SENTENZA N. 26
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi da 1 ad 8, 2, commi 1 e 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia con ricorso notificato il 25 febbraio 2012, depositato in cancelleria il 5 marzo 2012 ed iscritto al n. 50 del registro ricorsi 2012.
Visto l’atto di costituzione, fuori termine, del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 28 gennaio 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi;
udito l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 25 febbraio 2012 e depositato il successivo 5 marzo, la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha impugnato, tra gli altri, gli artt. 1, commi da 1 a 8, e 2, commi 1 e 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Le norme censurate prevedono deduzioni che vanno ad abbassare la base imponibile delle imposte IRES, IRPEF ed IRAP, con l’effetto di diminuirne il gettito, destinato pro quota o interamente ad essa Regione, in virtù di quanto disposto dalla legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), che – dopo aver stabilito che «La Regione ha una propria finanza, coordinata con quella dello Stato, in armonia con i principi della solidarietà nazionale, nei modi stabiliti dagli articoli seguenti» (art. 48) – prevede che «Spettano alla Regione le seguenti quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa: 1) sei decimi del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche; 2) quattro decimi e mezzo del gettito dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche; 3) sei decimi del gettito delle ritenute alla fonte di cui agli artt. 23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed all’art. 25-bis aggiunto allo stesso decreto; […]» (art. 49).
La ricorrente osserva che le norme censurate incidono negativamente sui predetti meccanismi di compartecipazione, che rappresentano la fondamentale forma di finanziamento di essa Regione, la quale subisce così una rilevante riduzione di entrate, senza che sia previsto alcun meccanismo compensativo. Tanto più che ciò si ripercuote, quanto alle deduzioni relative all’IRPEF ed all’IRES, in modo differente rispetto alle Regioni ordinarie, che non godono della compartecipazione a quelle imposte; mentre la finanza di tali Regioni non è pregiudicata neppure dalla deduzione IRAP, giacché la diminuzione del relativo gettito viene compensata da un corrispondente aumento della compartecipazione IVA, con garanzia di integrale finanziamento della spesa sanitaria regionale.
La ricorrente precisa di non contestare la previsione di deduzioni in sé, ma la mancata compensazione in favore delle Regioni speciali, in quanto – seppure lo stesso decreto-legge n. 201 del 2011 contiene anche altre norme volte ad aumentare le entrate tributarie, quali l’art. 48 (anch’esso impugnato), secondo cui «Le maggiori entrate erariali derivanti dal presente decreto sono riservate all’Erario, per un periodo di cinque anni, per essere destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della eccezionalità della situazione economica internazionale» – i previsti effetti economici favorevoli (a titolo di compartecipazione ai tributi erariali) delle relative entrate tributarie sarebbero “annullati” (almeno) per cinque anni; così traducendosi la manovra in una mera riduzione di entrata, non compensata dall’aumento di imposte al cui gettito la Regione ricorrente dovrebbe partecipare.
Per la ricorrente, dunque, risulta violato, innanzitutto, l’art. 3, primo comma, della Costituzione (che la Regione si ritiene legittimata ad evocare, lamentando la disparità di trattamento fra Regioni, che si riflette in lesione della sua autonomia finanziaria), poiché, da un lato, l’istituzione rappresentativa della comunità regionale del Friuli-Venezia Giulia “partecipa” al peso della riduzione delle imposte dirette in misura più rilevante del resto della comunità nazionale; e, dall’altro lato (nonostante i cittadini della Regione paghino, come tutti gli altri, il previsto aumento delle imposte), tale aumento di entrata non si traduce affatto in un corrispondente aumento della capacità di spesa della Regione.
In secondo luogo – ricordato che l’art. 63 dello statuto speciale prevede che le disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV «possono essere modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione» ma, «in ogni caso, sentita la Regione» –, le norme impugnate contrasterebbero con tale articolo e con «l’insieme delle disposizioni del titolo IV», in quanto (pur non verificandosi una formale modificazione delle disposizioni statutarie), il loro effetto equivale ad una riduzione della quota di partecipazione, che determina una alterazione del rapporto tra finanza statale e finanza regionale quale fissato dall’art. 49 dello statuto. Per cui, la mancata attivazione di una procedura di consultazione comporta, ad avviso della ricorrente Regione, la violazione dell’art. 63 dello statuto e del principio di leale collaborazione.
