Sentenza 29/2014

Sentenza  29/2014
GiudizioGIUDIZIO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE TRA POTERI DELLO STATO
Presidente SILVESTRI - Redattore GROSSI
Udienza Pubblica del 20/11/2013    Decisione  del 24/02/2014
Deposito del 25/02/2014   Pubblicazione in G. U. 05/03/2014
Norme impugnate: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 22/07/2009.
Massime:
Atti decisi:confl. pot. mer. 9/2011

SENTENZA N. 29
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 22 luglio 2009 (doc. XVI, n. 2), di accoglimento delle conclusioni della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, che dichiara il carattere ministeriale dei reati contestati al senatore Roberto Castelli, Ministro pro tempore, promosso dalla Corte di cassazione con ricorso notificato il 2 dicembre 2011, depositato in cancelleria il 20 dicembre 2011 ed iscritto al n. 9 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2011, fase di merito.
Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;
udito nell’udienza pubblica del 20 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Grossi;
udito l’avvocato Massimo Luciani per il Senato della Repubblica.

Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza-ricorso del 5 maggio 2011, la Corte di cassazione ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione alla deliberazione assunta dal Senato della Repubblica nella seduta del 22 luglio 2009 (doc. XVI, n. 2), con la quale si è dichiarato il carattere ministeriale dei reati di ingiuria e diffamazione contestati al senatore Roberto Castelli ai danni dell’onorevole Oliviero Diliberto – in riferimento a talune espressioni profferite dal primo nei confronti del secondo nel corso della trasmissione televisiva “Telecamere“, andata in onda il 21 marzo 2004 – e la sussistenza, in ordine a tali reati, delle finalità di cui all’art. 9, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione).
Nelle conclusioni del provvedimento, la Corte ricorrente ha chiesto dichiararsi che non spettava alla Camera di appartenenza deliberare, ai fini dell’esercizio della prerogativa di cui all’art. 96 della Costituzione, che le frasi pronunciate dall’allora ministro della giustizia Roberto Castelli nel corso della predetta trasmissione – oggetto del procedimento penale in relazione al quale pende ricorso per cassazione – integravano un reato avente natura ministeriale essendo commessi nell’esercizio delle funzioni.
In parte narrativa, la ricorrente riferisce che il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale della medesima città il 6 novembre 2009, con la quale il sen. Roberto Castelli è stato assolto dai reati di ingiuria e diffamazione commessi con il mezzo televisivo ai danni dell’on. Diliberto in quanto non punibile, trattandosi di opinioni espresse «per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo».
Ha rammentato la Corte che il pubblico ministero aveva investito il Tribunale dei ministri della questione relativa alla ministerialità del reato contestato, trasmettendo gli atti ai sensi dell’art. 6 della legge costituzionale n. l del 1989; ma l’apposito collegio aveva declinato la propria competenza (ordinanza del 13 dicembre 2004) ritenendo che i fatti integrassero un reato comune.
Il procedimento aveva subito, poi, una sospensione, in quanto era emerso che il Senato, con deliberazione del 30 giugno 2004, aveva dichiarato l’insindacabilità, ex art. 68 Cost., delle espressioni usate dal sen. Castelli, affermando poi l’estensibilità della delibera «tanto alla causa civile intentata dal Diliberto quanto al procedimento penale vertente sul medesimo oggetto». Sollevato conflitto di attribuzione da parte del Giudice per le indagini preliminari, il ricorso stesso era stato accolto da questa Corte con sentenza n. 304 del 2007.
