che tali interventi rappresentano un’eccezione rispetto al normale svolgimento delle attribuzioni dei Comuni (viene richiamata la sentenza n. 43 del 2004).
1.1.– Con atto depositato il 27 dicembre 2011, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha rilevato l’inammissibilità del ricorso della Regione Toscana per difetto di interesse ad agire, ritenendo le doglianze estranee alle competenze regionali. Infatti, vertendosi in tema di riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei Comuni, non sarebbe configurabile una lesione diretta ed immediata di una prerogativa costituzionale della Regione. Nel merito, l’Avvocatura dello Stato, ravvisa la non fondatezza del ricorso in quanto la disposizione censurata sarebbe espressione di principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica volti al contenimento della spesa e, come tale, ascrivibile alla potestà legislativa statale.
2.– Con ricorso notificato il 14-16 novembre 2011 e depositato il 18 novembre 2011 (reg. ric. n. 134 del 2011), la Regione Lazio ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra le altre, dell’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15 16 e 28, il quale disciplina l’esercizio delle funzioni comunali, per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, in combinato disposto, degli artt. 118, 133, secondo comma, Cost., dell’art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), nonché del principio di leale collaborazione, in quanto tale disciplina lederebbe le competenze assegnate alla Regione da norme di rango costituzionale, intervenendo su una materia riconducibile alla potestà residuale delle Regioni. Solo nella parte introduttiva e nelle conclusioni del ricorso vengono indicati, tra i parametri costituzionali, anche gli artt. 75, 122 e 123 Cost.
A parere della ricorrente, l’istituzione obbligatoria di unioni di Comuni e le previsioni inerenti alla disciplina dei loro organi e delle loro funzioni, viola il combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., dal quale discende che la regolazione delle associazioni degli enti locali rientra nella competenza legislativa delle Regioni e non in quella dello Stato, essendo quest’ultima limitata alla «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane». Peraltro, osserva la Regione, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto tassativa l’indicazione degli enti di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. La sentenza n. 456 del 2005, poi, ha stabilito quanto segue: «Da qui la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione».
Secondo la Regione Lazio, la norma impugnata violerebbe anche l’art. 118 Cost., ai sensi del quale, soltanto qualora sussista un’esigenza di esercizio unitario, le funzioni amministrative possono essere sottratte ai Comuni ed affidate ad un livello territorialmente più esteso, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Afferma la ricorrente che, soprattutto per effetto del principio di sussidiarietà, non può ritenersi lo Stato, e non la Regione, competente a riallocare funzioni comunali ad un livello che è sovracomunale, ma, al tempo stesso, infraregionale.
Ciò perché, nella prospettiva accolta dall’art. 118 Cost., deve essere l’ente dotato di potestà legislativa e territorialmente «più vicino» a stabilire se sussista un’esigenza di esercizio unitario a livello regionale o infraregionale tale da giustificare una sottrazione di funzioni ai Comuni. Allo Stato spetta valutare l’esigenza di esercizio unitario con riferimento ad interessi di rilevanza nazionale, ma non ad esigenze che si esauriscono a livello regionale. Dunque, conclude sul punto la ricorrente, ai sensi dell’art. 118 Cost., rientra nella competenza regionale valutare se sussista l’esigenza di assegnare le funzioni amministrative comunali ad un’unione di Comuni.
Sotto altro profilo, osserva la Regione, le norme statali censurate violano l’art. 133, secondo comma, Cost., in quanto l’attribuzione alla competenza regionale del potere di istituire nuovi Comuni presuppone che essi non possano intendersi come «enti privi di funzioni» e, dunque, una legge che «svuota di funzioni gli enti comunali» non può che ritenersi elusiva del precetto costituzionale.
In ultimo, secondo la Regione Lazio, il comma 28 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 – che prevede un controllo prefettizio sull’operato comunale ed il conseguente esercizio del potere sostitutivo statale – violerebbe sia l’art. 9, comma 2, della legge cost. n. 3 del 2001 (che, abrogando l’art. 130 dell’originario testo costituzionale, ha implicitamente escluso la legittimità di procedure amministrative statali di controllo sugli atti comunali), sia il principio di leale collaborazione, dal momento che la norma statale non prevede alcuna forma di coinvolgimento regionale rispetto all’esercizio del potere sostitutivo o, almeno, rispetto alla valutazione dei suoi presupposti. Ciò «nonostante l’art. 49 dello Statuto della Regione Lazio attribuisca proprio alla legge regionale la disciplina dell’esercizio del potere sostitutivo da parte della Regione nei riguardi degli enti locali».
2.1.– Con atto del 27 dicembre 2011, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, rilevando l’infondatezza dell’impugnazione in quanto il legislatore statale avrebbe operato nell’ambito del «coordinamento della finanza pubblica» e, quindi, nel rispetto della competenza delineata dall’art. 117, secondo comma, lettera p), e terzo comma, Cost. Del resto, ha aggiunto la difesa dell’Avvocatura, le unioni di Comuni sono da tempo disciplinate dall’art. 32 del TUEL, norma che non ha mai suscitato dubbi circa il corretto esercizio della potestà legislativa da parte dello Stato. Dunque, l’imposizione della forma associativa per i Comuni minori, volta all’impiego ottimale delle risorse finanziarie, troverebbe fondamento giustificativo nell’esigenza di coordinamento della finanza pubblica. Circa la censura mossa al comma 28, la difesa dello Stato sostiene che «proprio la possibilità di una attribuzione delle funzioni amministrative diversificata per livelli territoriali, come previsto dall’art. 118 Cost., implica di necessità la presenza di un potere sostitutivo statale a tutela degli interessi unitari che possono comunque essere immanenti a tali funzioni». L’Avvocatura, citando testualmente la sentenza n. 236 del 2004, ricorda che la Corte costituzionale «ha chiaramente statuito che “La disposizione [dell’art. 8 l. 131/2003] è posta a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità che il mancato o l’illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-statali, potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente. Si evidenzia insomma, con tratti di assoluta chiarezza – si pensi alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che forma oggetto della competenza legislativa di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) –, un legame indissolubile fra il conferimento di una attribuzione e la previsione di un intervento sostitutivo diretto a garantire che la finalità cui essa è preordinata non sacrifichi l’unità e la coerenza dell’ordinamento. La previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari”».
3.– La Regione Puglia, con ricorso notificato il 14 novembre 2011 e depositato il 23 novembre 2011 (reg. ric. n. 141 del 2011), ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra le altre, dell’art. 16, commi da 1 a 16, per violazione degli artt. 3, 97, 117, primo, secondo, lettera p), terzo, quarto, quinto e sesto comma, 114, 118, 119 e 133 Cost.
Solo nelle conclusioni si trovano indicati, tra i parametri costituzionali, anche gli artt. 117, primo e quinto comma, e 119 Cost.
Il ricorso è articolato in più questioni.
A) La Regione, premessa una breve sintesi della norma, afferma che essa, «in ogni sua parte e nel suo complesso», viola gli artt. 114, primo e secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), 118 e 133, nonché gli artt. 3 e 97 Cost.
In particolare, la ricorrente censura il comma 1, nella parte in cui «pretende di allocare funzioni amministrative in ambiti di competenza legislativa regionale, concorrente e residuale violando così l’art. 117, terzo e quarto comma, e l’art. 118, secondo comma, Cost.» e «nella parte in cui pretende di applicarsi alle funzioni amministrative che ricadono nelle materie di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost.» e, in particolar modo, «nella parte in cui pretende di allocare tutte le funzioni amministrative che riguardano i “servizi pubblici” svolti dagli enti locali».
B) La Regione, inoltre, censura l’art. 16, commi da 2 a 16, del d.l. n. 138 del 2011, nella parte in cui prevede l’obbligatorietà dell’esercizio di tutte le funzioni e di tutti i servizi mediante la forma associativa dell’unione di Comuni, secondo la disciplina ivi stabilita. Secondo la ricorrente, l’intervento del legislatore statale, non potendo essere ricondotto all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., violerebbe la competenza legislativa residuale regionale in materia di «ordinamento degli enti locali».
Sul punto la difesa regionale richiama la giurisprudenza costituzionale per evidenziare che lo Stato non ha competenza generale in materia di enti locali, in quanto la competenza legislativa statale di cui al menzionato art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., è limitata alla elencazione tassativa (Comuni, Province e Città metropolitane). Dunque, la disciplina delle comunità montane, che sono una tipologia di unione di Comuni, spetta alla competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. (vengono citate le sentenze n. 237 del 2009, n. 456 e n. 244 del 2005).
Afferma la Regione che la previsione della obbligatorietà per l’esercizio di tutte le funzioni e di tutti i servizi mediante forme associative viola, inoltre, gli artt. 114, 117, 118 Cost. L’art. 114 Cost. riconosce, infatti, pari dignità costituzionale agli enti territoriali, qualificandoli enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Il legislatore statale, invece, avrebbe sottratto all’ente la titolarità delle funzioni e dei servizi, dando luogo, oltre tutto, ad una differenziazione tra i Comuni più piccoli, obbligati a far parte dell’associazione, e gli altri, ai quali tali vincoli non si applicano, in violazione dell’art. 118 Cost.
La ricorrente denuncia anche la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ribadendo che il legislatore statale ha competenza esclusiva sia per quanto riguarda le funzioni fondamentali, per le quali può certamente imporre forme associate di esercizio, e sia per quanto riguarda l’individuazione dell’ente a cui spetta l’esercizio dell’attività amministrativa riconducibile ad ogni altra sua competenza legislativa, ma non può imporre forme associate di esercizio delle funzioni proprie dei Comuni, la cui autonomia organizzativa consente di optare liberamente per la gestione in forma associata. Peraltro, puntualizza la ricorrente, spetta alla legislazione regionale, in base a quanto previsto dall’art. 118 Cost., prevedere forme di associazione, alla stregua dei principi di differenziazione e adeguatezza. Più in particolare, prosegue la Regione, lo Stato può solo individuare le forme associative alle quali i Comuni, con decisione autonoma, possono conferire le proprie funzioni «ovvero alle quali le regioni possono far riferimento quando ritengano di vincolare i comuni all’esercizio in forma associata di funzioni amministrative comprese nell’ambito della competenza regionale».
C) La Regione Puglia censura, poi, il comma 16 dell’art. 16, lamentando che la valutazione affidata al Ministero dell’interno sulla scelta tra unione o convenzione violerebbe il principio di ragionevolezza e di buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.). Ciò perché la diversità tra le due forme associative (l’una configurata come ente dotato di propri organi, l’altra estremamente flessibile e modificabile che non si configura come ente) non consente di ritenere che il compito di assicurare la gestione di tutte le funzioni e di tutti i servizi dei Comuni partecipanti possa essere svolto, con effetti analoghi, in modo efficace.
D) Da ultimo, la Regione Puglia censura il comma 4, ultimo periodo, dell’art. 16, in quanto – prevedendo che «Con regolamento da adottare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo, sono disciplinati il procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun comune e l’unione» – violerebbe l’art. 117, sesto comma, Cost., autorizzando un regolamento statale in una materia di competenza residuale regionale.
3.1.– Con atto depositato il 23 dicembre 2011, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha dedotto l’inammissibilità del ricorso per assoluta mancanza di argomentazioni giustificative in relazione ai parametri di cui agli artt. 119 e 133 Cost. e la mancata inclusione dei parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost. nell’epigrafe e nelle conclusioni del ricorso. Inoltre, a parere della difesa dello Stato, con riferimento agli artt. 3, 97, 114 e 118 Cost., il ricorso sarebbe inammissibile per carenza di legittimazione ad agire poiché le censure prospettate dalla Regione atterrebbero ad interessi esclusivi dei Comuni.
Le questioni sollevate in riferimento all’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., sarebbero, invece, infondate. Il fatto che le competenze amministrative devolute all’unione comprendono materie ed attività disciplinate con legge regionale non assumerebbe rilievo determinante dal momento che la riorganizzazione degli enti non incide sulle competenze legislative delle Regioni. Parimenti risulterebbe infondato l’assunto secondo il quale la norma impugnata avrebbe inciso sulla materia dell’«ordinamento degli enti locali» riservata alla competenza residuale delle Regioni. Anche se tale affermazione fosse corretta, osserva l’Avvocatura generale, occorrerebbe considerare che, come ripetutamente affermato nella giurisprudenza costituzionale, tale competenza residuale è cedevole rispetto alla potestà dello Stato di dettare norme di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica allargata, al fine di conseguire risparmi di spesa e determinare il riequilibrio dei bilanci della pubblica amministrazione.
Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che le norme impugnate non ledono l’autonomia e la dignità degli enti locali, non modificano il riparto di competenze amministrative tra gli enti territoriali e non violano i principi di ragionevolezza e di buon andamento, poiché lasciano impregiudicata la facoltà per i Comuni di scegliere altre forme associative più flessibili, di effetto equivalente sul piano della spesa, facoltà che valorizza l’ambito di autodeterminazione degli enti locali.
4.– Le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria, con ricorsi sostanzialmente corrispondenti, notificati il 15 novembre 2011 e depositati il 23 novembre 2011 (reg. ric. n. 144, n. 146 e n. 147 del 2011), hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra queste, dell’art. 16, in relazione agli artt. 77, primo e secondo comma, 114, 117, primo, secondo, lettera p), e quarto comma, 118, 133, secondo comma, 5, 3 e 97 Cost.
Ognuna delle tre Regioni ha premesso di impugnare la disposizione in nome proprio e, su richiesta del Consiglio delle autonomie locali, formulata ai sensi dell’art. 9, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) che modifica l’art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quale portatrice dei loro interessi istituzionali.
I ricorsi sono articolati in più questioni.
A) In primo luogo le Regioni denunciano la violazione dell’art. 77, primo e secondo comma, Cost. affermando che la scelta del Governo di fare ricorso allo strumento provvisorio del decreto-legge non trova riscontro in una situazione riconducibile ai «casi straordinari di necessità e d’urgenza». Le ricorrenti osservano che la disposizione impugnata contiene norme ordinamentali incidenti sullo status istituzionale dei Comuni. Il comma 9 dell’art. 16 censurato, tuttavia, a conferma dell’asserita insussistenza delle ragioni d’urgenza, differisce l’applicazione di tali norme ad un termine decorrente «dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del Comune che, successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo». Inoltre, aggiungono le ricorrenti, i contenuti delle norme censurate non sembrano rispondere adeguatamente alla finalità del «contenimento delle spese degli enti territoriali», per il risanamento della finanza pubblica, non risultando quantificati i supposti risparmi di spesa neppure nella relazione della Ragioneria generale che accompagna il provvedimento d’urgenza. Piuttosto, osservano le Regioni, si sarebbe dovuto tener conto degli oneri amministrativi derivanti dall’entrata a regime della nuova disciplina e ricadenti sulle amministrazioni coinvolte. In questa prospettiva, concludono le ricorrenti, la clausola di invarianza di cui al comma 30, secondo cui «Dall’applicazione di ciascuna delle disposizioni di cui al presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» finisce per rivelare un ulteriore elemento di irrazionalità nella disciplina.
Circa la legittimazione a far valere il difetto dei requisiti di necessità ed urgenza, le Regioni dichiarano di conoscere la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza legislativa può essere fatto valere soltanto se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali. Tale giurisprudenza consolidata, a parere delle ricorrenti, ha finora impedito alle Regioni di far valere i vizi «formali» degli atti legislativi, per carenza dell’interesse ad agire, richiedendosi che «l’iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente diretta a conseguire l’utilità propria» (sentenza n. 216 del 2008).
Per contro, si afferma nei ricorsi, «l’utilità propria, diretta e immediata» non può essere fatta coincidere con la difesa della specifica attribuzione legislativa assegnata alla Regione, dal momento che la violazione di questa costituirebbe un vulnus al riparto costituzionale delle competenze denunciabile per se stesso, senza che venga in rilievo la specifica forma dell’atto legislativo che ne è responsabile. «Le “prerogative costituzionali” delle Regioni debbono estendersi, ad avviso delle ricorrenti, anche al loro status costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel (rectius: nei) processi decisionali». E, secondo le Regioni, lo stesso dovrebbe dirsi per i Comuni che non hanno potuto intervenire a causa «della violazione della regola del procedimento legislativo ordinario».
Del resto, osservano le ricorrenti, nell’arco di tempo fissato dal comma 9 dell’art. 16, si sarebbe potuto giungere ad un testo meditato e condiviso di riforma, nel rispetto del principio di leale collaborazione, come evidenziato nel documento approvato il 23 giugno 2010, dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Concludendo, le Regioni ritengono di essere legittimate a far valere la violazione dell’art. 77 Cost., connessa alla carenza dei presupposti di necessità e d’urgenza, e degli artt. 114, in relazione al ruolo costituzionale delle Regioni, 118, primo comma, come espressione del più generale principio di sussidiarietà, e 5 Cost., come implicito riconoscimento del principio di leale collaborazione.
B) Le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria, promuovono, poi, questione di legittimità costituzionale dei commi da 1 a 16 dell’art. 16 menzionato per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, primo, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost., nonché per violazione del principio di non discriminazione, ragionevolezza e di buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost.
Dopo avere riassunto i contenuti della disposizione censurata ed avere ricordato i principi costituzionali contenuti nei parametri evocati, le ricorrenti affermano che il complesso problema legato alle modeste dimensioni di molti Comuni italiani sarebbe stato risolto dal legislatore statale in modo sbrigativo operando, attraverso la decretazione d’urgenza, «lo svuotamento istituzionale dei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse finanziarie e disponendo la loro pratica sostituzione con un ente nuovo, l’unione, nella quale finisce per “sciogliersi” ogni comune la cui popolazione non superi la soglia indicata». Peraltro, aggiungono le Regioni, si tratterebbe di un ente non incluso nella tipologia costituzionale degli enti costituivi della Repubblica e privo di legittimazione democratica diretta, come rilevato, nel corso dei lavori preparatori, sia dalla Commissione affari costituzionali del Senato, che dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali che ne aveva suggerito opportunamente la soppressione.
Alla luce di tali premesse, le ricorrenti affermano che la disposizione impugnata violerebbe non solo l’art. 117, secondo comma, Cost., ma soprattutto l’art. 133 Cost., nella parte in cui, svuotando i Comuni di ogni loro attribuzione, delle risorse umane e strumentali e persino della titolarità dei rapporti giuridici relativi alle funzioni amministrative, trasferite all’unione, altera «la mappa dell’autonomia comunale», senza rispettare le procedure costituzionali per l’istituzione di nuovi Comuni e la modifica delle circoscrizioni.
L’art. 16, commi da 1 a 16, dunque, si porrebbe in contrasto con: 1) il riconoscimento della natura costitutiva dei Comuni nella costruzione della Repubblica ricavabile dall’art. 114, primo comma, Cost.; 2) l’attribuzione ai Comuni della natura di «enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione» ex art. 114, secondo comma, Cost.; 3) i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare e finanziaria; 4) i principi specifici di cui all’art. 118 Cost., circa le funzioni fondamentali e quelle proprie dei Comuni, «definite dalla legge, sulla base di criteri oggi assistiti da garanzia costituzionale» (è citata la sentenza n. 43 del 2004). Risulterebbe, altresì, violato il principio di sussidiarietà, in quanto la «differenziazione» dei Comuni e delle loro funzioni non può essere disgiunta da una considerazione, in concreto, della capacità amministrativa e di gestione che distingue gli enti minori in ogni diversa realtà del Paese e non può ridursi alla privazione delle funzioni dei Comuni minori.
Per altro verso, risulterebbe, altresì, violata la Carta europea dell’autonomia locale, a cui è stata data esecuzione con la legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985), con particolare riferimento all’art. 3, nella parte in cui prevede che «Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici» e che «Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti». Affermano le Regioni che il trasferimento coattivo ad amministrazioni di secondo grado di funzioni, strutture e risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei pubblici servizi dei Comuni minori sarebbe contrario agli impegni assunti dall’Italia nel contesto europeo e, quindi, a quanto stabilito dall’art. 117, primo comma, Cost.
Da ultimo, le ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., oltre che dell’art. 114 Cost., reputando la disciplina dettata dal legislatore statale discriminatrice, priva di ragionevolezza ed in contrasto con il principio di buon andamento dell’amministrazione. Al riguardo viene evidenziato che spesso i Comuni con popolazione non superiore a 1.000 abitanti non sono contigui. Pertanto, tali enti si vedrebbero costretti ad esercitare in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti mediante un’unione di Comuni composta anche da enti con popolazione più numerosa che, per questa ragione, potrebbero esercitare in forma associata solo alcune delle proprie funzioni.
C) Le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria lamentano, inoltre, che le disposizioni impugnate, anche per il carattere dettagliato e minuzioso, violerebbero le competenze residuali delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali. Infatti, si osserva, la potestà legislativa dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., è limitata all’ordinamento degli enti locali e non ricomprende le forme associative. L’elencazione di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), peraltro, ha carattere tassativo (si richiamano le sentenze n. 27 del 2010, n. 397 del 2006 e n. 456 del 2005).
D) In via subordinata, le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria censurano il comma 4 dell’art. 16, in relazione all’art. 117, quarto e sesto comma, Cost. nella parte in cui prevede che «Con regolamento da adottare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo, sono disciplinati il procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun comune e l’unione».
Secondo le ricorrenti, tale previsione, destinata a regolare i rapporti tra i Comuni e l’entità associativa, non sarebbe riconducibile alla competenza legislativa statale in materia di individuazione delle funzioni fondamentali, ma alla potestà legislativa regionale residuale, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., se non addirittura alla sfera di autonomia dei Comuni. Ai sensi dell’art. 117, sesto comma, Cost., la potestà regolamentare spetterebbe, pertanto, alle Regioni. Oltre tutto, osservano le ricorrenti in via ulteriormente subordinata, se anche dovesse ammettersi una competenza statale, risulterebbe violato il principio di leale collaborazione, non essendo prevista né l’intesa con la Regione interessata, né l’intesa con la Conferenza unificata.
E) Le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria, censurano, poi, l’art. 16, comma 16, per violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui demanda in via esclusiva al Ministro dell’interno la valutazione sul conseguimento dei «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni» da parte dei Comuni già coinvolti in forme associative ex art. 30 del TUEL, senza prevedere il coinvolgimento delle Regioni.
Le ricorrenti osservano che, in tal modo, in violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., gli effetti delle leggi regionali sull’associazionismo vengono ad essere condizionati da una valutazione unilaterale e centralizzata del Ministro. Infine, le Regioni affermano che l’introduzione di un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle unioni risulterebbe lesiva dell’autonomia riconosciuta agli enti territoriali dall’art. 114 Cost.
4.1.– Con atto depositato il 22 dicembre 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio promosso dalla Regione Liguria, chiedendo il rigetto del ricorso ed assumendo che le disposizioni impugnate rivestono carattere di necessità ed urgenza in quanto, alla luce della contingente crisi finanziaria, la riduzione dei costi legati agli apparati amministrativi costituisce oggetto di un impegno concordato anche a livello europeo e l’intervento normativo è volto ad assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, il contenimento delle spese degli enti territoriali ed il migliore svolgimento delle funzioni normative.
4.2.– Con atto depositato il 27 dicembre 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito anche nei giudizi promossi dalla Regione Emilia-Romagna e dalla Regione Umbria, formulando le medesime osservazioni svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Toscana.
5.– Con ricorso notificato il 15 novembre 2011 e depositato il 23 novembre 2011 (reg. ric. n. 145 del 2011), la Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra queste, dell’art. 16, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28, che disciplinano l’esercizio delle funzioni comunali, in riferimento agli artt. 97, 114, 117 e 118 Cost.
Il ricorso è articolato in più questioni.
A) In primo luogo, dopo avere sintetizzato i contenuti della norma impugnata, la Regione contesta, in relazione all’art. 117, terzo comma, Cost., che l’intervento normativo possa ricondursi alla potestà legislativa esclusiva dello Stato o alla competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica. Ciò perché, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (la Regione richiama la sentenza n. 417 del 2005), la disciplina di principio dei vincoli finanziari si configura compatibile con l’autonomia degli enti costituzionalmente garantiti, come le Regioni ed i Comuni, solo quando stabilisce tassativamente un limite complessivo di intervento – avente ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita della spesa corrente – lasciando agli enti stessi piena autonomia e libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa. Invece, secondo la ricorrente, le disposizioni censurate costituiscono una disciplina di dettaglio e autoapplicativa che lede l’autonomia opzionale dei Comuni, in violazione dell’art. 114, secondo comma, Cost.
Più in particolare, la Regione dubita che la razionalizzazione delle funzioni amministrative costituisca un profilo riconducibile alla individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, materia attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. alla legislazione esclusiva dello Stato. Ciò perché tali funzioni vanno individuate con riferimento all’art. 21, comma 3, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione) e all’art. 3, comma l, lettera a), del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province), che si riferiscono alle sole funzioni fondamentali di competenza delle amministrazioni comunali.
Del resto, prosegue la ricorrente, l’indicazione contenuta negli artt. 114 e 117, secondo comma, lettera p), Cost., presenta carattere tassativo, come affermato dalla Corte costituzionale che, in particolare, trattando delle comunità montane, ha fatto espressamente riferimento all’attribuzione a tali enti della potestà statutaria e regolamentare (art. 4, comma 5, della legge n. 131 del 2003) (nel ricorso si richiamano le sentenze n. 397 del 2006 e n. 244 del 2005). La Regione deduce che analoga autonomia deve essere riconosciuta alle nuove figure di unioni di Comuni, anche per quanto concerne l’individuazione di propri organi di governo. Diversamente, i commi da 10 a 14 prevedono la disciplina degli organi di governo dell’unione di Comuni, che è ente diverso e autonomo dalle amministrazioni che vi partecipano.
La Regione puntualizza che la potestà legislativa esclusiva dello Stato non può estendersi oltre i limiti indicati nell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., traendo spunto dalla giurisprudenza costituzionale per affermare che risulta, altresì, evidente la sussistenza di una competenza legislativa residuale delle Regioni, in base al criterio di riparto stabilito nel nuovo art. 117 Cost., il quale, elencando solo le materie di competenza esclusiva statale e di competenza concorrente, consente di far rifluire nella potestà residuale delle Regioni quelle non esplicitamente incluse nell’uno o nell’altro ambito (nel ricorso si richiama la sentenza n. 261 del 2011).
La Regione ricorda che la competenza legislativa regionale in materia trova conferma anche nell’art. 14, commi da 27 a 31, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, che ha introdotto una disciplina concernente l’associazionismo comunale, rimettendo alla legislazione regionale, nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., l’individuazione della dimensione ottimale ed omogenea per l’esercizio associato di funzioni, con facoltà di stabilire limiti demografici diversi da quelli determinati dallo Stato.
La ricorrente pone, quindi, in risalto la contraddizione logica della disciplina impugnata rispetto a quanto previsto con il citato art. 14, commi da 27 a 31, del d.l. n. 78 del 2010 e conclude che il cambio di direzione attuato con l’intervento normativo oggetto di impugnazione pregiudica la concreta operatività delle amministrazioni comunali, anche per ciò che attiene all’esercizio delle funzioni amministrative di competenza regionale, in violazione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa tutelato dall’art. 97 Cost.
A parere della ricorrente, le disposizioni impugnate violerebbero anche l’art. 118 Cost. nella parte in cui disciplinano funzioni amministrative diverse da quelle spettanti allo Stato, destinate ad essere esercitate dai Comuni, comprimendo, altresì, l’esercizio di funzioni amministrative di spettanza regionale.
