SENTENZA N. 30
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, sostitutivo dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, promosso dalla Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, nel procedimento vertente tra D’Aversa Concettina e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 18 marzo 2013, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 15 gennaio 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Riferisce il giudice a quo che la ricorrente del giudizio principale, lavoratrice dipendente di un imprenditore individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di lavoro, per ottenere il pagamento di alcune differenze retributive. Interrottosi il giudizio a causa del fallimento del convenuto, in data 27 marzo 1997 la ricorrente aveva chiesto di essere ammessa al passivo fallimentare, ottenendo l’ammissione del credito per un importo pari ad euro 6.878,47. Di tale somma la ricorrente aveva ricevuto dei pagamenti parziali (nel 2002 e nel 2010) per un totale di euro 6.541,32. Ancora creditrice del residuo, con ricorso depositato il 19 dicembre 2012, aveva adito la Corte d’appello rimettente, chiedendo l’indennizzo del danno non patrimoniale da eccessiva durata della procedura concorsuale (quantificato in euro 8.000,00), oltre accessori e spese legali, sebbene detta procedura, come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare del 14 febbraio 2013, fosse ancora pendente e non fosse definitiva l’attribuzione della minor somma rispetto a quella ammessa al passivo fallimentare.
1.1.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 – prevedendo nel testo attualmente in vigore che «La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva», precluderebbe la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.
Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un processo che si è concluso, e non anche a chi si dolga dell’eccessiva durata di quello ancora pendente, nonostante nel secondo caso la lesione appaia più grave. Siffatta discriminazione non sarebbe giustificata dall’esigenza di permettere una valutazione unitaria dell’intero processo, considerato che l’improponibilità della domanda sussisterebbe anche in caso di notevole ritardo già maturato, peraltro con riferimento al diritto primario alla retribuzione lavorativa.
Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., «in quanto il diritto di agire per l’equa riparazione costituisce ormai una forma di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo presupposto».
Il rimettente, infine, ritiene che il testo dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto) attualmente in vigore violi l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Sostiene al riguardo che tale disposizione, pur obbligando gli Stati aderenti a garantire il diritto delle parti all’esame della loro causa entro un tempo ragionevole, non imponga la previsione di specifici rimedi risarcitori in caso di violazione. Tuttavia, quale forma di attuazione del principio di sussidiarietà nella tutela del diritto, il rimedio previsto dalla legge Pinto sarebbe visto con favore dalla Corte EDU, tanto da rimettere alla giurisdizione interna le richieste di risarcimento del danno da eccessiva durata del processo in quegli ordinamenti in cui erano state assunte omologhe iniziative legislative. In tale contesto, il predetto rimedio dovrebbe essere dotato del carattere dell’effettività e consentire la massima conformazione possibile del giudice nazionale alla CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Diversamente, la norma censurata avrebbe configurato solo in apparenza un adempimento al vincolo convenzionale, impedendo – secondo il significato univocamente attribuibile alla disposizione censurata, che ne precluderebbe un’interpretazione «convenzionalmente» orientata – l’esperibilità del rimedio in relazione ai cosiddetti processi presupposti non ancora definiti ma già di durata irragionevole. Con riferimento ad essi, la parte danneggiata potrebbe soltanto rivolgersi alla Corte EDU per ottenere il risarcimento, anche in casi, come nella specie, di grave ritardo nella soddisfazione di un diritto primario. Tale preclusione, peraltro, non si giustificherebbe con il fine di ridimensionare la problematica dell’eccessiva durata dei processi, che rimarrebbe inalterata.