Tuttavia, disposto il rinvio a giudizio del sen. Castelli, quest’ultimo richiedeva al Presidente del Senato della Repubblica (lettera del 30 ottobre 2008) che la vicenda venisse riesaminata alla luce dell’art. 96 Cost., trattandosi di dichiarazioni connesse alla funzione di Ministro della giustizia, all’epoca esercitata. Da qui la deliberazione del 22 luglio 2009, con la quale l’Assemblea del Senato accoglieva le conclusioni della Giunta delle elezioni e delle immunità, dichiarando, appunto, il carattere ministeriale dei reati contestati al sen. Castelli quale ministro pro tempore, e la sussistenza, in ordine ai medesimi reati, della finalità di cui all’art. 9, comma 3, della legge costituzionale n. l del 1989. Conclusioni, queste, che il Tribunale faceva proprie, pronunciando la sentenza avverso la quale il Procuratore generale proponeva poi ricorso, denunciando «la violazione dell’art. 96 Cost. in relazione alla corretta interpretazione della categoria del reato ministeriale; la violazione della legge costituzionale n. l del 1989, in relazione alla individuazione dell’organo cui spetta stabilire la ministerialità dei reati; la erronea applicazione dell’art. 134 Cost. sulla individuazione dell’organo cui è riconosciuta la competenza a dirimere i conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato».
Alla stregua di tale composito iter processuale, la Corte ricorrente rileva come il giudice abbia errato nel ritenere applicabile, nella specie, la guarentigia dell’art. 96 Cost., in quanto devono ritenersi esclusi dalla categoria dei reati ministeriali quelli per i quali sia ravvisabile soltanto un nesso di mera occasionalità tra la condotta illecita del ministro e l’esercizio delle funzioni, come chiaramente emergerebbe dallo stesso tenore delle espressioni contestate al sen. Castelli.
La conseguenza diretta di ciò, vale a dire l’annullamento della sentenza impugnata, comporta però – ad avviso della Corte ricorrente – la necessità di esaminare la deliberazione del Senato «con la quale è stato parimenti dichiarato il carattere ministeriale dei reati»: delibera sulla quale si è poi fondata l’ulteriore decisione relativa all’applicazione della finalità esimente prevista dall’art. 9, comma 3, della richiamata legge costituzionale n. l del 1989.
Si intende sostenere – sottolinea la Corte, in accoglimento della richiesta del Procuratore generale impugnante – che nella specie verrebbe in considerazione il fatto che sarebbe stata «formalizzata dal Senato una delibera di diniego di autorizzazione a procedere, ossia di una condizione di procedibilità del processo penale in corso, in assenza dei presupposti previsti dall’art. 96 Costituzione per l’esercizio di tale prerogativa, dal momento che, in base a tale norma ed alla disciplina prevista dalla legge costituzionale n. 1/1989, non spettava all’Organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo alla Autorità giudiziaria».
Assunto, quest’ultimo, che sarebbe stato avallato non soltanto dalla giurisprudenza di legittimità, ma anche dalla sentenza n. 241 del 2009 della Corte costituzionale, ove si è affermato che, qualora il Tribunale dei ministri abbia espresso la propria determinazione escludendo la natura ministeriale del reato oggetto di indagini, la Camera competente, nel dissenso, ha solo la possibilità di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri, assumendo di essere stata menomata dall’autorità giudiziaria della prerogativa riconosciutale dall’art. 96 Cost.
Il Senato pertanto – conclude la Corte ricorrente – non aveva il potere di negare l’autorizzazione a procedere, né risulta che tale aspetto sia stato in alcun modo considerato, posto che dai lavori parlamentari emerge solo come sia stato valutato e censurato il merito del provvedimento adottato dal Tribunale dei ministri.
Di questa deliberazione, dunque, si assume l’illegittimità e il carattere invasivo per le attribuzioni del potere giudiziario, che la stessa Corte reputa di dover rimuovere attraverso il conflitto, non essendo necessario rimettere la questione al giudice a quo, «posto che il rinvio a quest’ultimo è superfluo in ogni caso in cui possa essere la Corte medesima a dare i provvedimenti necessari».
2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 313 del 2011, ritualmente notificata.
3.– Nell’atto di costituzione in giudizio, il Senato della Repubblica ha chiesto di dichiarare il ricorso «improcedibile, inammissibile, irricevibile e improponibile» o comunque, in subordine, di disporne il rigetto.