B) Inoltre, secondo la Regione Veneto, il comma 7 dell’art. 16, nella parte in cui impone la cessazione delle precedenti forme associative previste nel TUEL, sostituendole con le unioni di Comuni, violerebbe l’art. 114, secondo comma, Cost., che stabilisce il principio di equiordinazione delle autonomie locali e delle Regioni.
C) La Regione Veneto afferma, poi, che l’art. 16, imponendo una determinata forma organizzativa di tipo associativo, violerebbe anche l’art. 117, sesto comma, Cost., che riconosce ai Comuni autonoma potestà regolamentare nella disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
D) Infine, la Regione impugna, per violazione degli artt. 117, 118 e 120 Cost., l’art. 16, comma 28, del citato d.l. n. 138 del 2011, che disciplina i poteri di verifica del Prefetto in ordine al perseguimento degli obiettivi di semplificazione amministrativa e organizzativa, nonché alla riduzione delle spese effettuate dagli enti locali, ai sensi dell’art. 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010) e dell’art. 14, comma 32, del d.l. n. 78 del 2010, prevedendo, in caso di inadempimento, l’esercizio del potere sostitutivo statale.
La ricorrente sostiene che il potere conferito non sarebbe riconducibile alle ipotesi tassative di sostituzione previste dall’art. 120 Cost. In particolare, la norma confliggerebbe con i parametri costituzionali invocati, nella parte in cui prevede che il Prefetto, per verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione amministrativa ed organizzativa, nonché di riduzione delle spese effettuate dagli enti locali, deve accertare che si sia provveduto alla soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali e sia stato rispettato il divieto da parte dei Comuni con popolazione inferiore a trentamila abitanti di costituire società.
Né tale potere sostitutivo potrebbe trovare giustificazione nell’esigenza di garantire l’unità economica, intesa come complesso della macroeconomia nazionale, alla luce dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., atteso che il contenimento della spesa pubblica costituisce un fine non perseguibile mediante il ricorso ad un potere straordinario, quale, evidenzia la difesa regionale, è, per giurisprudenza costituzionale, quello sostitutivo.
Assume la Regione che la medesima disposizione violerebbe anche gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto «il potere sostitutivo statale non può e non deve riguardare amministrazioni che esercitano funzioni amministrative di competenza regionale ai sensi dell’art. 118 della Costituzione». La ricorrente, richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 43 del 2004, pone in risalto che «è pacificamente ammessa la legittimità di una legge regionale che “intervenendo in materie di propri [rectius: propria] competenza, e nel disciplinare, ai sensi dell’articolo 117, terzo e quarto comma, e dell’articolo 118, primo e secondo comma, della Costituzione, l’esercizio di funzioni amministrative di competenza dei Comuni, preveda anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento medesimi”». Inoltre la Regione cita testualmente la sentenza n. 303 del 2003, nella parte in cui si afferma che «Nel nuovo Titolo V l’equazione elementare interesse nazionale = competenza statale, che nella prassi legislativa previgente sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale».
5.1.– Con atto depositato il 27 dicembre 2011, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando osservazioni identiche a quelle svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Lazio.
6.– Con ricorso notificato il 17 novembre 2011 e depositato il 23 novembre 2011 (reg. ric. n. 153 del 2011), la Regione Campania ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra queste, dell’art. 16, comma 1, per contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 118 e 119, Cost.
Il ricorso è articolato in più questioni.
A) In primo luogo, la Regione Campania censura l’art. 16, comma 1, nella parte in cui non presenta carattere di principio fondamentale. La ricorrente afferma che la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., sotto il profilo della illegittima incidenza sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva in via residuale alle Regioni.
A parere della ricorrente, la manifesta violazione delle competenze regionali non sarebbe esclusa dal richiamo operato dall’art. 16, comma 1, alla finalità di «assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, l’ottimale coordinamento della finanza pubblica, il contenimento delle spese degli enti territoriali e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici». In senso contrario, infatti, è richiamata la giurisprudenza costituzionale sul valore della qualificazione legislativa «che non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza» (è citata la sentenza n. 169 del 2007 e le sentenze n. 447 del 2006 e n. 482 del 1995, nonché la sentenza n. 237 del 2009 e le sentenze n. 430 e n. 165 del 2007).
Con ulteriore riferimento alle pronunce della Corte, la Regione Campania osserva che la potestà legislativa, esercitata con la finalità di contenere la spesa pubblica, deve arrestarsi alla sola previsione di un limite complessivo di spesa che faccia salva la discrezionalità degli enti territoriali nella allocazione delle risorse, restando, quindi, preclusa la possibilità di vincolare le Regioni all’adozione di misure analitiche di dettaglio (sono richiamate, sul punto, le sentenza n. 27 del 2010, n. 341 e n. 237 del 2009). Le Regioni, conclude la ricorrente, sono libere nello stabilire strumenti e modalità per il conseguimento dello scopo individuato dal legislatore statale.
La ricorrente, inoltre, censura l’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, lamentando che l’incidenza sulle prerogative costituzionali delle Regioni e la previsione di conseguenze gravose in caso di mancato rispetto della disciplina, spiegherebbe effetti pregiudizievoli sulla finanza regionale. In particolare, tale disciplina si porrebbe in conflitto con l’art. 119, quarto comma, Cost., in quanto lesiva del principio di corrispondenza tra il decentramento delle funzioni e la conservazione delle risorse necessarie a consentirne il relativo esercizio.
B) La Regione Campania censura, poi, l’art. 16, comma 1, nella parte in cui dispone che i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione di Comuni ai sensi dell’art. 32 del TUEL.
Lamentando la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), quarto comma, e 118 Cost., la ricorrente, afferma che per escludere l’illegittimità dell’art. 16, comma 1, non può neppure invocarsi la competenza esclusiva statale di cui all’art.117, secondo comma, lettera p), Cost., relativa a «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
La Regione richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui tale disposto deve essere inteso in senso restrittivo, sia per quanto riguarda l’individuazione degli enti locali, per i quali l’elencazione di cui all’art. 114 Cost. deve considerarsi tassativa, sia per quanto riguarda l’ambito oggettivo, che deve restare circoscritto alla disciplina del sistema elettorale, della forma di governo e delle funzioni fondamentali di detti enti. Fuori da tale perimetro, osserva la ricorrente, opera la competenza residuale delle Regioni, nel cui ambito ricade la regolamentazione degli enti locali. Ciò, del resto, consente al legislatore regionale di provvedere in modo differenziato, tenendo conto delle esigenze espresse dalle singole comunità di riferimento, in osservanza dei principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione sanciti nell’art. 118, primo comma, Cost.
Al riguardo, la Regione richiama in modo specifico la giurisprudenza costituzionale formatasi in tema di comunità montane e afferma che la disciplina di tali forme associative, che altro non sono se non unioni di Comuni costituiti tra Comuni montani, rientra nella competenza residuale delle Regioni (sono richiamate, nell’ordine, le sentenze n. 27 del 2010, nella parte in cui ha stabilito che «rientra nella potestà legislativa delle Regioni disporne anche, eventualmente, la soppressione»; n. 237 del 2009, n. 244 del 2005 e n. 229 del 2001).
La ricorrente evidenzia che i suddetti principi devono trovare applicazione anche con riferimento alla norma impugnata e, poiché in questo caso, come per le Comunità montane, si tratta di enti la cui esistenza non è imposta dalla Costituzione, è consequenziale che la loro disciplina debba essere ricondotta alla potestà legislativa delle Regioni. Peraltro, osserva la Regione, l’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000 stabilisce che le unioni di Comuni sono enti locali costituiti «da due o più comuni, di norma contermini» e l’art. 33 riserva alle Regioni l’individuazione dei livelli ottimali di esercizio delle funzioni ai fini di favorirne l’esercizio associato, con previsione di un eventuale potere sostitutivo per il caso di inerzia dei Comuni nell’individuazione di soggetti, forme e metodologie per l’esercizio in forma associata delle funzioni.
C) In subordine, la Regione deduce che quand’anche non si riconoscesse la manifesta violazione della competenza residuale regionale, occorrerebbe, comunque, tenere conto che il censurato art. 16, comma 1, viola l’art. 118, in combinato disposto con l’art. 117 Cost. (la subordinata, invero, fa riferimento all’intero art. 16, senza specificare il comma, ma tutte le argomentazioni relative alla doglianza principale discendono dalla censura rivolta all’art. 16, comma 1, nella parte sopra indicata).
La ricorrente illustra le ragioni della censura muovendo dalla considerazione che l’art. 118 Cost. attribuisce ai Comuni tutte le funzioni amministrative, a prescindere dalla materia cui afferiscono, salvo che le stesse siano conferite, sulla base dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza, ai livelli di governo superiori, al fine di garantirne il migliore esercizio. Lo Stato, invece, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ha competenza legislativa esclusiva in relazione alla determinazione delle sole «funzioni fondamentali» di Comuni, Province e Città metropolitane. Circa la relazione tra le due norme, la Regione ricorda la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui «quale che debba ritenersi il rapporto fra le “funzioni fondamentali” degli enti locali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera p), e le “funzioni proprie” di cui a detto articolo 118, secondo comma, sta di fatto che sarà sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni, in conformità alla generale attribuzione costituzionale ai comuni o in deroga ad essa per esigenze di “esercizio unitario”, a livello sovracomunale» (sentenza n. 43 del 2004). Pertanto, osserva la ricorrente, in materia di disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative la competenza della Regione sussiste quando le funzioni stesse interessano ambiti materiali di diretta pertinenza regionale (esclusiva o concorrente). La norma impugnata, invece, nel richiamare indistintamente le funzioni amministrative esercitate dai Comuni, vi avrebbe ricompreso anche quelle ricadenti in ambiti materiali riservati alla Regione.
6.1.– Con atto depositato il 27 dicembre 2011, si è costituito, nel giudizio promosso dalla Regione Campania, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando le medesime osservazioni articolate in relazione al ricorso presentato dalla Regione Lazio.
7.– La Regione Lombardia, con ricorso notificato il 15-17 novembre 2011 e depositato il 23 novembre 2011 (reg. ric. n. 155 del 2011), in parte corrispondente a quello presentato dalla Regione Campania, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra queste, dell’art. 16 per contrasto con gli artt. 117, terzo e quarto comma, 119, 120 e 133, secondo comma, Cost.
Il ricorso è articolato in più questioni.
A) In primo luogo, la Regione Lombardia censura l’art. 16 nella parte in cui non presenta carattere di principio fondamentale. La ricorrente afferma che la disposizione impugnata violerebbe gli articoli 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., sotto il profilo della illegittima incidenza sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva in via residuale alle Regioni.
Su questo punto, le argomentazioni svolte sono le medesime che si rinvengono nel ricorso presentato dalla Regione Campania. Tuttavia, in questo caso la censura viene riferita all’intero art. 16.
B) La Regione Lombardia censura, poi, l’art. 16, comma 1, nella parte in cui dispone che i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione di Comuni ai sensi dell’art. 32 del TUEL, lamentando la violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, e 120 Cost.
Per quanto concerne la prospettata violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., le argomentazioni sono le medesime che si rinvengono nel ricorso presentato dalla Regione Campania con riferimento al parametro costituito dall’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost.
In subordine, a parere della Regione Lombardia, quand’anche non si riconoscesse la manifesta violazione della competenza residuale regionale, occorrerebbe comunque tenere conto del fatto che il censurato art. 16 si pone in contrasto con l’art. 117, terzo e quarto comma, nonché con il principio fondamentale di leale collaborazione, sancito dall’art. 120 Cost.
Sul punto, la prima parte del ricorso ripropone (anche nella forma) le argomentazioni contenute nel ricorso presentato dalla Regione Campania con riferimento ai diversi parametri costituiti dall’art. 118, in combinato disposto con l’art. 117 Cost. Per l’organicità dell’esposizione, tuttavia, vi si farà nuovamente cenno in termini più sintetici. La coincidenza è, del resto, limitata a questa parte. Il ricorso della Regione Lombardia prosegue con considerazioni specifiche che riguardano l’art. 120 Cost. e, in particolare, l’orientamento della giurisprudenza costituzionale sull’applicabilità del principio di leale collaborazione alle procedure di formazione delle leggi (sono richiamate le sentenze n. 33 del 2011 e n. 326 del 2010).
Anche in questo caso la ricorrente premette che l’art. 118 Cost. attribuisce ai Comuni tutte le funzioni amministrative, salva la possibilità che le stesse siano conferite, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, ai livelli di governo superiori, al fine di garantirne il migliore esercizio, mentre lo Stato, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ha competenza legislativa esclusiva in relazione alla determinazione delle «funzioni fondamentali». Circa la relazione tra le due norme, la Regione ricorda la giurisprudenza della Corte costituzionale citata in egual contesto dalla Regione Campania (sentenza n. 43 del 2004) e, allo stesso modo, conclude osservando che la norma impugnata, nel richiamare indistintamente le funzioni amministrative esercitate dai Comuni, vi avrebbe ricompreso anche quelle ricadenti in ambiti materiali riservati alla Regione.
Inoltre, prosegue la Regione, «alla luce delle evidenti attribuzioni regionali sottese allo svolgimento delle funzioni comunali, non è rinvenibile nel corpo dell’impugnato art. 16 alcuna forma di cooperazione fra Stato e Regioni, idonea a garantire una tutela delle richiamate competenze regionali».
La ricorrente, premettendo di conoscere l’orientamento della giurisprudenza costituzionale sull’inammissibilità di questioni promosse dalle Regioni in relazione a parametri non ridondanti nelle loro competenze e sull’inapplicabilità del principio di leale collaborazione alle procedure di formazione delle leggi, osserva testualmente che «a fronte di un intervento normativo di tale portata, promosso attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza, giustificato in nome di esigenze straordinarie di contenimento della spesa, che potrebbero quasi ricondursi nell’ambito di una procedura “sostitutiva” rispetto ad un impegno regionale ritenuto inadeguato nel contenimento della spesa pubblica, sarebbe stata costituzionalmente necessaria la salvaguardia del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.». Tale principio, ricorda la ricorrente, è «operante più in generale nei rapporti fra enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita» (sono citate le sentenze n. 43 del 2004 e 153 del 1986).
C) La Regione Lombardia, infine, censura l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nella parte in cui, prevedendo l’istituzione di un ulteriore ente locale coincidente con la sostanziale fusione dei Comuni partecipanti, violerebbe l’art. 133, secondo comma, Cost. che riconosce in capo al legislatore regionale, sentite le popolazioni interessate, la competenza in materia di istituzione di nuovi Comuni, di modificazione delle circoscrizioni e di denominazione di quelle già esistenti.
Più in particolare, la ricorrente osserva che l’unione di Comuni di cui all’art. 16 è caratterizzata da una struttura istituzionale stabile ed omnicomprensiva, dotata di propri organi, di autonomia statutaria e di specifici poteri in precedenza esercitati dagli organi comunali, che si sostituisce integralmente ai Comuni partecipanti. All’unione, infatti, è demandato l’esercizio di tutte le funzioni amministrative e dei servizi pubblici spettanti ai Comuni partecipanti sulla base della legislazione vigente.
Si tratta, dunque, a parere della Regione, di una sostanziale fusione dei Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, realizzata eludendo in maniera manifesta la procedura di cui all’art. 133, secondo comma, Cost.
A conferma della propria tesi, la ricorrente evidenzia che: 1) il comma 5 della disposizione impugnata prevede che «L’unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici [...] inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati», con contestuale trasferimento di tutte le relative risorse umane e strumentali; 2) dalla lettura integrata di tale previsione con quella di cui al comma 1, si desume che la successione dell’unione ai Comuni riguarda i rapporti giuridici inerenti a tutte le funzioni amministrative e a tutti i servizi pubblici spettanti a questi enti; 3) oltre al conferimento al nuovo ente di tutte le funzioni comunali, ad esso si riconosce un’autonoma struttura organizzativo-istituzionale, che finisce per assorbire quelle dei singoli Comuni; 4) a partire dall’istituzione delle unioni, le giunte comunali in carica decadono di diritto, senza successiva ricostituzione e il novero degli organi comunali viene limitato al sindaco e al consiglio; 5) ai sensi del comma 9, ai consigli comunali competono esclusivamente poteri di indirizzo nei confronti del consiglio dell’unione; 6) ai sensi del comma 12, ai sindaci spettano le sole attribuzioni di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, ovvero solamente quelle attribuzioni esercitate dai sindaci in veste di ufficiali del governo, non in qualità di organi apicali, rappresentativi e responsabili dell’amministrazione comunale; 7) l’unione delineata dall’art. 16 viene, di contro, dotata di una propria organizzazione, composta dal consiglio, dal presidente e dalla giunta, nonché del potere di dotarsi di un proprio statuto al fine di disciplinare le modalità di funzionamento dei propri organi e i loro rapporti.
Alla luce di tali premesse, la Regione Lombardia conclude rimarcando che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente riconosciuto che «spetta alla legge regionale dare attuazione all’art. 133, secondo comma, della Costituzione, individuando le popolazioni interessate alla variazione territoriale; che è sempre costituzionalmente obbligatoria la consultazione delle popolazioni residenti nei territori che sono destinati a passare da un comune preesistente ad uno di nuova istituzione, ovvero ad un altro comune preesistente» (viene richiamata la sentenza n. 47 del 2003). Viceversa, afferma la ricorrente, nel caso di specie nessuna delle fasi espressamente individuate dalla Costituzione avrebbe trovato osservanza da parte del legislatore statale, il quale, per di più, sarebbe intervenuto in una materia sottratta alla propria sfera di competenza normativa.
7.1.– Con atto depositato il 27 dicembre 2011, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha formulato le medesime osservazioni svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Lazio.
8.– La Regione autonoma Sardegna, con ricorso notificato il 15 novembre 2011 e depositato il 24 novembre 2011 (reg. ric. n. 160 del 2011), ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 138 del 2011 e, tra queste, dell’art. 16, per violazione dell’art. 3, primo comma, lettera b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), ai sensi del quale «In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, la Regione ha potestà legislativa nelle seguenti materie: [...] b) ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni».
La Regione autonoma, inoltre, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, ultimo periodo, per violazione anche dell’art. 117, sesto comma, Cost.
Il ricorso è articolato in due questioni.
A) Secondo la Regione l’art. 16, intervenendo in materia di ordinamento degli enti locali, avrebbe invaso un ambito materiale riservato dallo statuto alla potestà legislativa regionale.
La ricorrente pone in risalto che la norma impugnata regola la costituzione, le attribuzioni, l’organizzazione e il funzionamento delle unioni di Comuni e ravvisa la violazione del parametro statutario nella parte in cui l’art. 16, predisponendo una regolamentazione «di estremo dettaglio e particolarmente stringente», disciplina: a) i criteri per la costituzione obbligatoria e facoltativa delle unioni (commi da 1 a 3) e per l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali dei Comuni (commi 22 e 24); b) il procedimento per la redazione dei bilanci di previsione (comma 4); c) il procedimento per la costituzione dell’unione stessa (commi 8 e 9); d) gli organi di governo dell’unione e le rispettive competenze (commi 10 e seguenti); e) la composizione degli organi di governo e di controllo dei Comuni che non sono obbligati a costituire un’unione, e lo svolgimento delle loro funzioni istituzionali e la rendicontazione delle spese di rappresentanza (commi da 17 a 21, 25 e 26); f) i nuovi criteri di definizione degli enti locali cui è fatto divieto di costituire società (comma 27); g) la verifica, da parte del Prefetto, dell’avvenuta soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, di cui all’art. 2, comma 186, lettera e), della legge n. 191 del 2009, e l’eventuale esercizio di poteri sostitutivi da parte del Presidente del Consiglio dei ministri (comma 28); h) la mancata produzione di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e l’assoggettabilità al patto di stabilità interno di tutti i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti (commi 30 e 31).
La Regione evidenzia, che la illegittimità costituzionale non è scongiurata dalla clausola di salvaguardia prevista dal comma 29, secondo cui «Le disposizioni [...] si applicano ai comuni appartenenti alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano nel rispetto degli statuti delle regioni e province medesime, delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42». Tale clausola, ad avviso della Regione, avrebbe un valore meramente di stile, «perché la normativa statale, nella materia di cui al citato art. 3, comma 1, lettera b), dello statuto, non può avere alcun ingresso, nemmeno nelle forme cautelative della previsione qui censurata».
Inoltre, la Regione lamenta che la disposizione non introduce norme di carattere generale o limitate ai principi di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti non necessari. Stabilisce, invece, in via autoritativa e unilaterale, il livello demografico della cosiddetta intercomunalità, procedendo, poi, ad una regolamentazione di dettaglio destinata ad essere recepita in via automatica dalla Regione, seppur tenendo conto di quanto previsto dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, in materia di concorso al conseguimento degli obiettivi di perequazione e solidarietà delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano.
Secondo la ricorrente, quindi, tale regolamentazione non risulta affatto necessaria per la realizzazione degli obiettivi di maggiore efficienza perseguiti dal legislatore statale. Piuttosto si sarebbe dovuto lasciare alla Regione il potere di determinare le modalità concrete di attuazione del principio dell’intercomunalità, in modo da renderlo più aderente alle diverse realtà locali.
La ricorrente osserva che l’art. 16 lede le attribuzioni conferite alla Regione dall’art. 3, primo comma, dello statuto speciale, nella parte in cui impone di esercitare in forma associata non solo le funzioni statali delegate agli enti locali, ma anche quelle proprie dei Comuni e quelle ad essi assegnate da leggi regionali. L’istituzione obbligatoria di unioni di Comuni, la contestuale riduzione dei consigli comunali a puri organi di partecipazione e del sindaco a semplice ufficiale di Governo, determinerebbero, di fatto, la soppressione dei Comuni che partecipano a questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di ente territoriale, in violazione esplicita della competenza in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni».
La fondatezza della censura, prosegue la Regione, trova conferma nella giurisprudenza costituzionale secondo cui alla disposizione statutaria occorre dare l’interpretazione più ampia che sia consentita, tanto che in essa deve essere ricompresa anche la potestà di istituire nuove Province (sentenza n. 230 del 2001), nonché quella di regolare la finanza locale (sentenza n. 275 del 2007).
B) La Regione autonoma Sardegna, poi, impugna specificamente l’art. 16, comma 4, ultimo periodo, nella parte in cui prevede un regolamento statale in materia di competenza regionale, per violazione, oltre che del citato art. 3, primo comma, lettera b), dello statuto speciale per la Sardegna, anche dell’art. 117, sesto comma, Cost., che esclude la potestà regolamentare dello Stato nelle materie di competenza regionale.
In particolare, la ricorrente ritiene che siano ricompresi nella materia «ordinamento degli enti locali» il «procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione del documento programmatico», i «poteri di vigilanza sulla sua attuazione» e la «successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun comune e l’unione».
8.1.– Con atto depositato il 23 dicembre 2011, si è costituito nel giudizio promosso dalla Regione Sardegna, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha formulato le medesime osservazioni svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Liguria.
9.– Nelle more della decisione dei suddetti ricorsi è intervenuto il decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135. L’art. 19, comma 2, di tale provvedimento legislativo ha sostituito i commi da 1 a 16 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, con i commi da 1 a 13 della normativa sopravvenuta.
10.– Con ricorso notificato il 12-17 ottobre 2012 e depositato il 16 ottobre 2012 (reg. ric. n. 145 del 2012), la Regione Lazio ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 95 del 2012 e, tra queste, dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, per contrasto con il combinato disposto dei commi secondo, lettera p), terzo e quarto dell’art. 117 Cost.
La ricorrente pone in risalto che la norma sopravvenuta conferma, per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, l’obbligo di esercitare in forma associata, mediante unione di Comuni, tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti. Inoltre, stabilisce «che le Regioni, nelle materie di cui all’art. 117, commi 3 e 4, Cost., individuano le dimensioni territoriali ottimali per l’esercizio delle funzioni in forma obbligatoriamente associata, mediante unioni e convenzioni».
Secondo la Regione «tutta la riferita disciplina è da ritenersi illegittima per violazione del combinato disposto degli artt. 117, secondo comma, lettera p), e 117, commi terzo e quarto, Cost., con conseguente lesione di sfere di competenza costituzionalmente assegnate alla Regione ricorrente».
In particolare, si afferma, la disciplina delle associazioni degli enti locali va ricondotta alla competenza legislativa delle Regioni e non dello Stato. Quest’ultima, infatti, limitata alla «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», non ricomprende gli aspetti riguardanti l’associazionismo di tali enti. Peraltro, prosegue la Regione, tale principio trova riscontro nella giurisprudenza costituzionale in tema di comunità montane, che ha sottolineato come l’indicazione degli enti di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. debba considerarsi tassativa.
La ricorrente riporta testualmente il passaggio della motivazione della sentenza n. 456 del 2005, ove si afferma: «Da qui la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione».
10.1.– Con atto depositato il 26 novembre 2012, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha sostenuto l’infondatezza delle censure, in quanto la norma in esame, nel dettare disposizioni sulle funzioni fondamentali dei Comuni e sulle modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali nonché in materia di unioni di Comuni di cui al TUEL, lungi dall’invadere sfere di competenza legislativa regionale, troverebbe fondamento nell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. che attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato la materia «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
11.– Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato il 17 ottobre 2012 (reg. ric. n. 151 del 2012), la Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 95 del 2012 e, tra queste, dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, per contrasto con gli artt. 117, quarto comma, in combinato disposto con il secondo e il terzo comma, 118, primo e secondo comma, 119, 3 e 97 Cost.
Il ricorso è articolato in più questioni.
A) La ricorrente, premessa una breve sintesi delle norme censurate, motiva la propria legittimazione ad agire richiamando la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 169 del 2007) che ha ritenuto ammissibile la denuncia da parte di una Regione dell’illegittimità costituzionale di una legge statale per violazione delle competenze degli enti locali «purché la “stretta connessione […] tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consenta di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali” (sentenze n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e 196 del 2004)».
Nel merito, la Regione Veneto assume che le disposizioni censurate si pongono in contrasto, innanzitutto, con l’art. 117, quarto comma, Cost., dalla cui lettura (in combinato disposto con il secondo e terzo comma, del medesimo art. 117) si ricaverebbe che la materia «forme associative tra gli enti locali» rientra nella potestà legislativa regionale residuale.
La ricorrente trae conferma della fondatezza del proprio assunto da quanto affermato dalla Corte costituzionale a proposito delle comunità montane e, in particolare, da un passo della motivazione della sentenza n. 244 del 2005 (vengono richiamate anche le sentenze n. 27 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 456 del 2005) ove si legge che le comunità montane costituiscono «un caso speciale di unioni di Comuni», dotate di autonomia «(non solo dalle Regioni ma anche) dai Comuni, come dimostra, tra l’altro, l’espressa attribuzione alle stesse della potestà statutaria e regolamentare». L’autonomia delle comunità montane non gode tuttavia di garanzia costituzionale, così che la loro disciplina «rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.».
La Regione nega che la norma censurata possa considerarsi espressione della potestà legislativa esclusiva statale riconducibile all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. e, citando ancora la giurisprudenza costituzionale sulle comunità montane, ricorda che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. «fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane e l’indicazione deve ritenersi tassativa. Da qui la conseguenza che la disciplina delle Comunità montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione» (sentenza n. 244 del 2005).
Pertanto, secondo la ricorrente, la norma censurata violerebbe l’art. 117, secondo e terzo comma, Cost., nella parte in cui disciplina l’esercizio associato obbligato, da parte di Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, mediante unione di Comuni o convenzione, di tutte le funzioni e di tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente e non solo, dunque, delle funzioni fondamentali.