1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente premette che, secondo la giurisprudenza di legittimità, per il creditore fallimentare la durata della procedura, rilevante ai fini della valutazione di ragionevolezza, si calcola dalla data di proposizione della domanda di ammissione al passivo, mentre il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione è individuato nel momento in cui il decreto di chiusura del fallimento assume definitività o con quello dell’eventuale soddisfacimento integrale del credito ammesso al passivo, senza che abbia rilievo l’esecuzione di ripartizioni parziali in corso di procedura. Sulla base di tali premesse, la Corte d’appello di Bari esclude che la domanda di equa riparazione formulata dalla ricorrente sia tardiva, in mancanza di definizione della procedura presupposta e di rilievo dei riparti parziali, ritenendola peraltro prematura alla stregua del nuovo testo dell’art. 4, che non contiene più l’inciso secondo cui la domanda di riparazione «può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata». Tale eliminazione, unitamente al mantenimento del termine semestrale di decadenza, avrebbe il significato univoco di precludere, dal momento di entrata in vigore del predetto testo di legge, la proposizione della domanda di equa riparazione quando il procedimento presupposto sia ancora pendente.
Nel caso di specie, poiché la ricorrente del giudizio principale ha agito per l’equa riparazione nel corso del procedimento presupposto, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – nel testo applicabile ratione temporis – la domanda, diversamente da quanto in precedenza previsto, non sarebbe proponibile, sebbene il fallimento duri da un tempo (oltre quindici anni) ben superiore al termine di sei anni considerato ragionevole dall’art. 2, comma 2-bis, della legge Pinto, per la conclusione di procedure concorsuali non particolarmente complesse.
2.– Con atto depositato il 16 luglio 2013 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della questione sollevata.
2.1.– Secondo il Presidente del Consiglio, la questione sarebbe inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del rimettente, il quale non avrebbe fornito nessuna concreta indicazione sullo stato attuale della procedura fallimentare, impedendo di ritenere la sicura applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo.
Inoltre, ad avviso della difesa statale, la pretesa indennitaria vantata dalla ricorrente nel giudizio principale, quantificata in euro 8.000,00, potrebbe ritenersi inaccoglibile alla stregua dell’art. 2-bis, comma 3, della legge n. 89 del 2001, secondo cui la misura dell’indennizzo non può mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice, con riverbero sulla rilevanza della questione sollevata.
2.2.– Ad avviso del Presidente del Consiglio, la questione sarebbe in ogni caso infondata nel merito.
La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell’ambito di un più ampio intervento normativo finalizzato ad accelerare la procedura per ottenere l’indennizzo da eccessiva durata dei processi, nell’intento di rendere effettivi i principi di cui agli artt. 24 e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e di ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre, mirerebbe a ridurre il contenzioso davanti alla Corte EDU per l’eccessiva durata dei processi e per il ritardo nel pagamento degli indennizzi liquidati, così come riconosciuto nel maggio del 2013 dall’Ufficio di monitoraggio dell’esecuzione delle decisioni CEDU.
L’intervenuto sostiene che l’art. 4 della legge n. 89 del 2001, nella originaria formulazione, che consentiva la proponibilità della domanda di equa riparazione in pendenza del processo presupposto, comportava la difficoltà pratica di determinare la maturazione del diritto ed il frazionamento della pretesa, con onerose conseguenze per il bilancio dello Stato. La sostituzione operata dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, accompagnata all’adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla previsione di criteri corrispondenti a quelli enunciati dalla giurisprudenza nazionale e della Corte EDU quanto a durata ragionevole e misura dell’indennizzo, non precluderebbe il soddisfacimento del diritto, ma solo il suo differimento, giustificato alla stregua delle esigenze menzionate. Si evita, in tal modo, un inutile dispendio di risorse pubbliche per effetto della deflazione del contenzioso, assicurando al contempo il buon andamento dell’amministrazione della giustizia. Le considerazioni che precedono escluderebbero la denunciata disparità di trattamento ed il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. Il differimento, inoltre, non inciderebbe sull’effettività del rimedio indennitario, che rimarrebbe intatto nella sostanza, salvo essere posticipato, alla definizione del giudizio presupposto, così imponendo alla parte una correttezza di comportamento in linea con l’esigenza generale di economia processuale.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 18 marzo 2013, la Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il giudice a quo riferisce che la ricorrente del giudizio principale, lavoratrice dipendente di un imprenditore individuale, nel 1993 aveva agito in giudizio nei confronti del datore di lavoro per ottenere il pagamento di alcune differenze retributive. Interrottosi il giudizio a causa del fallimento del convenuto, in data 27 marzo 1997 aveva chiesto ed ottenuto di essere ammessa al passivo fallimentare. Ricevuti dei pagamenti parziali ed ancora creditrice del residuo, con ricorso depositato il 19 dicembre 2012 aveva adito la Corte d’appello rimettente, chiedendo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – cosiddetta legge Pinto – l’indennizzo del danno non patrimoniale da eccessiva durata della procedura concorsuale, sebbene quest’ultima, come da attestazione della cancelleria del tribunale fallimentare, fosse ancora pendente.