Dopo ampia narrativa in fatto, il Senato deduce, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso per difetto di motivazione della censura dedotta, in quanto viene lamentato il carattere invasivo della deliberazione impugnata senza esposizione delle ragioni né del parametro alla stregua del quale sussisterebbe la legittimazione del ricorrente. Né si motiva per sorreggere l’interpretazione dell’art. 96 Cost. considerata preferibile, essendosi soltanto evocata la sentenza della Corte costituzionale n. 241 del 2009, senza dimostrare che la corretta lettura di tale sentenza sia quella postulata dalla Corte ricorrente.
Non sarebbe, poi, chiarito il vulnus lamentato, restando incerto se si censuri l’invasione del potere di qualificare come ministeriale il reato o il superamento dei confini del potere parlamentare di concessione dell’autorizzazione a procedere in caso di reato ministeriale.
Non verrebbe, inoltre, formalmente impugnato alcun atto né richiesto l’annullamento di alcunché: si formulerebbe, infatti, un’astratta richiesta di pronuncia, sollecitandosi uno “specifico” vaglio della predetta delibera del Senato; d’altra parte, sarebbe la stessa struttura dell’atto introduttivo a qualificare il medesimo più come una statuizione utile al processo che come un vero ricorso per conflitto, visto anche il petitum enunciato.
Il ricorso, infine, sarebbe inammissibile per carenza di motivazione circa la sussistenza di un interesse concreto ed attuale a ricorrere. Si sottolinea, infatti, che la Corte di cassazione «può promuovere il conflitto solo quando si prospetti un annullamento senza rinvio della sentenza gravata», perché altrimenti titolare «dell’interesse ad agire nel giudizio per conflitto sarebbe solo il giudice del rinvio». Posto che nella specie il giudizio di rinvio parrebbe indispensabile, solo il giudice del rinvio risulterebbe «legittimato ad apprezzare in concreto la necessità o meno di promuovere il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato». Comunque, sarebbe stato onere della ricorrente motivare sul punto.
Nel merito, si osserva come la Corte ricorrente contesti in radice la spettanza al Parlamento del potere di qualificare come ministeriali determinati reati, pretendendo che tale qualificazione spetti in via esclusiva alla autorità giudiziaria. Peraltro, nella specie, la natura ministeriale dei reati – che in sé non rileva sul piano del conflitto – sarebbe certa, come risulta dalla relazione della Giunta, ampiamente riprodotta.
Rievocata, poi, diffusamente la sequenza normativa che disciplina il procedimento in materia di reati ministeriali, si ritiene che erroneamente la ricorrente adotti il seguente schema: «i) determinazione del Tribunale dei ministri di qualificare un certo reato come non ministeriale; ii) eventuale ricorso per conflitto di attribuzione della Camera competente».
Tale tesi sarebbe scorretta, alla luce di un’adeguata interpretazione della sentenza della Corte costituzionale n. 241 del 2009, posto che, da un lato, la proposizione del conflitto è solo una delle strade a disposizione; mentre, d’altro canto, è la stessa pronuncia a precisare che alla Camera competente non può essere sottratta una propria autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non dei reati oggetto di indagine.
Si osserva, poi, che, alla luce dei princìpi posti a base della riforma costituzionale sui reati ministeriali, ove il sindacato sulla natura del reato spettasse solo alla autorità giudiziaria, verrebbe meno da parte delle Camere lo scrutinio dei presupposti per esercitare il potere di autorizzazione.
Sottolineata la problematica della cosiddetta “giustizia politica” – e della importanza di individuare il “nesso funzionale” che correla gli atti alle funzioni –, si osserva che qualificare il fatto significa «decidere tanto quale sia il procedimento da seguire, quanto se le garanzie costituzionali possano essere applicate».
Non sarebbe, poi, pertinente invocare, come fa la ricorrente, la sentenza n. 10130 del 3-11 marzo 2011 della sesta sezione penale della Corte di cassazione, ove furono peraltro erroneamente interpretati il diritto vigente e la giurisprudenza costituzionale, in quanto nella stessa compaiono affermazioni che la difesa del Senato contesta, dovendosi escludere un monopolio dell’autorità giudiziaria nella qualificazione del fatto come reato ministeriale.