Con più specifico riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., la Regione contesta che l’intervento normativo possa ricondursi alla potestà legislativa esclusiva dello Stato o alla competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica perché, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (è richiamata la sentenza n. 417 del 2005), la disciplina di principio dei vincoli finanziari si configura compatibile con l’autonomia degli enti costituzionalmente garantiti, come le Regioni ed i Comuni, solo quando stabilisca tassativamente un limite complessivo di intervento – avente ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita della spesa corrente – lasciando agli enti stessi piena autonomia e libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa.
La Regione, infine, lamenta l’imposizione dell’esercizio associato di funzioni fondamentali, e censura l’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012 denunciando la violazione dell’art. 118, primo comma, Cost., secondo cui «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza».
B) Secondo la ricorrente, poi, la disposizione impugnata lederebbe «il potere (costituzionalmente garantito) della Regione di conferire, mediante legge regionale, funzioni amministrative ai Comuni (e non ad unioni degli stessi imposte o autorizzate dallo Stato), nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza». Da ciò discenderebbe la violazione anche dell’art. 118, secondo comma, Cost., secondo cui «I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze»
C) La ricorrente censura ulteriormente l’art. 19, commi 2, 5 e 6, nella parte in cui stabilisce che i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti sono obbligati, senza distinzioni (e, quindi, in violazione del principio costituzionale di differenziazione) all’esercizio mediante unione di Comuni o convenzione delle loro funzioni fondamentali, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost.
D) Infine, la Regione Veneto impugna l’art. 19, commi 2, 5 e 6, nella parte in cui disciplina l’esercizio associato obbligatorio, da parte di Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, mediante unione di Comuni o convenzione, di tutte le funzioni e di tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente e non solo delle funzioni fondamentali, comprimendo, così, l’autonomia degli enti costituzionalmente garantiti, e soprattutto nella parte in cui affida all’unione, per conto dei Comuni associati, la programmazione economico-finanziaria e la gestione contabile di cui alla parte seconda del TUEL, la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei Comuni associati, nonché quella patrimoniale, con riferimento alle funzioni da essi esercitate per mezzo dell’unione, ravvisando la violazione dell’art. 119 Cost. che attribuisce ai Comuni autonomia finanziaria di entrata e di spesa.
Con il medesimo ricorso, la Regione Veneto ha presentato istanza di sospensione cautelare, ai sensi degli artt. 35 e 40 della legge n. 87 del 1953, degli artt. 17, 18 e 19 del d.l. n. 95 del 2012.
La ricorrente, rinviando a quanto esposto per motivare la sussistenza del presupposto del fumus boni iuris, con riferimento al periculum in mora, ha sostenuto che le scadenze previste dalle disposizioni impugnate (14 ottobre 2012 per il riordino delle Province; 1° gennaio 2013 per l’esercizio associato di funzioni per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti; ulteriori scadenze relative all’istituzione di Città metropolitane e soppressione delle Province del relativo territorio) non si conciliano con i tempi necessari per addivenire ad una decisione sulle questioni di legittimità costituzionale promosse in via principale.
Nelle more, dunque, potrebbero consolidarsi assetti istituzionali e normativi (riordino/soppressione delle Province, istituzione di Città metropolitane, creazione di unioni di Comuni) divergenti dal vigente disegno costituzionale.
Pertanto, conclude la Regione, «ad oggi, si configura certamente il rischio di un irreparabile pregiudizio all’ordinamento della Repubblica, con conseguente grave ed irreparabile pregiudizio dell’interesse pubblico e dei diritti dei cittadini».
11.1.– Con atto depositato il 21 novembre 2012, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando le medesime osservazioni svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Lazio.
11.2.– Il 29 maggio 2013 la Regione Veneto ha depositato una memoria illustrativa in vista dell’udienza pubblica del 19 giugno 2013, limitata agli artt. 16-bis, 19 e 23-ter, comma 1, lettera g), del d.l. n. 95 del 2012, ribadendo, con riferimento all’art. 19, commi 2, 5 e 6, quanto già illustrato nell’atto introduttivo.
12.– Con ricorso notificato il 13-17 ottobre 2012 e depositato il 18 ottobre 2012 (reg. ric. n. 153 del 2012) la Regione Campania ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 95 del 2012 e, tra queste, dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, per contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera p), quarto comma, e 118 Cost.
La ricorrente rammenta di aver già promosso questioni di legittimità costituzionale (reg. ric. n. 153 del 2011) dell’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, i cui commi da 1 a 16, sono stati sostituiti con i commi da 1 a 13 dal censurato art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012. Ribadisce, inoltre, l’illegittima incidenza della disciplina previgente sulla sfera di competenze legislative regionali ed osserva che le modifiche apportate dallo ius superveniens non soddisfano le ragioni sottese al primo ricorso.
Infatti, sebbene la nuova formulazione dell’art. 16 preveda l’esercizio associato di tutte le funzioni e di tutti i servizi, per i Comuni fino a 1.000 abitanti, come non più obbligatorio, bensì alternativo alle modalità di cui all’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, non vi sarebbe dubbio che la disposizione statale incide parimenti in modo illegittimo sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alle Regioni, violando l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, nonché l’art. 118 Cost.
La Regione rileva che nulla è stato innovato circa le attribuzioni riconosciute all’unione quale forma associativa. In particolare, permangono: a) l’istituzione di un nuovo ente locale dotato di competenza in materia di programmazione economico-finanziaria e di gestione contabile, nonché di potestà impositiva e patrimoniale; b) la successione dell’unione a tutti gli effetti nei rapporti giuridici inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, con trasferimento di risorse umane e strumentali, oltre ai relativi rapporti finanziari; c) l’attribuzione all’unione di potestà statutaria e organi propri, alla cui proclamazione corrisponde la decadenza di diritto delle giunte dei singoli Comuni associati.
La ricorrente ravvisa, poi, la violazione delle competenze regionali nella disciplina dell’iter di formazione delle menzionate forme associative. La disposizione, infatti, prevede l’obbligo della Regione di sancire l’istituzione di tutte le unioni del proprio territorio attenendosi alle proposte di aggregazione formulate dai Comuni interessati sulla base dei criteri demografici prescritti dalla normativa statale. Né, secondo la ricorrente, la violazione del riparto di competenze delineato dagli artt. 117 e 118 Cost. sarebbe esclusa dall’attribuzione alla Regione della facoltà di individuare limiti demografici diversi da quelli statali (art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012).
Infine, la Regione Campania prospetta argomentazioni di contenuto sostanzialmente identico a quelle di cui si è detto con riferimento al ricorso n. 153 del 2011, sub b), alle quali si rinvia.
12.1.– Con atto depositato il 26 novembre 2012, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando le medesime osservazioni svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Lazio (reg. ric. n. 145 del 2012).
13.– Con ricorso notificato il 12 ottobre 2012 e depositato il 19 ottobre 2012 (reg. ric. n. 160 del 2012), la Regione autonoma Sardegna ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 95 del 2012 e, tra queste, dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, per violazione dell’art. 3, primo comma, lettera b), della legge cost. n. 3 del 1948, ai sensi del quale «In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, la Regione ha potestà legislativa nelle seguenti materie: [...] b) ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», nonché dell’art. 117, quarto comma, Cost.
La Regione autonoma Sardegna, inoltre, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, nella parte in cui sostituisce il comma 2, ultimo capoverso, dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., oltre che del citato art. 3, primo comma, lettera b), della legge cost. n. 3 del 1948.
La ricorrente segnala di aver già promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 ed evidenzia che la impugnazione della norma sopravvenuta discende dalla sostanziale persistenza dei vizi denunciati.
Premesso che le disposizioni impugnate, sostituendo i commi da 1 a 16 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, avrebbero inciso in modo limitato sull’impianto preesistente, confermando, in particolare, l’obbligo di esercitare le funzioni in forma associata, mediante unione di Comuni o convenzione, la Regione ravvisa nella nuova disciplina un’ulteriore modifica dell’organizzazione politico-amministrativa dei Comuni minori della Sardegna, attuata attraverso una disciplina di estremo dettaglio.
Il ricorso è articolato in due questioni che, in larga misura, ripropongono i contenuti illustrati con l’impugnazione della disposizione originaria. Vi è però, in questo caso, l’indicazione di un ulteriore parametro costituzionale, l’art. 117, quarto comma, Cost., invocato in relazione alla prima censura.
A) Secondo la ricorrente, il contrasto delle previsioni impugnate con le norme che garantiscono alla Regione Sardegna una sfera di autonomia legislativa esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» (art. 3, primo comma, lettera b, dello statuto) è palmare. Infatti, «l’istituzione obbligatoria di unioni di comuni, la contestuale riduzione dei consigli comunali a puri organi di partecipazione e del sindaco a semplice ufficiale di Governo producono l’effetto di determinare di fatto la soppressione dei comuni che partecipano a questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di ente territoriale, in violazione esplicita della competenza in materia di “ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni” di cui al più volte citato art. 3, comma 1, lett. b), dello statuto».
Peraltro, osserva la ricorrente, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che alla disposizione statutaria occorre dare l’interpretazione più ampia che sia consentita, tanto che in essa deve essere ricompresa anche la potestà di istituire nuove Province (è citata la sentenza n. 230 del 2001), nonché quella di regolare la finanza locale (è citata la sentenza n. 275 del 2007).
Con riferimento alla violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., la Regione lamenta che il legislatore, disciplinando il fenomeno associativo tra Comuni, avrebbe «travalicato i confini della propria competenza legislativa, non solo violando l’art. 3, comma 1, dello statuto sardo, ma anche usurpando la competenza residuale delle Regioni a statuto ordinario, che, ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, è garantita anche alla ricorrente».
Al riguardo la Regione richiama la giurisprudenza costituzionale sulle comunità montane e, in particolare, la sentenza n. 456 del 2005, nella parte in cui riconduce la disciplina delle dette comunità alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
Per altro verso, la ricorrente, ribadendo quanto detto con il primo ricorso, evidenzia che la illegittimità costituzionale non potrebbe ritenersi scongiurata dalla clausola di salvaguardia prevista dal comma 29 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, secondo cui «Le disposizioni [...] si applicano ai comuni appartenenti alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano nel rispetto degli statuti delle regioni e province medesime, delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42». Tale clausola, a parere della Regione, avrebbe un valore meramente di stile, «perché la normativa statale, nella materia di cui al citato articolo 3, comma 1, lett. b), dello Statuto, non può avere alcun ingresso, nemmeno nelle forme cautelative della previsione qui censurata».
La ricorrente, peraltro, lamenta che la disposizione censurata non introduce norme di carattere generale o limitate ai principi di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti non necessari. Sul punto vengono ripetute le osservazioni svolte con il ricorso n. 160 del 2011, sub A), alla cui illustrazione si rinvia.
B) La Regione autonoma Sardegna, inoltre, impugna l’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, specificamente nella parte in cui sostituisce il comma 2, ultimo capoverso, dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011. In tal caso vengono ripetute le osservazioni svolte con riferimento all’art. 16, comma 4, ultimo periodo, con il ricorso n. 160 del 2011, sub B), alla cui illustrazione si rinvia.
13.1.– Con atto depositato il 21 novembre 2012, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando le medesime osservazioni svolte in relazione al ricorso presentato dalla Regione Puglia.
14.– Con ricorso notificato il 15-18 ottobre 2012 e depositato in cancelleria il 24 ottobre 2012 (reg. ric. n. 172 del 2012), la Regione Puglia ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse norme del d.l. n. 95 del 2012 e, tra queste, dell’art. 19, comma 2, per contrasto con gli artt. 117, commi secondo, lettera p), terzo e quarto, 118, secondo comma, e 119, primo, secondo e sesto comma, Cost.
A) La ricorrente, in primo luogo, censura l’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, nella parte in cui, sostituendo i commi da 4 a 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, regola le procedure di istituzione e la struttura organizzativa delle unioni di Comuni.
Secondo la Regione, le disposizioni violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., perché lo Stato non dispone della competenza legislativa a dettare una disciplina generale degli enti locali differenti da quelli espressamente indicati dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. Infatti, a seguito della riforma costituzionale operata con la legge cost. n. 3 del 2001, ed in particolare del combinato disposto del nuovo testo dell’art. 117 Cost. e dell’abrogazione dell’art. 128 Cost., il legislatore statale non dispone più di una competenza generale in questa materia, potendo invece dettare soltanto le norme inerenti alla legislazione elettorale, alle funzioni fondamentali e agli organi di governo di Comuni, Province e Città metropolitane.
B) La Regione Puglia censura, poi, l’art. 19, comma 2, relativamente al comma 1, dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, lamentando che l’inclusione nell’esercizio in forma associata anche di funzioni ricadenti nell’ambito dell’art. 117, quarto comma, Cost. violerebbe quest’ultimo parametro, nonché l’art. 118, secondo comma, Cost., il quale prescrive che le funzioni amministrative siano allocate, in base al principio di sussidiarietà, dal legislatore competente per materia.
C) La ricorrente, inoltre, impugna l’art. 19, comma 2, nella parte in cui, sostituendo il comma 3, primi due periodi, dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, prevede che l’unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici in essere alla data della sua costituzione, inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, e che, relativamente a questi ultimi, vengono trasferite all’unione tutte le risorse umane e strumentali, nonché i relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio.
In particolare, secondo la Regione, dette disposizioni presenterebbero carattere accessorio rispetto al nuovo comma 1 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo in vigore per effetto della sostituzione operata dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, che contiene un “principio di allocazione” delle funzioni amministrative. Pertanto, la verifica in ordine alla compatibilità costituzionale non potrebbe prescindere da quella effettuata in relazione alla norma dalla quale dipendono.
Sulla base delle ragioni riferite al citato comma 1 dell’art. 16, la ricorrente conclude che anche i primi due periodi del comma 3 del medesimo art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 sono costituzionalmente illegittimi per violazione degli artt. 117, quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., nella parte in cui si rivolgono a funzioni ricadenti in materie affidate alla competenza residuale regionale.
D) La Regione prosegue puntualizzando che le considerazioni svolte possono essere rivolte anche al nuovo comma 12 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, il quale prevede che «L’esercizio in forma associata di cui al comma 1 può essere assicurato anche mediante una o più convenzioni ai sensi dell’articolo 30 del testo unico, che hanno durata almeno triennale. Ove alla scadenza del predetto periodo, non sia comprovato, da parte dei comuni aderenti, il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo modalità stabilite con il decreto di cui all’articolo 14, comma 31-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, agli stessi si applica la disciplina di cui al comma 1».
Ribadito che la potestà legislativa statale non si estende alla disciplina di quelle funzioni amministrative riconducibili alle materie di competenza residuale regionale, la ricorrente afferma che il nuovo comma 12 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, sarebbe incostituzionale per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., nella parte in cui si rivolge anche a funzioni ascrivibili alle materie di competenza residuale regionale.
E) Da ultimo, la Regione censura l’art. 19, comma 2, nella parte in cui, sostituendo il comma 2 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, affida all’unione la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei Comuni associati, nonché quella patrimoniale, con riferimento alle funzioni da essi esercitate per mezzo dell’unione stessa.
Secondo la ricorrente, tale previsione violerebbe l’art. 119, primo, secondo e sesto comma, Cost. che, nel riconoscere esclusivamente agli enti autonomi costitutivi della Repubblica l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, il potere di stabilire ed applicare «tributi ed entrate propri» («in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»), nonché la disponibilità di un proprio patrimonio, impedirebbe alla legge statale di sottrarre ai suddetti enti autonomia impositiva e di entrata, nonché risorse patrimoniali, a vantaggio di nuovi e diversi enti territoriali.
Sotto altro e connesso profilo, la Regione lamenta la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto la norma non sarebbe riconducibile ad un principio fondamentale e invaderebbe, quindi, gli spazi costituzionalmente affidati alla potestà legislativa regionale.
Con riferimento alla asserita violazione dell’art. 119, primo, secondo e sesto comma, Cost. la ricorrente evidenzia che il legislatore statale, mentre può certamente attribuire ad enti locali diversi da quelli indicati dall’art. 119 l’autonomia di entrata e di spesa, fissando norme di “coordinamento” (ad esempio, attribuendo alle unioni di Comuni la potestà di decidere tra aliquota minima e massima di tributi istituiti dallo Stato), non può, per converso, «attribuire alle unioni spazi di autonomia di entrata sottraendola ai comuni che ne fanno parte e pretendendo di disciplinare l’intera materia della potestà impositiva e delle entrate di questi enti». Ciò anche perché, prosegue la Regione, come emerge chiaramente dalla giurisprudenza costituzionale in materia di comunità montane, le unioni di Comuni sono enti locali differenti dai Comuni che ne fanno parte (si richiamano le sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del 2006, n. 244 e n. 456 del 2005).
Altrettanto può dirsi, conclude la ricorrente, con riferimento al patrimonio. L’art. 119, sesto comma, Cost., stabilisce, infatti, che «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. […]». Ne discende che il legislatore statale può certamente perseguire l’obiettivo di dotare le unioni di Comuni di un proprio patrimonio, ma non può realizzarlo «spogliando di quel patrimonio i soggetti che, in base alla citata disposizione costituzionale, debbono esserne titolari o, ancor peggio, che ne risultino già titolari allo stato attuale».
14.1.– Con atto depositato il 26 novembre 2012, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha ritenuto le censure infondate in quanto la norma in esame, nel dettare disposizioni sulle funzioni fondamentali dei Comuni e sulle modalità di esercizio associato di funzioni e servizi comunali, nonché in materia di unioni di Comuni di cui al TUEL, lungi dall’invadere sfere di competenza legislativa regionale, troverebbe fondamento nell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. che attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato la materia «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
In particolare, l’Avvocatura generale dello Stato ha sostenuto che la norma in esame include legittimamente funzioni attinenti alla vita e al governo dell’ente, ossia di organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria, contabile e di controllo, che, contrariamente alla prospettazione della ricorrente, vanno tenute distinte dalle funzioni amministrative in senso stretto, le quali soltanto sono destinate ad essere allocate tra gli enti locali nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
Inoltre, conclude l’Avvocatura, le norme impugnate si collocano in un contesto di disposizioni finalizzate ad assicurare il contenimento delle spese degli enti territoriali e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative. Esse, pertanto, rientrano a pieno titolo nelle prerogative statali in materia di «coordinamento della finanza pubblica».
14.2.– Il 27 maggio 2013 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria illustrativa in vista dell’udienza pubblica del 19 giugno 2013, ribadendo, con riferimento all’art. 19, comma 2, quanto già illustrato con l’atto di costituzione ed aggiungendo che la legittimità costituzionale della norma impugnata trova conferma nel fatto che le funzioni fondamentali dei Comuni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., coincidono con quelle indicate dall’art. 118, secondo comma, Cost. Pertanto la regola costituzionale secondo cui la legge dello Stato e la legge regionale, secondo le rispettive competenze, conferiscono funzioni amministrative a Comuni, Province e Città metropolitane, subisce un’eccezione nella determinazione delle funzioni fondamentali degli stessi enti, riservate, in ogni campo, alla legislazione statale.
Tale impostazione, secondo l’Avvocatura, sarebbe confortata dalla coincidenza tra la nozione di funzioni fondamentali e quella di funzioni proprie che si rinviene nell’art. 2, comma 4, della legge n. 131 del 2003. Il legislatore statale, dunque, libero nell’individuare e assegnare le funzioni fondamentali, incontrerebbe i soli limiti posti dall’art. 117, sesto comma, Cost., che attribuisce a Comuni, Province e Città metropolitane la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
L’Avvocatura generale dello Stato evidenzia, inoltre, che «la tesi volta a ricomprendere nella nozione di “funzioni fondamentali” esclusivamente le funzioni di carattere istituzionale è risultata disattesa già dalla legge n. 131 del 2003, che, all’art. 2, comma 1, fa riferimento, per l’individuazione delle funzioni fondamentali, a quelle funzioni essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane, nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento».
Infine, la difesa dello Stato richiama la giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto la legittimità di disposizioni statali in materie di competenza residuale delle Regioni, nei casi in cui esse siano espressione di principi fondamentali nella materia del «coordinamento della finanza pubblica» (sono citate le sentenze n. 27 del 2010 e n. 237 del 2009).
15.– Il 12 novembre 2013 la Regione Puglia ha depositato una memoria difensiva relativa al giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011, insistendo per l’accoglimento dello stesso.
La ricorrente, circa la perdurante necessità di una definizione nel merito delle questioni di legittimità costituzionali promosse con riferimento al testo originario dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, ha osservato che la disciplina censurata «conteneva termini che non possono far escludere che essa abbia ricevuto una qualche concreta applicazione medio tempore».
Replicando alla prima memoria difensiva dell’Avvocatura dello Stato, depositata il 23 dicembre 2011, la Regione ha ribadito l’ammissibilità delle censure articolate in relazione agli artt. 119 e 133 Cost., evidenziando che tali parametri «non sono invocati nel ricorso a sostegno di autonome questioni, bensì in combinato disposto con le altre norme costituzionali sulle quali risultano costruite le specifiche censure dedotte».
Inoltre la ricorrente contesta il fondamento dell’eccezione di inammissibilità della censura rivolta all’art. 16, comma 16, per effetto della mancata indicazione dei parametri di riferimento nell’epigrafe e nelle conclusioni, nonché per carenza di legittimazione attiva, rimarcando, da un lato, che la censura è compiutamente motivata nel corpo del ricorso e, dall’altro, che la disciplina impugnata determina una “lesione indiretta” delle prerogative regionali.
Allo stesso modo, invocando la giurisprudenza costituzionale al riguardo (è citata la sentenza n. 311 del 2012), la Regione afferma la propria legittimazione a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali.
Nel merito, la ricorrente ribadisce che l’intervento del legislatore statale avrebbe ad oggetto una materia, quella dell’organizzazione degli enti locali, riconducibile alla potestà legislativa residuale regionale.
15.1.– Il 12 novembre 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011, ha depositato una memoria illustrativa con la quale, premesso che «La norma originaria non ha avuto attuazione, perché al momento della sua modificazione non erano ancora scaduti i termini da essa previsti per l’istituzione delle Unioni», ha chiesto alla Corte di dichiarare cessata la materia del contendere, richiamando, in subordine le eccezioni formulate nella memoria difensiva.
15.2.– Il 12 novembre 2013 la Regione Puglia ha depositato una memoria illustrativa riferita al giudizio promosso con il ricorso n. 172 del 2012, insistendo per l’accoglimento dello stesso.
Assume la ricorrente che l’intervento del legislatore statale non può essere ricondotto né alla disciplina delle funzioni fondamentali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., né alla materia del coordinamento della finanza pubblica, posto che, nella specie, la riduzione della spesa rappresenta solo un aspetto marginale e riflesso (è citata ancora la sentenza n. 237 del 2009).
16.– Il 12 novembre 2013 le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria hanno depositato uguali memorie difensive riferite ai ricorsi n. 144, n. 146 e n. 147 del 2011, insistendo per l’accoglimento delle impugnazioni.
In particolare, le ricorrenti affermano che la nuova disciplina introdotta con l’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012 riproduce sostanzialmente le stesse lesioni denunciate con riferimento alle norme originarie. L’unica novità rilevante sarebbe costituita dalla previsione della possibilità, non più dell’obbligo, di esercitare tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici mediante unione di Comuni.
Tuttavia, si tratterebbe di una modifica inidonea ad escludere la denunciata illegittimità costituzionale che, secondo le Regioni, permane anche con riferimento ai rimanenti commi oggetto di sostituzione.
Sotto altro profilo, con riferimento alla asserita violazione dell’art. 77 Cost. e ad ulteriore conferma della fondatezza delle ragioni espresse con i ricorsi, le ricorrenti richiamano la recente sentenza n. 220 del 2013 con la quale la Corte costituzionale ha affermato la non utilizzabilità dello strumento del decreto-legge quando si intende introdurre nuovi assetti ordinamentali.
16.1.– Il 12 novembre 2013 l’Avvocatura dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 144 del 2011, ha depositato una memoria illustrativa di tenore identico a quella depositata nel giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011 presentato dalla Regione Puglia, alla cui illustrazione si rinvia.
17.– Il 12 novembre 2013 la Regione Campania ha depositato una memoria difensiva riferita al giudizio promosso con il ricorso n. 153 del 2011, con il quale aveva impugnato l’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, insistendo per l’accoglimento dello stesso.
In particolare, la ricorrente, premesso che la modifica più rilevante rispetto al testo originario sarebbe data dal fatto che nel testo sopravvenuto non si prevede più l’obbligo, ma solo la possibilità di esercitare tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici mediante unione di Comuni, afferma la persistenza dell’interesse alla declaratoria di illegittimità costituzionale, riportandosi alle censure e alle eccezioni sollevate negli atti processuali.
Inoltre, la medesima Regione pone in rilievo, da un lato, che la materia è oggetto di un disegno di legge di riforma e, dall’altro, contestando la riferibilità dell’intervento ai principi di coordinamento della finanza pubblica, che l’implementazione del nuovo regime non garantisce effettivi risparmi di spesa.
17.1.– Il 12 novembre 2013 l’Avvocatura dello Stato, con riferimento al ricorso n. 153 del 2011, ha depositato una memoria illustrativa di tenore identico a quella depositata nel giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011 presentato dalla Regione Puglia, alla cui illustrazione si rinvia.
17.2.– Il 12 novembre 2013 la Regione Campania ha depositato una memoria difensiva riferita al giudizio promosso con il ricorso n. 153 del 2012, ribadendo le censure e insistendo per l’accoglimento dello stesso.
La ricorrente, in particolare, afferma che le modifiche apportate dal testo sopravvenuto non possono considerarsi satisfattive delle ragioni sottese al primo ricorso in quanto «la disposizione statale continua […] ad incidere sulla sfera di competenza legislativa regionale in tema di disciplina delle forme associative degli Enti locali presenti sul proprio territorio».
Infatti, «la regolamentazione degli Enti locali deve essere ricondotta nella competenza residuale delle Regioni ex art. 117, comma 4, Cost.».
Al riguardo, la Regione richiama la giurisprudenza costituzionale in materia di comunità montane e, in particolare, le sentenze n. 27 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 244 del 2005.
La ricorrente, inoltre, in via subordinata rispetto alla violazione lamentata con riferimento al parametro sopra citato, afferma il contrasto delle disposizioni impugnate con l’art. 118 Cost., in combinato disposto con l’art. 117 Cost., per quanto riguarda l’attribuzione di funzioni ai Comuni e il rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
17.3.– Il 5 novembre 2013 l’Avvocatura dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 153 del 2012, ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha affermato la conformità delle norme impugnate alla Costituzione, in quanto riconducibili ai principi di coordinamento della finanza pubblica.
18.– Il 12 novembre 2013 la difesa dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 134 del 2011, ha depositato una memoria illustrativa di tenore identico a quella depositata nel giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011 presentato dalla Regione Puglia, alla cui illustrazione si rinvia.
19.– Il 5 novembre 2013 l’Avvocatura dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 145 del 2012, ha depositato una memoria illustrativa di tenore identico a quella depositata nel giudizio promosso con il ricorso n. 153 del 2012.
20.– Il 12 novembre 2013 la Regione Veneto ha depositato una memoria difensiva riferita al giudizio promosso con il ricorso n. 145 del 2011, ribadendo le censure a suo tempo illustrate.
In particolare, ad avviso della ricorrente, «la disciplina normativa è rimasta sostanzialmente pressoché invariata con la conseguenza che le questioni prospettate avverso l’art. 16 potrebbero essere trasferite automaticamente sul testo coordinato con le modifiche intervenute».