Infine, per la ricorrente, le norme in questione ledono anche il principio di corrispondenza tra entrate e funzioni, implicito nel sistema statutario (di cui richiama l’art. 50) ed espresso nell’art. 119, quarto comma, Cost., essendo evidente come la dimensione quantitativa delle entrate regionali sia correlata alla ampiezza delle funzioni proprie della stessa Regione, e come un “taglio” delle risorse a sua disposizione comporti lo squilibrio tra queste e le funzioni. Sul punto, peraltro, la Regione – pur consapevole del precedente ostativo di cui alla sentenza n. 155 del 2006 (secondo cui, «a seguito di manovre di finanza pubblica, possono anche determinarsi riduzioni nella disponibilità finanziaria delle Regioni, purché esse non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi finanziari dei quali la Regione stessa dispone per l’adempimento dei propri compiti») osserva che quella richiesta alla Regione, in ordine all’insufficienza dei mezzi finanziari, è una probatio diabolica e che lo Stato non può diminuire unilateralmente le risorse senza alcuna valutazione di adeguatezza finanziaria, cioè di una diminuita necessità finanziaria della Regione.
2.– Con atto depositato l’11 maggio 2012, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito fuori termine.
3.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha depositato in data 16 ottobre 2012 e 3 gennaio 2014 due memorie in cui ribadisce le censure proposte nel ricorso.
Considerato in diritto
1.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha impugnato numerose norme del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, tra le quali l’art. 1, commi da 1 ad 8, e l’art. 2, commi 1 e 2.
1.1.– I commi da 1 ad 8 dell’art. 1 prevedono quanto segue: «1. In considerazione della esigenza di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio, nonché per ridurre lo squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale proprio, e rafforzare, quindi, la struttura patrimoniale delle imprese e del sistema produttivo italiano, ai fini della determinazione del reddito complessivo netto dichiarato dalle società e dagli enti indicati nell’articolo 73, comma 1, lettere a) e b), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è ammesso in deduzione un importo corrispondente al rendimento nozionale del nuovo capitale proprio, secondo le disposizioni dei commi da 2 a 8 del presente articolo. Per le società e gli enti commerciali di cui all’articolo 73, comma 1, lettera d), del citato testo unico le disposizioni del presente articolo si applicano relativamente alle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato.»; «2. Il rendimento nozionale del nuovo capitale proprio è valutato mediante applicazione dell’aliquota percentuale individuata con il provvedimento di cui al comma 3 alla variazione in aumento del capitale proprio rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010.»; «3. Dal settimo periodo di imposta l’aliquota percentuale per il calcolo del rendimento nozionale del nuovo capitale proprio è determinata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze da emanare entro il 31 gennaio di ogni anno, tenendo conto dei rendimenti finanziari medi dei titoli obbligazionari pubblici, aumentabili di ulteriori tre punti percentuali a titolo di compensazione del maggior rischio. In via transitoria, per il primo triennio di applicazione, l’aliquota è fissata al 3 per cento; per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2014, al 31 dicembre 2015 e al 31 dicembre 2016 l’aliquota è fissata, rispettivamente, al 4 per cento, al 4,5 per cento e al 4,75 per cento.»; «4. La parte del rendimento nozionale che supera il reddito complessivo netto dichiarato è computata in aumento dell’importo deducibile dal reddito dei periodi d’imposta successivi.»; «5. Il capitale proprio esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010 è costituito dal patrimonio netto risultante dal relativo bilancio, senza tener conto dell’utile del medesimo esercizio. Rilevano come variazioni in aumento i conferimenti in denaro nonché gli utili accantonati a riserva ad esclusione di quelli destinati a riserve non disponibili; come variazioni in diminuzione: a) le riduzioni del patrimonio netto con attribuzione, a qualsiasi titolo, ai soci o partecipanti; b) gli acquisti di partecipazioni in società controllate; c) gli acquisti di aziende o di rami di aziende.»; «6. Gli incrementi derivanti da conferimenti in denaro rilevano a partire dalla data del versamento; quelli derivanti dall’accantonamento di utili a partire dall’inizio dell’esercizio in cui le relative riserve sono formate. I decrementi rilevano a partire dall’inizio dell’esercizio in cui si sono verificati. Per le aziende e le società di nuova costituzione si considera incremento tutto il patrimonio conferito.»; «7. Il presente articolo si applica anche al reddito d’impresa di persone fisiche, società in nome collettivo e in accomandita semplice in regime di contabilità ordinaria, con le modalità stabilite con il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze di cui al comma 8 in modo da assicurare un beneficio conforme a quello garantito ai soggetti di cui al comma 1.»; «8. Le disposizioni di attuazione del presente articolo sono emanate con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Con lo stesso provvedimento possono essere stabilite disposizioni aventi finalità antielusiva specifica».