D’altra parte, che un potere di qualificazione debba essere riconosciuto anche alle Camere si deduce dal fatto che alle stesse spetta il potere di paralizzare l’azione giudiziaria stabilendo che ricorrono le condizioni di cui all’art. 9, comma 3, della legge costituzionale n. 1 del 1989.
Il tutto in linea con le affermazioni enunciate dalla Corte costituzionale a proposito del potere valutativo delle Camere nella sentenza n. 1150 del 1988, in tema di applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost.
In luogo del procedimento ipotizzato dalla Cassazione – che corre il rischio di generare un conflitto “impossibile” (giacché «le pronunce giurisdizionali non possono essere censurate, in sede di conflitto, per errores in iudicando») –, il “modello” offerto dalla richiamata sentenza n. 1150 del 1988 sarebbe il più coerente, «assumendo il vaglio del Giudice costituzionale la sua corretta natura di controllo (nei limiti indicati dalla l. cost. n. 1 del 1989) sul regolare esercizio del potere qualificatorio da parte del soggetto titolare della guarentigia costituzionale».
4.– In prossimità dell’udienza, il Senato ha depositato una memoria nella quale ha ulteriormente sviluppato le deduzioni già articolate nell’atto di costituzione.
A proposito della inammissibilità del ricorso, si osserva che, tenuto conto della “prognosi” (prospettata dalla stessa ricorrente) dell’esito del giudizio rescindente in caso di accoglimento del ricorso per conflitto, l’autorità competente a dichiarare in via definitiva la volontà del relativo potere dovrebbe essere il giudice della fase rescissoria. Solo il giudice del rinvio, infatti, sarebbe stato legittimato ad apprezzare la lesività o meno della delibera del Senato e, quindi, ad esprimere un interesse al ricorso in termini di concretezza ed attualità.
Nella specie, inoltre, non sarebbe stato indicato alcun parametro di costituzionalità: il richiamo all’art. 96 Cost. sarebbe privo di motivazione in riferimento al merito dell’atto impugnato, limitandosi la ricorrente a contestare piuttosto le affermazioni della sentenza gravata.
Resterebbe oscura anche la indicazione del petitum, non risultando chiarito l’esatto profilo della lesione lamentata; e neppure risulterebbe formalmente impugnato alcun atto né si chiederebbe l’annullamento di alcunché: al ricorso, peraltro, non risulta allegato il resoconto stenografico della seduta pomeridiana del 22 luglio 2009, allorché, con il compimento delle operazioni di voto e la proclamazione del risultato, si perfezionò l’atto ora in contestazione.
Quanto al merito, si rievoca la sentenza di questa Corte n. 304 del 2007, nella quale, pur escludendosi che i medesimi fatti – ora oggetto del conflitto – fossero coperti dalla garanzia della insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., tuttavia si osservò che le condotte in questione erano state poste in essere nell’esercizio delle attribuzioni di ministro: circostanza, questa, che non potrebbe dunque più formare oggetto di contestazione.
Si sottolinea, poi, che la delibera relativa al preminente interesse pubblico potrebbe formare oggetto di un controllo soltanto “esterno” da parte di questa Corte, essendo frutto di un apprezzamento «insindacabile», se congruamente motivato. Motivazione che, nella specie, parrebbe del tutto adeguata.
Si insiste, inoltre – anche al lume di princìpi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 87 e n. 88 del 2012, pur se relative a fattispecie diverse – sulla legittimazione del Senato ad adottare la deliberazione oggetto del conflitto: essa non sarebbe funzionale all’attivazione della speciale procedura di cui alla legge costituzionale n. 1 del 1989 e della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione), «bensì all’asseverazione del peculiare pubblico interesse sotteso all’azione del ministro». Vi sarebbe, dunque, «una valutazione della ministerialità che è strettamente ancillare alla declaratoria della sussistenza del “preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”».