La Regione, infatti, afferma che aver reso l’esercizio associato non più obbligatorio, bensì alternativo rispetto al modello disciplinato dall’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, in aggiunta, peraltro, all’ulteriore modello aggregativo costituito dalla convenzione ai sensi dell’art. 32 del TUEL, non elimina il vizio di fondo dell’intervento del legislatore statale, ossia la mancanza della potestà legislativa per poter disciplinare la materia in esame.
Secondo la ricorrente, le disposizioni impugnate non possono essere ricondotte né alla competenza esclusiva dello Stato in materia di funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., né ai principi di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
Premesso che una riforma organica con le caratteristiche di quella operata dal legislatore statale non sarebbe compatibile con lo strumento della decretazione d’urgenza (si cita la recente sentenza n. 220 del 2013), la Regione evidenzia che «le modifiche apportate all’articolo 16 censurato rientrano in un generale e più articolato processo di riordino delle funzioni comunali e delle modalità di esercizio delle stesse» e, dunque, vertono in una materia riconducibile alla competenza legislativa residuale delle Regioni (si cita la sentenza n. 237 del 2009).
Inoltre, la ricorrente ricorda che la violazione dei parametri costituzionali indicati discende anche dalla considerazione che nel testo censurato «è assente un obiettivo generale di spesa, e ne consegue che il meccanismo associativo viene imposto indipendentemente dall’effettività del risparmio economico atteso, che non viene fissato neppure con parametri percentuali». Al riguardo la Regione pone in rilievo che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 2013, «ha dichiarato la legittimità dell’art. 9 del decreto-legge n. 95/2012 proprio perché “La norma impugnata, infatti, dopo aver indicativamente previsto la possibilità di una soppressione o di un accorpamento degli ‘enti, agenzie e organismi comunque denominati’, limita il contenuto inderogabile della disposizione al risultato di una riduzione del 20 per cento dei costi del funzionamento degli enti strumentali degli enti locali. In sostanza, l’accorpamento o la soppressione di taluni di questi enti può essere lo strumento, ma non il solo, per ottenere l’obiettivo di una riduzione del 20 per cento dei costi”».
Per altro verso, la Regione prospetta la lesione del principio di rappresentatività dei cittadini chiamati ad eleggere il sindaco e «poi esclusi dal processo di trasferimento di poteri e funzioni istituzionali […] ad altro organo, ovvero al Consiglio dell’unione di comuni, che a propria volta è composto da tutti i rappresentanti legali degli enti minori». A conferma di quanto sostenuto, la ricorrente ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 198 del 2012, «in riferimento all’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138/2011 in esame, relativamente agli interventi riduttivi operati sui componenti degli organi regionali, motivati da preminenti esigenze di riduzione della spesa pubblica […] ha ritenuto infondate le questioni di legittimità sollevate dalle Regioni a statuto ordinario, affermando che “La disposizione censurata […] non viola gli artt. 117, 122 e 123 Cost., in quanto, nel quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati”».
Infine, la Regione osserva che la disciplina in esame non è riconducibile a quella giudicata nella recente decisione n. 229 del 2013, con cui la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità proposte avverso l’art. 4 del d.l. n. 95 del 2012 e riferite alle società cosiddette “in house” partecipate dai Comuni. Deduce la ricorrente: «In tale pronuncia si afferma, infatti, che: “Le norme impugnate hanno […] evidente attinenza con i profili organizzativi degli enti locali, posto che esse coinvolgono le modalità con cui tali enti perseguono, quand’anche nelle forme del diritto privato, le proprie finalità istituzionali. Con riferimento alle Regioni a statuto ordinario, tuttavia, questa Corte ha già affermato che ‘spetta al legislatore statale […] disciplinare i profili organizzativi concernenti l’ordinamento degli enti locali (art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.)’: pertanto, posto che le società controllate sulle quali incide la normativa impugnata svolgono attività strumentali alle finalità istituzionali delle amministrazioni degli enti locali, legittimamente su di esse è intervenuto il legislatore statale (è citata la sentenza n. 159 del 2008)”».
Con specifico riferimento all’art. 16, comma 28, la Regione Veneto, riportandosi ai rilievi già formulati circa l’assenza dei presupposti che legittimano l’esercizio del potere sostitutivo ai sensi dell’art. 120 Cost., richiama la giurisprudenza costituzionale successiva alla notifica del ricorso.
In particolare, cita la sentenza n. 165 del 2011, con cui la Corte ha chiarito, tra l’altro, che «l’esercizio del potere sostitutivo deve compiersi – sempre secondo l’art. 120 Cost. – in base alle procedure stabilite dalla legge a garanzia dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione».
Richiama, inoltre, la sentenza n. 148 del 2012, con cui la Corte – con riferimento all’art. 14, comma 32, del d.l. n. 78 del 2010, relativo alla disciplina delle società comunali e ai criteri che ne regolano lo scioglimento al fine di contenere l’indebitamento dell’ente – ha stabilito che tale norma, connotata dai caratteri di una sanzione, incide in modo permanente sul diritto societario e ricade, pertanto, nella materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato.
Sulla base di tali premesse la ricorrente afferma l’illogicità della previsione del potere sostitutivo del Prefetto contenuta nel comma censurato, posto che anche in tal caso, trattandosi di una fattispecie a carattere sanzionatorio interna all’ordinamento civile, non vi sarebbe spazio per un intervento da parte di un soggetto che esercita un potere di natura amministrativa, finalizzato alla «verifica della riduzione delle spese da parte degli enti locali». Oltre tutto, continua la Regione, «tale attività compete istituzionalmente ed esclusivamente alla Corte dei conti».
20.1.– Il 12 novembre 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 145 del 2011, ha depositato una memoria illustrativa di tenore identico a quella depositata nel giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011 presentato dalla Regione Puglia, alla cui esposizione si rinvia.
21.– Il 12 novembre 2013 la Regione autonoma Sardegna ha depositato una memoria riferita al giudizio promosso con il ricorso n. 160 del 2011, ribadendo le censure formulate nell’atto introduttivo.
In particolare, la ricorrente sottolinea che la potestà legislativa attribuita dall’art. 3, primo comma, lettera b), dello statuto speciale risulta violata in quanto, «essendo la competenza regionale in materia di ordinamento degli enti locali di tipo esclusivo, neppure i principi “fondamentali” della materia potrebbero limitare l’autonomia regionale, ma solo quelli “generali”, quali – ovviamente – non si rinvengono nella disciplina censurata».
Per altro verso, secondo la Regione, la norma impugnata, prevedendo che tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici vengano esercitati dall’unione di Comuni, determina, di fatto, la soppressione degli enti che partecipano a questa forma associativa e la loro sostituzione, in definitiva, con un nuovo tipo di ente territoriale, in violazione esplicita della competenza in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», di cui al più volte citato art. 3, primo comma, lettera b), dello statuto speciale.
D’altra parte, prosegue la ricorrente, il titolo di legittimazione della disposizione impugnata non potrebbe nemmeno rinvenirsi nella clausola di cui all’art. 3, primo comma, dello statuto, ove è stabilito che la competenza legislativa regionale deve essere esercitata «In armonia con […] i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica» e «col rispetto […] delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica». Infatti, argomenta la Regione, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, «il principio dell’ordinamento giuridico dello Stato è ricavabile da questo ordinamento, considerato come espressione complessiva del sistema normativo e non di singole leggi» (sentenza n. 415 del 1994).
Al tempo stesso, l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 non può annoverarsi tra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica poiché «Il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali deriva […] da disposizioni che si caratterizzano per il loro contenuto riformatore, per la loro posizione di norme di principio e per l’attinenza a settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza» (sentenza n. 323 del 1998). La ricorrente richiama, poi, in tema, le sentenze n. 97 del 1999, n. 153 del 1995, n. 151 del 1986, e afferma che, nel caso in esame, il legislatore statale è intervenuto sul diverso piano degli assetti istituzionali e non dell’ordine economico-sociale.
La Regione assume che neppure riconducendo le disposizioni impugnate alla competenza esclusiva dello Stato di cui all’artt. 117, secondo comma, lettera p), Cost., potrebbero essere superati i rilievi di incostituzionalità. Al riguardo viene citata la sentenza n. 48 del 2003 con la quale la Corte costituzionale ha stabilito che «Non rileva, in questa materia, la norma – invocata dal Governo ricorrente – dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, che definisce fra l’altro la “legislazione elettorale” relativa alle Province come oggetto di legislazione esclusiva dello Stato. Infatti le disposizioni del nuovo titolo V, parte II, della Costituzione, di cui alla legge costituzionale n. 3 del 2001, non si applicano alle Regioni ad autonomia speciale, se non per “le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” (art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e in proposito cfr. ordinanza n. 377 del 2002, sentenze nn. 408, 533 e 536 del 2002)».
Inoltre, replicando alla memoria difensiva dell’Avvocatura generale dello Stato, la Regione afferma che se anche si ritenesse la disciplina in esame inapplicabile in forza della clausola di salvaguardia contenuta nel comma 29 – come affermato in altri recenti giudizi dalla Corte costituzionale (si citano le sentenze n. 229 del 2013, n. 241 e n. 64 del 2012, n. 152 del 2011) – l’effetto sarebbe solo parzialmente satisfattivo, dato che l’ordinamento sardo non lascia spazio all’ingresso di previsioni con tali caratteristiche.
Replicando ulteriormente alla memoria difensiva dell’Avvocatura generale dello Stato, la ricorrente evidenzia che l’intervento del legislatore statale non può ricondursi al coordinamento della finanza pubblica, dal momento che si tratta di norme «minuziose e specifiche» che, oltre tutto, non sortiscono effetti prevedibili sui saldi di finanza pubblica. Con particolare riferimento a quest’ultimo aspetto, la Regione, richiamando la giurisprudenza costituzionale, puntualizza che la prevedibilità dell’effetto sui saldi di finanza pubblica dell’intervento legislativo statale costituisce circostanza essenziale affinché si possa ritenere di versare nell’ambito materiale del coordinamento della finanza pubblica.
La Regione – dopo aver posto in luce, quanto alla persistenza dell’interesse, che le norme sopravvenute non hanno apportato alcuna modifica sostanziale al testo originario e che, in ogni caso, l’onere di dimostrare la mancata applicazione delle stesse medio tempore grava sul resistente e, nella specie, non risulta essere stato assolto – conclude citando la giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui se le novelle delle disposizioni impugnate hanno «esclusivamente una funzione esplicativa od attuativa dei precedenti contenuti legislativi, non modificano sostanzialmente i medesimi né soddisfano le pretese impugnatorie di parte ricorrente, la questione può essere ulteriormente trattata con riferimento all’attuale formulazione della normativa» (sentenza n. 30 del 2012).
21.1.– Il 12 novembre 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con il ricorso n. 160 del 2011, ha depositato una memoria di tenore identico a quella depositata nel giudizio promosso con il ricorso n. 141 del 2011 presentato dalla Regione Puglia, alla cui illustrazione si rinvia.
21.2.– Il 12 novembre 2013 la Regione Sardegna ha depositato una memoria riferita al giudizio promosso con il ricorso n. 160 del 2012, ribadendo le censure svolte a suo tempo, nonché quelle articolate con la memoria inerente al giudizio promosso con il ricorso n. 160 del 2011.
21.3.– Il 12 novembre 2013 la difesa statale ha depositato una memoria nel giudizio promosso con il ricorso n. 160 del 2012, evidenziando la differenza tra il testo originariamente censurato e quello sopravvenuto, il quale prevede l’esercizio in forma associata di tutte le funzioni e servizi, alternativo rispetto all’esercizio delle sole funzioni fondamentali.
In particolare la difesa afferma che l’intervento del legislatore statale attiene alla definizione delle funzioni fondamentali ed è quindi riconducibile alla competenza esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
Per altro verso, conclude l’Avvocatura generale dello Stato, le disposizioni censurate «rientrano in un più ampio, organico e complesso disegno di contenimento della spesa degli enti locali, con il necessario concorso delle Regioni. Le norme in esame, quindi, rientrano nella competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, materia oggetto di potestà legislativa concorrente».
22.– Il 12 novembre 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio promosso con i ricorsi n. 133 del 2011 e n. 155 del 2011 ha depositato memorie illustrative di tenore identico a quella riferita al ricorso n. 141 del 2011 presentato dalla Regione Puglia, alla cui illustrazione si rinvia.
Considerato in diritto
1.– Con dieci distinti ricorsi, le Regioni Toscana (reg. ric. n. 133 del 2011), Lazio (reg. ric. n. 134 del 2011), Puglia (reg. ric. n. 141 del 2011), Emilia-Romagna (reg. ric. n. 144 del 2011), Veneto (reg. ric. n. 145 del 2011), Liguria (reg. ric. n. 146 del 2011), Umbria (reg. ric. n. 147 del 2011), Campania (reg. ric. n. 153 del 2011), Lombardia (reg. ric. n. 155 del 2011), nonché la Regione autonoma Sardegna (reg. ric. n. 160 del 2011), hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose norme del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148.
Tra le altre disposizioni, hanno impugnato l’art. 16 del citato d.l. n. 138 del 2011 (norma composta da 31 commi), che, «Al fine di assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, l’ottimale coordinamento della finanza pubblica, il contenimento delle spese degli enti territoriali e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici», imponeva ai Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti l’esercizio in forma associata di funzioni e servizi mediante unione di Comuni, predisponendo per queste una disciplina ad hoc.
In particolare, indicava le funzioni affidate a tali unioni, la successione delle stesse nei rapporti giuridici facenti capo ai Comuni, l’attribuzione di risorse, l’assoggettamento al patto di stabilità interno, nonché gli organi di governo e le relative funzioni. Inoltre, prevedeva che il Prefetto compisse una verifica circa il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e riduzione delle spese. In caso di esito negativo, era stabilito che il Prefetto assegnasse un termine perentorio agli enti inadempienti, decorso il quale detto organo esercitava un potere sostitutivo ai sensi della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).
Infine, era prevista una clausola di salvaguardia in ordine all’applicabilità della menzionata disciplina alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome.
Le questioni di legittimità costituzionale, promosse con i menzionati ricorsi, sono state discusse all’udienza pubblica del 19 giugno 2012.
Nelle more della decisione è intervenuto l’art. 19 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.
In particolare, il comma 2 dell’art. 19 del d.l. menzionato ha sostituito i commi da 1 a 16 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 con i commi da 1 a 13; il comma 5 del citato art. 19 ha, in sostanza, riprodotto il secondo periodo dell’originario comma 6 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, e, ancora, il comma 6 del detto art. 19, corrisponde, anche nella formulazione letterale, al primo periodo dell’originario comma 8 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011.
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 227 del 2012, avuto riguardo alle modifiche normative sopravvenute e alla circostanza che le questioni non erano state ancora decise, ha ritenuto opportuno rimettere sul ruolo i giudizi di legittimità costituzionale come sopra proposti, allo scopo di consentire ai difensori di dedurre in ordine alle modifiche stesse e alla possibile incidenza sulle questioni oggetto delle impugnazioni formulate.
Con cinque distinti ricorsi le Regioni Lazio (reg. ric. n. 145 del 2012), Veneto (reg. ric. n. 151 del 2012), Campania (reg. ric. n. 153 del 2012), Puglia (reg. ric. n. 172 del 2012) e la Regione autonoma Sardegna (reg. ric. n. 160 del 2012) hanno promosso questioni di legittimità costituzionale in riferimento – tra gli altri – all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012.
2.– I quindici ricorsi sopra indicati censurano, con argomenti analoghi o comunque connessi, le medesime norme. Pertanto, essi possono essere riuniti e decisi con unica pronuncia.
La valutazione delle restanti questioni sollevate con gli stessi ricorsi rimane riservata ad altre decisioni.
3.– La Regione Lazio, con atto depositato in cancelleria il 26 novembre 2013, notificato a mezzo posta al Presidente del Consiglio dei ministri, ha rinunziato all’impugnazione promossa contro l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011 (reg. ric. n. 134 del 2011), «per sopravvenuta carenza di interesse ad agire». Non risulta che tale rinunzia sia stata accettata dal Presidente del Consiglio dei ministri, sicché in mancanza di accettazione della controparte costituita non può farsi luogo alla declaratoria di estinzione del processo (art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale), ma in ordine al detto ricorso va dichiarata la cessazione della materia del contendere.
4.– In via preliminare, si devono prendere in esame le modifiche legislative sopravvenute alla proposizione del primo gruppo di ricorsi (cioè di quelli promossi avverso l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011).
Le dette modifiche – recate, come sopra si è chiarito, dall’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012 – hanno inciso in vario modo sulla precedente normativa. Tale novella comporta la verifica degli effetti dello ius superveniens sulle questioni di legittimità costituzionale promosse con il primo gruppo di ricorsi.
Al riguardo, si deve premettere che i primi 16 commi della disposizione impugnata con i dieci ricorsi originari (dei quali si è dato conto in narrativa), ancorché rimasti in vigore dall’agosto 2011 al 6 luglio 2012, a quanto risulta, non hanno trovato applicazione medio tempore. In primo luogo, la modifica legislativa è intervenuta prima della scadenza del termine assegnato ai Comuni obbligati all’esercizio associato per poter avanzare alla Regione la relativa proposta di aggregazione. Inoltre, non è stato neppure allegato un qualche evento idoneo ad integrare una forma di attuazione della nuova istituzione e ciò induce a ritenere, per ragionevole presunzione, che essa non sia intervenuta.
Ciò posto, va rilevato che, come questa Corte ha già affermato, qualora dalla disposizione legislativa sopravvenuta sia desumibile una norma sostanzialmente coincidente con quella impugnata, la questione, in forza del principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via di azione, deve intendersi trasferita sulla nuova norma (ex plurimis, sentenze n. 326 e n. 40 del 2010). «Diversamente, quando la norma modificata non abbia avuto attuazione medio tempore, si può avere un effetto satisfattorio delle pretese della parte ricorrente, che dà luogo ad una pronuncia di cessazione della materia del contendere. Del pari, nelle medesime condizioni di inattuazione, la sopravvenuta modifica legislativa può incidere a tal punto sulla originaria norma da determinare, in mancanza di una nuova impugnazione, il sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire nel giudizio. Ed è chiaro come in detta ipotesi sia onere della parte ricorrente, ove voglia contestare la legittimità costituzionale della norma sopravvenuta, anche eventualmente in connessione con quella originaria, di proporre una nuova impugnazione» (sentenza n. 326 del 2010, paragrafo 6 del Considerato in diritto).
4.1.– In questo quadro devono essere esaminati gli effetti dello ius superveniens sui giudizi promossi con i ricorsi formulati avverso l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011. Peraltro, ai fini dello scrutinio da compiere, va considerato che l’intero art. 16, ora citato, è composto da 31 commi (dei quali soltanto i primi 16 sono stati sostituiti dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito) e che solo alcuni ricorsi hanno investito la norma nella sua interezza, mentre le Regioni Toscana, Sardegna e Veneto hanno censurato specifici commi, compresi tra il 17 e il 31.
4.2.– Venendo ora alle disposizioni incise dallo ius superveniens, si osserva che il comma 1 dell’art. 16, nel testo originario, stabiliva (per quanto qui rileva) che «i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione di comuni ai sensi dell’articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267».
Il testo sopravvenuto dispone, invece, che «i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, in alternativa a quanto previsto dall’articolo 14, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, e a condizione di non pregiudicarne l’applicazione, possono esercitare in forma associata, tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione di comuni cui si applica, in deroga all’articolo 32, commi 3 e 6, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, la disciplina di cui al presente articolo». Inoltre, la novella prevede che l’esercizio associato possa essere assicurato anche mediante una o più convenzioni, ai sensi dell’art. 30 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), con durata almeno triennale e con sottoposizione, alla scadenza, a verifica di efficienza gestionale (comma 12).
Come risulta dal confronto tra le due disposizioni, non è ravvisabile tra loro alcuna sostanziale coincidenza (o identità del contenuto precettivo) tale da poter consentire il trasferimento della questione sulla nuova norma. L’esercizio in forma associata di tutte le funzioni amministrative e dei servizi pubblici non è più previsto come obbligatorio, ma in alternativa ad esso è indicato il ricorso al modello di cui all’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni; detta disposizione, infatti, prevede come obbligatorio l’esercizio associato mediante unione di Comuni o convenzione, delle sole funzioni fondamentali elencate al comma 27 dello stesso articolo.
Si tratta, con evidenza, di una modifica significativa, ancorché non satisfattiva per le ricorrenti, sicché il trasferimento della questione, lungi dal garantire il principio di effettività della tutela, supplirebbe impropriamente all’onere d’impugnazione gravante sulle parti.
Pertanto, la questione di legittimità costituzionale relativa al detto testo originario deve essere dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire il giudizio (sentenze n. 32 del 2012 e n. 326 del 2010).
4.3.– Il comma 2 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito, prevedeva la facoltà, per i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, di aderire a ciascuna unione di cui al comma 1, oppure, in alternativa, la facoltà di esercitare mediante tale unione tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente. La disposizione non risulta riproposta nel testo sopravvenuto e tale circostanza deve ritenersi satisfattiva per le ricorrenti che l’hanno impugnata, sicché in merito alla relativa questione va dichiarata la cessazione della materia del contendere.
4.4.– Il comma 3 del detto art. 16 stabiliva che «All’unione di cui al comma 1, in deroga all’articolo 32, commi 2, 3 e 5, secondo periodo, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, si applica la disciplina di cui al presente articolo».
Detta deroga è stata riproposta, ma attualmente è collocata nell’ultimo periodo del comma 1. Avuto riguardo alla riscontrata non trasferibilità della questione relativa a tale disposizione (vedi precedente paragrafo 4.2), anche per quella riferita al citato comma 3 va emessa declaratoria d’inammissibilità per sopravvenuto difetto d’interesse.
4.5.– Il comma 4 individuava le funzioni affidate all’unione per conto dei Comuni che ne erano membri, facendo riferimento alla programmazione economico-finanziaria e alla gestione contabile, stabiliva il concorso dei predetti enti ad una serie di attività e prevedeva l’adozione, entro un certo termine, di un regolamento, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo, diretto a disciplinare il procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun Comune e l’unione.
Il comma 2 della normativa sopravvenuta (che si rivela riconducibile, per il suo contenuto, al precedente comma 4 dell’art. 16) prevede l’affidamento all’unione, oltre che della programmazione economico-finanziaria e della gestione contabile, anche della «titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei comuni associati nonché quella patrimoniale, con riferimento alle funzioni da essi esercitate per mezzo dell’unione».
Inoltre, tra le amministrazioni concertanti per l’adozione del regolamento, sono menzionati il Ministro per la pubblica amministrazione e semplificazione e il Ministro dell’economia e delle finanze.
Si tratta di modifiche significative, quale è certamente quella concernente la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei Comuni associati, nonché quella patrimoniale, che non consentono di ritenere sostanzialmente immodificato il contenuto precettivo della norma e, considerando le modifiche stesse non satisfattive, impongono di pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione ad essa relativa per sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire il giudizio.
4.6.– Il comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito, così disponeva: «L’unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici in essere alla data di cui al comma 9 che siano inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, ferme restando le disposizioni di cui all’articolo 111 del codice di procedura civile. Alle unioni di cui al comma 1 sono trasferite tutte le risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, nonché i relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio. A decorrere dall’anno 2014, le unioni di comuni di cui al comma 1 sono soggette alla disciplina del patto di stabilità interno per gli enti locali previsti per i comuni aventi corrispondente popolazione».
Nel testo dettato dalla normativa sopravvenuta (comma 3, riferibile al comma 5 del testo originario) viene meno il richiamo alle funzioni ed ai servizi affidati ai sensi dei commi 2 e 4 (il contenuto di quest’ultimo si rinviene nel nuovo testo del comma 2 della suddetta normativa). Ne deriva per il comma in esame una modifica del proprio ambito applicativo, la quale induce ad escludere che si tratti di norma sostanzialmente coincidente con quella originaria.
Pertanto, ritenendo la modifica non satisfattiva, anche in tal caso la questione deve essere dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire il giudizio.
4.7.– Il comma 6 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito, stabiliva quanto segue: «Le unioni di cui al comma 1 sono istituite in modo che la complessiva popolazione residente nei rispettivi territori, determinata ai sensi dell’articolo 156, comma 2, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, sia di norma superiore a 5.000 abitanti, ovvero a 3.000 abitanti qualora i comuni che intendono comporre una medesima unione appartengano o siano appartenuti a comunità montane. Entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciascuna regione ha facoltà di individuare diversi limiti demografici».
Il contenuto precettivo della disposizione, quanto al primo periodo, rivela che essa è riferibile al comma 4 della normativa sopravvenuta, di identico tenore (mancano soltanto le parole «di cui al comma 1», che non incidono sul contenuto precettivo). Quanto al secondo periodo, esso costituisce attualmente il comma 5 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, che, con riguardo ai diversi limiti demografici, aggiunge la seguente frase: «rispetto a quelli di cui all’articolo 16, comma 4, del citato decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, come modificato dal presente decreto». È evidente che nessuna modifica sostanziale è intervenuta, sicché la questione – in forza del principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via di azione – deve intendersi trasferita sulle nuove norme.
4.8.– Il comma 7 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito, prevedeva per le unioni di Comuni già costituite, obblighi di adeguare i rispettivi ordinamenti alla disciplina delle unioni di cui al citato art. 16, nonché, per i Comuni appartenenti a forme associative di cui agli artt. 30 e 31 del TUEL, la cessazione di diritto dal farne parte. La disposizione, però, non risulta presente nel testo sopravvenuto, sicché, ritenendo la modifica satisfattiva, sulla relativa questione va dichiarata la cessazione della materia del contendere.
4.9.– Il comma 8 del citato art. 16 prevedeva che i Comuni di cui al comma 1 avanzassero alla Regione una proposta di aggregazione, d’identico contenuto, per l’istituzione (recte: costituzione) della rispettiva unione ed affidava alla Regione stessa la funzione di provvedere secondo il proprio ordinamento, anche qualora la proposta di aggregazione mancasse o non fosse conforme alle disposizioni di cui alla norma in esame. Il contenuto precettivo del detto comma 8 si ritrova nel comma 5 del nuovo testo dell’art. 16 e nel comma 6 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, con qualche modifica di mera forma e con la previsione di differenti termini relativi al momento entro il quale i Comuni devono avanzare alle Regioni le proposte di aggregazione ed a quello entro il quale la Regione deve provvedere agli adempimenti di competenza. Si tratta, dunque, di modifiche non sostanziali, sicché la questione di legittimità costituzionale deve intendersi trasferita sulla norma sopravvenuta.
4.10.– Il comma 9 del precedente art. 16 disponeva che «A decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del comune che, successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo, nei comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti che siano parti della stessa unione, nonché in quelli con popolazione superiore che esercitino mediante tale unione tutte le proprie funzioni, gli organi di governo sono il sindaco ed il consiglio comunale, e le giunte in carica decadono di diritto. Ai consigli dei comuni che sono membri di tale unione competono esclusivamente poteri di indirizzo nei confronti del consiglio dell’unione, ferme restando le funzioni normative che ad essi spettino in riferimento alle attribuzioni non esercitate mediante l’unione».