A loro volta, i commi 1 e 2 dell’art. 2 prevedono che: «1. A decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2012 è ammesso in deduzione ai sensi dell’articolo 99, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, un importo pari all’imposta regionale sulle attività produttive determinata ai sensi degli articoli 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, relativa alla quota imponibile delle spese per il personale dipendente e assimilato al netto delle deduzioni spettanti ai sensi dell’articolo 11, commi 1, lettera a), 1-bis, 4-bis, 4-bis.1 del medesimo decreto legislativo n. 446 del 1997.»; «2. All’articolo 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al numero 2), dopo le parole “periodo di imposta” sono aggiunte le seguenti: “, aumentato a 10.600 euro per i lavoratori di sesso femminile nonché per quelli di età inferiore ai 35 anni”; b) al numero 3), dopo le parole “Sardegna e Sicilia” sono aggiunte le seguenti: “, aumentato a 15.200 euro per i lavoratori di sesso femminile nonché per quelli di età inferiore ai 35 anni”.».
1.2.– Tali disposizioni sono state censurate in quanto (senza che sia previsto alcun meccanismo compensativo) stabiliscono deduzioni che vanno ad abbassare la base imponibile delle imposte IRES, IRPEF ed IRAP, con l’effetto di diminuirne il gettito, destinato pro quota o interamente ad essa Regione, in virtù di quanto disposto dalla legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), che (all’art. 49) prevede la spettanza di determinate quote fisse di entrate tributarie erariali (quali quelle in esame) riscosse nel territorio della Regione stessa.
Secondo la ricorrente, che non contesta la previsione di deduzioni in sé, ma la mancata compensazione a favore delle Regioni speciali, le norme impugnate si pongono in contrasto: a) con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, poiché, da un lato, l’istituzione rappresentativa della comunità regionale del Friuli-Venezia Giulia “partecipa” al peso della riduzione delle imposte dirette in misura più rilevante del resto della comunità nazionale; e, dall’altro lato (nonostante i cittadini della Regione paghino, come tutti gli altri, il previsto aumento delle imposte), tale aumento di entrata non si traduce affatto in un corrispondente aumento della capacità di spesa della Regione; b) con l’art. 63 dello statuto speciale (che prevede che le disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV «possono essere modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione» ma, «in ogni caso, sentita la Regione») e con il principio di leale collaborazione, in quanto (pur non apportando una formale modificazione delle disposizioni statutarie), il loro effetto equivale ad una riduzione della quota di partecipazione, che determina un’alterazione del rapporto tra finanza statale e finanza regionale quale fissato dall’art. 49 dello statuto, senza alcuna attivazione di una procedura di consultazione; c) con il principio di corrispondenza tra entrate e funzioni, implicito nel sistema statutario (art. 50) ed espresso nell’art. 119, quarto comma, Cost., essendo evidente come la dimensione quantitativa delle entrate regionali sia correlata all’ampiezza delle funzioni proprie della stessa Regione, e come un “taglio” delle risorse a sua disposizione comporti lo squilibrio tra queste e le funzioni.
2.– La trattazione della suddetta questione di legittimità costituzionale va affrontata in modo distinto rispetto a quella delle altre questioni proposte con il medesimo ricorso, riservate a separate pronunce.
3.– La questione non è fondata.
3.1.– La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ripropone (mutuandone, finanche letteralmente, le medesime proposizioni argomentative) altra questione già proposta e decisa, nel senso della non fondatezza, dalla sentenza n. 155 del 2006 sulla base di argomentazioni motivazionali che vanno integralmente ribadite in questa sede, data la sostanziale identità del thema decidendum.
Ora come allora, gli evocati profili di censura sono tra loro essenzialmente collegati da un unico e comune motivo di doglianza e cioè dal rilievo che le norme oggetto di denuncia abbiano alterato il rapporto tra finanza statale e finanza regionale, con conseguente lesione dell’autonomia regionale – garantita dagli artt. 49 e seguenti dello statuto speciale di cui alla legge costituzionale n. 1 del 1963 – quanto alla capacità di finanziare i propri cómpiti. Ed, in tal senso, è da apprezzarsi anche la dedotta violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.: la quale non assume autonomo rilievo rispetto alle altre censure e si palesa ammissibile proprio perché la prospettazione che la sorregge intende evidenziare e far valere (non già, o non solo, una mera diversità di trattamento rispetto alla Regioni ordinarie) bensì un vulnus alla sfera di competenza della ricorrente in ambito finanziario.
La tesi che sostanzia dette censure è nuovamente, in sintesi, quella per cui il legislatore statale, nell’esercizio della sua potestà esclusiva in materia tributaria, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., avrebbe dovuto contemplare – a fronte di misure, quali quelle dettate dalle disposizioni denunciate, che riducono il gettito fiscale derivante dalle imposte dirette oggetto dell’intervento legislativo – anche misure compensative in favore della Regione che su quel gettito fa affidamento per finanziare la realizzazione dei propri cómpiti. Pertanto, anche nell’odierno giudizio, è alla luce di tale premessa che va letto il petitum sottoposto alla Corte, avente ad oggetto la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme denunciate proprio a causa della mancata previsione, diversamente da quanto disposto in favore delle Regioni ordinarie, di un riequilibrio della finanza regionale.