La deliberazione dovrebbe, quindi, ritenersi pienamente legittima, non occorrendo che il Senato elevasse alcun conflitto: essa è, peraltro, antecedente alla pronuncia del Tribunale di Roma e il fatto che si fosse già pronunciato il Tribunale dei ministri rende diversa la presente vicenda da quella esaminata dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 87 e n. 88 del 2012 (senza dunque che quei precedenti possano essere considerati «negativi»).
Per altro verso, la procedura speciale prevista dagli artt. 8 e 9 della legge costituzionale n. 1 del 1989 – non invocati dalla ricorrente – non escluderebbe che la deliberazione di preminente interesse pubblico possa essere adottata «nel contesto di altro itinerario procedimentale»; d’altra parte, un raccordo tra la contestata deliberazione del Senato e il procedimento innanzi al Tribunale dei ministri non sarebbe mancato, tenuto conto delle precisazioni offerte al riguardo nella proposta di delibera avanzata dalla Giunta.

Considerato in diritto
1.– La Corte è chiamata a giudicare sul ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – fase di merito – proposto dalla Corte di cassazione contro il Senato della Repubblica in relazione alla deliberazione da questo assunta nella seduta (pomeridiana) del 22 luglio 2009 (doc. XVI, n. 2), con la quale è stato dichiarato il carattere ministeriale dei reati di ingiuria e diffamazione contestati al senatore Roberto Castelli ai danni dell’onorevole Oliviero Diliberto – in riferimento a talune espressioni profferite dal primo nei confronti del secondo nel corso della trasmissione televisiva “Telecamere”, andata in onda il 21 marzo 2004 – e la sussistenza, in ordine a tali reati, delle finalità di cui all’art. 9, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione).
Il Senato della Repubblica, costituendosi in giudizio, ha chiesto di dichiarare il ricorso «improcedibile, inammissibile, irricevibile e improponibile» o comunque, in subordine, di disporne il rigetto.
Le ragioni delle parti sono state descritte nella narrativa in fatto.
2.– Le diverse eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa del Senato vanno preliminarmente esaminate e devono essere tutte respinte.
Per quanto concerne, anzitutto, l’insistita censura secondo la quale la Corte di cassazione non sarebbe legittimata a proporre il conflitto (in quanto solo il giudice della fase rescissoria sarebbe competente a dichiarare in via definitiva la volontà del relativo potere, potendo solo quel giudice apprezzare la lesività o meno della deliberazione del Senato e conseguentemente esprimere un interesse “concreto ed attuale” al ricorso), essa appare inconsistente.
Il giudice di legittimità è stato del tutto ritualmente investito a seguito di ricorso per saltum proposto avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata dal Tribunale di Roma proprio in forza della deliberazione del Senato, che ha introdotto nel processo un diniego di autorizzazione.
La devoluzione ha, dunque, un oggetto squisitamente (ed esclusivamente) “rescindente”, nel senso che il petitum perseguito dal ricorrente consiste, appunto, nella rimozione, attraverso il conflitto, della deliberazione che determina l’effetto preclusivo per la regiudicanda: l’interesse, quindi, della Corte di cassazione risulta “concreto ed attuale”, tenuto conto dell’oggetto sul quale essa è chiamata a pronunciarsi.
Quanto alla pretesa carenza di indicazione del parametro, essa appare fondata su un assunto contraddetto sia dal chiaro riferimento che il ricorrente svolge circa l’insussistenza dei presupposti per ritenere, nella specie, applicabile la guarentigia dell’art. 96 Cost., sia dalla censura chiaramente rivolta alla delibera di diniego della autorizzazione a procedere, di cui si assume l’illegittimità e il carattere lesivo per il potere giudiziario: con la conseguenza di evocare lo strumento del conflitto quale unico rimedio destinato alla rimozione dell’atto invasivo.
Diversamente da come prospettato, l’atto impugnato appare, quindi, più che adeguatamente individuato ed il relativo annullamento – la cui domanda, peraltro, non è configurabile come condizione di ammissibilità del ricorso – appare consequenziale al petitum perseguito.