La disposizione nel suo complesso non risulta riprodotta nel testo normativo sopravvenuto. Tuttavia, il comma 13 del nuovo testo dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 dispone che «A decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo dell’unione, nei comuni che siano parte della stessa unione gli organi di governo sono il sindaco e il consiglio comunale, e le giunte decadono di diritto». Si pone, quindi, un problema di trasferimento della questione sul detto comma 13. Tuttavia, la formulazione dell’originario comma 9, recante un secondo periodo relativo ai poteri dei consigli dei Comuni membri dell’unione nei confronti del consiglio dell’unione, introduce un elemento di sostanziale diversità che conduce ad escludere la possibilità del trasferimento.
Pertanto, ritenendo comunque la modifica non satisfattiva, la questione di legittimità costituzionale concernente il comma 9 dell’originario art. 16 deve essere dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire il giudizio.
4.11.– Il comma 10 del citato art. 16 stabiliva che «Gli organi dell’unione di cui al comma 1 sono il consiglio, il presidente e la giunta». Tale disposto si ritrova senza modifiche nel comma 6 della normativa sopravvenuta. La relativa questione di legittimità costituzionale, quindi, va trasferita sul citato comma 6 di tale normativa.
4.12.– Il comma 11 dell’originario art. 16 regolava la composizione del consiglio dell’unione, l’elezione di alcuni componenti in sede di prima applicazione, l’elezione del presidente dell’unione, ai sensi del comma 12, e le competenze spettanti al consiglio dell’unione. Disponeva, altresì, che «La legge dello Stato può stabilire che le successive elezioni avvengano a suffragio universale e diretto contestualmente alle elezioni per il rinnovo degli organi di governo di ciascuno dei comuni appartenenti alle unioni. La legge dello Stato di cui al quarto periodo disciplina conseguentemente il sistema di elezione; l’indizione delle elezioni avviene ai sensi dell’art. 3 della legge 7 giugno 1991, n. 182, e successive modificazioni».
Nel testo sopravvenuto (comma 7) non sono più compresi il quarto e il quinto periodo del detto comma 11 e, dunque, non è più previsto il potere d’intervento del legislatore statale in materia di elezioni per il rinnovo degli organi di governo dell’ente. Si tratta di una modifica non di forma, ma di sostanza, che non consente di ravvisare tra le due disposizioni identità del contenuto precettivo e, quindi, di operare il trasferimento. Pertanto, ritenendo la modifica comunque non satisfattiva, la questione di legittimità costituzionale del citato comma 11 dell’originario art. 16 deve essere dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire il giudizio.
4.13.– Il comma 12, dell’originario art. 16 disciplinava la prima convocazione del consiglio dell’unione, l’elezione del presidente di questa «tra i propri componenti», le competenze del detto presidente. Nel testo sopravvenuto (comma 8) si prevede che il presidente dell’unione sia eletto dal consiglio «tra i sindaci dei comuni associati» e non più «tra i propri componenti». Anche in tal caso si tratta di modifica sostanziale, perché incide sulla individuazione degli eleggibili per ricoprire la carica di presidente dell’unione, onde resta esclusa la possibilità del trasferimento.
Pertanto, ritenendo la modifica non satisfattiva, la questione di legittimità costituzionale proposta con riguardo al citato comma 12 deve essere dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse a proseguire il giudizio.
4.14.– Il comma 13, dell’art. 16 (testo originario) regolava la composizione e le competenze della giunta dell’unione, prevedendo, altresì, che essa decadesse contestualmente alla cessazione del rispettivo presidente. La disposizione è rimasta immutata nella normativa sopravvenuta (comma 9); la relativa questione di legittimità costituzionale, quindi, va trasferita sul citato comma 9.
4.15.– Il comma 14 dell’art. 16 (testo originario) disciplinava il contenuto dello statuto dell’unione, nonché le modalità e i termini della sua adozione. Fatta eccezione per una modifica di mera forma, esso è rimasto immutato nel testo sopravvenuto (comma 10). Anche in questo caso la relativa questione di legittimità costituzionale va trasferita sul citato comma 10.
4.16.– Il comma 15 dell’art. 16 (testo originario) individuava le disposizioni applicabili ai consiglieri, al presidente e agli assessori dell’unione, in riferimento al trattamento spettante, rispettivamente, ai consiglieri, al sindaco ed agli assessori dei Comuni aventi corrispondente popolazione. Inoltre, stabiliva che agli amministratori dell’unione, che riscuotessero emolumenti di ogni genere in qualità di amministratori locali, ai sensi dell’art. 77, comma 2, del TUEL, fino al momento dell’esercizio dell’opzione, non spettasse alcun trattamento per la carica sopraggiunta.
La disposizione sopravvenuta (comma 11) stabilisce che gli amministratori dell’unione, dalla data di assunzione della carica, non possono continuare a ricevere retribuzioni, gettoni e indennità o emolumenti di ogni genere ad essi già attribuiti in qualità di amministratori locali, ai sensi dell’art. 77, comma 2, del TUEL.
La modifica concerne i criteri diretti a regolare il trattamento economico degli amministratori dell’unione. In particolare, si stabilisce che costoro, dalla data di assunzione della carica, non possono continuare a ricevere il trattamento loro attribuito in qualità di amministratori locali, ai sensi della norma ora citata. Il testo censurato, invece, prevedeva che ad essi non spettasse alcun trattamento per la carica sopraggiunta fino al momento dell’esercizio dell’opzione. Il contenuto precettivo delle due norme, dunque, risulta diverso, onde non può farsi luogo al trasferimento.
Ne deriva che, ritenendo la modifica non satisfattiva, la questione di legittimità costituzionale, proposta con riferimento al citato comma 15, deve essere dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse a proseguire il giudizio.
4.17.– Il comma 16 dell’art. 16 (testo originario) rendeva inapplicabile l’obbligo di cui al comma 1 nei confronti dei Comuni che, alla data del 30 settembre 2012, esercitassero le funzioni amministrative e i servizi pubblici mediante convenzione, ai sensi dell’art. 30 del TUEL. Inoltre, prevedeva che tali Comuni trasmettessero al Ministero dell’interno un’attestazione comprovante il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo modalità da determinare con decreto adottato dal Ministro dell’interno, il quale, previa valutazione delle attestazioni ricevute, individuava con proprio decreto l’elenco dei Comuni obbligati e di quelli esentati dall’obbligo di cui al comma 1.
Il comma 12 della normativa sopravvenuta così dispone: «L’esercizio in forma associata di cui al comma 1 può essere assicurato anche mediante una o più convenzioni ai sensi dell’articolo 30 del testo unico, che hanno durata almeno triennale. Ove alla scadenza del predetto periodo non sia comprovato, da parte dei comuni aderenti, il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, secondo modalità stabilite con il decreto di cui all’articolo 14, comma 31-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, agli stessi si applica la disciplina di cui al comma 1».
Orbene, ponendo a confronto i due dettati normativi, risulta evidente che, pur esistendo dei profili di coincidenza, non può parlarsi di semplici modifiche apportate dal secondo rispetto al primo. Si tratta, in realtà, di due norme diverse, il che conduce a ritenere che il contenuto precettivo del comma 16 dell’art. 16 (testo originario) non sia stato riprodotto nel testo sopravvenuto. E questa opzione ermeneutica trova conferma nel rilievo che, come già si è notato, l’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, ha disposto la sostituzione degli originari commi da 1 a 16 con gli attuali commi da 1 a 13. Pertanto, ritenendo tale risultato satisfattivo, sulla relativa questione di legittimità costituzionale va dichiarata la cessazione della materia del contendere.
4.18.– Per riassumere sui punti suddetti: con riferimento ai ricorsi numeri 133, 134, 141, 144, 145, 146, 147, 153, 155, e 160 del 2011, l’esame cui si procederà in prosieguo concerne i commi sui quali si è ritenuto di poter trasferire le questioni di legittimità costituzionale dal testo impugnato a quello sopravvenuto, tenendo conto che:
a) il comma 6 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito, corrisponde, senza modifiche sostanziali, all’attuale comma 4 dell’art. 16 del d.l. ora citato (per il primo periodo) e all’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, (per il secondo periodo);
b) il comma 8 corrisponde all’attuale comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 e all’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012;
c) il comma 10 corrisponde all’attuale comma 6 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011;
d) il comma 13 corrisponde all’attuale comma 9 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011;
e) il comma 14 corrisponde all’attuale comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011.
D’ora innanzi le questioni di legittimità costituzionale saranno esaminate con riferimento ai commi del testo sopravvenuto.
L’esame, inoltre, riguarderà i commi da 17 a 31 del citato art. 16, non interessati dallo ius superveniens, per i quali, quindi, non si pone un problema di trasferimento.
5.– In via preliminare, si devono dichiarare inammissibili, per genericità e inconferenza, le censure prospettate dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, Veneto, con riferimento ai principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Infatti, con riguardo all’ipotizzato contrasto con i citati parametri costituzionali, va ribadito il costante orientamento di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2009, n. 289 e n. 216 del 2008), secondo cui le Regioni sono autorizzate a censurare, in via d’impugnazione principale, le leggi dello Stato soltanto per profili attinenti al riparto delle rispettive competenze legislative, essendosi ammessa la deducibilità di altri parametri costituzionali esclusivamente qualora la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite; circostanza, questa, non ravvisabile nel caso di specie.
6.– Si deve ora individuare, sulla base delle prospettazioni difensive delle parti, l’ambito materiale al quale appartengono le norme impugnate sia con i ricorsi avverso il d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, sia con i ricorsi contro il d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012.
Al riguardo, va in primo luogo rilevato che, nella giurisprudenza di questa Corte, è costante l’affermazione del principio secondo cui «Ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, la qualificazione legislativa non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quelle ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza» (ex plurimis, sentenze n. 207 del 2010, n. 237 del 2009, n. 430 e n. 165 del 2007, n. 447 del 2006).
Inoltre, la giurisprudenza costituzionale ha precisato che, qualora una normativa interferisca con più materie, attribuite dalla Costituzione, da un lato, alla potestà legislativa statale e, dall’altro, a quella concorrente o residuale delle Regioni, occorre individuare l’ambito materiale che possa considerarsi, nei singoli casi, prevalente (ex plurimis, sentenze n. 118 del 2013, n. 334 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 50 del 2005). Qualora ciò non sia possibile, la suddetta concorrenza di competenze, in assenza di criteri previsti in Costituzione, giustifica l’applicazione del principio di leale collaborazione (sentenza n. 50 del 2008), il quale deve permeare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie, ovviamente qualora di tale applicazione sussistano i presupposti.
Da tanto consegue che una disposizione statale di principio, adottata in materia di legislazione concorrente, quale quella del «coordinamento della finanza pubblica», può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale e determinare una – sia pure parziale – compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative e amministrative delle Regioni (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2009, n. 159 del 2008, n. 181 del 2006 e n. 417 del 2005).
In tal caso, lo scrutinio di legittimità costituzionale dovrà verificare il rispetto del rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio, che deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi (sentenza n. 181 del 2006).
In proposito, la Corte ha anche affermato che la specificità delle prescrizioni, di per sé, non può escludere «il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione (sentenza n. 430 del 2007)» (sentenza n. 237 del 2009, paragrafo 12 del Considerato in diritto).
Nella giurisprudenza di questa Corte, poi, è ormai costante l’orientamento secondo cui «il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali (ex plurimis, sentenze n. 182 del 2011, n. 207 e n. 128 del 2010)» (sentenza n. 236 del 2013).
Infatti, per un verso, non si può dubitare che la finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali sia parte della finanza pubblica allargata (sentenze n. 267 del 2006 e n. 425 del 2004); per altro verso, va considerato che, tra i vincoli derivanti all’Italia dall’appartenenza all’Unione europea, vi è l’obbligo di rispettare un determinato equilibrio complessivo del bilancio nazionale, «secondo quanto precisato dalla risoluzione del Consiglio europeo del 17 giugno 1997 relativa al “patto di stabilità e di crescita”» (sentenza n. 267 del 2006).
Va, altresì, rimarcato che questa Corte ha ricondotto nell’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica (escludendo la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni relative alla disciplina degli obblighi di invio di informazioni sulla situazione finanziaria dalle Regioni e dagli enti locali alla Corte dei conti) norme puntuali adottate dal legislatore per realizzare in concreto la finalità del coordinamento finanziario, che per sua natura eccede le possibilità d’intervento dei livelli territoriali sub-statali (sentenza n. 417 del 2005).
Infine, con specifico riferimento a disposizioni incidenti sull’autonomia finanziaria attraverso interventi concernenti direttamente le risorse finanziarie degli enti, la Corte costituzionale ne ha affermato la riconducibilità ai principi di coordinamento della finanza pubblica, purché sia previsto un limite complessivo, che lascia agli enti stessi libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa (ex plurimis, sentenze n. 182 del 2011, n. 297 del 2009 e n. 289 del 2008), e purché gli interventi abbiano il carattere della transitorietà.
Detto profilo, però, è estraneo alla fattispecie in esame, ove l’intervento statale opera soltanto sulle modalità di esercizio delle funzioni e dei servizi.
6.1.– Richiamati, in linea generale, i principi che regolano l’individuazione della competenza legislativa, e che devono trovare applicazione nelle fattispecie qui in esame, si deve stabilire se le norme impugnate possano essere ricondotte alla materia «coordinamento della finanza pubblica».
Va premesso che le disposizioni censurate – richiedendo ai Comuni con ridotto numero di abitanti la gestione in forma associata di servizi e funzioni pubbliche – perseguono l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica corrente per il funzionamento di tali organismi, attraverso una disciplina uniforme che coordina la legislazione del settore.
È evidente, dunque, che tale disciplina deve essere unitariamente considerata e, anche dove interferisce con l’ordinamento degli enti locali, non perde il carattere strumentale, finalizzato alla riduzione della spesa corrente. Come tale, essa è riconducibile alla materia «coordinamento della finanza pubblica», di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. e, nell’ambito di tale materia, assume il rango di normativa di principio.
In questo quadro l’ordinamento degli enti locali non costituisce l’oggetto principale della normativa statale in esame, ma rappresenta il settore in cui devono operare strumenti e modalità per pervenire alla prevista riduzione della spesa pubblica corrente, riduzione cui è ancorato il riordino degli organismi in questione e costituente principio fondamentale della materia, legittimamente fissato.
Da tale natura discende, in base alla giurisprudenza di questa Corte, la legittimità dell’incidenza del censurato art. 16 sia sulla autonomia di spesa delle Regioni (sentenze n. 91 del 2011, n. 27 del 2010, n. 456 e n. 244 del 2005), sia su ogni tipo di potestà legislativa regionale, compresa quella residuale in materia di unione di Comuni (sentenze n. 326 del 2010 e n. 237 del 2009).
Infine, alla luce di quanto fin qui esposto, si deve escludere che, a giustificazione dell’intervento legislativo dello Stato, possa essere invocato l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., nella parte in cui assegna alla competenza esclusiva statale la materia relativa a «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», in quanto il riferimento a tali enti si deve ritenere tassativo, mentre nella suddetta elencazione manca ogni riferimento all’unione di Comuni (sentenza n. 237 del 2009, paragrafo 23 del Considerato in diritto).
Con riferimento a tutti i ricorsi in esame, dunque, il titolo legittimante della competenza statale è il coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., esercitato nel quadro dei principi fin qui esposti.
7.– La Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 133 del 2011), dubita della legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 6, 8, 10, 13, 14, nonché comma 17, lettera a), e commi da 19 a 21 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011. Le censure investono il citato art. 16 nella parte in cui: a) stabilisce che i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente, in forma associata, tutte le funzioni amministrative, e non soltanto quelle fondamentali, mediante un’unione di Comuni, ai sensi dell’art. 32 del TUEL; b) prevede una disciplina di dettaglio che comprime i margini di autonomia dei piccoli Comuni, dando luogo, di fatto, ad una sostanziale fusione degli stessi, con conseguente modifica delle relative circoscrizioni; c) interviene sull’ordinamento degli enti locali e, dunque, in una materia ricadente nella competenza residuale delle Regioni.
Pertanto, sarebbero violati l’art. 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114 e 117, quarto comma, Cost., nonché ancora l’art. 114 Cost., in quanto l’unione, così come disciplinata dalla norma in esame, implicherebbe una differenziazione tra Comuni che ne fanno parte e tutti gli altri, benché il citato art. 114 preveda soltanto cinque forme di enti territoriali obbligatorie, configurandoli come elementi tutti costitutivi, a pari titolo, della Repubblica, ed in quanto non è nelle competenze del legislatore statale creare nuovi livelli di governo a natura obbligatoria e “sostitutivi” di quelli previsti dall’art. 114 Cost.
Al riguardo, come già chiarito al paragrafo 4.18 si deve ricordare che le censure relative ai commi 6, 8, 10, 13 e 14 dell’art. 16 hanno formato oggetto di trasferimento a seguito dello ius superveniens e vanno, pertanto, riferite agli attuali commi secondo quanto di seguito indicato: a) l’attuale comma 4 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 e il comma 5 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, riproducono, senza modifiche sostanziali, rispettivamente il primo e il secondo periodo del comma 6, nella formulazione originaria; b) l’attuale comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 e il comma 6 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, corrispondono al comma 8, nella formulazione originaria; c) l’attuale comma 6 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 corrisponde al comma 10, nella formulazione originaria; d) l’attuale comma 9 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 corrisponde al comma 13, nella formulazione originaria; e) l’attuale comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 corrisponde al comma 14, nella formulazione originaria.
Ciò posto, dal tenore delle censure, i parametri asseritamente violati risultano essere, sostanzialmente, gli artt. 133, secondo comma, e 114 Cost.
La questione non è fondata.
L’art. 133, secondo comma, Cost. dispone che «La Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».
La normativa censurata non si pone in contrasto con tale precetto costituzionale.
Fermi i principi esposti in precedenza, ai quali si rinvia (paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto), si deve osservare che detta normativa non prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente modifica delle circoscrizioni territoriali. In realtà, diversamente da quanto accade in caso di fusione, gli enti che partecipano all’unione non si estinguono, ma esercitano le loro funzioni amministrative in forma associata, come del resto dispone in modo espresso l’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011 (poi convertito), sia nel testo originario sia in quello sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012 (del pari convertito). L’intervento del legislatore statale, dunque, riguarda le modalità di esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici e non presenta alcuna attinenza con la disciplina che regola l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni.
La ricorrente ha anche dedotto che la previsione di un obbligo, destinato a vincolare soltanto una categoria di Comuni (quelli con popolazione fino a 1.000 abitanti), determinerebbe una differenziazione incompatibile con il principio costituzionale della parità tra i diversi enti territoriali che costituiscono la Repubblica, sancito dall’art. 114 Cost. Tuttavia, neppure sotto tale profilo la questione è fondata.
Infatti, l’art. 114 Cost., stabilendo che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni «secondo i principi fissati dalla Costituzione», non pone alcun obbligo per il legislatore statale di sottoporre tutti i Comuni alla medesima disciplina, indipendentemente dalle caratteristiche numeriche della popolazione.
8.– La Regione Toscana, poi, censura l’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella parte in cui pretende di allocare tutte le funzioni amministrative, anche quelle in materie residuali o concorrenti regionali, in capo alle unioni di Comuni. Tale disposizione violerebbe l’art. 117, secondo, lettera p), terzo e quarto comma, nonché l’art. 118 Cost., perché la legge statale sarebbe competente in via esclusiva per quanto riguarda le sole funzioni fondamentali, ma si dovrebbe escludere che possa imporre forme associate di esercizio anche delle funzioni proprie dei Comuni (rientranti nell’autonomia organizzativa degli stessi) e, comunque, di quelle ad essi assegnate da leggi regionali. Inoltre sarebbe violato l’art. 118 Cost., in quanto la previsione di forme di associazione spetterebbe al legislatore regionale.
La questione ha ad oggetto il comma 1 della disposizione censurata, norma modificata dallo ius superveniens, in modo non satisfattivo. Sulla questione ad essa relativa, non trasferibile su testo sopravvenuto, è stata emessa declaratoria d’inammissibilità per sopravvenuto difetto d’interesse (precedente paragrafo 4.2 del Considerato in diritto). Essa, dunque, non può trovare ingresso in questa sede.
9.– La Regione Toscana censura, inoltre, l’art. 16 (commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15 nel testo originario) del d.l. n. 138 del 2011, sostenendo che esso «appare lesivo anche sotto l’ulteriore profilo della violazione degli artt. 114 e 117, quarto comma, Cost., in quanto interviene con una normativa puntuale in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali, materia che secondo il pacifico orientamento della Corte costituzionale rientra nella competenza esclusiva delle Regioni».
In particolare, sarebbero violati: a) l’art. 114 Cost., in quanto la disciplina impugnata finirebbe per differenziare i Comuni fino a 1.000 abitanti, imponendo la forma associativa e creando due categorie diverse di Comuni, mentre la norma costituzionale assegnerebbe pari dignità costituzionale a Comuni, Province e Città metropolitane; b) l’art. 117, quarto comma, in quanto la Corte costituzionale, con riferimento alle Comunità montane, avrebbe già affermato che la disciplina delle forme associative degli enti locali rientra nella competenza residuale delle Regioni, precisando, altresì, che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. deve essere interpretato in modo restrittivo e non può essere invocato in ordine alla scelta in merito alla costituzione e/o alla soppressione di forme associative tra enti locali; c) l’art. 118 Cost., con riferimento ai principi costituzionali ai quali la legge deve attenersi nell’attribuzione delle funzioni amministrative ed al principio di leale collaborazione, in quanto il legislatore statale avrebbe imposto unilateralmente la disciplina agli enti locali; d) gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., non potendo il legislatore statale invocare, nel caso di specie, la propria competenza circa la determinazione dei principi fondamentali in materia di finanza pubblica, perché la normativa in esame avrebbe carattere dettagliato e puntuale.
Già si è chiarito che il comma 1 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 (poi convertito) è stato modificato dallo ius superveniens in precedenza più volte citato, sicché sulla questione di legittimità costituzionale ad esso relativa è stata emessa declaratoria d’inammissibilità per sopravvenuta carenza d’interesse. Ad analoghe conclusioni si è pervenuti in ordine ai commi 3, 4, 5, 9, 11, 12, 15 del medesimo art. 16. Quanto alla questione di cui al comma 7, assente nel testo sopravvenuto, ritenendosi la modifica satisfattiva si è dichiarata la cessazione della materia del contendere (precedente paragrafo 4.8 del Considerato in diritto).
Le questioni concernenti i suddetti commi, dunque, non possono essere riproposte in questa sede.
Restano il comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 e il comma 6 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, nonché i commi 6, 9 e 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, cui vanno riferite le censure dianzi riassunte.
La questione non è fondata con riferimento ai commi 6 e 9.
Invero, come già si è precisato (paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto), la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni censurate è il coordinamento della finanza pubblica.
Si è anche notato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una disposizione statale di principio in tale materia, qual è il contenimento delle spese dei piccoli Comuni perseguito mediante l’esercizio in forma associata delle funzioni e dei servizi pubblici ad essi spettanti, può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale, e determinare una, sia pur parziale, compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative ed amministrative delle Regioni. Né giova addurre il carattere specifico ed autoapplicativo della disciplina censurata, perché, come questa Corte ha anche affermato, la specificità delle prescrizioni, di per sé, non può escludere il carattere di principio di una norma, qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione (sentenza n. 430 del 2007). Ciò avviene, per l’appunto, nella normativa in esame, nella quale il carattere specifico delle disposizioni (tranne i punti che ora si esamineranno) è finalizzato a realizzare il tessuto organizzativo mediante il quale la norma di principio dovrà essere attuata.
Quanto al richiamo al principio di leale collaborazione, esso non è fondato perché il detto principio non si applica al procedimento di formazione delle leggi (ex plurimis: sentenze n. 33 del 2011 e n. 326 del 2010).
9.1.– A conclusioni parzialmente diverse si deve pervenire con riguardo all’art. 16, comma 5, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, e in parte riprodotto dall’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012.
Il comma 5 vigente così dispone: «I comuni di cui al comma 1, con deliberazione del consiglio comunale, da adottare, a maggioranza dei componenti, conformemente alle disposizioni di cui al comma 4, avanzano alla regione una proposta di aggregazione, di identico contenuto, per l’istituzione della rispettiva unione. Nel termine perentorio del 31 dicembre 2013, la regione provvede, secondo il proprio ordinamento, a sancire l’istituzione di tutte le unioni del proprio territorio, come determinate nelle proposte di cui al primo periodo. La regione provvede anche in caso di proposta di aggregazione mancante o non conforme alle disposizioni di cui al presente articolo».
Il comma 6 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, così recita: «Ai fini di cui all’articolo 16, comma 5, del citato decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, come modificato dal presente decreto, nel termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i comuni di cui al citato articolo 16, comma 1, con deliberazione del consiglio comunale, da adottare, a maggioranza dei componenti, conformemente alle disposizioni di cui al comma 4 del medesimo articolo 16, avanzano alla regione una proposta di aggregazione, di identico contenuto, per l’istituzione della rispettiva unione».
Orbene, il contenuto precettivo della norma deve ritenersi in larga parte coessenziale al principio di coordinamento della finanza pubblica sopra indicato, perché disciplina modalità procedimentali necessarie per il funzionamento delle unioni. Non altrettanto può dirsi, invece, per la proposizione contenuta nel comma 5 secondo la quale la deliberazione del consiglio comunale va adottata «a maggioranza dei componenti».
Si tratta di una disposizione che esula dalla materia del «coordinamento della finanza pubblica», in quanto attiene esclusivamente all’ambito dell’ordinamento dei predetti organismi; essa è, dunque, estranea alle esigenze di contenimento della spesa corrente.
Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «, a maggioranza dei componenti,», in riferimento dell’art. 117, quarto comma, Cost.
9.2.– Considerazioni analoghe valgono anche con riguardo al comma 10, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, della normativa da ultimo citata.
Il comma 10 vigente così dispone: «Lo statuto dell’unione individua le modalità di funzionamento dei propri organi e ne disciplina i rapporti. Il consiglio adotta lo statuto dell’unione con deliberazione a maggioranza assoluta dei propri componenti, entro venti giorni dalla data di istituzione dell’unione».
Mentre lo statuto è atto necessario per il buon funzionamento dell’unione e, quindi, la norma che lo prevede è coessenziale al principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica perseguito dal legislatore statale, la disposizione secondo cui esso è adottato «con deliberazione a maggioranza assoluta dei propri componenti», esula, come già sopra affermato, dalla materia del coordinamento della finanza pubblica, attenendo più propriamente all’ambito dell’ordinamento dell’unione.
Deve essere, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «, con deliberazione a maggioranza assoluta dei propri componenti,».
10.– La Regione Toscana censura il comma 16 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, poi convertito, «per la parte in cui prevede l’alternatività delle forme associative possibili, unione e convenzione, rimessa ai Comuni e all’apprezzamento del Ministero dell’interno». La disposizione sarebbe in contrasto con i principi di ragionevolezza e di buon andamento, stante la “discrepanza tra i due modelli” derivante dalla diversità delle due forme associative.
Inoltre, la Regione sostiene l’illegittimità costituzionale del medesimo comma 16, «nella parte in cui prevede un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle unioni di comuni, per violazione degli artt. 114 e 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., nonché del principio di leale collaborazione».
Come si è notato in precedenza (paragrafo 4.17 del Considerato in diritto), il contenuto precettivo del citato comma 16 non è stato compreso nel testo sopravvenuto, sicché, ritenendo la modifica satisfattiva, in proposito è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere: pronunzia che va qui ribadita.