3.2.– Ciò premesso, va sottolineato che, anche nel presente giudizio, la ricorrente non contesta che la disciplina dei tributi su cui incidono le norme denunciate appartenga alla competenza esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., la quale consente al legislatore statale di variarne la disciplina, incidendo sulle aliquote, e persino di sopprimerli (sentenza n. 97 del 2013).
Orbene, nell’esercizio di tale potestà esclusiva (e dunque, come nel caso di specie, nella modulazione del prelievo fiscale), non può reputarsi che ogni intervento su un tributo che, in ragione di siffatta modificazione, comporti un minor gettito per le Regioni, debba «essere accompagnato da misure compensative per la finanza regionale, la quale – diversamente – verrebbe ad essere depauperata» (così la citata sentenza n. 431 del 2004). Ciò in quanto deve escludersi, da un lato, che possa essere effettuata una atomistica considerazione di isolate disposizioni incidenti sul tributo, senza valutare nel suo complesso la manovra fiscale entro la quale esse trovano collocazione, ben potendosi verificare che, per effetto di plurime disposizioni, contenute nella stessa legge oggetto di impugnazione principale, o in altre leggi dirette a governare la medesima manovra finanziaria, il gettito complessivo destinato alla finanza regionale non subisca riduzioni (sentenze n. 298 del 2009, n. 155 del 2006 e n. 431 del 2004). E dall’altro lato, che, dalla evocata previsione statutaria (art. 49) di spettanza alla Regione di quote fisse di entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della stessa, sia desumibile un principio di invarianza del gettito per la Regione in caso di modifica di tributi erariali, che si traduca in una rigida garanzia “quantitativa” di disponibilità di entrate tributarie non inferiori a quelle ottenute in passato (sentenza n. 241 del 2012).
E va nuovamente ribadito come, a seguito di manovre di finanza pubblica, ben possano anche determinarsi riduzioni nella disponibilità finanziaria delle Regioni, purché esse non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi finanziari dei quali la Regione stessa dispone per l’adempimento dei propri cómpiti (sentenze n. 97 del 2013, n. 241 del 2012, n. 298 del 2009 e n. 256 del 2007). Evenienza, questa, che non è possibile verificare, giacché – al di là di una generica contestazione in ordine al fatto che, quella richiesta alla Regione, sarebbe una probatio diabolica – l’assunto riguardante l’inadeguatezza finanziaria della manovra non è stato oggetto neppure di un tentativo di dimostrazione da parte della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, la quale non ha fornito alcun dato quantitativo concreto, dal quale poter desumere l’effettiva incidenza negativa della diminuzione del gettito derivante dalle norme impugnate rispetto allo svolgimento delle sue funzioni costituzionali di ente dotato di autonomia speciale.
3.3.– Altrettanto infondato risulta, infine, il correlato profilo di doglianza riguardante la dedotta violazione dell’art. 63, quinto comma, dello statuto (secondo cui «Le disposizioni contenute nel titolo IV possono essere modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione, e, in ogni caso, sentita la Regione») e del principio di leale collaborazione, proposto in ragione della mancata attivazione, nella specie, della procedura di consultazione, prevista dalla citata norma, allorquando si debba provvedere alla modificazione delle disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV dello statuto medesimo.
In merito a tale censura risulta, di per sé, dirimente la considerazione che, nella specie, nessuna delle norme statutarie è stata oggetto di alcuna modificazione, né formale, né sostanziale, da parte delle disposizioni impugnate, che, come detto, hanno per oggetto la determinazione della base imponibile di tributi erariali, di competenza esclusiva del legislatore statale. D’altronde, questa Corte ha ripetutamente e costantemente escluso che le procedure collaborative fra Stato e Regioni (salvo che l’osservanza delle stesse sia imposta direttamente o indirettamente da norme costituzionali) trovino applicazione nell’attività legislativa esclusiva dello Stato, per cui non vi è concorso di competenze diversamente allocate, né ricorrono i presupposti per la chiamata in sussidiarietà (sentenze n. 121 e n. 8 del 2013, n. 207 del 2011); e che l’esclusione della rilevanza di tali procedure, che è formulata in riferimento al procedimento legislativo ordinario, «vale a maggior ragione per una fonte come il decreto-legge, la cui adozione è subordinata, in forza del secondo comma dell’art. 77 Cost., alla mera occorrenza di “casi straordinari di necessità e d’urgenza”» (sentenze n. 79 del 2011 e n. 298 del 2009).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia con il ricorso in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi da 1 ad 8, e 2, commi 1 e 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossa – in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 119, quarto comma, della Costituzione, nonché agli artt. 49 e 63 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) ed al principio di leale collaborazione – dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia con il medesimo ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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