Ad avviso del giudice a quo, l’art. 4 della legge Pinto – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 – precluderebbe la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.
Tale previsione contrasterebbe anzitutto con l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un processo che si è concluso e non a chi si dolga dell’eccessiva durata di quello che non si è ancora concluso – nonostante nel secondo caso la lesione appaia più grave – anche quando sia già maturato un notevole ritardo e con riferimento ad un diritto primario quale quello alla retribuzione lavorativa.
Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto il diritto di agire per l’equa riparazione costituirebbe ormai una forma di attuazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del cosiddetto processo presupposto.
Il rimettente, infine, ritiene che la versione dell’art. 4 della legge Pinto applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio principale violi l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Il rimedio interno previsto dalla legge Pinto dovrebbe essere dotato del carattere dell’effettività e consentire la massima conformazione possibile del giudice nazionale alla CEDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Così non sarebbe per effetto della norma censurata, che configurerebbe solo in apparenza un adempimento al vincolo convenzionale, impedendo l’esperibilità del rimedio in relazione ai processi presupposti non ancora definiti ma già di durata irragionevole.
È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, secondo il quale la questione sarebbe inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del rimettente, che non avrebbe fornito nessuna concreta indicazione sullo stato attuale della procedura fallimentare, impedendo di ritenere la sicura applicabilità della norma censurata.
Inoltre, ad avviso dell’intervenuto, la pretesa indennitaria vantata dalla ricorrente nel giudizio principale, quantificata in euro 8.000,00 a fronte dell’ammissione al passivo fallimentare per euro 6.878,47, sarebbe inaccoglibile alla stregua dell’art. 2-bis, comma 3, della legge Pinto, secondo cui la misura dell’indennizzo non può mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice, con riverbero sulla rilevanza della questione sollevata.
Nel merito, secondo il Presidente del Consiglio la questione sarebbe infondata.
La norma censurata, infatti, si collocherebbe nell’ambito di un più ampio intervento normativo finalizzato ad accelerare la procedura per ottenere l’indennizzo dovuto per l’eccessiva durata dei processi, nell’intento di rendere effettivi i principi di cui agli artt. 24 e 111 Cost. in punto di tutela di diritti ed interessi e di ragionevole durata del processo. Tale intervento, inoltre, mirerebbe a ridurre il contenzioso davanti alla Corte EDU per l’eccessiva durata dei processi e per il ritardo nel pagamento degli indennizzi accordati.
Secondo l’intervenuto, l’art. 4 della legge Pinto, nella sua originaria formulazione, consentendo la proponibilità della domanda di equa riparazione in pendenza del processo presupposto, comportava la difficoltà pratica di determinare la maturazione del diritto ed il frazionamento della pretesa, con onerose conseguenze per il bilancio dello Stato. La sua sostituzione ad opera dell’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012, accompagnata all’adozione del modulo del ricorso monitorio ed alla previsione di criteri corrispondenti a quelli enunciati dalla giurisprudenza nazionale e della Corte EDU quanto a durata ragionevole e misura dell’indennizzo, non precluderebbe il soddisfacimento del diritto, ma solo il suo differimento, giustificato alla stregua delle esigenze menzionate, evitando un inutile dispendio di risorse pubbliche attraverso la deflazione del contenzioso ed assicurando al contempo il buon andamento dell’amministrazione della giustizia.