11.– La ricorrente deduce poi l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 17, lettera a), «che ridefinisce il numero degli organi e dei loro componenti rispetto ai Comuni fino a diecimila abitanti, articolandone numero e composizione sulla base delle soglie demografiche, stabilendo che quelli fino a 1.000 abitanti hanno solo consiglio e sindaco»; nonché l’illegittimità dei commi 19, 20 e 21 del medesimo art. 16, commi che «pongono vincoli di orario e di modalità di svolgimento delle sedute degli organi collegiali dei comuni fino a quindicimila abitanti».
In particolare, l’art. 16, comma 17, lettera a), nella parte in cui non prevede più la giunta municipale per i Comuni fino a 1.000 abitanti, anche qualora i detti Comuni esercitino le loro funzioni in convenzione, si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e con il principio di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), anche in relazione alle competenze regionali di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in quanto incide sulla funzionalità di dette forme associative e quindi sullo svolgimento delle funzioni amministrative che la Regione ha attribuito ai Comuni.
Quanto ai commi 19, 20 e 21, che pongono vincoli in ordine alle modalità temporali e alle sedute degli organi collegiali di governo degli enti territoriali, le citate disposizioni sarebbero lesive dell’autonomia organizzativa dei Comuni, ponendosi in contrasto con l’art. 117, sesto comma, ultima parte, Cost., e, in ogni caso, andando ad incidere in materia di «ordinamento degli enti locali», appartenente alla competenza esclusiva regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
Le suddette censure sono per un verso inammissibili, per un altro non fondate.
In ordine all’asserito contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., si rinvia alle considerazioni espresse nel precedente paragrafo 5 del Considerato in diritto.
Con riferimento, poi, al comma 17, lettera a), dell’art. 16, per l’asserito contrasto con l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché ai commi 19, 20 e 21 per il dedotto contrasto con l’art. 117, quarto e sesto comma, ultima parte, Cost., si devono richiamare le considerazioni in precedenza espresse circa la riconducibilità delle citate disposizioni alla normativa di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica (paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto).
12.– Da ultimo, la Regione Toscana denunzia l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 28, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, «nella parte in cui autorizza l’esercizio di un potere sostitutivo straordinario da parte del Prefetto», ciò in contrasto con gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 120, secondo comma, Cost.
Ad avviso della ricorrente, «la norma prevede un potere sostitutivo dello Stato, allocato in capo ai prefetti, al di fuori dello schema di cui all’art. 120, secondo comma, Cost., e comunque ben al di là dei limiti stabiliti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 43/2004». Dopo aver riportato ampie parti di detta sentenza, la Regione osserva che, alla luce dell’orientamento espresso da questa Corte, risulterebbe evidente come il citato comma 28 non sarebbe conforme alla Costituzione e, in particolare, si porrebbe in contrasto con l’art. 120, secondo comma, anche in combinato disposto con l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. Non soltanto sarebbe previsto un potere sostitutivo in assenza dei presupposti tassativamente indicati dall’art. 120, secondo comma, Cost., ma sarebbe ammesso l’esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato con riguardo a materie esulanti dalla competenza statale, essendo gli obblighi invocati dalla norma in parola (il cui inadempimento sta alla base del potere sostitutivo di cui si tratta) riconducibili nell’ambito materiale di competenza esclusiva delle Regioni, con particolare riferimento alla materia «ordinamento degli enti locali», in ulteriore violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.
La questione non è fondata.
L’art. 16, comma 28, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, così dispone: «Al fine di verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle spese da parte degli enti locali, il prefetto accerta che gli enti territoriali interessati abbiano attuato, entro i termini stabiliti, quanto previsto dall’articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni, e dall’articolo 14, comma 32, primo periodo, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, come da ultimo modificato dal comma 27 del presente articolo. Nel caso in cui, all’esito dell’accertamento, il prefetto rilevi la mancata attuazione di quanto previsto dalle disposizioni di cui al primo periodo, assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, fermo restando quanto previsto dal secondo periodo, trova applicazione l’articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131».
Come emerge dal suo incipit, la norma ora trascritta è diretta a verificare che taluni principi stabiliti dal legislatore statale, nel quadro del perseguimento degli obiettivi di semplificazione e riduzione delle spese da parte degli enti locali, non restino privi di attuazione. Essa non ha carattere generale, ma si riferisce in modo specifico a due fattispecie: 1) alla previsione dell’art. 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), la quale prevede la soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, ad eccezione dei bacini imbriferi montani e facendo salvi i rapporti di lavoro a tempo indeterminato esistenti; 2) alla previsione dell’art. 14, comma 32, primo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, e successive modificazioni, che, con riferimento ai vincoli derivanti dal patto di stabilità interno, prevedeva il divieto per i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti di costituire società. Tale comma è stato abrogato dall’art. 1, comma 561, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriannuale dello Stato – Legge di stabilità 2014), a decorrere dal 1° gennaio 2014.
Il relativo potere è attribuito al Prefetto che lo esercita senza margini di discrezionalità e, qualora rilevi la mancata attuazione di quanto stabilito dalle menzionate disposizioni, assegna agli enti inadempienti un termine perentorio per provvedere. L’inutile decorso di detto termine rende applicabile l’art. 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge n. 131 del 2003. Il citato art. 8, comma 1, prevede l’assegnazione all’ente interessato di un (ulteriore) congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari.
Il fondamento di tale potere, che si risolve in una attività di mero accertamento, è nell’art. 120, secondo comma, Cost. Come questa Corte ha osservato, il testo attuale di tale disposizione deriva «dalla preoccupazione di assicurare comunque, in un sistema di più largo decentramento di funzioni quale quello delineato dalla riforma, la possibilità di tutelare, anche al di là degli specifici ambiti delle materie coinvolte e del riparto costituzionale delle attribuzioni amministrative, taluni interessi essenziali – il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, la salvaguardia dell’incolumità e della sicurezza pubblica, la tutela in tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – che il sistema costituzionale attribuisce alla responsabilità dello Stato». Quanto alla «unità giuridica» e alla «unità economica», «si tratta all’evidenza del richiamo ad interessi “naturalmente” facenti capo allo Stato, come ultimo responsabile del mantenimento della unità e indivisibilità della Repubblica garantita dall’articolo 5 della Costituzione» (sentenza n. 43 del 2004).
Tali principi sono stati poi ribaditi, con l’affermazione che la disposizione di cui all’art. 120, secondo comma, Cost. «è posta a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza, legalità, che il mancato o l’illegittimo esercizio delle competenze attribuite, nei precedenti artt. 117 e 118, agli enti sub-statali potrebbe lasciare insoddisfatte o pregiudicare gravemente. Si evidenzia insomma, con tratti di assoluta chiarezza – si pensi alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che forma oggetto della competenza legislativa di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) – un legame indissolubile tra il conferimento di una attribuzione e la previsione di un intervento sostitutivo diretto a garantire che la finalità cui essa è preordinata non sacrifichi l’unità e la coerenza dell’ordinamento. La previsione del potere sostitutivo fa dunque sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze, assicurando comunque, nelle ipotesi patologiche, un intervento di organi centrali a tutela di interessi unitari» (sentenza n. 236 del 2004, paragrafo 4.1 del Considerato in diritto).
Nel caso di specie, come sopra si è notato, la norma oggetto di censura è finalizzata ad assicurare che i principi fissati dal legislatore statale (nel quadro della manovra di coordinamento della finanza pubblica qui in esame) non restino inattuati, così compromettendo le prospettive di risanamento del bilancio pubblico ed incorrendo anche in violazione della normativa comunitaria.
Non è esatto, dunque, che il citato art. 28 si ponga in contrasto con l’art. 120, secondo comma, Cost. È vero, piuttosto, che una (eventuale) protratta inerzia degli enti sub-statali nel realizzare iniziative richieste dall’esigenza di tutelare l’unità giuridica o l’unità economica dello Stato giustifica la previsione di un potere sostitutivo, che consenta un intervento di organi centrali a salvaguardia di interessi generali ed unitari.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, dunque, la questione non è fondata.
13.– La Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 141 del 2011), censura l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011.
Dopo avere riassunto i primi 16 commi della norma citata, la ricorrente sostiene che il comma 1 sarebbe costituzionalmente illegittimo «nella misura in cui pretende di allocare funzioni amministrative in ambiti di competenza legislativa regionale, concorrente e residuale, violando così l’art. 117, terzo e quarto comma, e l’art. 118, secondo comma, Cost.».
In particolare, l’illegittimità costituzionale sarebbe da individuare nella conformazione generale dell’ambito applicativo della norma considerata. Essa, infatti, riguarderebbe «tutte le funzioni amministrative» esercitate dagli enti locali in questione, in qualunque materia si collochino.
Ancora più evidente, poi, sarebbe l’illegittimità costituzionale della norma in esame, nella parte in cui pretende di allocare tutte le funzioni amministrative riguardanti «i “servizi pubblici” svolti dagli enti locali». Sarebbe principio costante della giurisprudenza costituzionale che i servizi pubblici locali costituiscono un ambito affidato alla competenza legislativa residuale regionale.
La questione ha ad oggetto il comma 1 della norma censurata. Il detto comma è stato modificato dallo ius superveniens di cui al d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e la relativa censura è stata ritenuta non suscettibile di trasferimento sulla nuova norma, non avente carattere satisfattivo. Pertanto, la relativa questione è stata dichiarata inammissibile per sopravvenuto difetto d’interesse (paragrafo 4.2 del Considerato in diritto). Si deve rinviare, dunque, ai rilievi svolti in quella sede.
14.– La Regione Puglia, poi, deduce l’illegittimità costituzionale dei commi da 2 a 16 della citata norma, che regolano l’ordinamento dell’unione dei Comuni, «rendendo peraltro la loro istituzione, ove ricorrano le condizioni previste, obbligatorie da parte degli enti locali interessati».
Tali disposizioni sarebbero costituzionalmente illegittime, perché in violazione della competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di «ordinamento degli enti locali». Al riguardo, non potrebbe trovare applicazione l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., che fa riferimento ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane, con indicazione da ritenere tassativa, dalla quale sono quindi escluse le unioni di Comuni.
Il carattere obbligatorio dell’esercizio di tutte le funzioni e di tutti i servizi mediante due forme associative (unione o convenzione) violerebbe gli artt. 114, 117 e 118 Cost. Il legislatore statale non potrebbe spingersi fino al punto di sottrarre all’ente Comune la titolarità delle funzioni e dei servizi, se non violando il secondo comma dell’art. 114 Cost. Inoltre, prevedere una forma associativa titolare della gestione di ogni funzione e servizio assegnato ai Comuni membri, della quale questi ultimi sono tenuti obbligatoriamente a fare parte, impone a questa classe di enti territoriali vincoli e limiti che li differenziano completamente dagli altri, ai quali i vincoli stessi non si applicano.
Tale differenziazione si porrebbe in netto contrasto tanto con l’art. 114, quanto anche con l’art. 118 Cost., nella misura in cui prevede forme associate obbligatorie per l’esercizio di tutte le funzioni e di tutti i servizi. Una simile scelta creerebbe due diverse classi di Comuni con caratteristiche istituzionali differenti, articolando in maniera rigida e definitiva un livello di governo, quello comunale, che l’art. 114 Cost. vuole ispirato al principio di eguaglianza e di pari dignità istituzionale.
Inoltre, sarebbe da escludere che la legge statale possa imporre forme associate di esercizio delle funzioni proprie dei Comuni e, comunque, di quelle ad essi assegnate da leggi regionali. Tale principio, ad avviso della ricorrente, non avrebbe fondamento costituzionale.
Altro vizio di legittimità costituzionale sarebbe attinente al carattere alternativo delle possibili forme associative (unione e convenzione), rimesso ai Comuni e all’apprezzamento del Ministero dell’interno (art. 16, comma 16). Per questa parte il testo normativo incorrerebbe nella violazione dei principi di ragionevolezza e di buon andamento, in quanto attribuirebbe effetti analoghi a due forme associative assai diverse.
Sarebbe, inoltre, costituzionalmente illegittimo l’art. 16, comma 4, ultimo periodo, del d.l. n. 138 del 2011, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., perché autorizzerebbe un regolamento statale in una materia di competenza residuale regionale.
Detta norma è stata modificata in modo non satisfattivo dal citato ius superveniens. Sul punto valgono le osservazioni svolte in ordine alla non trasferibilità della relativa questione di legittimità costituzionale che hanno determinato la dichiarazione di inammissibilità per sopravvenuta carenza d’interesse (paragrafo 5.6 del Considerato in diritto).
Con riferimento al comma 16 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, non ricompreso nella sostituzione operata dallo ius superveniens, si rinvia a quanto posto in evidenza nel paragrafo 4.17 del Considerato in diritto, circa la dichiarazione della cessazione della materia del contendere.
In relazione, poi, ai commi 2, 3 5, 7, 9, 11, 12 e 15 dell’art. 16, rilevano le considerazioni già svolte, rispettivamente, nei paragrafi 4.3, 4.4, 4.6, 4.8, 4.10, 4.12, 4.13 e 4.16 del Considerato in diritto, con riguardo alla cessazione della materia del contendere o all’inammissibilità delle relative questioni di legittimità costituzionale.
In riferimento al comma 4 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, commi 2 e 5, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; ai commi 6 e 9 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, valgono le argomentazioni secondo cui, come già si è precisato nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto, la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni censurate è il «coordinamento della finanza pubblica».
Pertanto, la questione deve essere dichiarata non fondata.
Residuano il comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, e l’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, nonché il comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, per i quali è stata dichiarata la illegittimità costituzionale parziale nei termini indicati ai paragrafi 9.1 e 9.2 del Considerato in diritto.
15.– Le Regioni Emilia-Romagna, Liguria ed Umbria, con tre ricorsi di analogo tenore (reg. ric. numeri 144, 146 e 147 del 2011), hanno promosso questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri, del citato art. 16 nella sua interezza. La norma sarebbe costituzionalmente illegittima per difetto del requisito dei «casi straordinari di necessità e d’urgenza» richiesti dall’art. 77, primo e secondo comma, Cost.
Invero, si tratterebbe di norme ordinamentali, incidenti profondamente sullo status istituzionale dei Comuni. I commi da 1 a 16 imporrebbero a questi enti, con popolazione fino a 1.000 abitanti, la gestione associata ed altre modalità vincolate per l’esercizio di tutte le funzioni amministrative e per la gestione di tutti i servizi, definendo, altresì, minutamente l’istituzione e la composizione degli organi di una nuova forma di associazione obbligatoria denominata unione, mentre i commi da 17 a 21 innoverebbero nella composizione e nell’articolazione degli organi dei Comuni in genere, incidendo sulla loro autonomia organizzativa e sul loro attuale funzionamento, disponendo in materia di retribuzione dei componenti degli organi di governo degli enti territoriali.
Le ricorrenti notano come lo stesso d.l. n. 138 del 2011 stabilisca che la disciplina varata non è di immediata applicazione (comma 9). Risulterebbe evidente, dunque, che l’attuazione delle disposizioni in questione non sarebbe destinata a compiersi, e nemmeno ad iniziare, nell’immediato.
Risulterebbe del pari evidente che, entro quel termine, ed anzi molto prima, si sarebbe potuto attivare e portare a compimento l’ordinario procedimento legislativo, né si potrebbe replicare che l’urgenza sarebbe ravvisabile in altre disposizioni del medesimo decreto, perché tale argomento, anziché giustificare, aggraverebbe il vulnus alle regole sulle competenze costituzionali.
Si dovrebbe ancora considerare che le disposizioni introdotte non soltanto sarebbero destinate ad essere attuate in un momento lontano nel tempo, ma neppure sarebbero connesse a risparmi di spesa certi e rilevanti, perché i contenuti delle norme censurate non sembrerebbero rispondere in modo adeguato alle finalità del contenimento delle spese degli enti territoriali, non essendo nemmeno quantificati i supposti risparmi. Pertanto, mentre gli effetti di innovazione ordinamentale della nuova normativa sarebbero di grandissima rilevanza, quelli sul contenimento della spesa si rivelano incerti ed eventuali.
Richiamata la sentenza di questa Corte n. 29 del 1995, le ricorrenti osservano che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la mancanza dei presupposti della decretazione d’urgenza può dar luogo ad un vizio di legittimità dell’atto «solo quando essa appaia chiara e manifesta perché solo in questo caso il sindacato di legittimità della Corte non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunità politica riservata al Parlamento» (sentenza n. 398 del 1998). Tuttavia, un decreto-legge che pospone l’operatività delle proprie misure ad una data indefinita, comunque non prevedibile prima di un anno dalla sua entrata in vigore, apparirebbe incompatibile con quella «immediata applicazione» che la legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), in attuazione dell’art. 77 Cost., pone come vincolo al potere governativo di decretazione d’urgenza.
Denunciato il vizio che, ad avviso delle ricorrenti, inficerebbe l’intera disciplina dettata dall’art. 16, le Regioni rivendicano la loro legittimazione a farlo valere.
Richiamata la costante giurisprudenza costituzionale sul punto, esse osservano che, per quanto tale giurisprudenza «abbia finora impedito alle Regioni di poter far valere i vizi “formali” degli atti legislativi, la Corte non ha mai dichiarato questa preclusione nei confronti del soggetto Regione in quanto tale, ma in relazione alla particolare (e particolarmente restrittiva) definizione dell’interesse ad agire». Come sottolineato dalla sentenza n. 216 del 2008, perché tale interesse sia ritenuto ammissibile è richiesto che «l’iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente diretta a conseguire l’utilità propria», in quanto la sussistenza dell’interesse ad agire può essere postulata «soltanto quando esso presenti le caratteristiche della concretezza e dell’attualità, consistendo in quella utilità diretta ed immediata che il soggetto che agisce può ottenere con il provvedimento richiesto al giudice».
Ad avviso delle ricorrenti, però, «l’utilità propria, diretta e immediata» non potrebbe esser fatta coincidere con la difesa della specifica attribuzione legislativa assegnata alla Regione, dal momento che la violazione di questa costituirebbe un vulnus al riparto costituzionale delle competenze denunciabile per se stesso, senza che venga in rilievo la specifica forma dell’atto legislativo che ne è responsabile.
Le «prerogative costituzionali» delle Regioni, pertanto, dovrebbero estendersi, ad avviso di queste ultime, anche al loro status costituzionale ed al ruolo ad esse assegnato nei processi decisionali. E lo stesso dovrebbe dirsi anche per i Comuni, quali enti che primariamente «costituiscono» la Repubblica, ai sensi dell’art. 114 Cost., «che ugualmente la violazione della regola del procedimento legislativo ordinario ha privato della possibilità di far valere la propria voce».
Inoltre, la questione della legittimità di anticipare, con misure di urgenza, interventi di natura ordinamentale, che dovrebbero essere affrontati nel quadro di un riordinamento organico del sistema dei livelli territoriali di governo, si porrebbe «ormai in termini acuti, oltre che dal punto di vista del “buon governo” del sistema repubblicano», anche nell’assetto delle relazioni costituzionali intercorrenti tra Stato e Regioni, le quali, per costante affermazione di questa Corte, dovrebbero ispirarsi al principio di leale collaborazione.
Sarebbe evidente che, nello stesso arco temporale fissato dall’art. 16, comma 9, si sarebbe potuto giungere ad un testo di riforma meditato e condiviso, dagli effetti assai più vasti e benefici. Il che sarebbe stato denunziato dal documento approvato il 23 giugno 2010 dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome.
Queste ultime sarebbero state coinvolte in «defatiganti procedure di negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro ed equilibrato, come da tutti auspicato, dei poteri locali e delle relazioni, anche finanziarie, tra Stato, Regioni e autonomie territoriali». Esse, però, sarebbero del tutto inutili se poi al Governo fosse consentito di modificare in modo unilaterale tratti fondamentali del quadro istituzionale.
Ad avviso delle ricorrenti, ciò verrebbe a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti tra Stato e Regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali che le stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare attuazione al principio di leale collaborazione.
Per questi motivi le tre Regioni ricorrenti ritengono di essere legittimate a far valere, in relazione alle disposizioni ordinamentali di cui all’art. 16, la violazione dell’art. 77 Cost., per quanto riguarda la carenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza, nonché per violazione degli artt. 114 (ruolo costituzionale delle Regioni) e 118, primo comma (come espressione del più generale principio di sussidiarietà), ed infine dell’art. 5 Cost., come implicito riconoscimento del principio di leale collaborazione.
La questione è inammissibile.
Si deve premettere che l’assunto, secondo cui l’intero art. 16 introdurrebbe norme ordinamentali dirette ad incidere profondamente sullo status istituzionale dei Comuni, non può essere condiviso. In effetti, le disposizioni censurate non alterano il tessuto strutturale e il sistema delle autonomie locali, ma sono dirette a realizzare, per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, l’esercizio in forma associata delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici, mediante unioni di Comuni, secondo un modello peraltro già presente nell’ordinamento, sia pure con talune differenze di disciplina (art. 32 del TUEL).
Ciò detto per l’esatto inquadramento della questione, va rilevato che, per costante orientamento di questa Corte, sono ammissibili questioni di legittimità costituzionale prospettate da una Regione, nell’ambito di un giudizio in via principale, in ordine a parametri diversi da quelli riguardanti il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni, contenuti nel Titolo V, Parte seconda, della Costituzione, purché sia possibile riscontrare la ridondanza delle asserite violazioni su tale riparto e il soggetto ricorrente abbia indicato le specifiche competenze ritenute lese e le ragioni della lamentata lesione (ex plurimis, sentenze n. 234 del 2013, n. 22 del 2012, n. 128 del 2011, n. 326, n. 156, n. 52 e n. 40 del 2010, n. 341 del 2009).
Nel caso di specie non è ravvisabile alcuna ridondanza del vizio denunciato (asserita violazione dell’art. 77, primo e secondo comma, nonché dell’art. 5, Cost.) sulle competenze legislative regionali. La tesi secondo cui le «prerogative costituzionali» delle Regioni dovrebbero estendersi anche al loro status costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nei processi decisionali si rivela meramente assertiva e non consente d’individuare la specifica competenza regionale che, nel caso in esame, risulterebbe lesa e le ragioni di tale lesione.
Né giova il richiamo agli artt. 114 e 118, primo comma, Cost., stante la genericità dell’allegazione e il difetto di adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali le disposizioni censurate comporterebbero la violazione dei parametri di riferimento.
15.1.– Le Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria hanno promosso, poi, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, quanto ai commi da 1 a 16, per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, primo, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost., nonché per violazione del principio di non discriminazione, di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui agli artt. 3 e 97 Cost.
Dopo aver riassunto il contenuto della normativa censurata, le disposizioni costituzionali riguardanti i Comuni e le competenze che, in relazione ad essi, spettano allo Stato e alle Regioni, le ricorrenti osservano che il quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e il relativo riparto di competenze vanno tenuti presenti anche nell’affrontare il problema – che le Regioni non ignorano – delle insufficienti dimensioni di molti Comuni italiani.
Si tratta di un problema complesso, che non può essere risolto in modo sbrigativo (come farebbe la normativa impugnata) mediante lo svuotamento istituzionale dei Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse finanziarie e disponendo la loro pratica sostituzione con un ente nuovo, l’unione, nella quale finirebbe per “sciogliersi” ogni Comune la cui popolazione non superi la soglia indicata. Si tratterebbe di un ente non presente nella tipologia costituzionale degli enti costitutivi della Repubblica e privo di legittimazione democratica diretta, come peraltro rilevato nel corso dei lavori preparatori.
In effetti, altro sarebbe promuovere entità associative, attraverso le quali i Comuni associati possano meglio esercitare alcune delle proprie funzioni, fermo restando il nucleo centrale della loro consistenza, altro sarebbe ridurre i Comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente che dovrebbe assorbire, pressoché integralmente, le funzioni, le strutture e le risorse del Comuni originari.
Invero, quanto alle funzioni, le disposizioni censurate priverebbero i Comuni interessati di tutte le funzioni amministrative e di gestione dei servizi pubblici. Quanto all’organizzazione, i consigli comunali resterebbero come semplici organi d’indirizzo (comma 9). Gli stessi sindaci dei Comuni diventerebbero semplici rappresentanti nel Consiglio dell’unione, mentre le funzioni di sindaco sarebbero assunte dal presidente dell’unione (comma 12).
Risulterebbe palese, dunque, che il disegno delle disposizioni dettate dall’art. 16, nei commi da 1 a 16, sarebbe quello di sostituire nella sostanza i Comuni di piccole dimensioni con le unioni. Tale disegno, però, contrasterebbe con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i Comuni e costituirebbe un aggiramento delle apposite procedure e competenze che essa stabilisce per la creazione di nuovi Comuni e per il mutamento delle circoscrizioni comunali.
In altre parole, le disposizioni impugnate costituirebbero non soltanto superamento dei poteri statali previsti dall’art. 117, secondo comma, ma anche violazione dell’art. 133 Cost. Soltanto in apparenza il legislatore statale disporrebbe di organi e funzioni degli enti locali, perché in realtà sarebbe alterata la stessa mappa dell’autonomia comunale, costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure appositamente apprestate dall’art. 133 Cost.
Il complesso normativo costituito dall’art. 16, commi da 1 a 16, non sarebbe dunque compatibile con i principi costituzionali esposti. Lo stesso principio di sussidiarietà subirebbe una violazione, in quanto la «differenziazione» dei Comuni e delle loro funzioni non potrebbe essere disgiunta da una considerazione, in concreto, della capacità amministrativa e di gestione che distingue gli enti minori in ogni diversa realtà del Paese e non potrebbe ridursi alla privazione delle funzioni dei Comuni minori.
Inoltre, risulterebbe violata la Carta europea dell’autonomia locale, a cui è stata data esecuzione con la legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985). Il contrasto sussisterebbe, in particolare, con l’art. 3 di tale atto.
Andrebbe notato, tra l’altro, che spesso i Comuni con popolazione non superiore a 1.000 abitanti non sono contigui, sicché tali enti devono partecipare ad unioni comprendenti Comuni che affidano ad esse soltanto alcune delle proprie funzioni, mantenendo per il resto (ed ovviamente) la pienezza della propria natura di Comuni.
La situazione istituzionale, dunque, risulterebbe anche «fortemente asimmetrica e disuguale», con il solo Comune minore che perde nella sostanza la propria natura di vero Comune a favore di una unione che per tutti gli altri Comuni rimane un’organizzazione settoriale di servizio.
Ad avviso delle ricorrenti risulterebbero violati, oltre all’art. 114 Cost., anche gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto sarebbe stata adottata una soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza e in contrasto col principio di buon andamento dell’amministrazione.
Le disposizioni impugnate violerebbero, altresì, le competenze residuali delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali.
Infatti, come confermato da questa Corte (sentenza n. 456 del 2005), nello stabilire la competenza statale l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., «fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane e l’indicazione deve ritenersi tassativa».
Pertanto, la potestà legislativa dello Stato si fermerebbe all’ordinamento degli enti locali e non si estenderebbe alle loro forme associative. In effetti, la giurisprudenza costituzionale avrebbe in diverse occasioni confermato l’incompetenza del legislatore statale ad intervenire in un ambito, quello delle forme associative, riconducibile alla potestà legislativa regionale residuale.
Ne conseguirebbe che l’intera disciplina della speciale unione prevista dai commi da 1 a 16 dell’art. 16, a maggior ragione per il suo carattere dettagliato e minuzioso, si presenterebbe costituzionalmente illegittima per lesione della competenza residuale delle Regioni in materia di associazionismo degli enti locali.
Da ultimo, e in subordine, le ricorrenti deducono la specifica illegittimità costituzionale di talune disposizioni dell’art. 16 che prevedono poteri regolativi e amministrativi statali nell’applicazione della normativa impugnata.