Per ciò che concerne, infine, la prospettata ambiguità dell’oggetto del ricorso e la mancata allegazione del resoconto della seduta (pomeridiana) relativa alla votazione della delibera in contestazione, basta rilevare il carattere meramente assertivo del primo rilievo e l’inconferenza del secondo, considerato che, trattandosi di resoconti parlamentari, era sufficiente l’indicazione dei relativi atti.
3.– La complessa dinamica delle vicende, processuali e procedimentali, che hanno contrassegnato il conflitto qui sottoposto a scrutinio deve essere succintamente rievocata, in quanto rilevante agli effetti del giudizio.
Come anzitutto emerge dalla esauriente narrativa in fatto contenuta nel ricorso, la Corte di cassazione è stata investita dall’impugnazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale della medesima città il 6 novembre 2009, con la quale il sen. Castelli – a norma degli artt. 96 della Costituzione, 9 della legge costituzionale n. 1 del 1989 e 129 del codice di procedura penale – è stato assolto dai reati di ingiuria e di diffamazione commessi in danno dell’on. Diliberto, «perché non punibile trattandosi di opinioni espresse per il perseguimento di un preminente interesse politico nell’esercizio della funzione di governo».
Nell’àmbito del procedimento penale (promosso su denuncia-querela dell’on. Diliberto, presentata il 27 aprile 2004), il pubblico ministero si era posto il problema della eventuale configurazione dei fatti come ipotesi di reato ministeriale ed aveva, di conseguenza, provveduto ad investire della questione il Tribunale dei ministri, trasmettendo gli atti a norma dell’art. 6 della legge costituzionale n. 1 del 1989.
Il Collegio per i reati ministeriali aveva, tuttavia, con ordinanza del 13 dicembre 2004, declinato la propria competenza, ritenendo che le espressioni usate dall’imputato non fossero riconducibili all’esercizio della funzione di ministro.
Il procedimento aveva, poi, subìto una sospensione, essendosi appreso che il Senato, con deliberazione del 30 giugno 2004, aveva dichiarato l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., delle espressioni usate dal sen. Castelli, successivamente affermando – con deliberazione adottata dall’Assemblea il 18 maggio 2005 – l’applicabilità della predetta delibera anche al procedimento penale riguardante gli stessi fatti.
Promosso, quindi, conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato da parte del Giudice per le indagini preliminari, questa Corte, con sentenza n. 304 del 2007, ha accolto il ricorso, dichiarando che non spettava al Senato della Repubblica affermare che le dichiarazioni del sen. Castelli, oggetto del procedimento penale, costituissero opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle proprie funzioni ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., e annullando la delibera impugnata.
Nel frangente, la Corte – nel reputare priva di fondamento la tesi espressa dalla difesa del Senato, secondo la quale «in caso di coincidenza della posizione di parlamentare con quella di ministro, la garanzia di insindacabilità, di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione, dovrebbe coprire le dichiarazioni extra moenia del parlamentare-ministro, anche se non ascrivibili a funzioni parlamentari tipizzate, per il solo fatto di essere riferibili o connesse alla carica ministeriale e alla realizzazione dell’indirizzo politico che con essa si manifesta» – ha avuto modo di puntualizzare come «il fatto che il parlamentare chiamato a ricoprire la carica di ministro si trovi in una condizione parlamentare particolare, per non essere in grado di svolgere un’attività parlamentare piena, non consente di ritenere comprese nella sfera di operatività della garanzia dell’insindacabilità condotte poste in essere nell’esercizio delle attribuzioni del ministro, stante la oggettiva diversità fra queste ultime, di per sé considerate, e le funzioni parlamentari. La coincidenza, nella stessa persona, della posizione di parlamentare e di ministro non giustifica in alcun modo l’applicazione estensiva al ministro della garanzia di insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione, propria del parlamentare, quando questi esercita funzioni attinenti alla carica di Governo».
Disposto, dunque, il rinvio a giudizio dell’imputato, il sen. Castelli indirizzava il 30 ottobre 2008 una missiva al Presidente del Senato, con la quale chiedeva di investire la Giunta competente, reputando applicabile alla situazione di specie l’art. 96 Cost., sul presupposto che le dichiarazioni oggetto del procedimento penale fossero connesse all’esercizio delle sue funzioni di Ministro della giustizia.