2.– Prima di affrontare l’esame della questione proposta e delle eccezioni sollevate dalla difesa erariale, è opportuno dar conto, seppur sinteticamente, della genesi della legge Pinto, intervenuta in un contesto di riconoscimento del bene costituzionale della ragionevole durata del processo, «che, già implicito nell’art. 24 Cost., è ora oggetto di specifica enunciazione nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., sulla scia dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (ordinanza n. 305 del 2001).
Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89 del 2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall’art. 35 della CEDU – secondo cui: «la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne […]» – e su cui si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo. Da detto principio di sussidiarietà deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la Convenzione di garantire agli individui la tutela dei diritti da essa riconosciuti in modo «effettivo» (ai sensi dell’art. 13 della CEDU), ossia tale da porre rimedio alla doglianza, senza la necessità di adire la Corte EDU. Prima della legge n. 89 del 2001 non esisteva nell’ordinamento italiano un rimedio interno, con la conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per la violazione dell’art. 6 della CEDU venivano indirizzati direttamente alla Corte di Strasburgo, sovraccaricandone il ruolo. A fronte di simile situazione, la Corte EDU rilevava come le inadempienze dell’Italia riflettessero una situazione perdurante, «alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la Convenzione» (sentenze 28 luglio 1999, Bottazzi contro Italia, Di Mauro contro Italia, Ferrari contro Italia ed A.P. contro Italia).
L’originario tessuto normativo della legge n. 89 del 2001 ha subito significative modifiche – appresso meglio precisate – ad opera dell’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012.
In particolare, l’art. 4 della legge Pinto è stato sostituito dalla norma impugnata.
La disposizione originaria prevedeva che: «La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui àmbito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva».
A seguito della sostituzione, l’art. 4 della legge Pinto stabilisce che: «La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva».
Il nuovo testo, sul piano puramente letterale, non esclude espressamente la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del processo presupposto.
Alla esclusione tuttavia si perviene attraverso un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore, come emerge: a) dal fatto che la nuova versione differisce dalla previgente unicamente per l’espunzione dell’inciso che consentiva la proponibilità «durante la pendenza», altrimenti inspiegabile; b) dalla lettura della disposizione unitamente all’art. 3 della legge Pinto, che al comma 1 prevede che «La domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata. […]» ed al comma 3, lettera c), dispone che: «Unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti: […] il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili» – previsioni, queste, che non avrebbero senso ove dovesse continuarsi ad ammettere la proponibilità della domanda nel corso del processo presupposto; c) dal condizionamento di an e quantum del diritto all’indennizzo (tale qualificato dalla legge medesima) alla definizione del giudizio, come meglio verrà precisato; d) dall’obbiettivo dichiarato nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 83 del 2012 di ridurre il carico gravante sulle corti d’appello rappresentato dai ricorsi per equa riparazione; e) dai lavori preparatori della legge di conversione.
Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve ritenere che la norma censurata precluda la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata.
3.– Tanto premesso, sono infondate le eccezioni d’inammissibilità sollevate dalla difesa erariale.
In primo luogo, essa deduce l’insufficiente descrizione della fattispecie da parte del rimettente, che non avrebbe fornito nessuna concreta indicazione sullo stato attuale della procedura fallimentare, impedendo di ritenere senz’altro applicabile la norma censurata.
La circostanza è chiaramente smentita dall’ordinanza di rimessione, in cui il giudice a quo riferisce espressamente che la domanda di equa riparazione – cui, ratione temporis, deve essere applicata la norma impugnata – è stata proposta quando la procedura concorsuale era ancora pendente, come certificato dalla cancelleria del tribunale fallimentare.
In secondo luogo, il Presidente del Consiglio assume che la domanda avanzata nel giudizio principale non potrebbe essere accolta in ragione dell’art. 2-bis, comma 3, della legge Pinto, secondo cui la misura dell’indennizzo non può mai superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice. Ciò in quanto la ricorrente ha quantificato l’indennizzo richiesto in euro 8.000,00 a fronte di un credito ammesso al passivo fallimentare solo per l’ammontare di euro 6.878,47.
L’eccezione deve essere respinta, atteso che il ricorso ben potrebbe essere accolto per il minore importo rispetto a quello domandato, come peraltro è implicitamente previsto dall’art. 3, comma 6, della legge Pinto, laddove consente l’opposizione nel caso di accoglimento parziale.
4.– Nondimeno, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU – è inammissibile per due ordini di ragioni, inscindibilmente connessi. Infatti, l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non è possibile, sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perché la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo.
4.1.– Per dar conto di tali ragioni di inammissibilità occorre preliminarmente descrivere, seppur sinteticamente, il complesso delle modifiche apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 alla legge n. 89 del 2001.
Alcune di esse hanno riguardato il procedimento attraverso il quale riconoscere l’equa riparazione per l’irragionevole durata e, mantenendo la competenza della corte d’appello in unico grado di merito, ora in composizione monocratica, prevedono che la domanda venga proposta e decisa su base documentale, secondo un meccanismo simile a quello del procedimento per decreto ingiuntivo (art. 3 della legge Pinto, come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera c, del d.l. n. 83 del 2012). L’instaurazione del contraddittorio è posticipata alla successiva ed eventuale fase di opposizione, proposta dall’amministrazione o dal ricorrente insoddisfatto (in tutto o in parte) della pronuncia, da svolgersi davanti alla corte d’appello in composizione collegiale secondo le forme semplificate del procedimento camerale (art. 5-ter della legge Pinto, come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera f, del d.l. n. 83 del 2012). Il ricorso ad un procedimento di tipo monitorio è reso possibile dal fatto che la nuova normativa, rifacendosi in gran parte all’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e della Corte di cassazione, indica anche i termini entro i quali la durata del processo non può essere dichiarata irragionevole (art. 2, commi da 2-bis a 2-quater, della legge Pinto, come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 83 del 2012) e la misura dell’indennizzo per anno o frazione di anno superiore a sei mesi eccedente il termine di ragionevole durata (art. 2-bis, comma 1, della legge Pinto, come aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera b, del d.l. n. 83 del 2012).
Ulteriori modifiche apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 alla legge n. 89 del 2001 hanno dato rilievo normativo ad una serie di circostanze incidenti sull’an (art. 2) e sul quantum (art. 2-bis) dell’indennizzo.
In particolare, l’art. 2, comma 2-ter, della legge Pinto considera comunque rispettato il termine ragionevole di durata se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. È evidente che la norma in questione presuppone la conclusione del processo, solo all’esito potendosene constatare la durata complessiva.
Similmente, postulano la definizione del giudizio le ipotesi di esclusione dell’indennizzo contemplate dal medesimo art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) (a favore della parte condannata per cosiddetta “lite temeraria” a norma dell’art. 96 cod. proc. civ.), b) (nel caso di accoglimento della domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa: art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ.), c) (nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta nella mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali: art. 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali») e d) (nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte).
Infine, in ordine alla determinazione della misura dell’indennizzo, l’art. 2-bis, comma 2, lettera a), della legge Pinto impone di tenere conto dell’esito del processo, mentre il successivo comma 3 esclude che detta misura possa eccedere il valore della causa o quello del diritto accertato dal giudice, se inferiore al primo. Evidentemente, questi criteri possono operare solo a seguito della conclusione del procedimento presupposto.