In particolare: il comma 4 dispone, tra l’altro, che con regolamento – da adottare ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge n. 400 del 1988 – su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo, sono disciplinati il procedimento amministrativo-contabile di formazione e variazione del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun Comune e l’unione. Si tratterebbe, in realtà, di un potere non riconducibile ad alcuna materia di competenza statale.
Del pari illegittimo risulterebbe il comma 16 per violazione del principio di leale collaborazione, in quanto il legislatore statale avrebbe del tutto pretermesso le Regioni nella valutazione – demandata in via esclusiva al Ministro dell’interno – circa il conseguimento, da parte dei Comuni già coinvolti in forme associative di cui all’art. 30 del TUEL, di «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni».
Anche in questo caso è necessario richiamare le considerazioni svolte nei paragrafi da 4 a 4.18 del Considerato in diritto in tema di ius superveniens.
All’esito della verifica all’uopo effettuata, le questioni promosse con riferimento ai commi 1, 3, 4, 5, 9, 11, 12 e 15 sono state dichiarate inammissibili e per quelle riferite ai commi 2, 7 e 16 è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere.
In riferimento al comma 4 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, commi 2 e 5, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e ai commi 6 e 9 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, valgono le argomentazioni secondo cui, come già si è precisato nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto, la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni censurate è il coordinamento della finanza pubblica. Pertanto, la questione deve essere dichiarata non fondata.
Residuano il comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, e l’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, nonché il comma 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, per i quali è stata dichiarata la illegittimità costituzionale parziale nei termini indicati ai paragrafi 9.1 e 9.2 del Considerato in diritto.
16.– La Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 145 del 2011), ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16 e, specificamente, degli originari commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, per violazione degli artt. 97, 114, 117 e 118 Cost.
In primo luogo, la ricorrente osserva che le norme perseguono l’obiettivo della riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica, allo scopo di assicurare il conseguimento degli obiettivi di coordinamento della finanza pubblica, nonché il contenimento delle spese degli enti locali.
In secondo luogo, la difesa regionale rileva che l’intervento è dichiaratamente finalizzato alla razionalizzazione delle modalità di organizzazione delle funzioni comunali, per migliorare l’esercizio delle funzioni amministrative e l’offerta dei servizi pubblici. Deduce che, «qualora il testo legislativo in esame trovasse appropriata collocazione tra gli strumenti necessari a perseguire la riduzione dei costi ed inserito tra le azioni indispensabili al raggiungimento dei noti e difficili obiettivi di finanza pubblica, le puntuali disposizioni in esso contenute dovrebbero appartenere alla categoria delle cosiddette “norme di coordinamento della finanza pubblica” ed automaticamente ascriversi all’omonima materia di competenza concorrente ai sensi del comma terzo dell’articolo 117 della Costituzione». Richiama, quindi, i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in tale materia e sostiene che, invece, le disposizioni censurate integrerebbero una disciplina di dettaglio ed auto-applicativa che non potrebbe essere ricondotta alla nozione di principio fondamentale della materia del coordinamento della finanza pubblica. Invero, si tratterebbe di imposizioni di carattere imperativo e puntuale «a cui soggiacciono in via diretta le amministrazioni comunali ed in via riflessa le Regioni, alle quali non è lasciata alcuna autonomia opzionale in aperta violazione dell’articolo 117 della Costituzione, secondo comma». Tale censura andrebbe «riproposta in relazione al comma 7 dell’articolo 16, che impone ex lege la cessazione delle precedenti forme associative previste nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267» .Ad avviso della ricorrente, nelle disposizioni in esame per un verso risulterebbe assente la necessaria indicazione del risparmio di spesa conseguente, per altro verso «l’effetto dirompente della norma risulta più di carattere ordinamentale che finanziario».
La Regione, poi, dubita che la razionalizzazione delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici di spettanza comunale «costituisca un profilo riconducibile de plano alla lettera p) del comma secondo dell’articolo 117 della Costituzione», e richiama, al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte in tema di comunità montane, osservando che, se a queste ultime è stata riconosciuta, pur non essendo enti costituzionalmente garantiti, specifica autonomia statutaria e regolamentare, analoga autonomia dovrebbe essere riconosciuta alle nuove figure di unioni di Comuni, anche per quanto concerne l’individuazione dei propri organi di governo.
Invece – prosegue la ricorrente – l’art. 16, nei commi da 10 a 14, disciplina appunto gli organi di governo dell’unione, ente diverso ed autonomo dalle amministrazioni di cui si compone. Per conseguenza, non essendo tali unioni giuridicamente assimilabili ai Comuni, esse sarebbero escluse dall’ambito di riferimento proprio degli artt. 114 e 117, secondo comma, lettera p), Cost. e, per ciò stesso, non imputabili alla titolarità legislativa statale, ma ascrivibili alla potestà legislativa residuale delle Regioni.
Inoltre, andrebbe considerato che la titolarità legislativa regionale in materia di associazionismo sarebbe stata riconosciuta dall’art. 14, commi da 27 a 31 (in particolare, dal comma 30), del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010. Non sarebbe dato comprendere perché, a breve distanza di tempo, essa dovrebbe essere disconosciuta dalle disposizioni in esame. Tale successione di leggi dai contenuti inconciliabili sarebbe suscettibile di generare una insostenibile incertezza normativa, oltre a pregiudicare la concreta operatività delle amministrazioni comunali, anche per quanto concerne l’esercizio delle funzioni amministrative di competenza regionale, in violazione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa tutelato dall’art. 97 Cost.
Ancora, le norme in esame sarebbero lesive delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni in tema di associazionismo comunale, non soltanto per quanto concerne l’esercizio della potestà legislativa, ma anche per quella amministrativa, ai sensi dell’art. 118 Cost.
Infatti, «il contenuto di dettaglio espresso, con imposizione autoritativa, nelle disposizioni censurate, anche relativamente a funzioni diverse da quelle di esclusiva spettanza statale, nella misura in cui si riferisce a funzioni amministrative di competenza regionale, non può non generare un’evidente violazione anche al riparto di competenze amministrative di cui all’articolo 118 della Costituzione».
Il modello di unione di Comuni imposto dallo Stato, connotato da genericità e indifferenziazione, non sarebbe idoneo a garantire l’efficienza organizzativa quale portato delle allocazioni ottimali delle funzioni, in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e immediatezza che dovrebbero caratterizzare il sistema di amministrazione locale. Il conferimento, fatto agli enti locali con legge regionale, di funzioni amministrative nelle materie di competenza legislativa regionale, costituirebbe appunto la declinazione dei detti principi, allo scopo di razionalizzare l’esercizio delle funzioni amministrative. Analoga valutazione, in ordine alle caratteristiche peculiari delle singole funzioni suscettibili di diversa allocazione, spetterebbe allo Stato nelle materie di sua esclusiva attribuzione. Invece, la compressione indebita delle funzioni amministrative di spettanza regionale per effetto di interventi normativi statali violerebbe l’art. 118 Cost. in riferimento alle prerogative regionali circa l’esercizio di funzioni amministrative.
La Regione Veneto censura, poi, l’intero art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, che consta di 31 commi, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost. Al riguardo, osserva come la norma censurata, imponendo una determinata forma organizzativa di tipo associativo, violerebbe il richiamato parametro costituzionale, che riconosce ai Comuni autonoma potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite ed a tale ambito andrebbe ricondotta la scelta concretantesi nell’esercizio delle funzioni secondo forme associative.
Del resto, la libertà di organizzazione riconosciuta dal legislatore statale ai Comuni sarebbe indiscutibile e testimoniata dalla pluralità di disposizioni in materia di associazionismo comunale presenti nell’ordinamento.
La ricorrente censura, ancora, l’art. 16, comma 28, del citato decreto il quale individua i poteri attribuiti al Prefetto allo scopo di vigilare in ordine al veloce conseguimento degli obiettivi individuati.
Dopo aver riportato il contenuto della disposizione, la difesa regionale rileva che il potere sostitutivo regolato dalla norma sembra esulare dall’ambito proprio dell’art. 120 Cost., che consente al Governo di sostituirsi legittimamente agli organi dei Comuni soltanto nelle ipotesi ivi tassativamente elencate.
Sarebbe palese che nessuna di tali ipotesi possa attagliarsi ad un contesto come quello oggetto della norma censurata, nel quale, per esplicita affermazione del medesimo legislatore statale, gli unici obiettivi posti a fondamento dell’intervento sono quelli della semplificazione e della riduzione delle spese.
Né sarebbe condivisibile la posizione interpretativa che vorrebbe ricondurre il potere sostitutivo de quo ad una (ritenuta) preminente esigenza di garanzia dell’unità economica, intesa come il complesso della macroeconomia nazionale, costituita da moneta, risparmio e mercati finanziari, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto la finalità di contenimento della spesa pubblica sarebbe perseguibile dallo Stato con mere previsioni normative di principio, nell’alveo del sistema di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., e non potrebbe, quindi, legittimare il potere sostitutivo statale in argomento.
Ad avviso della ricorrente, la circostanza che tale potere si configuri come straordinario e collocato in posizione aggiuntiva rispetto ad altre ipotesi di potere sostitutivo cosiddetto ordinario, non potrebbe consentire alcuna violazione del riparto di competenze garantito dagli artt. 117 e 118 Cost.
Se, infatti, il potere sostitutivo straordinario si pone quale presidio ad esigenze avvertite come fondamentali, di eguaglianza, sicurezza e legalità la cui tutela appare necessaria al fine di garantire unità e coerenza dell’ordinamento, mentre quello ordinario è correlato all’esercizio della potestà legislativa statale e alla potestà concernente l’esercizio delle funzioni amministrative attribuite ai sensi dell’art. 118 Cost., le esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sottese alla disposizione censurata, non sarebbero in alcun caso perseguibili anche mediante il ricorso ad un intervento sostitutivo straordinario, ma al più, a quello ordinario nei termini sopra indicati.
In sostanza, si profilerebbe la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., perché il mero principio di coordinamento della finanza pubblica sarebbe strumentale all’esercizio di una funzione amministrativa che, in conformità all’art. 118 Cost., potrebbe rientrare anche in ambiti di competenza regionale.
Le questioni così riassunte sono in parte inammissibili, in parte non fondate.
Al riguardo, vanno richiamati gli argomenti svolti nel paragrafo che precede e nei paragrafi da 4 a 4.18 del Considerato in diritto.
Le questioni promosse in ordine all’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 (poi convertito), commi 1, 3, 4, 5, 11, 12 e 15, sono state dichiarate inammissibili per sopravvenuto difetto d’interesse.
Sulle questioni promosse in ordine alla citata norma, commi 2, 7 e 16 è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere.
In riferimento ai commi 6 e 9 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, valgono le argomentazioni secondo cui, come già si è precisato nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto, la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni censurate è il coordinamento della finanza pubblica.
Pertanto, le questioni devono essere dichiarate non fondate.
Con specifico riferimento, poi, alla censura promossa in relazione all’intero art. 16 per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., deve rilevarsi come la stessa sia stata formulata in termini generici, non essendo chiare le ragioni per le quali tutte le disposizioni censurate comporterebbero la violazione del parametro di riferimento. In difetto di motivazione, sia pure in forma sintetica, in ordine al collegamento tra le argomentazioni svolte nel ricorso e le singole disposizioni, dal contenuto non omogeneo, deve dichiararsi l’inammissibilità della detta questione di legittimità costituzionale.
La questione promossa dalla ricorrente con riferimento al comma 28 dell’art. 16, del d.l. n. 138 del 2011, oggetto di censure specifiche non è fondata per le medesime ragioni esposte nel precedente paragrafo 12 del Considerato in diritto.
17.– La Regione Campania, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 153 del 2011), ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost.
La ricorrente ritiene che la norma censurata, nella parte in cui «al primo comma dell’art. 16, dispone che i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione di Comuni ai sensi dell’art. 32 del D.Lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali)», violerebbe: a) l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in quanto inciderebbe illegittimamente sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alla competenza residuale delle Regioni; b) l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. in quanto, a proposito della competenza esclusiva statale, relativa a «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», la giurisprudenza costituzionale avrebbe sottolineato che tale disposto dovrebbe essere inteso in senso restrittivo; c) in subordine, l’art. 118, in combinato disposto con l’art. 117 Cost., in materia di disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative da parte degli enti locali, perché la norma impugnata, nel richiamare indistintamente tali funzioni esercitate dai Comuni, avrebbe compreso quelle ricadenti in ambiti materiali regionali, in contrasto con le attribuzioni costituzionalmente garantite alla Regione.
Inoltre, la norma censurata, nella parte in cui determina una profonda incisione delle prerogative costituzionali delle Regioni, peggiorata dalle gravose conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle regole richiamate, violerebbe l’art. 119, quarto comma, Cost., per lesione del principio di corrispondenza tra le funzioni decentrate e le risorse necessarie a consentire di far fronte alle funzioni stesse.
La questione è inammissibile.
Infatti, essa ha per oggetto l’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011 (e successiva legge di conversione), cioè una norma sostituita dalla normativa sopravvenuta in senso non satisfattivo (art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012).
Pertanto, la questione non è trasferibile sul nuovo testo e la norma impugnata non ha avuto applicazione.
18.– La Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 155 del 2011), ha promosso questioni di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 119, 120 e 133, secondo comma, Cost. – dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011.
La ricorrente censura l’intero art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 (poi convertito), nella parte in cui dispone che i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente, mediante un’unione di Comuni; detta norma violerebbe l’art 117, terzo e quarto comma, Cost. in quanto andrebbe ad incidere illegittimamente sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alle Regioni in via residuale.
Inoltre, impugna la stessa norma, nella parte in cui determinerebbe una profonda incisione delle prerogative costituzionali delle Regioni, con effetti pregiudizievoli in danno della finanza regionale, in violazione dell’art. 119, quarto comma, Cost., per lesione del principio di corrispondenza tra le funzioni decentrate e le risorse necessarie a consentire di far fronte all’esercizio delle funzioni stesse.
Infine, censura l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nella parte in cui prevede l’istituzione di un ulteriore ente locale, coincidente con la sostanziale fusione dei Comuni partecipanti, in violazione dell’art. 133, secondo comma, Cost. che riconosce in capo al legislatore regionale, sentite le popolazioni interessate, la competenza in materia di istituzione di nuovi Comuni e di modificazione delle circoscrizioni e denominazioni di quelle già esistenti.
Ancora, la Regione denunzia l’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, nella parte in cui inciderebbe illegittimamente sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alle Regioni in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul loro territorio, così violando l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché il principio fondamentale di leale collaborazione, sancito dall’art. 120 Cost.
Con riferimento alla censura relativa all’art. 16, comma 1, si rinvia alle argomentazioni poste a fondamento della dichiarazione di inammissibilità esposte nel paragrafo 4.2 del Considerato in diritto.
Con specifico riferimento, poi, alle censure mosse in relazione all’intero art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, per violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, 119 e 133, secondo comma, Cost., pur volendo ritenere che esse siano circoscritte alle disposizioni riguardanti l’unione di Comuni, deve rilevarsi come le stesse, oltre a non essere riferite a specifici commi, siano state formulate in termini generici, non essendo chiare le ragioni per le quali tutte le disposizioni censurate comporterebbero la violazione dei parametri di riferimento. In difetto di motivazione, sia pure in forma sintetica, in ordine al collegamento tra le argomentazioni svolte nel ricorso e le singole disposizioni, dal contenuto non omogeneo, deve dichiararsi l’inammissibilità delle dette questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2013 e n. 249 del 2009).
19.– La Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 160 del 2011), ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, commi da 1 a 3, 22 e 24, 4, 8, 9, 10, 13 e 14, da 17 a 21, 25, 26, 27, 28, 30 e 31. Dopo aver riassunto il contenuto precettivo della normativa in esame, la ricorrente sostiene che essa violerebbe l’art. 3, primo comma, lettera b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale della Sardegna), nonché, limitatamente al comma 4, ultimo periodo, anche l’art. 117, sesto comma, Cost.
La ricorrente non ignora che il comma 29 del citato art. 16 prevede quella che sembra una disposizione di salvaguardia delle competenze delle autonomie speciali, ma sostiene che essa, a ben vedere, non escluderebbe la lesione delle attribuzioni della Regione autonoma Sardegna per due ordini di motivi.
In primo luogo, andrebbe considerato che l’art. 3, primo comma, lettera b), dello statuto speciale dispone che essa ha potestà legislativa nella materia dell’«ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», onde sarebbe evidente che, in presenza di tale norma e della relativa garanzia, la semplice applicazione dell’art. 16 agli enti territoriali sardi, ancorché con le modalità di cui al comma 29, sarebbe già di per sé lesiva dell’autonomia regionale. Si tratterebbe, dunque, di una clausola di mero stile, perché la normativa statale – nella materia di cui al citato art. 3, comma 1, lettera b), dello statuto – non potrebbe avere alcun ingresso, nemmeno nelle forme cautelative della previsione censurata.
In secondo luogo, la norma in esame non introdurrebbe una normativa di carattere generale o limitata ai principi di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti non necessari, bensì un’autoritativa e unilaterale determinazione del livello demografico della cosiddetta intercomunalità, cui seguirebbe una regolamentazione di estremo dettaglio, della quale la Regione non potrebbe che prendere atto, recependole in via automatica.
Per queste ragioni l’art. 16 citato, nonostante la (pretesa) formula di salvaguardia, lederebbe le attribuzioni conferite alla Sardegna dalla menzionata disposizione statutaria.
La tesi non può essere condivisa.
Al riguardo, si deve premettere che l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, reca al comma 29 la seguente norma: «Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai comuni appartenenti alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano nel rispetto degli statuti delle regioni e province medesime, delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42».
Quest’ultima norma, al comma 1, così dispone: «Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, nel rispetto degli statuti speciali, concorrono al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarietà ed all’esercizio dei diritti e doveri da essi derivanti, nonché al patto di stabilità interno e all’assolvimento degli obblighi posti dall’ordinamento comunitario, secondo criteri e modalità stabiliti da norme di attuazione dei rispettivi statuti, da definire, con le procedure previste dagli statuti medesimi, e secondo il principio di graduale superamento del criterio della spesa storica di cui all’articolo 2, comma 2, lettera m)».
Questa Corte, esaminando la norma ora riportata, ha chiarito che essa «possiede una portata generale ed esclude – ove non sia espressamente disposto in senso contrario per casi specifici da una norma successiva – che le previsioni finalizzate al contenimento della spesa pubblica possano essere ritenute applicabili alle Regioni a statuto speciale al di fuori delle particolari procedure previste dai rispettivi statuti» (sentenza n. 193 del 2012, paragrafo 2.3.2 del Considerato in diritto).
La medesima sentenza, nel ribadire quanto sopra riportato e con specifico riferimento all’art. 16, comma 29, (paragrafo 3.2 del Considerato in diritto), ha precisato che esso contiene «una specifica clausola di salvaguardia che fa salvo, espressamente, il metodo pattizio (ex art. 27 della legge n. 42 del 2009) nella determinazione dei criteri e delle modalità di concorso delle autonomie speciali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica».
Inoltre, la legge di conversione n. 148 del 2011, ha inserito nel testo del d.l. l’art. 19-bis, alla stregua del quale «L’attuazione delle disposizioni del presente decreto nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano avviene nel rispetto dei loro statuti e delle relative norme di attuazione e secondo quanto previsto dall’articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42».
In tal modo la clausola, ab origine circoscritta al solo art. 16, è stata estesa all’intero decreto-legge come convertito.
Anche sul citato art. 19-bis questa Corte si è pronunziata, escludendo che essa costituisca una mera formula di stile, priva di significato normativo, ed affermando che, invece, «ha la precisa funzione di rendere applicabile il decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che siano “rispettati” gli statuti speciali […]» (sentenza n. 241 del 2012, paragrafo 4.2 del Considerato in diritto).
Pertanto, alla stregua delle considerazioni che precedono, le questioni promosse dalla Regione autonoma Sardegna devono essere dichiarate non fondate, in quanto la normativa censurata non può essere ritenuta applicabile alla Regione al di fuori delle particolari procedure contemplate dallo statuto, stante la clausola di salvaguardia prevista dall’art. 19-bis del d.l. n. 138 del 2011, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, che ha ampliato l’ambito applicativo del citato comma 29 dell’art. 16 del medesimo decreto-legge.
Le questioni, pertanto, devono essere dichiarate non fondate. Ogni altro profilo rimane assorbito.
20.– La Regione Lazio, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 145 del 2012), ha promosso questioni di legittimità costituzionale del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente agli artt. 4, 9, 17, 18 e 19.
In questa sede saranno trattate le questioni attinenti ai commi 2, 5 e 6 del citato art. 19, essendo state riservate a separata pronuncia quelle relative alle altre disposizioni impugnate.
La ricorrente censura l’art. 19 nella parte in cui conferma, «per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, l’obbligo, già prescritto dal comma 17, lettera a), dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, di esercitare obbligatoriamente in forma associata, mediante unione, tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti». In realtà, il richiamo al menzionato art. 17, lettera a), non è esatto, perché tale disposizione riguarda la composizione del consiglio comunale per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti. Come risulta dal tenore della doglianza, la Regione intende riferirsi all’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012.
Quanto all’assunto che «le Regioni, nelle materie di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., individuano le dimensioni territoriali per l’esercizio delle funzioni in forma obbligatoriamente associata, mediante unioni e convenzioni», il riferimento sembra essere all’art. 19, comma 5.
Secondo la ricorrente, tale disciplina sarebbe illegittima per violazione del combinato disposto dell’art. 117, secondo comma, lettera p), nonché terzo e quarto comma, Cost. Infatti, in forza delle disposizioni sopra menzionate, la disciplina delle associazioni degli enti locali andrebbe ricondotta alla competenza normativa della Regione e non già dello Stato, che dovrebbe limitarsi a stabilire le regole in tema di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», con esclusione di tutti gli aspetti riguardanti l’associazionismo di tali enti.
Con specifico riferimento alle censure mosse in relazione all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, Cost., deve rilevarsi come le stesse siano state formulate in termini generici, non essendo chiarite le ragioni per le quali tutte le disposizioni censurate comporterebbero la violazione dei parametri di riferimento. In difetto di motivazione, sia pure in forma sintetica, in ordine al collegamento tra le argomentazioni svolte nel ricorso e le singole disposizioni, dal contenuto non omogeneo, deve dichiararsi l’inammissibilità delle dette questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2013 e n. 249 del 2009).
21.– La Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 151 del 2012), ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose norme del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e tra le altre dell’art. 19, commi 2, 5 e 6.
La ricorrente, premesso che l’art. 19 del decreto citato riscrive (tra l’altro) la disciplina di cui ai primi 16 commi dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, pone l’accento sul citato art. 19, comma 2, nella parte in cui sostituisce il menzionato art. 16, comma 1, regolando l’esercizio associato, ad opera dei Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, mediante unione di Comuni o convenzione, di tutte le funzioni e di tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente e non soltanto delle funzioni fondamentali.
Richiama, inoltre, il medesimo art. 19, comma 2, nella parte in cui modifica l’art. 16, comma 12, del d.l. n. 138 del 2011, concernente l’esercizio in forma associata assicurato mediante convenzioni, ai sensi dell’art. 30 del TUEL, nonché nella parte in cui modifica lo stesso art. 16, comma 4, circa la determinazione della complessiva popolazione dell’unione residente nei rispettivi territori, e nella parte in cui modifica il comma 5 di quest’ultima norma, relativo alla proposta di aggregazione da avanzare alla Regione.
Censura, ancora, l’art. 16, commi 2, 3, dal 6 all’11, e 13, del d.l. n. 138 del 2011, come sostituiti dal citato art. 19, comma 2, e sostiene che la normativa suddetta sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione, innanzitutto, dell’art. 117, quarto comma, in combinato disposto con i commi secondo e terzo, Cost., dal quale sarebbe dato desumere che la materia «forme associative tra gli enti locali» rientrerebbe nella potestà legislativa regionale residuale. È richiamata, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte sulle comunità montane, costituenti un caso speciale di unione di Comuni. Ad avviso della ricorrente, i principi affermati con riferimento a tali enti dovrebbero valere anche per le unioni di Comuni.
Non sarebbe sostenibile che l’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, relativo all’unione tra Comuni e alle convenzioni tra gli stessi sia espressione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. Come affermato da questa Corte in tema di comunità montane, la suddetta elencazione dovrebbe ritenersi tassativa e non comprende le unioni.
Un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale andrebbe, poi, rilevato nei confronti del citato art. 19, comma 2, per violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. Il legislatore statale avrebbe espressamente affermato che le disposizioni dettate dal menzionato art. 19, comma 2, costituirebbero principi fondamentali nella materia del «coordinamento della finanza pubblica», il che sarebbe da escludere.
Andrebbe ribadito che la disciplina di principio dei vincoli finanziari, cioè il contesto normativo rimesso alla competenza legislativa statale, sarebbe compatibile con l’autonomia degli enti costituzionalmente garantiti, come le Regioni e i Comuni, soltanto qualora stabilisca in modo tassativo un limite complessivo d’intervento – avente ad oggetto o l’entità del disavanzo di parte corrente o i fattori di crescita della spesa corrente – lasciando agli enti stessi piena autonomia e libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte. Poiché tali requisiti, nel caso in esame, non sussisterebbero, si dovrebbe concludere per l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Sarebbe, altresì, violato l’art. 118, primo comma, Cost., che disporrebbe circa l’attribuzione delle funzioni amministrative senza alcun riferimento alle unioni di Comuni.
Risulterebbe violato anche l’art. 118, secondo comma, Cost., perché sarebbe leso il potere regionale di conferire, mediante legge della Regione, funzioni amministrative ai Comuni (e non ad unioni degli stessi, imposte o autorizzate dallo Stato).
Infine, sarebbero violati l’art. 119 Cost., anche con riguardo all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa dei Comuni, nonché gli artt. 3 e 97 Cost., specialmente perché i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti sarebbero obbligati (in violazione del principio costituzionale di differenziazione) all’esercizio mediante unione di Comuni o convenzione delle loro funzioni fondamentali.
Le questioni promosse in relazione all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono inammissibili.
Esse, infatti, si riferiscono a parametri che non attengono al riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e la ricorrente non ha chiarito in alcun modo la ridondanza di tale violazione sul detto riparto di competenze, con conseguente compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite.
Del pari inammissibile è la questione promossa nei confronti delle citate disposizioni con riferimento all’art. 119 Cost., «peraltro anche con riguardo all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa dei Comuni».
Infatti, la pretesa violazione del parametro costituzionale invocato non è sorretta da alcuna adeguata argomentazione e, pertanto, ha carattere generico.
Le questioni promosse in relazione all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento all’art. 118, primo e secondo comma, Cost., non sono fondate.
Non è configurabile la violazione dell’art. 118, primo comma, Cost., perché la mancata previsione dell’unione tra gli enti cui attribuire le funzioni amministrative non postula affatto il divieto di modificarne con legge le modalità di esercizio delle funzioni, disponendo che esse avvengano in forma associata.
Quanto alla presunta violazione dell’art. 118, secondo comma, Cost., si deve osservare che, come il dettato normativo espressamente dispone, «I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze», così ribadendo la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, naturalmente nel rispetto delle proprie competenze.
Le questioni promosse in relazione all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento all’art. 117 Cost., ripropongono l’esame di norme già scrutinate dalla Corte in ordine alle censure, promosse con i primi ricorsi, ritenute trasferibili sul testo sopravvenuto dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011.