A proposito, poi, della controversia civile vertente sugli stessi fatti, questa Corte, con ordinanza n. 259 del 2011, ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto proposto dalla Corte d’appello di Roma avverso la richiamata delibera di insindacabilità ex art. 68 Cost. pronunciata dal Senato il 30 giugno 2004: le ragioni delle doglianze prospettate dalla Corte ricorrente risultavano, infatti, complessivamente già accolte con la ricordata sentenza n. 304 del 2007, sia con riguardo alla spettanza del potere, sia con riguardo all’efficacia dell’atto reputato lesivo. Con la conseguenza che la competenza della autorità giudiziaria a definire detta controversia risulta ormai cristallizzata e che il processo può, dunque, giungere alla sua naturale conclusione: e la vicenda relativa all’applicabilità dell’art. 96 Cost. resta evidentemente del tutto inconferente ai fini del contenzioso vertente sugli interessi civili, ancorché derivante dagli stessi fatti.
Nel processo penale, invece, su istanza, come si diceva, del diretto interessato e, dunque, omisso medio – vale a dire al di fuori dello schema, come si dirà fra breve, dello speciale procedimento di cui alla legge costituzionale n. 1 del 1989 e agli artt. 1 e seguenti della legge n. 219 del 1989 ed omettendo di sollevare, se del caso, conflitto costituzionale con l’autorità giudiziaria procedente – il Senato della Repubblica ha deliberato di adottare gli atti all’origine del conflitto qui all’esame.
4.– Il succedersi del contenzioso da cui è scaturito l’attuale conflitto propone, dunque, alcuni aspetti problematici sui quali è opportuno soffermarsi.
Non si può, anzitutto, non constatare il ripetersi di successive alternative “preclusive” all’esercizio della funzione giurisdizionale che ha mosso le deliberazioni del Senato – tuttavia strutturalmente e funzionalmente divergenti – nell’ambito delle diverse sedi processuali attivate: mentre, infatti, in un primo tempo, le affermazioni del sen. Castelli (oggetto di giudizio civile e di giudizio penale, come si è ricordato) sono state considerate «opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni» (e perciò ricondotte nel perimetro dell’art. 68, primo comma, della Costituzione), in un secondo momento, dopo le pronunce contrarie adottate da questa Corte, le medesime sono state, invece, configurate come costitutive di ipotesi di reato a cui potesse riconoscersi «il carattere della ministerialità» nonché ritenute «coperte dall’esimente di cui all’art. 9, comma 3, della legge cost. n. 1 del 1989».
È appena il caso di ricordare che quest’ultima disposizione non sancisce, come invece l’art. 68 Cost., la “insindacabilità” delle opinioni espresse in tutte le possibili sedi – civile, penale, amministrativa, disciplinare, ecc. –, ma assegna all’Assemblea competente il potere di negare, «con valutazione insindacabile», l’autorizzazione a procedere.
Ma, al di là di questa sorta di altalenante esercizio del potere “qualificatorio” relativamente a un medesimo fatto – che potrebbe assumere rilievo addirittura dirimente, ove si ritenesse che la proposizione del conflitto in relazione ad una specifica condotta asseritamente invasiva del potere di cui si assume la menomazione, una volta esercitata la vindicatio, “consumi” l’oggetto della pretesa, a prescindere dalla relativa “qualificazione” –, non può non assumere risalto, sotto un profilo ancor più significativo, la già evidenziata circostanza di un iter procedimentale del tutto sui generis rispetto a quello configurato dalla richiamata normativa costituzionale e dalle stesse pronunce di questa Corte: il Senato si è, infatti, pronunciato – come già detto – sulla base di una semplice richiesta del sen. Castelli avanzata diversi anni dopo la pronuncia di incompetenza del Tribunale dei ministri a suo tempo investito dal pubblico ministero.