Condizionando l’an ed il quantum dell’indennizzo, l’art. 2 e l’art. 2-bis della legge Pinto – rispettivamente modificato ed introdotto dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 – finiscono per conformare in modo peculiare il diritto all’equa riparazione, riconoscendolo solo all’esito, e non anche in pendenza, del processo presupposto.
Nel descritto contesto normativo i meccanismi indennitari introdotti dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 prevedono condizioni irrealizzabili con riguardo alla fattispecie di cui si vorrebbe parificare la disciplina.
Quanto considerato preclude l’intervento additivo richiesto.
In ogni caso, peraltro, esso non sarebbe “a rime obbligate” in ragione della pluralità di soluzioni normative configurabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo.
Occorre rammentare che «A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, questa Corte ha costantemente ritenuto che “le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”» (sentenza n. 264 del 2012).
Ha chiarito la Corte EDU che «l’articolo 6 § 1 impone agli Stati contraenti l’obbligo di organizzare i propri sistemi giudiziari in modo tale che i loro giudici possano soddisfare ciascuno dei suoi requisiti, compreso l’obbligo di trattare i casi in un tempo ragionevole […]. Laddove il sistema giudiziario è carente in questo senso, la soluzione più efficace è quella di un mezzo di ricorso inteso a snellire il procedimento per evitare che questo diventi eccessivamente lungo. Un tale mezzo di ricorso offre un innegabile vantaggio rispetto ad un mezzo di ricorso che fornisca solo un indennizzo, in quanto evita anche di constatare violazioni successive rispetto al medesimo tipo di procedimento e non ripara meramente la violazione a posteriori come fa, ad esempio, il tipo di mezzo di ricorso risarcitorio previsto dalla legge italiana. […] Appare inoltre chiaro che per i paesi dove esistono già violazioni legate alla durata del procedimento, un mezzo di ricorso inteso ad accelerare il procedimento, per quanto auspicabile per l’avvenire, potrebbe non essere adeguato a riparare una situazione in cui il procedimento stesso è già stato palesemente troppo lungo. […] Diversi tipi di mezzo di ricorso possono riparare la violazione in modo adeguato. […] Inoltre, taluni Stati […] hanno compreso la situazione perfettamente, decidendo di combinare due tipi di mezzo di ricorso, uno volto a snellire il procedimento e l’altro a fornire un indennizzo […]. Tuttavia, gli Stati possono anche scegliere di introdurre solo dei mezzi di ricorso risarcitori, così come ha fatto l’Italia, senza che tale mezzo di ricorso non sia considerato effettivo» (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia).
Sempre secondo la Corte EDU, «Quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un rimedio risarcitorio, la Corte deve lasciare allo Stato un margine di valutazione più ampio per consentirgli di organizzare il rimedio in un modo coerente con il proprio ordinamento giuridico […]» e «[…] può effettivamente avvenire che le regole di procedura applicabili non siano esattamente le stesse di quelle relative alle richieste ordinarie di risarcimento danni. Sta ad ogni Stato decidere, sulla base delle norme applicabili nel proprio sistema giudiziario, quale sia la procedura che rispetti al meglio il carattere obbligatorio di “effettività” […]» (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia).
Dunque, la Convenzione accorda allo Stato aderente ampia discrezionalità nella scelta del tipo di rimedio interno tra i molteplici ipotizzabili, ma nel caso in cui opti per quello risarcitorio, detta discrezionalità incontra il limite dell’effettività, che deriva dalla natura obbligatoria dell’art. 13 CEDU (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella contro Italia), secondo il quale: «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale […]».
È specificamente sotto tale profilo – peraltro oggetto di censura da parte del rimettente – che il rimedio interno, come attualmente disciplinato dalla legge Pinto, risulta carente. La Corte EDU, infatti, ha ritenuto che il differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività e lo renda incompatibile con i requisiti al riguardo richiesti dalla Convenzione (sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia).
Il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia (sentenza n. 279 del 2013).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Bari, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
|