Al riguardo, alla luce del tenore delle censure, possono essere richiamate argomentazioni già svolte.
In particolare, si tratta di quelle relative alle censure promosse nei confronti dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, in relazione ai quali si rinvia alle considerazioni poste a fondamento della pronunzia di non fondatezza svolte nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto.
Vengono, poi, in rilievo l’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, e l’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, per i quali la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale per le ragioni esposte nel paragrafo 9.1 del Considerato in diritto;
Si tratta, ancora, dell’art. 16, commi 6 e 9, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, in relazione ai quali devono essere ribadite le argomentazione poste a fondamento della pronunzia di non fondatezza svolte nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto;
Ed, infine, la Regione censura l’art. 16, comma 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, per il quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale sui rilievi formulati nel paragrafo 9.2 del Considerato in diritto.
Le questioni promosse con riferimento ai restanti commi (1, 2, 3, 8, 11, 12 e 13), non sono fondate, salvo per quanto concerne il comma 7 del novellato art. 16 del d.l. n. 95 del 2012.
In via preliminare, si deve ribadire che la normativa in esame è riconducibile alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», nel cui ambito l’istituzione delle unioni è qualificabile come normativa statale di principio, finalizzata al contenimento delle spese degli enti territoriali e suscettibile d’incidere su materie di competenza regionale, anche di tipo residuale.
Al riguardo, vanno richiamate le argomentazioni svolte in precedenza (paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto).
Come emerge dalla giurisprudenza ivi menzionata, questa Corte ha più volte affermato che le Regioni e gli enti locali sono tenuti a concorrere alle manovre volte al risanamento dei conti pubblici, anche al fine di garantire l’osservanza degli obblighi assunti in sede europea, e che le misure adottate a tal fine dallo Stato costituiscono inevitabili limitazioni, in via indiretta, all’autonomia finanziaria e organizzativa regionale e locale (sentenza n. 219 del 2013, paragrafo 17 del Considerato in diritto, e sentenza n. 36 del 2004).
È vero che, per costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2009; n. 289 e n. 120 del 2008). È pur vero, però, che il suddetto orientamento si è manifestato, in linea di principio, in casi nei quali l’incidenza sulla spesa corrente è immediato, trattandosi di governare o correggere, per l’appunto, flussi finanziari, non già quando si tratti di interventi volti ad incidere soltanto in via indiretta sulla spesa. In altri termini, occorre tenere conto della peculiarità di fattispecie come quella in esame, nella quale il contenimento della spesa pubblica consegue non a manovre di tipo contabile, bensì a modifiche delle modalità di esercizio di determinate funzioni.
Le dedotte violazioni dell’art. 117 Cost., dunque, non sussistono.
A conclusioni parzialmente diverse bisogna giungere in ordine all’art. 16, comma 7, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012.
L’attuale comma 7 così dispone: «Il consiglio è composto da tutti i sindaci dei comuni che sono membri dell’unione nonché, in prima applicazione, da due consiglieri comunali per ciascuno di essi. I consiglieri di cui al primo periodo sono eletti, non oltre venti giorni dopo la data di istituzione dell’unione in tutti i comuni che sono membri dell’unione dai rispettivi consigli comunali, con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni. Fino all’elezione del presidente dell’unione ai sensi del comma 8, primo periodo, il sindaco del comune avente il maggior numero di abitanti tra quelli che sono membri dell’unione esercita tutte le funzioni di competenza dell’unione medesima. Al consiglio spettano le competenze attribuite dal citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 al consiglio comunale, fermo restando quanto previsto dal comma 2 del presente articolo».
Il contenuto precettivo della norma deve ritenersi in larga parte coessenziale al principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, sopra richiamato, perché dette modalità procedimentali sono necessarie per il funzionamento dell’unione.
Non altrettanto può dirsi, però, per la proposizione, contenuta nel secondo periodo, in base alla quale i consiglieri di cui al primo periodo sono eletti «con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni». Si tratta di una disposizione esulante dal coordinamento della finanza pubblica, attenendo, più propriamente, all’ambito dell’ordinamento dell’unione.
Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del d.l. n.138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «,con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni».
La Regione Veneto con il ricorso ha formulato anche istanza di sospensione cautelare degli artt. 17, 18 e 19 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012. L’istanza, però, è assorbita dalla decisione di merito che precede.
22.– La Regione Campania, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 153 del 2012), ha impugnato numerose disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012. Tra le altre, ha impugnato l’art. 19, commi 2, 5 e 6, che ora formerà oggetto di esame, restando riservata a separate pronunzie la decisione sulle restanti questioni di legittimità costituzionale.
Ad avviso della ricorrente, la norma censurata sarebbe gravemente lesiva delle prerogative regionali. La nuova formulazione del menzionato articolo definirebbe l’esercizio associato di tutte le funzioni e di tutti i servizi, per i Comuni fino a 1.000 abitanti, come non più obbligatorio, bensì alternativo alle modalità di cui all’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010. Tuttavia, non vi sarebbe dubbio che la disposizione statale continui ad incidere illegittimamente sulla sfera di competenza legislativa riservata dalla Costituzione alle Regioni in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul territorio.
In sostanza, anche dalla formulazione attuale del testo normativo emergerebbe l’istituzione di un nuovo ente locale dotato di competenza in tema di programmazione economico-finanziaria e di gestione contabile, nonché di potestà impositiva e patrimoniale. Sarebbe prevista, altresì, la successione dell’unione nei rapporti giuridici inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati, con trasferimento di risorse umane e strumentali. L’unione avrebbe potestà statutaria propria e propri organi, alla cui proclamazione seguirebbe la decadenza di diritto delle giunte dei singoli Comuni associati. Infine, sarebbe previsto l’obbligo per la Regione di sancire l’istituzione di tutte le unioni del proprio territorio, attenendosi alle proposte di aggregazione formulate dai Comuni interessati, sulla base dei criteri demografici prescritti dalla normativa statale. Sarebbe violato, dunque, il riparto di competenze delineato dagli artt. 117 e 118 Cost.
Per escludere l’illegittimità dell’intervento normativo censurato non si potrebbe invocare la competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., perché la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito che il titolo di competenza previsto dalla norma ora citata sarebbe tassativamente rivolto agli enti elencati nell’art. 114 Cost. Al di fuori dell’ambito materiale così circoscritto, la disciplina degli enti locali dovrebbe essere ricondotta nella competenza residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. Ciò anche al fine di garantire la possibilità per la singola Regione, nel ruolo di ente rappresentativo delle diverse istanze presenti sul territorio, di provvedere all’adozione di misure differenziate in considerazione delle esigenze espresse dalla comunità di riferimento, in osservanza dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione.
Tali considerazioni troverebbero conferma nella costante giurisprudenza costituzionale, sviluppatasi in particolare in merito alla disciplina delle comunità montane, anch’essa rientrante nella competenza residuale delle Regioni e, senza dubbio, applicabile anche alle unioni di Comuni.
Così ricostruito il riparto di attribuzioni tra Stato e Regioni in materia, risulterebbe netto il contrasto delle previsioni impugnate con il dettato costituzionale, derivandone la manifesta violazione delle competenze normative regionali.
In via subordinata, l’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, come novellato dal citato art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, risulterebbe in contrasto con il dettato dell’art. 118, in combinato disposto con l’art. 117 Cost.
Andrebbe ricordato come, ai sensi del detto art. 118 Cost., nella formulazione successiva alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, siano attribuite in via di principio ai Comuni tutte le funzioni amministrative, salva la possibilità che le stesse siano conferite, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, ai livelli di governo superiori, al fine di garantirne il migliore esercizio.
Come affermato dalla Corte con la sentenza n. 43 del 2004, sarà sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, ad operare la concreta collocazione delle funzioni. Pertanto, non si potrebbe dubitare che la competenza della Regione in materia di disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative sussista ogni qual volta le funzioni stesse interessino ambiti materiali di diretta pertinenza regionale (esclusiva o concorrente).
La questione promossa in relazione all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, in riferimento all’art. 118 Cost. non è fondata.
Come più volte ricordato, la mancata previsione dell’unione tra gli enti cui attribuire le funzioni amministrative non postula affatto il divieto di modificare con legge le modalità di esercizio delle funzioni stesse, disponendo che esse siano esercitate in forma associata.
Si è già posto in evidenza nel paragrafo 21 del Considerato in diritto, dedicato al ricorso n. 151 del 2012, proposto dalla Regione Veneto, che le questioni relative all’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, promosse in riferimento all’art. 117 Cost., ripropongono l’esame di norme già scrutinate dalla Corte in ordine alle censure ritenute trasferibili sul testo sopravvenuto dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011.
Anche in questo caso il contenuto delle censure consente di rinviare alle argomentazioni già svolte.
Si tratta, infatti, dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, in relazione ai quali valgono le considerazioni poste a fondamento della pronunzia di non fondatezza svolte nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto.
Con riferimento all’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, e all’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale per le ragioni esposte nel paragrafo 9.1 del Considerato in diritto.
In relazione all’art. 16, commi 6 e 9, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, vanno ribadite le argomentazioni poste a fondamento della pronunzia di non fondatezza svolte nei paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto.
Infine, circa l’art. 16, comma 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale sui rilievi formulati nel paragrafo 9.2 del Considerato in diritto.
Anche in tal caso le questioni promosse con riferimento ai restanti commi (1, 2, 3, 8, 11, 12 e 13), non sono fondate, salvo per quanto concerne il comma 7 del novellato art. 16 del d.l. n. 138 del 2011.
Come si è già chiarito, finalità del provvedimento in esame, che riguarda i Comuni aventi popolazione fino a 1.000 abitanti, è quella di razionalizzare e ridurre la spesa pubblica attraverso l’esercizio associato delle funzioni e dei servizi pubblici loro spettanti (paragrafi 6 e 6.1 del Considerato in diritto). Si tratta di una normativa di principio nella materia (di competenza concorrente) del coordinamento della finanza pubblica (art. 117, terzo comma, Cost.). Da tale natura discende, in forza della giurisprudenza di questa Corte, la legittimità dell’incidenza della censurata disciplina sia sull’autonomia di spesa delle Regioni (ex plurimis, sentenze n. 91 del 2011, n. 27 del 2010, n. 456 e n. 244 del 2005), sia su ogni tipo di potestà legislativa regionale, compresa quella residuale in materia di unione di Comuni.
Pertanto, non sussiste il denunziato contrasto circa il riparto costituzionale delle attribuzioni tra Stato e Regioni.
A conclusioni parzialmente diverse bisogna giungere in ordine all’art. 16, comma 7, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012 (che ha sostituito gli originari commi da 1 a 16 con gli attuali commi da 1 a 13).
Sul punto si rinvia alle argomentazioni svolte nel paragrafo 21, del Considerato in diritto in ordine alla dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale dello stesso art. 16, comma 7, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012.
23.– La Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 160 del 2012), ha impugnato numerose disposizioni del d.l. n. 95 del 2012, (poi convertito) e, segnatamente, ha censurato l’intero art. 19, comma 2, del detto provvedimento normativo, con riferimento all’art. 3, primo comma, lettera b), del proprio statuto speciale e all’art. 117, quarto e sesto comma, Cost.
Al riguardo, si deve osservare, in via preliminare, che nel citato d.l. n. 95 del 2012, in sede di conversione, attuata con la legge n. 135 del 2012, è stata inserita con l’art. 24-bis la seguente clausola di salvaguardia: «Fermo restando il contributo delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano all’azione di risanamento così come determinata dagli articoli 15 e 16, comma 3, le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale».
La suddetta clausola è stata già esaminata da questa Corte, la quale ha così deciso: «Le questioni sollevate dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna non sono fondate. La clausola di salvaguardia prevista dall’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012 rimette l’applicazione delle norme introdotte dal decreto alle procedure previste dagli statuti speciali e dalle relative norme di attuazione. Tale clausola è stata introdotta in sede di conversione, alla fine del testo del d.l. n. 95 del 2012, proprio per garantire che il contributo delle Regioni a statuto speciale all’azione di risanamento venga realizzato rispettando i rapporti e i vincoli che gli statuti speciali stabiliscono tra livello nazionale e Regioni a statuto speciale. Essa dunque non costituisce una mera formula di stile, priva di significato normativo, ma ha la “precisa funzione di rendere applicabile il decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che siano ‘rispettati’ gli statuti speciali” (sentenza n. 241 del 2012) ed i particolari percorsi procedurali ivi previsti per la modificazione delle norme di attuazione degli statuti medesimi. La previsione di una procedura “garantita” al fine di applicare agli enti ad autonomia speciale la normativa introdotta esclude, perciò, l’automatica efficacia della disciplina prevista dal decreto-legge per le Regioni a statuto ordinario (sentenza n. 178 del 2012). Le norme dell’art. 9 del d.l. n. 95 del 2012, dunque, non sono immediatamente applicabili alle Regioni ad autonomia speciale, ma richiedono il recepimento tramite le apposite procedure prescritte dalla normativa statutaria e di attuazione statutaria. La partecipazione delle Regioni e delle Province autonome alla procedura impedisce che possano introdursi norme lesive degli statuti e determina l’infondatezza delle questioni sollevate dalle Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna (sentenze n. 178 del 2012 e n. 145 del 2008)» (sentenza n. 236 del 2013, paragrafo 2.1 del Considerato in diritto; alle stesse conclusioni era giunta la sentenza n. 229 del 2013, paragrafo 10.2 del Considerato in diritto).
Alla ritenuta applicabilità della detta clausola consegue la declaratoria di non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel presente giudizio dalla Regione autonoma Sardegna.
24.– La Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 172 del 2012), ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, per violazione degli artt. 117, secondo, terzo e quarto comma, 118, secondo comma, 119, primo, secondo e sesto comma, Cost.
Ad avviso della ricorrente, i nuovi commi da 4 a 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo in vigore per effetto del d.l. n. 95 del 2012, nonché i commi 5 e 6 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, sarebbero senz’altro da ritenere incostituzionali per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost.
Invero, lo Stato non disporrebbe della competenza legislativa a dettare una disciplina generale per gli enti locali differenti da quelli espressamente indicati dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., in quanto, a seguito della riforma costituzionale del 2001, non avrebbe più una competenza generale in questa materia, potendo adottare soltanto le norme inerenti alla legislazione elettorale, alle funzioni fondamentali e agli organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane. Pertanto, il legislatore statale ordinario non avrebbe alcun titolo per disciplinare l’istituzione e l’organizzazione di enti locali differenti da quelli ora menzionati, quali le unioni di Comuni, specialmente se la predetta disciplina pretenda di assumere (come nella specie) natura vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della Regione e dei Comuni interessati. Si tratterebbe, infatti, di un ambito oggi affidato alla potestà regionale residuale, di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.
Di qui la palese violazione, ad opera delle disposizioni sopra menzionate, dell’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost.
Diversa considerazione, invece, meriterebbero le norme concernenti le funzioni che le unioni di Comuni sono destinate a svolgere (è richiamato, a titolo di esempio, il nuovo comma 1 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, come sostituito dal comma 2 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012).
Si tratterebbe di una disposizione che interviene nella individuazione del livello istituzionale di esercizio delle funzioni amministrative, perché renderebbe possibile che esse siano svolte presso un ente locale diverso da quello comunale, anche se di carattere associativo e frutto della partecipazione dei Comuni stessi.
In questo quadro, la Regione Puglia ritiene di poter concludere sul punto come segue.
La legge ordinaria dello Stato potrebbe certamente dettare norme di tal genere in relazione a materie nelle quali disponga di una competenza esclusiva, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost., e la ricorrente non intenderebbe disconoscere questa competenza statale, neppure in relazione alle funzioni ricadenti in materia di competenza concorrente, dal momento che alla norma in questione sarebbe senz’altro possibile riconoscere natura di principio fondamentale.
Del pari certamente, però, lo Stato non avrebbe alcun titolo per dettare la disciplina sopra richiamata per quelle funzioni che risultino ascrivibili ad ambiti materiali differenti da quelli di cui al secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost.
Di qui la conclusione secondo la quale il nuovo art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, come sostituito dal comma 2 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, sarebbe costituzionalmente illegittimo nella parte in cui si rivolge anche a funzioni ricadenti nell’ambito del quarto comma dell’art. 117 Cost., per violazione di tale disposizione, nonché dell’art. 118, secondo comma, Cost., il quale prescrive che le funzioni amministrative siano allocate, in base al principio di sussidiarietà, dal legislatore competente per materia.
Analoghe argomentazioni sarebbero valide anche per i primi due periodi del nuovo comma 3 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, come sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, nonché per il nuovo comma 12 del citato art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, come risultante dalle modifiche apportate dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012.
Il menzionato comma 12 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., nella parte in cui si rivolge anche a funzioni ascrivibili alle materie di competenza residuale regionale. Sarebbe appena il caso di notare che, questa volta, non verrebbe in rilievo quale parametro l’art. 118, secondo comma. Cost., perché la norma in questione, diversamente da quella prima considerata, non sarebbe norma sulla allocazione di funzioni, ma inciderebbe soltanto sul loro esercizio.
Infine, è censurato il nuovo comma 2 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2001, come sostituito dal comma 2 dell’art. 19 in esame (che affida alle unioni di Comuni la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali degli enti associati, nonché quella patrimoniale, con riferimento alle funzioni da essi esercitate per mezzo dell’unione). Tale previsione violerebbe l’art. 119, primo, secondo e sesto comma, Cost., i quali impedirebbero che la legge statale possa sottrarre autonomia impositiva e di entrata nonché risorse patrimoniali agli enti autonomi costitutivi della Repubblica, attribuendole a nuovi e diversi enti territoriali, travalicando inoltre i limiti imposti alla potestà legislativa dello Stato in materia di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario».
La ricorrente illustra, quindi, tali censure nel quadro dell’art. 119 Cost., sostenendo che il legislatore competente ben potrebbe attribuire ad enti locali, diversi da quelli indicati nella norma ora citata, ed anche a enti associativi, la possibilità di esercitare autonomia di entrata e di spesa, imponendo le relative norme di coordinamento, ma non potrebbe attribuire alle unioni spazi di autonomia di entrata, sottraendola ai Comuni che ne fanno parte e pretendendo di disciplinare l’intera materia della potestà impositiva e delle entrate di questi enti.
In via preliminare, si ricorda che le disposizioni di cui ai commi da 4 a 10 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, sono state già scrutinate dalla Corte.
Infatti, le censure mosse con riferimento al comma 4 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, esaminato unitamente al comma 5 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, sono state ritenute non fondate alla luce dei rilievi svolti nei paragrafi 6, 6.1 e 7 del Considerato in diritto.
Allo stesso modo sono state dichiarate non fondate le censure promosse con riferimento ai commi 6 e 9 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011 nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, esaminati nei paragrafi 6, 6.1 e 9 del Considerato in diritto.
Trattandosi di censure dal tenore sostanzialmente analogo a quelle già esaminate, questa Corte non può che ribadire le medesime ragioni di non fondatezza.
Il comma 5 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, esaminato congiuntamente al comma 6 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, che ne ripropone il contenuto, è stato, con quest’ultimo, oggetto di dichiarazione di illegittimità costituzionale per le ragioni esposte nel paragrafo 9 del Considerato in diritto, limitatamente alle parole «, a maggioranza dei componenti,».
Il comma 7 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, è stato oggetto di dichiarazione di illegittimità costituzionale al paragrafo 21 del Considerato in diritto, nella parte in cui (secondo periodo) dispone che i consiglieri ivi indicati sono eletti «con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni».
Il comma 10 dell’art. 16 del n. 138 del 2011, nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, è stato oggetto di dichiarazione di illegittimità costituzionale al paragrafo 9.2. del Considerato in diritto, limitatamente alle parole «, con deliberazione a maggioranza assoluta dei propri componenti,».
Per ciò che riguarda i commi 1, 2, 3, 8 e 12 dell’art. 16 del n. 138 del 2011, nel testo in vigore all’esito della sostituzione operata dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, anch’essi già oggetto di precedente scrutinio, vanno ancora una volta richiamate le argomentazioni svolte in precedenza (in particolare, paragrafi 6, 6.1, 7 e 9 del Considerato in diritto), con le quali si è precisato che le norme in esame costituiscono normativa di principio nella materia del «coordinamento della finanza pubblica», che può incidere su una o più materie di competenza regionale, anche di tipo residuale, e determinare una, sia pur parziale, compressione degli spazi entro cui possono esercitarsi le competenze legislative (art. 117, terzo comma, Cost.) e amministrative (art. 118, primo e secondo comma, Cost.).
Ciò vale anche per la censura mossa dalla ricorrente al nuovo comma 2 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, come sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, nella parte in cui affida all’unione la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei Comuni associati, nonché quella patrimoniale, con riferimento alle funzioni da essi esercitate per mezzo dell’unione medesima. Ad avviso della Regione Puglia tale previsione violerebbe l’art. 119, primo, secondo e sesto comma, Cost., i quali, nel riconoscere esclusivamente agli enti autonomi costitutivi della Repubblica l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, il potere di stabilire «tributi ed entrate propri», nonché la disponibilità di un proprio patrimonio, impedirebbero che la legge statale possa sottrarre autonomia impositiva e di entrata, nonché risorse patrimoniali ai suddetti enti, attribuendole in titolarità a nuovi e diversi enti territoriali.
Orbene, a prescindere dal rilievo che l’affidamento non riguarda l’attribuzione della intera potestà impositiva, ma soltanto quella riferita alle funzioni esercitate dai Comuni stessi per mezzo dell’unione, sicché l’imputazione a quest’ultima della potestà impositiva così circoscritta appare coerente, si deve replicare che ancora una volta il titolo legittimante è il coordinamento della finanza pubblica, perseguito attraverso l’istituzione dell’unione che, però, ha bisogno di risorse per perseguire le sue finalità.
Di qui la non fondatezza delle questioni, con riferimento ai parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, promosse dalle Regioni Toscana, Lazio, Puglia, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria, Umbria, Campania, Lombardia, e dalla Regione autonoma Sardegna con i ricorsi indicati in epigrafe, nonché la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, promosse dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania, Puglia, e dalla Regione autonoma Sardegna con i ricorsi indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «, a maggioranza dei componenti,», nonché dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «, a maggioranza dei componenti,»;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «, con deliberazione a maggioranza assoluta dei propri componenti,»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, limitatamente alle parole «, con la garanzia che uno dei due appartenga alle opposizioni»;
4) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promosse dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p) e quarto comma, in combinato disposto, agli artt. 118, 133, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V parte seconda della Costituzione), nonché del principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 134 del 2011;
5) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
6) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 7, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
7) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 16, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 e al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 3, 97, 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., e al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., e al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., e al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 147 del 2011;
8) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost. con il ricorso n. 147 del 2011; dalla Regione Campania, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118, in combinato disposto con gli artt. 117 e 119, quarto comma, Cost., con il ricorso n. 153 del 2011; dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 119, quarto comma, 133, secondo comma, e 120 Cost., con il ricorso n. 155 del 2011;
9) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 3, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 114 e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
10) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo, quarto e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, 118 e 133 Cost., e al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, 118 e 133 Cost., e al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, 118 e 133 Cost., e al principio di leale collaborazione con il ricorso n. 147 del 2011;
11) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
12) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 9, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
13) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 11, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost. con il ricorso n. 147 del 2011;
14) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 12, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 114 e 118 Cost. con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
15) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 15, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nella formulazione antecedente la sostituzione introdotta dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114, 117, quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011; dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 114 e 118 Cost. con il ricorso n. 141 del 2011; dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011; dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), terzo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011; dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011; dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, primo e secondo comma, 97, 114, 117, primo, secondo e quarto comma, 118 e 133 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
16) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 17, lettera a), del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011;
17) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, commi 6, 9 e 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., con il ricorso n. 144 del 2011;
18) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, commi 6, 9 e 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Liguria, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., con il ricorso n. 146 del 2011;
19) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, commi 6, 9 e 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Umbria, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., con il ricorso n. 147 del 2011;
20) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012; dell’art. 16, commi 6, 9 e 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 97 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011;
21) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promossa dalle Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria, in riferimento agli artt. 5, 77, primo e secondo comma, 114 e 118, primo comma, Cost., con i ricorsi n. 144, 146 e 147 del 2011;
22) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., con il ricorso n. 145 del 2011;
23) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promossa dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 119, quarto comma, e 133, secondo comma, Cost., con il ricorso n. 155 del 2011;
24) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promossa dalla Regione Lazio, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, Cost., con il ricorso n. 145 del 2012;
25) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., con il ricorso n. 151 del 2012;
26) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 119 Cost., con il ricorso n. 151 del 2012;
27) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012; dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, e dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012; dell’art. 16, commi 6, 9 e 10, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012; dell’art. 16, commi 17, lettera a), 19, 20, e 21, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 114, 133, secondo comma, anche in relazione agli artt. 114 e 117, quarto comma, Cost., con il ricorso n. 133 del 2011;
28) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 6 e 9, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 114, 117, terzo e quarto comma, 118 e 119 Cost., con il ricorso n. 133 del 2011;
29) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 5, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, e dell’art. 19, comma 6, del d.l. n. 95 del 2012; dell’art. 16, commi 6, 9 e 10, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promossa dalla Regione Toscana, in riferimento al principio di leale collaborazione, con il ricorso n. 133 del 2011;
30) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 17, lettera a), 19, 20 e 21, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promosse dalla Regione Toscana, in riferimento all’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, ultima parte, Cost., con il ricorso n. 133 del 2011;
31) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 28, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promossa dalla Regione Toscana, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 120, secondo comma, Cost., con il ricorso n. 133 del 2011;
32) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012; dell’art. 16, commi 6 e 9, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 114, 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 141 del 2011;
33) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012; dell’art. 16, commi 6 e 9, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalle Regioni Emilia-Romagna, Liguria e Umbria, in riferimento agli artt. 114, primo e secondo comma, 117, primo, secondo comma, lettera p), 118 e 133 Cost. con i ricorsi n. 144, 146 e 147 del 2011;
34) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 6 e 9, del d.l. n. 138 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), secondo e sesto comma, e 118 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011;
35) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 28, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promossa dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 117, 118 e 120 Cost., con il ricorso n. 145 del 2011;
36) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, promosse dalla Regione autonoma Sardegna, in riferimento all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) e, limitatamente all’art. 16, comma 4, ultimo periodo, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, in riferimento all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge cost. n. 3 del 1948 e all’art. 117, sesto comma, Cost., con il ricorso n. 160 del 2011;
37) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 118, primo e secondo comma, Cost., con il ricorso n. 151 del 2012;
38) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1, 2, 3, 8, 11, 12 e 13, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Veneto, in riferimento all’art. 117 Cost., con il ricorso n. 151 del 2012;
39) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 2, 5 e 6, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promossa dalla Regione Campania, in riferimento all’art. 118 Cost., con il ricorso n. 153 del 2012;
40) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1, 2, 3, 8, 11, 12 e 13, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione Campania, in riferimento all’art. 117 Cost., con il ricorso n. 153 del 2012;
41) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, promosse dalla Regione autonoma Sardegna, in riferimento all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge cost. n. 3 del 1948, e all’art. 117, quarto e sesto comma, Cost., con il ricorso n. 160 del 2012;
42) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1, 2, 3, 4, 6, 8, 9 e 12, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, e dell’art. 19, comma 5, del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2011, promosse dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, 118, secondo comma, e 119, primo, secondo e sesto comma, Cost., con il ricorso n. 172 del 2012.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Massimiliano BONI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2014.
Il Cancelliere
F.to: Massimiliano BONI
|