Viene a questo punto in discorso la sentenza n. 241 del 2009 di questa Corte. Con tale pronuncia si affermò che non spettava al Collegio per i reati ministeriali non trasmettere gli atti al Procuratore della Repubblica (ed al Tribunale, poi, non rilevare tale omissione) perché questi desse comunicazione al Presidente della Camera competente (ai sensi dell’art. 8, comma 4, della legge costituzionale n. 1 del 1989) del provvedimento con il quale il Collegio aveva escluso la natura ministeriale dei reati ascritti all’imputato, limitandosi a disporre la trasmissione degli atti stessi all’autorità giudiziaria competente. L’omessa comunicazione – osservò la Corte – determina, infatti, la compromissione del potere dell’organo parlamentare di valutare autonomamente la natura ministeriale o meno dei reati oggetto di indagine e di sollevare conflitto di attribuzione tra poteri ove non condivida la valutazione negativa espressa dal Tribunale dei ministri, con conseguente menomazione della sfera di competenza costituzionalmente garantita alla Camera parlamentare in ordine all’esercizio del potere di autorizzazione a procedere.
Ebbene, dagli atti parlamentari (Senato della Repubblica, XVI legislatura, Giunte e Commissioni, resoconto sommario n. 169, sedute di martedì 16 giugno 2009, pagina 9) emerge che, nella specie, il Presidente della Giunta – investita a seguito della richiesta del senatore Castelli –, dopo aver riassunto i termini della questione, comunicava essere a disposizione dei componenti di quell’organo varii documenti, fra i quali «la lettera del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma circa il seguito dato da tale ufficio all’ordinanza del Collegio per i reati ministeriali presso il medesimo tribunale ordinario del 13 dicembre 2004 – nonché la relativa lettera di trasmissione del Presidente del Senato – rispettivamente del 15 e del 27 maggio 2009».
Risulta, dunque, che la Giunta del Senato fosse stata esaurientemente informata dello stato del procedimento e degli atti conseguenti alla deliberazione del Collegio di ritenere non ministeriali i reati ascritti al sen. Castelli: con la conseguenza che – a quel momento e proprio alla luce della richiamata sentenza n. 241 del 2009 – il suo unico potere di vindicatio sarebbe stato quello di contestare, per conflitto costituzionale, la qualificazione del fatto come reato non ministeriale da parte della autorità giudiziaria procedente. A quel punto, sarebbe stato di esclusiva competenza della Corte costituzionale dirimere il contenzioso ed assegnare definitivamente la corretta qualificazione (costituzionalmente significativa) dei fatti ascritti al parlamentare-ministro, agli effetti della correttezza o meno del procedimento adottato.
Se, infatti, il potere della Camera competente di negare l’autorizzazione a procedere (reputando «che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo») risulta intrinsecamente collegato dalla legge costituzionale al fatto che il ministro “inquisito” sia chiamato a rispondere di un reato commesso nell’esercizio delle proprie funzioni, a norma dell’art. 96 Cost., è del tutto evidente che la sussistenza di tale connessione debba essere pregiudizialmente “accertata”. Il che presuppone, a sua volta, o che l’autorità giudiziaria abbia positivamente proceduto nelle forme previste per i reati ministeriali (cosa, nella specie, dichiaratamente esclusa); o che la Camera competente abbia attivato, attraverso il rimedio del conflitto, il meccanismo di accertamento “costituzionale” devoluto a questa Corte (sentenza n. 88 del 2012).

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spettava al Senato della Repubblica deliberare, ai fini dell’esercizio della prerogativa di cui all’art. 96 della Costituzione, il carattere ministeriale delle ipotesi di reato contestate al senatore Roberto Castelli, all’epoca dei fatti Ministro della giustizia, per le frasi da questi pronunciate nel corso della trasmissione televisiva “Telecamere“, andata in onda il 21 marzo 2004, nei confronti dell’onorevole Oliviero Diliberto e oggetto del procedimento penale in relazione al quale pende ricorso per cassazione nonché deliberare la sussistenza, in ordine alle medesime ipotesi di reato, della finalità di cui all’art. 9, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione), sul presupposto che egli abbia agito per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI