ORDINANZA N. 183
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Lecce nel procedimento di sorveglianza nei confronti di A. S., con ordinanza del 5 aprile 2019, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione di A. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 luglio 2020 il giudice relatore Francesco Viganò;
uditi gli avvocati Ladislao Massari e Gianfrancesco Castrignanò per A. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 21 luglio 2020.
Ritenuto che, con ordinanza del 5 aprile 2019, il Magistrato di sorveglianza di Lecce ha sollevato – in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «così come interpretato nel “diritto vivente”», nella parte in cui esclude che il condannato per il delitto di cui all’art. 12, commi 1 e 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), commesso e giudicato prima dell’entrata in vigore della legge 17 aprile 2015, n. 43 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), possa fruire del beneficio del permesso premio in assenza della prova di collaborazione con la giustizia;
che il giudice a quo ha altresì sollevato – in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nella parte in cui impone ai condannati per il delitto di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione il divieto di fruire del beneficio del permesso premio in assenza della prova di collaborazione con la giustizia;
che il rimettente è chiamato a delibare l’istanza di concessione di permesso premio, ex art. 30-ter ordin. penit., avanzata da A. S., detenuto dal 22 giugno 2017 in espiazione della pena di tre anni, nove mesi e diciotto giorni di reclusione, risultante dal cumulo – previa applicazione di tre anni di condono e detrazione di sette mesi e diciotto giorni di custodia cautelare – di tre condanne per il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina;
che, in punto di rilevanza, il Magistrato di sorveglianza osserva che, ove fosse applicabile la disciplina penitenziaria vigente al momento della commissione dei fatti di reato, A. S. potrebbe fruire del permesso premio, avendo già scontato (tenuto conto della custodia cautelare già subita e della liberazione anticipata maturata) assai più del limite minimo di un quarto della pena richiesto dall’art. 30-ter, comma 4, lettera b), ordin. penit., e soddisfacendo gli ulteriori requisiti della regolare condotta e dell’assenza di pericolosità sociale;
che tuttavia, per effetto dell’entrata in vigore della legge n. 43 del 2015, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n. 7 del 2015, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione è stato incluso nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., sicché la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione è ora subordinata alla collaborazione del condannato con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit.; requisito, quest’ultimo, che non può dirsi realizzato in capo ad A. S.;
che, in ordine alla non manifesta infondatezza della prima questione sollevata, il giudice a quo rammenta che, secondo il diritto vivente, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione soggiacciono al principio tempus regit actum, con conseguente immediata applicabilità, a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti, di eventuali modifiche normative di segno peggiorativo (sono citate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561; sezione prima penale, sentenza 9 dicembre 2009, n. 46924);
che, nel caso di specie, l’art. 3-bis del d.l. n. 7 del 2015, come convertito – che ha incluso il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – non reca alcuna disciplina transitoria, volta a limitare l’applicabilità della modifica normativa ai fatti di reato commessi successivamente alla sua entrata in vigore;
che nemmeno potrebbe evocarsi il principio di matrice costituzionale che, a fronte di sopravvenute modifiche di segno restrittivo dei presupposti per la concessione dei benefici penitenziari, salvaguarda la già realizzata progressione trattamentale del condannato, vietando l’immotivata regressione nella fruizione dei benefici stessi (sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995 e n. 306 del 1993), poiché nel caso di specie, alla data dell’entrata in vigore della legge n. 43 del 2015, A. S. non aveva nemmeno iniziato ad espiare la pena;
che, tuttavia, l’affermata natura processuale dell’art. 4-bis ordin. penit. – cui consegue l’applicazione retroattiva dell’ampliamento del catalogo dei reati “ostativi” ivi contemplati – si porrebbe in contrasto con la garanzia di irretroattività della legge penale sfavorevole di cui all’art. 7 CEDU; garanzia che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, abbraccerebbe anche la fase di esecuzione delle sanzioni penali (è citata la sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna);
che le modifiche ampliative al catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «decidono i margini di compressione della libertà personale, frustrando la possibilità di conoscere e calcolare, prima di agire, le conseguenze della propria condotta», sicché «[r]iconoscere [all’art. 4-bis] natura processuale, così precludendo l’applicazione del principio di irretroattività della legge penale, appare contrario al principio di ragionevolezza»;
che, quanto alla non manifesta infondatezza della seconda questione sollevata – attinente alla prospettata contrarietà agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost. dell’inserimento, nell’art. 4-bis ordin. penit., del riferimento al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – il giudice a quo osserva che la sottoposizione a un regime penitenziario di particolare rigore si giustifica per i condannati per reati di matrice associativa, per i quali la collaborazione con la giustizia «è certamente indice di rescissione del legame con gli altri appartenenti al sodalizio»;
che invece, per gli autori di reati di tipo non associativo, «il recupero sociale non deve passare attraverso una rescissione drastica di alcun vincolo», sicché sarebbe irragionevole sottoporre al medesimo regime ostativo delineato dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. condotte delittuose tanto diverse tra loro, «precludendo ad una categoria così ampia e diversificata di condannati il diritto di ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al giudice la possibilità di verificare in concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosità social[e] tali da giustificare percorsi penitenziari non aperti alla realtà esterna»;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o infondate;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il rimettente avrebbe erroneamente censurato l’art. 4-bis ordin. penit., in luogo dell’art. 30-ter della medesima legge, che delinea condizioni più rigorose per la concessione di permessi premio ai condannati per uno dei reati ostativi contemplati nella prima disposizione, di talché le questioni sarebbero inammissibili;
che, sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sarebbero in ogni caso infondate, poiché la selezione dei reati da includere nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. rientrerebbe nell’insindacabile discrezionalità del legislatore;
che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sono citate la sentenza n. 273 del 2001 e l’ordinanza n. 280 del 2001), la collaborazione con la giustizia, quale presupposto per la concessione dei benefici penitenziari, sarebbe «estranea alla sfera di operatività del principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Costituzione»;
che si è costituito in giudizio A. S., richiamando le argomentazioni esposte nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Lecce;
che, nella memoria illustrativa depositata il 22 giugno 2020, A. S., alla luce dell’intervenuta sentenza n. 32 del 2020 – ove questa Corte ha ritenuto sottratti alla garanzia di irretroattività dell’art. 25, secondo comma, Cost. i riverberi sulla concedibilità del permesso premio derivanti dall’inclusione di nuovi titoli di reato nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – ha insistito per l’accoglimento della sola questione relativa alla contrarietà agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost. dell’inserimento del delitto di cui agli artt. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit.;
che, con riferimento a tale questione, A. S. richiama la sentenza n. 253 del 2019, ove questa Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittima la presunzione assoluta di perdurante pericolosità sociale collegata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. alla mancata collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della medesima legge, così consentendo la concessione del permesso premio ai condannati per i reati contemplati da detta disposizione anche in assenza di collaborazione, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti;
che detta pronuncia – ad avviso della parte – non sarebbe dirimente per la soluzione della questione in esame, atteso che «sarebbe […] del tutto estemporaneo – a fronte di un condannato per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – l’accertamento in ordine alla sussistenza di “elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”»;
che la questione dovrebbe invece essere esaminata nel merito e accolta, alla luce dei rilievi svolti da questa Corte nella sentenza n. 331 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, t.u. immigrazione, nella parte in cui stabiliva una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti previsti dal comma 3 del medesimo articolo, osservando che i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non presuppongono il necessario collegamento dell’agente con una struttura associativa permanente, tantomeno di tipo mafioso;
che nella memoria illustrativa depositata il 26 giugno 2020 l’Avvocatura generale dello Stato, alla luce della sentenza n. 253 del 2019, ha chiesto la declaratoria di manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per sopravvenuta carenza di oggetto (sono richiamate le ordinanze n. 321 e n. 177 del 2013, n. 315 e n. 182 del 2012), sul rilievo che «[p]er effetto di tale pronuncia è venuta meno la preclusione alla fruizione dei permessi premio anche per i soggetti condannati per il delitto di cui all’art. 12, comma 1, del d.lvo. n. 286/1998, in assenza della prova di collaborazione con la giustizia, disposta dalla norma giuridica che costituisce l’oggetto della presente questione di legittimità costituzionale».
Considerato che il Magistrato di sorveglianza di Lecce ha sollevato – in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «così come interpretato nel “diritto vivente”», nella parte in cui esclude che il condannato per il delitto di cui all’art. 12, commi 1 e 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), commesso e giudicato prima dell’entrata in vigore della legge 17 aprile 2015, n. 43 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), possa fruire del beneficio del permesso premio in assenza della prova di collaborazione con la giustizia;
che il giudice a quo ha altresì sollevato – in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nella parte in cui impone ai condannati per il delitto di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione il divieto di fruire del beneficio del permesso premio in assenza della prova di collaborazione con la giustizia;
che è infondata l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato di inammissibilità delle questioni per erronea individuazione della norma censurata;
che, infatti, le censure del giudice a quo non si appuntano sulla previsione di un periodo di espiazione di pena più lungo di quello ordinariamente necessario per la concessione del permesso premio ai condannati per i delitti indicati dai commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis ordin. penit. (art. 30-ter, comma 4, lettera c, ordin. penit.), bensì sull’inclusione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel catalogo dell’art. 4-bis, comma 1, sicché correttamente sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale di quest’ultima disposizione;
che va altresì disattesa l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato di inammissibilità delle questioni per sopravvenuta carenza dell’oggetto, in ragione dell’intervenuta pronuncia della sentenza n. 253 del 2019;
che, per effetto di detta pronuncia, l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. è stato caducato nella parte in cui non prevedeva che, ai detenuti per i delitti ivi previsti, potessero essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti;
che, dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione in esame, emerge che il giudice a quo non ha inteso censurare in sé la rigidità del meccanismo di collaborazione con la giustizia previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. (nella formulazione antecedente alla sentenza n. 253 del 2019) per la fruizione del permesso premio, ma ha appuntato i propri dubbi di legittimità costituzionale sull’inclusione nell’elenco delle fattispecie “ostative”, contemplate da tale disposizione, del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione;
che, dunque, il frammento normativo dell’art. 4-bis, censurato dall’ordinanza di rimessione, è diverso da quello colpito dalla declaratoria di illegittimità costituzionale della sentenza n. 253 del 2019, sicché le odierne questioni non possono ritenersi inammissibili per sopravvenuta carenza dell’oggetto;
che è peraltro innegabile che le censure del rimettente – e, in particolare, la doglianza relativa all’irragionevolezza e contrarietà alla funzione rieducativa della pena dell’inserzione del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., che è opportuno esaminare per prima – muovano dal presupposto interpretativo dell’imprescindibilità della collaborazione con la giustizia per l’ottenimento del permesso premio;
che il rimettente osserva come l’indefettibile necessità della collaborazione si giustifichi con riguardo ai condannati per reati di matrice associativa, per i quali sarebbe «certamente indice di rescissione del legame con gli altri appartenenti al sodalizio», ma risulti contraria agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e secondo comma, Cost. in relazione ai condannati per reati non necessariamente rivelatori di legami con forme di criminalità organizzata, per i quali «il recupero sociale non deve passare attraverso una rescissione drastica di alcun vincolo»;
che da tale incedere argomentativo risulta evidente che le censure sono strettamente intrecciate con il tema dell’assolutezza della presunzione di perdurante pericolosità sociale del condannato, che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. riconnetteva alla mancata collaborazione con la giustizia;
che, tuttavia, il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente risulta profondamente modificato dalla sopravvenuta sentenza n. 253 del 2019, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. proprio per quel che attiene all’assolutezza di tale presunzione, così consentendo la concessione del permesso premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, a norma dell’art. 58-ter ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino degli stessi;
che, «secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, a fronte del sopraggiungere di pronunce di illegittimità costituzionale (ordinanza n. 26 del 2009) spetta al giudice rimettente valutare in concreto l’incidenza delle sopravvenute modifiche sia in ordine alla rilevanza, sia in riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate (ex plurimis, ordinanze n. 182 del 2019 e n. 154 del 2018)» (ordinanza n. 49 del 2020);
che tale verifica assume rilievo pregiudiziale rispetto all’esame dell’ulteriore vizio di legittimità costituzionale dedotto nell’ordinanza di rimessione e relativo alla mancata previsione di una disciplina transitoria volta a limitare l’applicabilità del disposto dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., modificato dall’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015, come convertito, ai fatti di reato successivi alla modifica stessa, posto che anche questa seconda censura muove dal presupposto che sarebbe costituzionalmente illegittima l’applicazione retroattiva della «presunzione assoluta di pericolosità […] inserita nell’art. 4-bis ord. pen.»;
che, pertanto, deve essere disposta la restituzione degli atti al rimettente per un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni, alla luce del mutato contesto normativo.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
ordina la restituzione degli atti al giudice rimettente.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 luglio 2020.
F.to:
Mario Rosario MORELLI, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA