SENTENZA N. 186
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, promossi dal Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile, con ordinanza del 1° agosto 2019, dal Tribunale ordinario di Ancona, prima sezione civile, con ordinanza del 29 luglio 2019 e dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione civile feriale, con due ordinanze del 9 agosto 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 145, 153, 158 e 159 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 39, 40 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione dei signori A. H. e A. S., delle associazioni ASGI-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e Avvocati per Niente Onlus, del Comune di Milano, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica e nella camera di consiglio dell’8 luglio 2020 la Giudice relatrice Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Valerio Onida per A. H., Alberto Guariso per A. H. e altri, Antonello Mandarano per il Comune di Milano, Paolo Cognini per A. S. e gli avvocati dello Stato Giuseppe Albenzio e Ilia Massarelli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 luglio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 1° agosto 2019, iscritta al n. 145 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 77, secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 2, paragrafo 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che riconosce taluni diritti e libertà diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo addizionale, nonché in relazione agli artt. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
1.1.– Il rimettente premette di essere stato investito di un ricorso ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), dell’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e dell’art. 702-bis del codice di procedura civile, promosso da A. H., richiedente asilo, nei confronti del Comune di Milano e del Ministero dell’interno, al fine di ottenere «la dichiarazione di invalidità e l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di Milano alla iscrizione del ricorrente nell’anagrafe della popolazione residente».
In particolare, il ricorrente ha chiesto di accertare il carattere discriminatorio del diniego all’iscrizione anagrafica per violazione del principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri ai sensi dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 15 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), nonché per violazione del «principio paritario, sotto il profilo della nazionalità» (ai sensi dell’art. 3 Cost., dell’art. 14 CEDU e dell’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998).
Inoltre, «[i]n via autonoma», il ricorrente ha chiesto di accertare l’illegittimità del rifiuto del Comune alla sua iscrizione all’anagrafe dei residenti e di ordinare al Ministero dell’interno, e per esso al Sindaco del Comune di Milano nella sua qualità di ufficiale del Governo per l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe, di procedere all’iscrizione. Infine, «[q]ualora necessario», il ricorrente ha domandato la previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, in riferimento a una pluralità di parametri costituzionali, anche in relazione a fonti sovranazionali.
Nelle more dell’instaurazione del contraddittorio nel giudizio a quo, hanno depositato un atto congiunto di intervento l’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e l’Associazione Avvocati per Niente Onlus, deducendo la natura collettiva della discriminazione e aderendo alla prospettazione del ricorrente quanto alla natura discriminatoria del diniego di iscrizione anagrafica. Nel giudizio a quo si sono anche costituiti i convenuti resistenti Ministero dell’interno e Comune di Milano.
1.2.– In merito all’interesse ad agire del ricorrente nel giudizio principale, il rimettente afferma come esso, previsto quale condizione dell’azione dall’art. 100 del codice di procedura civile, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione debba essere identificato in «una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, inteso in senso ampio, di un diritto che, senza l’intervento del giudice, resterebbe sfornito di tutela, con conseguente danno per l’attore». Pertanto, tale interesse deve avere carattere attuale «assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza».
Nell’odierno giudizio, il ricorrente vanterebbe «un effettivo interesse ad agire che scaturisce dall’impossibilità di vedersi iscritto all’anagrafe del Comune in cui ha stabilito la propria dimora abituale». In tal senso, l’intervento del giudice sarebbe necessario per rimediare alla lesione del diritto soggettivo di iscrizione anagrafica, cagionato dalla condotta dell’amministrazione. Nella prospettiva del rimettente, la tutela di questo diritto assicurerebbe al richiedente asilo «un’utilità ulteriore rispetto a quella derivante dall’accesso ai servizi e dall’esercizio dei diritti e delle facoltà rispetto alle quali l’iscrizione all’anagrafe è strumentale». Quest’ultima sarebbe, infatti, «direttamente collegata alla dignità personale e sociale dell’individuo, alla sua capacità di identificazione, appartenenza e, in senso più ampio, integrazione con la comunità locale, che a loro volta costituiscono passaggi indispensabili per la concretizzazione del progetto fondante la nostra Costituzione, ossia assicurare all’individuo – legalmente presente nel territorio italiano – una vita libera e degna».
Il giudice a quo aggiunge, al riguardo, che la mancata iscrizione comporterebbe anche «un immediato […] nocumento in capo al ricorrente laddove esclude a priori il computo del periodo trascorso come richiedente asilo […] ai fini dell’esercizio di tutti quei diritti che sono collegati alla durata della residenza» (tra cui quelli all’acquisizione della cittadinanza, all’accesso all’edilizia popolare e al cosiddetto reddito di cittadinanza).
Il rimettente passa poi ad argomentare la presenza, nel caso di specie, dei presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria, richiamando, al riguardo, l’art. 43, commi 1 e 2, lettera a), del d.lgs. n. 286 del 1998. Nell’odierna vicenda giudiziaria il diniego dell’ufficiale dello stato civile di iscrizione anagrafica sarebbe riconducibile a uno dei presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria, «sussistendo un trattamento ingiustificatamente differenziato in considerazione della nazionalità del richiedente l’iscrizione». L’azione antidiscriminatoria sarebbe dunque «il corretto contesto» in cui sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018; infatti, l’eventuale accoglimento della questione «non solo priverebbe di fondamento normativo l’azione dell’anagrafe comunale, ma costituirebbe dimostrazione inconfutabile del carattere discriminatorio dell’azione amministrativa».
Il carattere discriminatorio della condotta dell’ufficiale dello stato civile non sarebbe escluso dal fatto che la mancata iscrizione anagrafica è prevista solo per i richiedenti asilo e non per tutti gli stranieri, poiché «l’azione amministrativa […] colpi[rebbe] sistematicamente solo ed esclusivamente degli stranieri, proprio per il loro essere stranieri».
Quanto alla legittimazione passiva del Comune di Milano, il giudice a quo precisa che, a fronte della congiunta evocazione in giudizio del Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, e di questi, in qualità di ufficiale del Governo per l’esercizio delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe, il contraddittorio deve ritenersi correttamente instaurato con quest’ultimo, a cui sono riferibili gli atti compiuti in tale veste e quindi anche il diniego all’iscrizione all’anagrafe dei residenti.
Quanto alla legittimazione attiva delle associazioni, il rimettente distingue l’intervento spiegato in via principale come azione antidiscriminatoria collettiva ex art. 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica) – qualificato dalle parti alla stregua di un «intervento litisconsortile o adesivo autonomo», rispetto al quale varrebbe l’eccezione del Ministero dell’interno di assenza della giurisdizione del giudice ordinario – da quello svolto come «mero intervento adesivo dipendente a sostegno delle domande proposte dal [ricorrente]», che è reputato invece «pienamente ammissibile».
In merito al diritto vantato dal ricorrente, la qualificazione della pretesa all’iscrizione anagrafica come diritto soggettivo deriverebbe dalla definizione dell’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente alla stregua di uno «strumento giuridico-amministrativo di documentazione e conoscenza, predisposto tanto nell’interesse dell’amministrazione, quanto nell’interesse dei privati». Infatti, all’interesse pubblico alla conoscenza della popolazione residente si affiancherebbe «l’interesse individuale ad ottenere le certificazioni anagrafiche necessarie per l’esercizio dei diritti civili e politici e, in generale, per provare la residenza e lo stato di famiglia» (in tal senso è richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, 19 giugno 2000, n. 449).
Inoltre, l’iscrizione anagrafica non sarebbe solo un diritto per il soggetto che ha dimora abituale in un Comune italiano, ma costituirebbe un obbligo (ai sensi dell’art. 2 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, recante «Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente»), la cui violazione è punita con una sanzione amministrativa (art. 11 della legge n. 1228 del 1954). Siffatto ragionamento sarebbe estensibile anche agli stranieri, in virtù di quanto previsto dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Il regolamento di attuazione del testo unico sull’immigrazione (d.P.R. n. 394 del 1999) prevede, all’art. 15, comma 1, che le iscrizioni e le variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate nei casi e secondo i criteri previsti dalla legge n. 1228 del 1954 e dal regolamento anagrafico della popolazione residente.
A sua volta, dalla legge n. 1228 del 1954 si trarrebbe conferma dell’esistenza di un obbligo di iscrizione anagrafica in capo ai migranti, poiché l’art. 11, comma 2, della stessa dispone una specifica disciplina dell’ipotesi di violazione di questo obbligo, prevedendo una sanzione amministrativa più elevata rispetto a quella prevista per i cittadini italiani. L’obbligo di iscrizione anagrafica si dedurrebbe anche dal regolamento di attuazione della suddetta legge (d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, recante «Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente»), il quale richiede allo straniero che trasferisce la sua residenza in Italia di comprovare, oltre che l’abitualità della dimora nel Comune di interesse, la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di documento equipollente (art. 14, comma 1).
1.3.– Sulla rilevanza delle odierne questioni di legittimità costituzionale il rimettente sottolinea come sia l’amministrazione comunale sia il Ministero abbiano riconosciuto che la disposizione censurata (e le successive circolari del Ministero dell’interno) «non lasci[a] alcun margine di discrezionalità al Sindaco, in qualità di Ufficiale dell’anagrafe». Dunque, il diniego dell’iscrizione anagrafica discenderebbe dall’applicazione della norma censurata, come, tra l’altro, risulta dalla motivazione del provvedimento.
Al contempo, non vi sarebbero dubbi sulla riconducibilità del caso di specie alla fattispecie prevista dalla disposizione censurata. Inoltre, l’eventuale caducazione di quest’ultima, pur non comportando la reintroduzione della disciplina di favore prevista dall’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, consentirebbe ai richiedenti asilo di procedere all’iscrizione anagrafica alle stesse condizioni degli altri stranieri regolari e dei cittadini italiani.
1.4.– In merito alla possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il rimettente dà atto, in via preliminare, dell’orientamento assunto da alcuni giudici di merito, secondo i quali non sarebbe preclusa la possibilità di iscrizione anagrafica da parte dei richiedenti asilo, dovendosi ritenere che la regolarità del soggiorno al fine dell’iscrizione anagrafica possa essere provata attraverso altri documenti che attestino l’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione, quali il cosiddetto Modello C/3 o il documento con cui la questura attesta la formalizzazione dell’istanza di protezione internazionale. In altre parole, secondo questi giudici – rispetto ai quali l’odierno rimettente dissente – dalla norma censurata non potrebbe desumersi un divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo, ma soltanto l’abrogazione della modalità semplificata di iscrizione all’anagrafe prevista dall’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015.
Secondo il giudice a quo, siffatta interpretazione non è condivisibile per varie ragioni. Innanzitutto, non vi è dubbio che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo costituisce documento di riconoscimento e di attestazione della permanenza sul territorio nazionale del migrante a qualsiasi fine. In secondo luogo, a voler ritenere corretta l’interpretazione sopra riferita, la modifica operata dal d.l. n. 113 del 2018 risulterebbe priva di senso, poiché sarebbe stata sufficiente la mera abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015 per rendere applicabile la procedura ordinaria prevista dal combinato disposto del d.P.R. n. 223 del 1989 e dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Piuttosto, «la contrarietà dell’ordinamento all’iscrizione anagrafica» si desumerebbe da «un’interpretazione letterale, sistematica e teleologica, che tenga in considerazione la (chiara) “intenzione del legislatore”», quale desumibile anche dall’esame dei lavori preparatori della legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018. In questo senso si sarebbe mosso il Tribunale ordinario di Trento (ordinanze 11 e 15 giugno 2019), che però (a differenza dell’odierno rimettente) ha rigettato la domanda cautelare proposta da un richiedente asilo. Pur condividendo l’interpretazione operata dal Tribunale di Trento, il giudice a quo esclude di poter pervenire allo stesso esito, dal momento che la norma in esame risulta, ai suoi occhi, illegittimamente discriminatoria.
1.5.– In punto di non manifesta infondatezza, la norma censurata appare in contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 77, secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2, paragrafo 1, Prot. n. 4 CEDU, nonché in relazione agli artt. 14 CEDU e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
1.5.1.– Il rimettente illustra preliminarmente le ragioni dell’asserita violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. In particolare, nel caso di specie mancherebbe «una motivazione circa la necessità e urgenza di introdurre il divieto di iscrizione all’anagrafe» per i richiedenti asilo, né varrebbero in tal senso le ragioni addotte dal Governo, consistenti nell’esigenza di assicurare: l’effettività dei provvedimenti di rimpatrio di coloro che non hanno titolo a soggiornare nel territorio nazionale; un accurato esame delle (sempre più numerose) istanze di riconoscimento e di concessione della cittadinanza; la massima accuratezza dell’istruttoria avviata; adeguate politiche di prevenzione della minaccia terroristica. Al riguardo, il rimettente precisa che, se anche si ritenesse che queste esigenze siano tutelabili attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza, esse non rileverebbero nel caso di specie, stante la mancata incidenza della norma censurata sulla sicurezza nazionale, sull’efficacia dei provvedimenti di rimpatrio o sulla necessità di svolgere un’accurata istruttoria. Anzi, la corretta registrazione all’anagrafe di chi effettivamente e abitualmente dimora in un determinato Comune finirebbe con il facilitare l’azione dell’ente territoriale e degli organi di sicurezza.
Inoltre, la delicatezza delle «scelte di natura politica e giuridica», adottate con il d.l. n. 113 del 2018, «avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare», compresso sia dall’adozione di un decreto-legge sia dall’apposizione della questione di fiducia, in entrambe le Camere, in occasione della sua conversione in legge. Il decreto in esame difetterebbe, infine, del requisito dell’omogeneità del suo contenuto, risultando composto da disposizioni concernenti materie del tutto diverse tra loro.
1.5.2.– Quanto all’asserita violazione dell’art. 2 Cost., il rimettente ricorda come questa Corte, nella sua giurisprudenza, abbia «suggerito un carattere dinamico dell’inviolabilità, che muta al mutare della società, con un’apertura dei diritti inviolabili che non significa però una loro indeterminatezza, dovendo e potendo essere ricompresi nel loro novero solo quelli che siano riconducibili al cuore del progetto costituente, ossia quello di predisporre per ciascun consociato le condizioni per il conseguimento di una vita libera e degna». In questa prospettiva, «la dignità umana diventa tratto comune o, meglio, punto di arrivo di questi diritti inviolabili».
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, «la centralità della persona» come nota caratterizzante l’art. 2 Cost., il quale «non fa riferimento all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano». A sua volta, «[c]he la dignità umana e, quindi, i diritti necessari alla sua garanzia non spettino solo ai cittadini trova inconfutabile conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale contenuti nel successivo art. 3 Cost.» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 62 del 1994, n. 490 del 1988, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n. 104 del 1969, n. 11 del 1968 e n. 120 del 1967). Ciò nondimeno, è lo stesso rimettente a ricordare – richiamando un’altra decisione di questa Corte – come «tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti» (sentenza n. 104 del 1969). Da quanto appena detto deriverebbe «l’esigenza di distinguere tra titolarità – estesa a tutti – e godimento – differentemente modulabile – di un diritto inviolabile».
Di conseguenza, vi sarebbe un «nucleo irriducibile» dei diritti inviolabili, che deve essere riconosciuto a tutti, mentre «[l]’accesso e il godimento di quella porzione di diritto inviolabile che eccede questo “nucleo” […] ricadono nel margine di discrezionalità spettante al legislatore». In questo caso, la differenza di trattamento tra cittadino e straniero non deve sconfinare nell’irragionevolezza.
Alla luce di questa ricostruzione, il rimettente sostiene che «il diritto all’iscrizione anagrafica ricada tra i diritti che hanno come punto di approdo ultimo quella della dignità umana, nella sua dimensione individuale e sociale», diventando «presupposto dell’identificazione di se stessi anche e soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità locale presso cui si decide di fissare la propria stabile dimora». A questi fini, la maturazione del senso di appartenenza sarebbe prodromica rispetto all’inserimento dell’individuo nella società, al cui interno potrà svolgersi la sua personalità (come sancito dall’art. 2 Cost.). Nella prospettiva da ultimo indicata l’iscrizione anagrafica costituirebbe «un passo essenziale di quel processo di integrazione a cui sono chiamati tanto lo straniero quanto la società presso cui egli si stabilisce».
Infine, il Tribunale rimettente sottolinea il valore simbolico della norma censurata, poiché il diniego dell’iscrizione anagrafica equivarrebbe a «lasciare l’individuo al margine della collettività stessa, confinandolo in un “non luogo” giuridico e sociale», che costituisce un limite alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che appare incompatibile con la sua partecipazione alla vita economica, sociale e culturale del Paese in cui vive. Al riguardo, il giudice a quo ricorda come l’iscrizione anagrafica sia condizione per il rilascio della carta d’identità, che – sempre secondo il rimettente – è «un documento che, anche su un piano meramente evocativo, esprime una maggiore identificazione con la comunità in cui ci si inserisce rispetto al solo permesso di soggiorno che, invece, comunica sempre e comunque una sensazione di estraneità».
Muovendo da questa prospettiva, diventerebbe «irrilevante» il fatto che l’accesso ai servizi sociali sia comunque garantito in base al domicilio, poiché il divieto di iscrizione anagrafica lederebbe «un diritto autonomo e presupposto rispetto a questi ulteriori diritti sociali».
1.5.3.– Quanto alla lamentata violazione dell’art. 3 Cost., il Tribunale di Milano muove dal dato testuale dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 che prevede, come regola generale, quella dell’iscrivibilità degli stranieri legalmente soggiornanti in Italia all’anagrafe della popolazione residente. La norma censurata costituirebbe, pertanto, una deroga a questa disciplina generale, priva però dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza che costituiscono i parametri tradizionalmente adottati dalla Corte per svolgere il giudizio costituzionale di eguaglianza».
La valutazione della razionalità della norma censurata, che comporta una verifica della coerenza tra la stessa e le altre disposizioni vigenti nella stessa materia, produrrebbe, secondo il rimettente, esiti negativi. In tal senso militerebbe la sua incoerenza rispetto alle finalità perseguite dal legislatore con il d.l. n. 113 del 2018; infatti, il diniego di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo limiterebbe le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica su una categoria di stranieri. Peraltro, la natura obbligatoria dell’iscrizione anagrafica, sopra argomentata, sarebbe finalizzata ad «assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti sul territorio italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica», obiettivi, questi, che sarebbero vanificati dalla norma in esame. Un ulteriore sintomo dell’irrazionalità della disposizione censurata si coglierebbe in relazione alle finalità perseguite dal d.lgs. n. 142 del 2015, che ha attuato la direttiva (UE) 2013/33 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Quest’ultima avrebbe, infatti, come obiettivo quello di migliorare l’accoglienza e di garantire un livello di vita dignitoso, che non sarebbe compatibile con la previsione di «un non necessario ostacolo all’integrazione e al libero sviluppo individuale dello straniero qual è la negazione del diritto d’iscrizione anagrafica».
Anche il controllo sulla ragionevolezza della norma censurata dimostrerebbe l’assenza di una giustificazione del trattamento differenziato tra richiedenti asilo e cittadini italiani, nonché tra i primi e gli altri stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale. In particolare, sarebbe di «difficile (se non impossibile)» comprensione l’interesse perseguito dal legislatore e non sarebbe ragionevole giustificare il diniego di iscrizione anagrafica facendo leva sulla provvisorietà del permesso di soggiorno, in quanto ad essere provvisorio sarebbe solo lo status di richiedente asilo, «destinato a tramutarsi – nell’ipotesi fisiologica – in [quello] di titolare di protezione internazionale». Peraltro, il permesso di soggiorno per richiedenti asilo ha scadenza semestrale, rinnovabile fino alla decisione sulla domanda, e occorre tenere conto non solo dei tempi del procedimento amministrativo, ma anche di quelli dell’eventuale impugnazione del diniego. Di conseguenza, non potrebbero escludersi periodi molto lunghi di soggiorno, «fino a tre o quattro anni».
L’irragionevolezza della previsione censurata sarebbe confermata anche dalla comparazione con quanto disposto dal decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), il cui art. 9 prevede che un cittadino europeo, che intenda soggiornare per più di tre mesi sul territorio italiano, deve richiedere l’iscrizione anagrafica. Risulterebbe, dunque, incomprensibile la ragione per la quale il «periodo superiore a tre mesi» costituisca «una finestra temporale sufficiente per escludere la precarietà della presenza dello straniero sul territorio italiano, facendo sorgere il diritto/dovere di iscrizione anagrafica» per il cittadino di Stato membro dell’Unione europea, mentre il periodo di sei mesi, «de plano incrementabili fino oltre due anni», non lo sia.
Il divieto di iscrizione anagrafica mostrerebbe, poi, «tutta la sua irragionevolezza» in quanto costituente un ostacolo al processo di integrazione dei soli richiedenti asilo. A tal fine il rimettente richiama l’art. 4-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, rubricato «Accordo di integrazione», e il decreto del Ministero dell’interno 23 aprile 2007 (Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione).
Ed ancora, l’impossibilità di procedere all’iscrizione anagrafica impedirebbe o renderebbe più difficoltoso l’esercizio di alcuni diritti sociali del richiedente asilo (come il cosiddetto reddito di cittadinanza, l’accesso all’edilizia popolare o il cosiddetto bonus bebè), rispetto ai cittadini italiani e ad altre categorie di stranieri. Da questo punto di vista, l’assicurazione dell’accesso ai servizi nel luogo di domicilio non escluderebbe la creazione di una situazione deteriore. A tal fine, il rimettente sottolinea come il domicilio dei richiedenti asilo costituisca una «situazione oggettivamente più vaga e incerta» rispetto alla residenza, ben potendosi configurare tre ipotesi di domicilio: quello indicato nella domanda di protezione internazionale, quello indicato nella successiva comunicazione alla questura e quello indicato nella dichiarazione del centro di accoglienza. Senza considerare che l’accesso ai servizi pubblici in base al domicilio non potrebbe «prevenire tutti gli ostacoli che emergono nell’ambito delle relazioni sociali», come, ad esempio, nei rapporti tra privati, «refrattari a superare la rilevanza, ai fini dell’identificazione delle parti, dell’iscrizione anagrafica».
Da ultimo, il rimettente – riprendendo un’argomentazione del ricorrente nel giudizio a quo – mette in evidenza come lo straniero titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo sia «esposto all’onere di esibire copia della domanda di protezione internazionale o copia della successiva dichiarazione fatta presso la Questura». In sostanza, per accedere ai servizi sociali non potrebbe esibire la carta d’identità, essendone privo, ma la documentazione suddetta, con conseguente violazione dell’«obbligo di riservatezza delle informazioni concernenti le domande di protezione internazionale», previsto dall’art. 37 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato).
1.5.4.– Il Tribunale di Milano ritiene che la violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. sussista anche nell’ipotesi in cui si ritenga ammissibile una lettura della disposizione censurata che consenta l’iscrizione anagrafica. Questa interpretazione, infatti, costringendo il richiedente asilo a produrre una «documentazione differente dal permesso di soggiorno per provare la propria identità e il proprio soggiorno legale sul suolo italiano», «ingenererebbe un trattamento irrazionalmente e irragionevolmente deteriore per una categoria di stranieri rispetto alle altre, senza alcuna giustificazione».
In particolare, sarebbe evidente l’irrazionalità legislativa di una norma, quale quella che introduce la norma censurata, che, da una parte, qualifica espressamente il permesso di soggiorno come documento di riconoscimento (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1, del d.l. n. 113 del 2018) e, dall’altra, nega che questo possa servire per l’identificazione dello straniero nella procedura di iscrizione anagrafica (art. 13, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018). A ciò si aggiunga che, in tal caso, il richiedente asilo dovrebbe provare la propria identità mediante l’esibizione del passaporto o di altro documento equipollente (ai sensi dell’art. 4 del d.P.R. n. 223 del 1989); ma «lo status di richiedente protezione internazionale […] presuppone una condizione di persecuzione, guerra o, generalmente, pericolo nel paese di provenienza che ben potrebbe precludere i contatti del cittadino straniero con le autorità pubbliche e, quindi, l’ottenimento del passaporto e di altra documentazione di identità». Risiederebbe proprio in questa considerazione la ragionevolezza dell’originaria previsione normativa che consentiva ai richiedenti asilo di provare la propria identità con la produzione del permesso di soggiorno, rilasciato dopo essere stati identificati dalle autorità italiane competenti.
La norma censurata, quindi, avrebbe abrogato una normativa di favore (art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015) sostituendola con una previsione che crea incertezze, non essendo indicato il documento oggi necessario per provate la propria identità e il soggiorno legale. Né sarebbe ragionevole ritenere che la documentazione da produrre sia la copia della domanda di protezione internazionale presentata dallo straniero alla questura o del cosiddetto Modello C/3, essendo, questi, «atti endoprocedimentali, prodromici al rilascio del permesso di soggiorno per richiesta di asilo».
L’incertezza lamentata sarebbe «ancor più difficilmente giustificabile» nel caso di specie, trattandosi di soggetti «in posizione di particolare fragilità», nei cui confronti sarebbe auspicabile «una scelta di semplificazione degli adempimenti burocratici […] piuttosto che una complicazione della loro posizione».
1.5.5.– La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 10 Cost., dando vita «a un trattamento diversificato soltanto nei confronti di una categoria di stranieri regolarmente soggiornanti, ossia proprio quelli che hanno esercitato il diritto di asilo ex art. 10, comma 3, Cost.». Questi ultimi sarebbero titolari di un diritto soggettivo perfetto al soggiorno, essendo legittimati all’ingresso e alla permanenza nel territorio dello Stato in attesa che venga definita la loro domanda di protezione internazionale. Peraltro – aggiunge il rimettente, richiamando una pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione – il diritto di asilo sarebbe immediatamente azionabile anche in mancanza di leggi ordinarie che fissino le condizioni per il suo esercizio.
1.5.6.– Infine, la norma in esame è censurata per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, all’art. 14 CEDU e all’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
L’art. 2 Prot. n. 4 CEDU sarebbe violato perché l’iscrizione all’anagrafe costituirebbe «l’essenza stessa del fissare la residenza in un comune dello Stato» e pertanto il diniego dell’iscrizione implicherebbe una lesione del diritto a scegliere liberamente la propria residenza (sancito dal citato art. 2). Né potrebbe dubitarsi che il termine «residenza» utilizzato nell’art. 2, paragrafo 1, Prot. n. 4 CEDU corrisponda al concetto tecnico di residenza di cui all’art. 43 del codice civile; militerebbero in tal senso l’utilizzo del diverso termine «domicilio» nell’art. 8 CEDU e la versione in lingua inglese del testo della CEDU, che utilizza il termine «residence», differenziandolo da quello di «home», impiegato nell’art. 8 CEDU. Inoltre, la norma censurata non sarebbe rispettosa della riserva di legge rinforzata prevista nell’art. 2, paragrafi 3 e 4, Prot. n. 4 CEDU.
E ancora, il diniego del diritto di stabilire liberamente la residenza sarebbe dettato da ragioni discriminatorie, da cui la violazione dell’art. 14 CEDU e dell’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, rispetto alla quale il rimettente rinvia agli argomenti già svolti in relazione all’asserita violazione dell’art. 3 Cost.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione sollevata ai sensi dell’art. 77 Cost. in quanto «già decisa dalla Corte nel senso dell’infondatezza» con la sentenza n. 194 del 2019. Nel merito, la questione sarebbe infondata: da un lato, il d.l. n. 113 del 2018 si fonderebbe sulla necessità di un «intervento immediato» di modifica della normativa vigente in tema di immigrazione, al fine di tutelare la sicurezza nazionale, ragion per cui in relazione sia all’intero Titolo I del decreto sia al censurato art. 13 non sarebbe riscontrabile l’evidente mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza; dall’altro lato, le norme del decreto, pur riguardando materie diverse, avrebbero una complessiva uniformità teleologica, presentando «una sostanziale omogeneità di scopo», che sarebbe quello «di affrontare temi delicatissimi per la sicurezza nazionale».
L’Avvocatura osserva poi che la norma sarebbe stata sollecitata dai comuni, al fine di «sterilizzare alcuni problemi connessi al dilagare del fenomeno migratorio, come il sovraccarico di iscrizioni anagrafiche di richiedenti asilo presso Comuni di piccole dimensioni, sul cui territorio si trovano centri di accoglienza, con i conseguenti onerosi adempimenti anche in termini di cancellazioni e di ripetuti accertamenti in caso di irreperibilità». Inoltre, si sarebbe voluta eliminare la prassi del rilascio di carte d’identità con validità decennale a stranieri la cui posizione giuridica non è ancora definita.
Ancora, l’Avvocatura rileva che l’omogeneità dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, rispetto ai temi della protezione internazionale e dei flussi migratori, emergerebbe anche dalla citata sentenza n. 194 del 2019, secondo la quale l’art. 13 regolerebbe lo status del richiedente protezione internazionale. Questo articolo sarebbe, dunque, coerente con l’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
In relazione all’art. 2 Cost., l’Avvocatura osserva che l’integrazione sociale del richiedente asilo sarebbe legata all’esito della domanda di protezione più che alla mera iscrizione nei registri anagrafici, e che la norma censurata sarebbe in sintonia con i concetti generali di domicilio e residenza. L’esclusione dell’iscrizione sarebbe dovuta alla precarietà del permesso per richiesta asilo e alla necessità di attendere la definizione della posizione giuridica dei richiedenti.
Ancora, il giudice a quo avrebbe eccessivamente dilatato l’art. 2 Cost., che non potrebbe ricomprendere quelle prestazioni (come il reddito di cittadinanza e la carta d’identità) che presuppongono la residenza anagrafica: invece, i diritti fondamentali di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998 (come il diritto alla salute e quello all’istruzione dei minori) non dipenderebbero direttamente dall’iscrizione anagrafica.
L’Avvocatura evidenzia poi che, sempre in base al censurato art. 13, da un lato, il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce documento di riconoscimento, con conseguente garanzia del diritto all’identità personale dei richiedenti asilo; dall’altro lato, «[l]’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio […]». In particolare, il richiedente asilo potrebbe accedere al servizio sanitario, al lavoro, alla scuola per i figli, alle misure di accoglienza, godrebbe di autonomia contrattuale, potrebbe aprire un conto corrente e si vedrebbe attribuito il codice fiscale.
Secondo l’Avvocatura, la norma censurata non violerebbe l’art. 3 Cost. in quanto si fonderebbe proprio sul diverso status dei richiedenti asilo rispetto agli italiani e agli altri stranieri regolarmente soggiornanti, poiché le condizioni della residenza non potrebbero prescindere dal preventivo accertamento del diritto alla protezione.
Infine, la norma de qua non violerebbe gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost. in quanto, da un lato, l’iscrizione anagrafica non apparterrebbe ai diritti fondamentali di cui alla CEDU e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, dall’altro la direttiva 2013/33/UE e la Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 non imporrebbero modalità di registrazione dei richiedenti asilo diverse dal rilascio di un permesso di soggiorno.
3.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito il Comune di Milano, parte del giudizio a quo, chiedendo che le questioni sollevate siano ritenute ammissibili e fondate, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 114, 117 e 118 Cost., e svolgendo argomentazioni in gran parte coincidenti con quelle del Tribunale rimettente. Fanno eccezione le censure prospettate in riferimento agli artt. 114 e 118 Cost. – parametri, questi, non indicati dal giudice a quo –, rispetto ai quali il Comune ritiene che la mancata registrazione anagrafica della residenza e la conseguente «invisibilità» dei richiedenti asilo impediscano l’esercizio delle funzioni amministrative comunali relative ai servizi alla persona e alla comunità, all’assetto e all’utilizzazione del territorio e allo sviluppo economico.
4.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito A. H., cittadino siriano, titolare del permesso di soggiorno per richiesta di asilo, ricorrente nel giudizio principale per la dichiarazione di invalidità del provvedimento che gli ha negato l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente nel Comune di Milano. A. H. chiede che questa Corte accolga le questioni sollevate dal Tribunale di Milano.
La parte costituita premette di aderire pienamente alle censure prospettate dal giudice a quo e si limita a svolgere alcune riflessioni a sostegno delle ragioni addotte dal rimettente e a proporre considerazioni più generali sul significato e sul contesto in cui si inscrive la disposizione denunciata.
Quanto alla censura formulata rispetto all’art. 77 Cost., rileva l’estrema difficoltà di individuare «la situazione straordinaria di necessità e urgenza» cui si è inteso far fronte, sottolineando come il d.l. n. 113 del 2018 intervenga «funditus su una serie numerosa di rapporti e di questioni diverse». Peraltro, aggiunge, «[g]ià nella sua formulazione originaria il decreto aveva un contenuto plurimo e non omogeneo»; situazione, questa, ulteriormente amplificata in sede di conversione in legge. In questo come in altri casi, la scelta dello strumento del decreto-legge sarebbe stata dettata «non già dall’urgenza del provvedere, ma dalla evidente volontà di impedire che sul provvedimento si svolgessero un normale compiuto esame e una normale discussione parlamentare, attraverso la drastica amputazione del dibattito ottenuta con la “tecnica” del maxiemendamento governativo sul quale lo stesso Governo ha posto la questione di fiducia, sia al Senato (voto del 7 novembre 2018), sia alla Camera (voto del 28 novembre 2018)».
Sulla base delle anzidette considerazioni la parte costituita ritiene che, nel caso di specie, sia innegabile l’«evidente mancanza» dei «casi straordinari di necessità e d’urgenza» del decreto-legge e la disomogeneità della norma censurata rispetto alla restante disciplina contenuta nel decreto. Sarebbe significativa, al riguardo, l’assenza nelle premesse dell’atto censurato di «qualsiasi motivato riferimento a situazioni di urgente necessità». Inoltre, quand’anche si volesse ricondurre la norma censurata «al comune denominatore della “sicurezza”», la previsione del diniego di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo non sarebbe «in nessun modo giustificata né giustificabile in nome di esigenze di sicurezza pubblica». Al contrario, i richiedenti asilo senza residenza anagrafica e senza carta d’identità sarebbero «meno conoscibili, meno suscettibili di essere “seguiti”, identificati, se necessario controllati». Né la mancata iscrizione potrebbe spiegarsi in ragione del carattere temporaneo e precario del soggiorno dei richiedenti asilo; sarebbe, infatti, inspiegabile la previsione di una discriminazione nei confronti di questi soggetti e non invece di altri, per i quali l’iscrizione anagrafica è «un diritto elementare, oltre che un obbligo, connesso alla dimora abituale sul territorio nazionale».
Piuttosto, la ratio di questa misura dovrebbe essere individuata «nel suo valore di “messaggio” implicito: lo Stato italiano dice che “non gradisce” i richiedenti asilo»; considerazione, questa, che induce a ravvisare nella norma censurata «un grado di “irragionevolezza” che non solo smentisce la sua “necessità e urgenza”, ma ne vizia palesemente il contenuto, sotto il profilo del contrasto con i principi costituzionali».
La difesa della parte costituita richiama, altresì, le sentenze n. 194 e n. 195 del 2019, con le quali questa Corte ha deciso i ricorsi promossi da alcune Regioni nei confronti di varie norme contenute nel d.l. n. 113 del 2018, sottolineando come molte delle questioni promosse non siano state esaminate nel merito in quanto dichiarate inammissibili per difetto di ridondanza sulle competenze regionali.
Passando alle questioni sollevate dal Tribunale di Milano in riferimento all’art. 2 Cost., la difesa di A. H. ritiene che la norma censurata incida «pesantemente» su un diritto della persona, garantito dall’art. 2 Cost., come si evince dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, 19 giugno 2000, n. 449, nella quale si afferma che «tutta l’attività dell’ufficiale d’anagrafe è disciplinata dalle norme sopra richiamate in modo vincolato, senza che trovi spazio alcun momento di discrezionalità» e che le norme in materia di anagrafe «non attribuiscono all’amministrazione alcun potere idoneo a degradare i diritti soggettivi attribuiti ai singoli individui».
L’iscrizione anagrafica costituirebbe, dunque, «un diritto soggettivo strumentale a certificare e a dimostrare la residenza della persona, sancendone la presenza stabile in un Comune; a sua volta l’iscrizione è necessaria per l’esercizio dei diritti propri dei “residenti”. Essa consegue e deve conseguire al semplice accertamento dei presupposti di fatto, cioè della dimora abituale». Prim’ancora che un diritto, l’iscrizione all’anagrafe costituirebbe altresì un obbligo per tutte le persone, famiglie o convivenze che abbiano fissato nel territorio del Comune la propria «dimora abituale» (ai sensi dell’art. 43, secondo comma, del codice civile), oltre che essere un obbligo per gli uffici del relativo Comune. Una speciale esenzione dall’obbligo dell’iscrizione anagrafica è prevista solo per «il personale diplomatico e consolare straniero» e per «il personale straniero da esso dipendente» (art. 2, sesto comma, della legge n. 1228 del 1954).
Da quanto detto la parte costituita deduce che l’iscrizione all’anagrafe non è una semplice facoltà attribuita dalla legge alle persone, ma è la conseguenza obbligatoria dell’aver stabilito la propria dimora abituale nel territorio del Comune. Siffatta previsione perseguirebbe, tra l’altro, lo scopo di rendere le persone, legalmente dimoranti nel territorio, note ai pubblici poteri e reperibili nel luogo in cui hanno fissato la loro dimora. In tal senso sarebbe significativo che anche le persone senza fissa dimora devono essere registrate nell’anagrafe della popolazione residente e hanno una residenza nel Comune dove hanno stabilito il proprio domicilio o in quello di nascita. Sono poi richiamate le norme sull’iscrizione anagrafica degli stranieri (art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 e art. 15 del d.P.R. n. 394 del 1999), dalle quali sarebbe ulteriormente desumibile la natura di diritto fondamentale dell’iscrizione anagrafica.
La difesa della parte costituita dichiara, poi, di condividere l’assunto del Tribunale rimettente secondo cui non sarebbe praticabile l’interpretazione della disposizione censurata (operata da alcuni giudici di merito) che non precluda l’iscrizione anagrafica. A suo dire si tratterebbe di una «interpretatio abrogans» che toglierebbe ogni effetto pratico alla disposizione in esame e che contraddirebbe apertamente il contenuto della relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018.
In ogni caso – aggiunge la difesa di A. H. – qualora siffatta interpretazione «correttiva» fosse accolta da questa Corte con una pronuncia di non fondatezza «nei sensi di cui in motivazione», «essa acquisterebbe tutt’altra autorità».
La parte costituita argomenta, poi, la fondatezza delle censure formulate dal rimettente per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, svolgendo argomentazioni in gran parte coincidenti con quelle del Tribunale di Milano. In particolare, sottolinea il carattere discriminatorio del trattamento previsto dalla norma censurata, anche rispetto agli stranieri in possesso di altri tipi di permessi di soggiorno, tale da tradursi «in una pura e semplice “deminutio capitis” dello straniero richiedente asilo, priva di alcuno scopo socialmente e giuridicamente apprezzabile».
La difesa di A. H. esclude, inoltre, che il diniego di iscrizione anagrafica possa essere giustificato in ragione della precarietà e della temporaneità del permesso di soggiorno per richiesta di asilo, in quanto né l’una né l’altra di queste caratteristiche è impeditiva della fissazione di una dimora abituale nel territorio italiano.
Quanto, poi, al venir meno per i richiedenti asilo dei diritti a prestazioni legate alla residenza, la parte costituita precisa che il diritto ad avere la residenza nel luogo di dimora abituale spetta di per sé, indipendentemente dai servizi territoriali cui lo straniero può essere ammesso.
La difesa della parte argomenta anche sull’asserito contrasto con l’art. 10 Cost., che discenderebbe dall’impossibilità per lo Stato di impedire al richiedente asilo di soggiornare legalmente nel territorio dello Stato e di essere titolare di tutti i diritti fondamentali che discendono dal soggiorno regolare.
Infine, la parte costituita ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 16 Cost., con l’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e con l’art. 12, paragrafo 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, nella parte in cui queste disposizioni riconoscono il diritto di chi si trovi regolarmente nel territorio di uno Stato di fissarvi la residenza, attestata dall’iscrizione anagrafica. Quella censurata sarebbe, in definitiva, «una limitazione “per motivi politici”» (intesi come «“non gradimento” politico dei richiedenti asilo») espressamente vietata dall’art. 16 Cost.
Peraltro, eventuali limitazioni del diritto alla residenza dovrebbero essere stabilite nel rispetto del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e di quello di non discriminazione di cui agli artt. 14 CEDU e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. A tal fine, la difesa della parte richiama il contenuto della direttiva 2013/33/UE, sottolineando come da questa normativa si deduca che le uniche limitazioni possibili devono concernere singole persone, per ragioni individualmente indicate, e riguardano l’ambito territoriale in cui lo straniero può liberamente circolare, senza quindi che sia negato il diritto di fissare la dimora abituale.
5.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si sono costituite, con un unico atto, l’ASGI e l’Associazione Avvocati per Niente Onlus, intervenute già nel procedimento principale in senso adesivo rispetto alle domande proposte dal ricorrente, chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate dal Tribunale di Milano e svolgendo argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle del rimettente e di A. H., con l’unica eccezione dell’asserita violazione (da parte della norma censurata) dell’art. 8 CEDU e degli artt. 1, 7, 18, 20 e 29 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
5.1.– A. H., l’ASGI e l’Associazione Avvocati per Niente Onlus hanno depositato memorie integrative, contestando le affermazioni contenute nell’atto di intervento e nella memoria del Presidente del Consiglio dei ministri e insistendo nelle conclusioni già rassegnate nei rispettivi atti di intervento.
6.– Con ordinanza del 29 luglio 2019, iscritta al n. 153 del registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Ancona, prima sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, che inserisce il comma 1-bis all’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015, per violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e all’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Il Tribunale è stato adito da un cittadino straniero, A. S., che ha convenuto il Comune di Ancona con un’azione cautelare ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., chiedendo al giudice di ordinare al Sindaco l’immediata iscrizione del ricorrente nel registro anagrafico della popolazione residente.
Il rimettente riferisce che lo straniero è regolarmente soggiornante in Italia dal 20 giugno 2017, in virtù di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo, e vive stabilmente nel Comune di Ancona dal 17 novembre 2018, nel centro di accoglienza per richiedenti asilo. Nel marzo 2019 ha chiesto l’iscrizione anagrafica al Comune di Ancona, ma l’ufficiale di stato civile l’ha negata in applicazione della norma censurata. Il ricorrente ritiene il rifiuto illegittimo e comunque il divieto di iscrizione incostituzionale.
Nel giudizio a quo anche il Comune di Ancona ha eccepito, fra l’altro, l’illegittimità costituzionale del citato art. 13, comma 1, lettera a), numero 2).
Il Tribunale ha, in primo luogo, argomentato sulla legittimazione passiva del Comune di Ancona, contestata dal Comune stesso in quanto l’anagrafe sarebbe un servizio di competenza statale. Secondo il rimettente, il sindaco risponderebbe «in proprio degli atti emessi anche nell’esercizio di poteri statali».
Il giudice a quo si sofferma poi sul significato della disposizione censurata, osservando che, in base ad essa, «il permesso di soggiorno per richiedenti asilo non attesta la regolarità del soggiorno ai fini dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente». Il rimettente richiama la relazione illustrativa del d.l. n. 113 del 2018, che giustifica l’esclusione dall’iscrizione anagrafica «per la precarietà del permesso per richiesta asilo» e per la «necessità di definire in via preventiva la condizione giuridica del richiedente».
Il Tribunale esamina l’interpretazione adeguatrice operata da altri tribunali, ma ritiene che non possa essere condivisa, perché si tradurrebbe in una «interpretazione abrogante».
Il rimettente accerta poi l’esistenza di un periculum in mora, in quanto il divieto di iscrizione anagrafica impedirebbe medio tempore l’esercizio di diritti non ristorabili per equivalente all’esito di un eventuale giudizio di merito che stabilisse l’illegittimità del diniego. In particolare, il giudice a quo fa riferimento all’impossibilità per il ricorrente di accettare un’offerta lavorativa (che presuppone l’apertura di una partita Iva e il conseguimento della patente di guida, che a loro volta richiedono l’iscrizione anagrafica), all’impossibilità di stipulare contratti di lavoro occasionale e alla mancata decorrenza del termine di dieci anni per l’ottenimento della cittadinanza italiana.
Quanto alla rilevanza della questione di costituzionalità, il giudice a quo mette in evidenza che il rifiuto di iscrizione anagrafica si fonda sulla norma censurata e richiama la giurisprudenza amministrativa e costituzionale secondo la quale la questione di costituzionalità sollevata nella fase cautelare è ammissibile quando la misura cautelare è stata concessa in via provvisoria, prevedendosi la ripresa del giudizio cautelare dopo la decisione della Corte costituzionale: ciò varrebbe sia per la tutela cautelare sospensiva sia per quella anticipatoria richiesta nel caso di specie.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente lamenta la violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost.
Secondo il giudice a quo, la residenza sarebbe «una situazione di fatto» che esiste a prescindere dall’iscrizione anagrafica. Questa avrebbe valore di pubblicità e permetterebbe di fornire la prova della residenza ai fini dell’esercizio di diversi diritti.
La precarietà del soggiorno del richiedente asilo non sarebbe una giustificazione sufficiente della norma in questione, perché il soggiorno del richiedente asilo non è di breve durata. L’accertamento dei presupposti della protezione internazionale richiederebbe un tempo (sempre più di un anno) di gran lunga superiore a quello necessario per definire la dimora come abituale.
Quanto all’art. 2 Cost., secondo il rimettente l’impossibilità per lo straniero richiedente asilo di ottenere la certificazione anagrafica in ordine alla sua dimora abituale comporterebbe «una condizione di minorazione generale della sua persona la quale si vede impossibilitata a dare prova di una condizione di fatto esistente (la dimora abituale)». Tale limite si tradurrebbe «in una preclusione all’accesso a tutti quei diritti, facoltà e servizi che elevano tale prova a requisito costitutivo, interponendo quindi seri ostacoli allo sviluppo della persona come singolo e nelle formazioni sociali».
L’art. 3 Cost. sarebbe violato sia sotto il profilo della ragionevolezza sia sotto quello dell’uguaglianza.
Quanto al primo aspetto, la norma censurata, al solo fine di impedire l’iscrizione anagrafica, avrebbe privato il permesso di soggiorno «della sua ontologica natura ovvero della sua capacità di provare la legittima permanenza sul territorio nazionale». Tale differenziazione non potrebbe giustificarsi con la «precarietà della condizione giuridica dello straniero», in quanto tale precarietà non corrisponderebbe ad un soggiorno di breve durata.
Inoltre, la soluzione adottata dal legislatore sarebbe «sproporzionata rispetto al fine: il legislatore avrebbe dovuto selezionare i diritti ed i servizi rispetto ai quali si legittima una preclusione all’accesso da parte del richiedente asilo e non anche precludere indiscriminatamente ogni facoltà – in ambito pubblico e privato – che si riconnette al possesso della residenza anagrafica, etichettando il soggiorno del richiedente asilo come “soggiorno irregolare” solo a taluni fini». Il carattere sproporzionato della norma sarebbe confermato da una contraddizione in cui sarebbe caduto lo stesso legislatore: da un lato, infatti, il legislatore avrebbe previsto che il permesso di soggiorno per richiesta asilo consente di svolgere un’attività lavorativa (art. 22 del d.lgs. n. 142 del 2015), dall’altro, precludendo l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, avrebbe impedito al titolare di tale permesso di soggiorno «di interloquire con l’ente deputato alla gestione ed alla ricerca di occasioni lavorative».
Quanto al secondo aspetto, la norma censurata discriminerebbe in modo non giustificato il richiedente asilo, pur abitualmente dimorante, rispetto al cittadino italiano e soprattutto rispetto allo straniero regolarmente soggiornante con altro titolo.
Infine, la norma in questione violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, nonché all’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
7.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate e riprendendo le considerazioni già svolte nel giudizio promosso dal Tribunale di Milano.
8.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito A. S., ricorrente nel giudizio a quo.
La parte argomenta, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., rilevando che, in presenza di certe condizioni, la persona ha un diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica e che la preclusione di tale iscrizione produce diverse conseguenze sulla vita del singolo, ponendolo in una «condizione di marginalizzazione» e ostacolando il suo processo di integrazione. La transitorietà della condizione giuridica del richiedente asilo non dovrebbe essere confusa con una condizione di «instabilità residenziale». Il divieto generalizzato di iscrizione anagrafica violerebbe dunque l’art. 2 Cost.
Inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e all’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Ancora, la norma censurata violerebbe i principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. La situazione del richiedente asilo sarebbe assimilabile a quella degli altri stranieri titolari di un diverso permesso di soggiorno. La norma censurata porrebbe un divieto generalizzato di iscrizione anagrafica che «prescinde totalmente dall’effettiva durata della permanenza in Italia del richiedente», mentre altri permessi di soggiorno, pur avendo una durata limitata, consentono l’iscrizione anagrafica. Inoltre, la norma de qua sarebbe incongrua e contraddittoria rispetto «alla complessiva disciplina della residenza anagrafica e della protezione internazionale»: il divieto di iscrizione anagrafica avrebbe una finalità dissuasiva dell’accesso alla procedura di protezione e verrebbe posto inoltre con una norma giuridicamente incomprensibile, perché l’iscrizione anagrafica non consegue all’esibizione di un “titolo” ma alla sussistenza di determinate condizioni.
9.– Con due ordinanze del 9 agosto 2019, iscritte ai numeri 158 e 159 del registro ordinanze del 2019, il Tribunale ordinario di Salerno, sezione civile feriale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, per violazione degli artt. 2, 3 e 16 Cost.
Il Tribunale è stato adito da due cittadini stranieri che hanno convenuto il Comune di Capaccio Paestum con azioni cautelari ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., chiedendo al giudice di ordinare al Sindaco l’immediata iscrizione dei ricorrenti nel registro anagrafico della popolazione residente.
Il rimettente riferisce che gli stranieri sono regolarmente soggiornanti in Italia, rispettivamente, dal 14 agosto e dal 19 novembre 2018, in virtù di permessi di soggiorno per richiesta di asilo, e che il 15 aprile 2019 hanno chiesto l’iscrizione anagrafica al Comune di Capaccio Paestum, ma l’ufficiale di stato civile l’ha negata in virtù della norma censurata. I ricorrenti ritengono il rifiuto illegittimo in quanto la norma censurata avrebbe solo abolito la procedura semplificata di iscrizione anagrafica prevista dall’abrogato art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015.
Argomentando sul fumus boni juris, il giudice a quo rileva che, secondo la Corte di cassazione, le controversie in materia di iscrizione anagrafica attengono a diritti soggettivi e rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. Il potere dell’ufficiale d’anagrafe sarebbe limitato all’accertamento dei presupposti dell’iscrizione, con un’attività di tipo vincolato, inidonea a degradare i diritti soggettivi.
Secondo il rimettente, il diritto dello straniero all’iscrizione anagrafica risulterebbe dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, in base al quale «[l]e iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione». Dunque, i presupposti del diritto dello straniero all’iscrizione anagrafica sarebbero due: la regolarità del soggiorno in Italia e la dimora abituale nel comune, e nel caso di specie il ricorrente sarebbe ospite da più di tre mesi di un centro di accoglienza. Però, secondo il Comune a tale disciplina avrebbe derogato l’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018.
Il giudice a quo non condivide l’interpretazione adeguatrice di tale disposizione (secondo la quale essa avrebbe solo abolito la procedura semplificata di iscrizione anagrafica del richiedente asilo), seguita da alcuni giudici di merito e posta alla base delle domande cautelari, in quanto essa renderebbe la disposizione stessa inutile, assegnando a una norma derogatoria lo stesso significato della regola generale (secondo la quale il permesso di soggiorno non è sufficiente per l’iscrizione anagrafica, occorrendo anche la residenza). Inoltre, la procedura semplificata di iscrizione anagrafica sarebbe stata abrogata dall’art. 13, comma 1, lettera c), del d.l. n. 113 del 2018. Ancora, l’interpretazione adeguatrice sarebbe smentita dai lavori preparatori, che parlano di «esclusione dall’iscrizione anagrafica».
La disposizione censurata dovrebbe invece essere intesa nel senso che, poiché il permesso di soggiorno «non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica», viene a mancare il primo presupposto di essa, cioè la regolarità del soggiorno: il permesso di soggiorno per richiedenti asilo, a differenza degli altri permessi, non integrerebbe la condizione del soggiorno regolare ai fini dell’iscrizione anagrafica. Il richiedente asilo sarebbe autorizzato a rimanere in Italia, ma non avrebbe diritto all’iscrizione.
Così intesa, la disposizione censurata violerebbe i «diritti umani fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. (l’accesso all’assistenza sociale e la concessione di eventuali sussidi o agevolazioni previste dal Comune, come quelle basate sulle condizioni di reddito; il conseguimento della patente di guida italiana […])», il «principio di uguaglianza (art. 3), per l’irragionevole trattamento rispetto allo straniero regolarmente soggiornante ad altro titolo», e la «libertà di soggiorno (art. 16), per l’esclusione dello straniero avente diritto ad una definizione della sua domanda di protezione internazionale da una regolare condizione anagrafica».
Il giudice a quo argomenta poi sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale ai fini della definizione dei giudizi cautelari.
Infine, il rimettente, ritenuto di non poter ordinare al Comune l’iscrizione anagrafica, in ragione del divieto di cui all’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Legge sul contenzioso amministrativo. All. E), «dichiara, in via provvisoria e fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale, la sussistenza del diritto» dei due ricorrenti all’iscrizione anagrafica presso il Comune di Capaccio Paestum.
10.– Anche in questi due giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate e riprendendo – in riferimento alla lamentata violazione degli artt. 2 e 3 Cost. – le considerazioni già svolte nel giudizio promosso dal Tribunale di Milano.
Sulla violazione dell’art. 16 Cost., l’Avvocatura ritiene la questione inammissibile, «non ravvisandosi, nell’ordinanza di rimessione, argomentazioni in base alle quali sia possibile comprendere per quali ragioni il Tribunale di Salerno ritenga che la mancata iscrizione nei registri anagrafici limiti la libertà di soggiorno del richiedente asilo».
La questione sarebbe comunque infondata, sia perché la situazione del richiedente asilo non sarebbe assimilabile a quella del cittadino, al quale fa riferimento l’art. 16 Cost., sia perché la limitazione della libertà di circolazione del richiedente asilo, possibile solo nelle ipotesi particolari previste dalla legge (d.lgs. n. 142 del 2015), prescinderebbe dalla iscrizione o meno nei registri anagrafici.
11.– L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato due memorie integrative nei giudizi reg. ord. n. 145 e n. 153 del 2019. In esse ha ribadito l’infondatezza della questione riferita all’art. 77 Cost., osservando che già la sentenza di questa Corte n. 194 del 2019 avrebbe riconosciuto la legittimità, sotto questo profilo, dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018. Inoltre, l’Avvocatura rileva che, essendo lo status del richiedente asilo precario, mancherebbe l’abitualità della sua dimora, «una volta eliminata la fictio juris […] della dimora abituale connessa alla ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza (art. 5, co. 3, d.lgs. 142/15)».
Dopo aver svolto alcune considerazioni sul permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la difesa erariale si sofferma sulla asserita violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., osservando che l’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU e l’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici riconoscono il diritto di fissare la residenza in uno Stato solo a chi vi si trovi legalmente, cosicché tali norme non potrebbero essere richiamate in relazione all’art. 13, che regola «la condizione dello straniero nel tempo necessario per l’accertamento di quella legalità».
Ancora, l’Avvocatura ricorda che l’accesso ai servizi è garantito ai richiedenti asilo nel luogo del domicilio, per cui le regioni dovranno semplicemente adattare le proprie norme al nuovo sistema, con la conseguenza che «quello della residenza/domicilio» sarebbe «un falso problema».
In conclusione, la residenza anagrafica non sarebbe un diritto fondamentale e l’iscrizione anagrafica sarebbe «un adempimento amministrativo di per sé non condizionante alcun diritto fondamentale del richiedente asilo».
Considerato in diritto
1.– I Tribunali ordinari di Milano, sezione prima (reg. ord. 145 del 2019), Ancona, sezione prima (reg. ord. n. 153 del 2019) e Salerno, sezione civile feriale (reg. ord. n. 158 e n. 159 del 2019), hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, per violazione complessivamente degli artt. 2, 3, 10, 16, 77, secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 2, paragrafo 1, del Protocollo n. 4 della CEDU, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che riconosce taluni diritti e libertà diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo addizionale, nonché in riferimento agli artt. 12 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
I Tribunali rimettenti sono stati aditi da stranieri richiedenti asilo cui è stata negata l’iscrizione anagrafica. I ricorsi introduttivi dei giudizi davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono stati proposti ex art. 700 del codice di procedura civile. Quello dinanzi al Tribunale di Milano è stato promosso con ricorso ex art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), ed ex art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nonché ex art. 702-bis cod. proc. civ.
I giudizi davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono dunque procedimenti cautelari promossi sul presupposto del pregiudizio grave e irreparabile che potrebbe derivare al ricorrente dal diniego di iscrizione anagrafica (conseguente all’applicazione della norma censurata), in attesa della decisione di merito. In questi giudizi i rimettenti hanno concesso la misura cautelare «con riserva di confermare il provvedimento o caducarlo, ordinando quindi la cancellazione dell’iscrizione, all’esito del giudizio di costituzionalità» (in questi termini, il Tribunale di Ancona).
Il giudizio davanti al Tribunale di Milano è un procedimento sommario di cognizione promosso per chiedere, «previo occorrendo rinvio alla Corte Costituzionale, la dichiarazione di invalidità e l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di Milano alla iscrizione del ricorrente nell’anagrafe della popolazione residente».
1.1.– Le quattro ordinanze di rimessione solo formalmente censurano disposizioni diverse (art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015 e art. 13, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018). Pertanto, in ragione della identità del petitum, si rende opportuna la loro trattazione congiunta (ex plurimis, sentenze n. 99 e n. 79 del 2020). I relativi giudizi vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza.
1.2.– In via ulteriormente preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa delle associazioni ASGI-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e Avvocati per Niente Onlus, costituite nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 145 del 2019, dirette ad estendere il thema decidendum – come fissato nella ordinanza di rimessione – alla violazione dell’art. 8 CEDU e degli artt. 1, 7, 18, 20, 29 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione «ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 56 del 2009, n. 86 del 2008)» (sentenza n. 203 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 165, n. 150 e n. 85 del 2020).
2.– Prima di esaminare le censure prospettate, si impone una ricostruzione del quadro normativo, anche al fine di chiarire il significato della disposizione censurata.
2.1.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 ha apportato una serie di modifiche agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e ha disposto l’abrogazione del successivo art. 5-bis. In particolare, l’art. 13 si compone di un solo comma, articolato, al suo interno, in tre lettere (a, b e c).
La lettera a) modifica l’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2): con la prima al comma 1 del citato art. 4 è aggiunto il seguente periodo (non censurato dagli odierni rimettenti): «Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445»; con la seconda è inserito, dopo il comma 1 del citato art. 4, il comma 1-bis (censurato da tutti i rimettenti) del seguente tenore: «1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».
La lettera b) modifica l’art. 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2), entrambe non censurate dagli odierni rimettenti: con la prima è così sostituito il comma 3 del citato art. 5: «3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2»; con la seconda è così modificato il comma 4 del citato art. 5: «le parole “un luogo di residenza” sono sostituite dalle seguenti: “un luogo di domicilio”».
Infine, la lettera c) (anch’essa non censurata) dispone l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplinava le modalità di iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale.
2.2.– La disposizione censurata, in base alla quale «[i]l permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica […]», è stata oggetto di due opposte interpretazioni.
2.2.1.– A fronte dell’interpretazione fatta propria dagli odierni rimettenti che sostengono – almeno in via principale (così il Tribunale di Milano) – l’effetto preclusivo dell’iscrizione anagrafica e, su questo assunto, argomentano sull’illegittimità costituzionale della disposizione de qua, si registra una diversa opzione interpretativa (sostenuta, tra i primi, da: Tribunale di Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 18 marzo 2019; Tribunale di Bologna, protezione internazionale civile, ordinanza 2 maggio 2019; Tribunale di Genova, sezione undicesima civile, ordinanza 20 maggio 2019; Tribunale di Firenze, sezione specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera circolazione dei cittadini UE, ordinanza 27 maggio 2019; Tribunale di Lecce, sezione prima civile, ordinanza 4 luglio 2019; Tribunale di Parma, sezione prima civile, ordinanza 2 agosto 2019; Tribunale di Bologna, sezione specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera circolazione dei cittadini UE, ordinanza 23 settembre 2019; Tribunale di Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 22 novembre 2019; Tribunale di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione civile, ordinanza 25 novembre 2019), che, facendo leva sull’asserita ambiguità del dato letterale (e in particolare sulla formula «non costituisce titolo»), esclude che l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 impedisca l’iscrizione anagrafica, dovendosi piuttosto ritenere che esso si limiti a precisare che il possesso del solo permesso di soggiorno per richiesta di asilo non è sufficiente per ottenere l’iscrizione all’anagrafe.
In particolare, i passaggi fondamentali di questo percorso interpretativo sono i seguenti: la norma non contiene un divieto esplicito di iscrizione anagrafica; nell’ordinamento non si rinvengono documenti che «costituiscono titolo» per l’iscrizione anagrafica; tale iscrizione è, piuttosto, l’esito di un procedimento amministrativo diretto ad accertare una situazione di fatto; esiste un diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica (fra le tante, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 26 maggio 1997, n. 4674, e 19 giugno 2000, n. 449), disciplinato dall’art. 1 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente); il diritto all’iscrizione anagrafica è esercitato attraverso una dichiarazione dell’interessato all’ufficiale di stato civile, con cui si dà atto della propria permanenza in un certo luogo e dell’intenzione di abitarvi stabilmente; nel quadro normativo delineato (e così interpretato) si inserisce, coerentemente, l’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, secondo cui: «Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione […]»; il permesso di soggiorno per richiesta di asilo – ma la stessa cosa può dirsi per gli altri permessi di soggiorno – non è mai stato «titolo» per l’iscrizione anagrafica; l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015 ha come effetto solo quello di eliminare la modalità di iscrizione “semplificata” ivi prevista e di far riespandere le modalità ordinarie di iscrizione anagrafica (previste dal d.P.R. n. 223 del 1989); infine, la previsione secondo cui «[l]’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio […]» non può supplire alla limitazione dei diritti individuali connessi alla residenza anagrafica.
2.2.2.– La descritta interpretazione non appare praticabile per le ragioni di seguito indicate, dovendosi invece ritenere, come sostenuto dai giudici rimettenti, che la disposizione censurata precluda l’iscrizione anagrafica degli stranieri richiedenti asilo.
Innanzitutto, depone in tale senso quanto riportato nella relazione illustrativa del decreto-legge e, negli stessi termini, in quella illustrativa del disegno di legge di sua conversione. In questi documenti si legge, tra l’altro, che il «permesso di soggiorno per richiesta asilo non consente l’iscrizione anagrafica dei residenti» e che «[l]’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente». In questo modo, del resto, la disposizione è stata letta anche dai vari soggetti auditi nel corso del procedimento di conversione in legge del decreto, come risulta dalle loro relazioni. In particolare, va segnalato quanto affermato dal direttore dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), secondo cui «[i]l cambiamento normativo comporterà comunque un’interruzione nella serie storica della popolazione residente, portando in alcuni casi, specie a livello locale, variazioni non trascurabili del totale della popolazione residente», e dal Ministro dell’interno, che, a fronte della «difficoltà per le amministrazioni comunali di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo residenti sui loro territori», ha individuato nella «precarietà della loro permanenza sul territorio» la ragione dell’esclusione dell’iscrizione anagrafica.
Coerenti con queste premesse appaiono alcune circolari diramate dal Ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, tra le quali quella del 18 ottobre 2018, recante «D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (G.U. n. 231 del 4/10/2018). Art. 13 (Disposizioni in materia di iscrizione anagrafica)», in cui si legge: «[p]ertanto, dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale di cui all’art. 4, comma 1, del citato d.lgs. n. 142/2015, non potrà consentire l’iscrizione anagrafica», e quella del 18 dicembre 2018 (Decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132), nella quale si legge: «[d]i conseguenza, ai richiedenti asilo – che, peraltro, non saranno più iscritti all’anagrafe dei residenti (articolo 13) – vengono dedicate le strutture di prima accoglienza (CARA e CAS), all’interno delle quali permangono, come nel passato, fino alla definizione del loro status».
È inoltre significativo il dato letterale delle disposizioni introdotte con l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, che puntano a sostituire il riferimento al luogo di residenza con quello al luogo di domicilio e di conseguenza abrogano non solo la disposizione che regola la speciale modalità di iscrizione anagrafica, ma la stessa previsione dell’iscrizione anagrafica (art. 5-bis, comma 1, del d.lgs. n. 142 del 2015); modifica, quest’ultima in particolare, che sarebbe priva di senso se la disposizione censurata intendesse solo abrogare la modalità semplificata di iscrizione anagrafica, facendo “riespandere” la modalità ordinaria.
Anche la lettura sistematica della disposizione censurata conferma questa interpretazione. In particolare, il riferimento, in essa contenuto, all’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 (che, come detto, prevede l’iscrizione anagrafica dello straniero regolarmente soggiornante «alle medesime condizioni dei cittadini italiani») deve ritenersi operato al fine di dare atto della deroga così introdotta alla previsione della disposizione richiamata. Inoltre, avere previsto che «[i]l permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento […]» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1) si spiega solo considerando che i richiedenti asilo non possono ottenere la carta d’identità che presuppone la residenza anagrafica. Analogamente, le disposizioni di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numeri 1) e 2), del d.l. n. 113 del 2018, sostituendo il «luogo di residenza» con quello di domicilio come luogo di erogazione dei servizi, confermano l’intento del legislatore di escludere i richiedenti asilo dal riconoscimento giuridico della dimora abituale operato per il tramite dell’iscrizione anagrafica.
In definitiva, l’opzione interpretativa seguita dai Tribunali rimettenti appare confermata dalle considerazioni appena esposte. Si può quindi procedere all’esame delle singole censure prospettate.
3.– Per ragioni di ordine logico, va considerata per prima la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile, con riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto attiene ai presupposti del corretto esercizio della funzione legislativa (sentenze n. 288 e n. 247 del 2019, n. 189 del 2018 e n. 169 del 2017).
Nel proprio atto di intervento, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione, «in quanto già decisa dalla Corte nel senso dell’infondatezza» con la sentenza n. 194 del 2019.
Tale eccezione non è fondata, per due ragioni: in primo luogo, la sentenza n. 194 del 2019 ha, sì, deciso varie questioni proposte in via principale contro il d.l. n. 113 del 2018, ma non è entrata nel merito, dichiarando l’inammissibilità di tutte le questioni; in secondo luogo, è pacifico che una precedente dichiarazione di infondatezza non è causa di inammissibilità della questione riproposta ma può, eventualmente, condurre a una dichiarazione di manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 44 del 2020 e n. 99 del 2017).
3.1.– Nel merito, la questione non è fondata.
Secondo questa Corte, «il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione» (sentenza n. 97 del 2019; in senso simile, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019 e n. 137, n. 99 e n. 5 del 2018): ciò al fine di evitare la sovrapposizione tra la valutazione politica del Governo e delle Camere (in sede di conversione) e il controllo di legittimità costituzionale della Corte.
In particolare, nei casi in cui questa Corte è stata chiamata a valutare la conformità di una delle norme del decreto-legge (come nel caso di specie) all’art. 77, secondo comma, Cost., essa ha svolto il proprio giudizio in base a diversi criteri, quali: a) coerenza della norma rispetto al titolo del decreto e al suo preambolo (ad esempio, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019, n. 137 del 2018); b) omogeneità contenutistica o funzionale della norma rispetto al resto del decreto-legge (ex plurimis, sentenze n. 149 del 2020, n. 97 del 2019 e n. 137 del 2018); c) utilizzo dei lavori preparatori (ad esempio, sentenze n. 288 del 2019, n. 99 e n. 5 del 2018); d) carattere ordinamentale o di riforma della norma (ad esempio, sentenze n. 33 del 2019, n. 99 del 2018 e n. 220 del 2013).
Il d.l. n. 113 del 2018, intitolato «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», si articola in quattro titoli: il primo (nel quale è inserito l’art. 13) contiene «Disposizioni in materia di rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale e di immigrazione» ed è articolato a sua volta in quattro Capi, il secondo dei quali comprende le «Disposizioni in materia di protezione internazionale», fra le quali l’art. 13. Tale Capo, fra l’altro, modifica la disciplina relativa al diniego, alla revoca e alla cessazione della protezione internazionale, regola i casi di reiterazione della domanda di protezione internazionale, novella le disposizioni relative all’accoglienza dei richiedenti asilo.
La relazione illustrativa del disegno di legge di conversione (A.S. n. 840, comunicato alla Presidenza del Senato il 4 ottobre 2018) fa riferimento all’urgenza di intervenire «nell’ambito di una complessa azione riorganizzativa, concernente il sistema di riconoscimento della protezione internazionale e le forme di tutela complementare, finalizzata in ultima istanza a una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio nonché ad introdurre misure di contrasto al possibile ricorso strumentale alla domanda di protezione internazionale». Con specifico riferimento all’art. 13, nella stessa relazione si legge che «[l]’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente».
Rinviando al punto successivo ogni valutazione sul contenuto della norma censurata, si deve ritenere che con riferimento ad essa non sia riscontrabile un’evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza. L’art. 13 si inserisce in modo omogeneo nel capo contenente le norme in materia di protezione internazionale, riguardando un aspetto dello status dei richiedenti asilo: questa Corte, nella sentenza n. 194 del 2019, ha già ricondotto la norma sul divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo alle materie del «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea», oltre che delle «anagrafi» (art. 117, secondo comma, lettere a e i, Cost.). Non a caso, nel suo parere del 14 novembre 2018 il Comitato per la legislazione, pur esprimendo dubbi sull’omogeneità di alcune delle norme inserite nel d.l. n. 113 del 2018, non formulava rilievi sull’art. 13.
Né si può affermare che il Governo abbia deciso di modificare con decreto-legge il sistema di riconoscimento della protezione internazionale, al fine di una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio, nonostante un’evidente assenza di necessità e urgenza: di fronte al massiccio afflusso dei richiedenti asilo e ai complessi problemi inerenti alla sua gestione, non si può considerare manifestamente arbitraria la valutazione del Governo sull’esistenza dei presupposti del decreto-legge. Se è vero che l’art. 13 e le norme collegate non affrontano una nuova emergenza, è anche vero che la persistenza di un problema può concretare le ragioni di urgenza e che, «ricorrendone i presupposti, il programma di Governo ben può essere attuato anche mediante la decretazione d’urgenza» (sentenza n. 288 del 2019).
Per il tipo di sindacato che questa Corte svolge sul rispetto dell’art. 77, secondo comma, Cost., la norma censurata supera dunque indenne il vaglio di costituzionalità, sotto questo profilo.
4.– Passando agli altri parametri costituzionali asseritamente violati, i giudici a quibus ritengono innanzitutto che la norma censurata si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili, sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza», alla disciplina più volte richiamata dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate da tutti i rimettenti in riferimento all’art. 3 Cost. sono fondate.
4.1.– Sono innanzitutto meritevoli di accoglimento le censure prospettate per l’irrazionalità intrinseca della disposizione censurata, in ragione della sua incoerenza rispetto alle finalità perseguite dal d.l. n. 113 del 2018.
Come si è visto dalla ricostruzione della ratio della norma in esame, il legislatore avrebbe inteso liberare le amministrazioni comunali, sul cui territorio sono situati i centri di accoglienza degli stranieri richiedenti asilo, dall’onere di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione anagrafica degli stessi. Da questo punto di vista, la precarietà della loro permanenza sul territorio è stata ritenuta argomento idoneo a giustificare l’esclusione dell’iscrizione anagrafica.
Così provvedendo, tuttavia, il legislatore contraddice la ratio complessiva del decreto-legge al cui interno si colloca la disposizione denunciata. Infatti, a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in esame, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano. E ciò senza che questa esclusione possa ragionevolmente giustificarsi alla luce degli obblighi di registrazione della popolazione residente.
Pur non potendosi negare che sui comuni interessati gravi un onere ulteriore (rispetto a quello gravante sugli altri comuni) connesso al disbrigo delle pratiche relative alla registrazione anagrafica dei richiedenti asilo, questa considerazione non può giustificare la “sottrazione” di una categoria di soggetti alla “presa d’atto” formale della presenza (qualificata in termini di dimora abituale) di una persona; “presa d’atto” nella quale si sostanzia l’iscrizione anagrafica. In tal senso, non si può sottacere che i moderni sistemi di anagrafe trovano fondamento proprio in un’esigenza di registrazione amministrativa della popolazione residente. Tale registrazione della situazione effettiva dei residenti nel territorio comunale costituisce il presupposto necessario per l’adeguato esercizio di tutte le funzioni affidate alla pubblica amministrazione, da quelle di sicurezza e ordine pubblico, appunto, a quelle sanitarie, da quelle di regolazione e controllo degli insediamenti abitativi all’erogazione di servizi pubblici, e via dicendo.
Escludendo dalla registrazione anagrafica persone che invece risiedono sul territorio comunale, la norma censurata accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo, in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo, finendo per questo verso col rendere problematica, anziché semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i fini, compresi quelli che attengono alle vicende connesse alla procedura di asilo. Si deve considerare inoltre che il diniego di iscrizione anagrafica sottrae i richiedenti asilo alla diretta conoscibilità da parte dei comuni – con conseguenze tanto più gravi a seguito dell’informatizzazione di dati e procedure – della loro permanenza sul territorio, stante l’obbligo di comunicare il proprio domicilio solo alla questura competente (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 142 del 2015).
Né può essere fatto valere in senso contrario – come fa l’Avvocatura dello Stato e, ancora prima, il Governo in occasione della conversione in legge del decreto – l’argomento della precarietà della permanenza legale sul territorio dei richiedenti asilo, in particolare ove si riferisca tale condizione alla durata della residenza protratta, ossia all’unico aspetto per cui essa rileva a fini della registrazione anagrafica. All’argomento è agevole replicare, infatti, che il permesso di soggiorno di cui si discute ha durata di sei mesi ed è rinnovabile «fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui il suo destinatario è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale» (art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015), e che, nella stragrande maggioranza dei casi, il periodo complessivo di permanenza dei richiedenti asilo nel nostro Paese risulta essere di almeno un anno e mezzo (come messo in evidenza da tutti i soggetti intervenuti o costituiti nel presente giudizio), soprattutto a causa dei tempi di decisione sulle domande.
La descritta durata, legale e fattuale, del soggiorno dello straniero richiedente asilo rappresenta, già da sola, un dato espressivo di una permanenza protratta per un arco temporale rilevante e appare inoltre particolarmente significativa alla luce di quanto previsto dall’art. 9 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), che fissa in tre mesi il limite di permanenza del cittadino europeo nello Stato membro diverso da quello di appartenenza, limite oltre il quale sorge l’obbligo dell’iscrizione anagrafica. La citata disposizione stabilisce in particolare che «[a]l cittadino dell’Unione che intende soggiornare in Italia, ai sensi dell’articolo 7 per un periodo superiore a tre mesi, si applica la legge 24 dicembre 1954, n. 1228, ed il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223» (comma 1), e che, «[f]ermo quanto previsto dal comma 1, l’iscrizione è comunque richiesta trascorsi tre mesi dall’ingresso ed è rilasciata immediatamente una attestazione contenente l’indicazione del nome e della dimora del richiedente, nonché la data della richiesta» (comma 2).
Del resto, è lo stesso art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, che costituisce la previsione generale in materia, a individuare nella permanenza protratta per tre mesi presso un centro di accoglienza il periodo di tempo necessario per considerare abituale la dimora dello straniero, presupposto, questo, per ottenere il riconoscimento giuridico della residenza.
Da ultimo, non è inutile osservare che la necessità di un controllo e di un monitoraggio della residenza sul territorio degli stranieri richiedenti asilo rileva, e presenta anzi particolare importanza, anche a fini sanitari, poiché è sulla base dell’anagrafe dei residenti che il comune può avere contezza delle effettive presenze sul suo territorio ed essere in condizione di esercitare in maniera adeguata le funzioni attribuite al sindaco dall’art. 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), soprattutto in caso di emergenze sanitarie circoscritte al territorio comunale.
Da tutti i punti di vista considerati, dunque, la norma censurata contraddice le finalità del d.l. n. 113 del 2018, e in particolare incide negativamente sulla funzionalità delle pubbliche amministrazioni cui è affidata la cura degli interessi oggetto dell’intervento normativo, perché impedisce di basare la loro azione su una rappresentazione veritiera nei registri anagrafici della situazione effettiva della popolazione residente nel loro territorio.
4.2.– Ugualmente meritevoli di accoglimento sono le censure prospettate per l’irragionevole disparità di trattamento che la norma censurata determina tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini italiani.
Questa Corte ha, già da tempo, superato l’apparente ostacolo frapposto dal dato letterale dell’art. 3 Cost. (che fa riferimento ai «cittadini»), sottolineando che, «se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare [i] diritti fondamentali» (sentenza n. 120 del 1967), e ha chiarito inoltre che al legislatore non è consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati se non «in presenza di una “causa” normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005).
Nelle singole situazioni concrete, la posizione dello straniero può certo risultare diversa rispetto a quella del cittadino (sempre sentenza n. 120 del 1967) e quindi non si può per ciò solo escludere la ragionevolezza della disposizione che ne prevede un trattamento diversificato. Infatti, «la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento» (sentenza n. 104 del 1969, richiamata dalle pronunce successive, sentenze n. 144 del 1970, n. 177 e n. 244 del 1974, n. 62 del 1994, n. 245 del 2011, e ordinanze n. 503 del 1987, n. 490 del 1988).
Sulla base di questi argomenti si può così affermare che la particolarità delle «situazioni concrete» può giustificare un diverso trattamento tra differenti categorie di stranieri legalmente soggiornanti, in ragione del motivo e della durata del loro soggiorno, come è, per esempio, nel caso della normativa che limita ai cosiddetti soggiornanti di lungo periodo il riconoscimento di determinati diritti, e come, in principio, potrebbe essere per i richiedenti asilo, in ragione del fatto che la loro permanenza – pur, come visto, di durata non breve e non di rado anche alquanto lunga – è comunque destinata a mutare di titolo nel caso di concessione della protezione internazionale o, diversamente, a cessare.
Negando l’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora abituale nel territorio italiano, tuttavia, la norma censurata riserva un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini.
Come già ricordato, la regola generale in tema di iscrizioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante è contenuta nell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 («Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione»), al quale la norma censurata deroga senza alcun ragionevole motivo. Questa Corte ha già chiarito che qualsiasi scelta legislativa che si discosti dalle norme generali del d.lgs. n. 286 del 1998 «dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni” poste a base della deroga» (sentenza n. 432 del 2005): il che non si può dire della norma censurata. Infatti, la temporaneità del soggiorno dei richiedenti asilo non può giustificare il diniego di iscrizione anagrafica, sia per le ragioni esposte nel punto precedente, sia perché, se la stessa temporaneità fosse incompatibile con l’iscrizione anagrafica, allora bisognerebbe escludere dalla registrazione molti altri stranieri regolari, titolari di permessi di durata limitata, che potrebbero non essere rinnovati (quali, ad esempio, quelli previsti all’art. 5, comma 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998).
Considerazioni analoghe possono essere svolte anche con riferimento alla deroga irragionevolmente operata dalla norma censurata rispetto a quanto previsto in via generale dall’art. 2, comma 2, dello stesso decreto legislativo, in base al quale «[lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano […]». Essa priva, infatti, i richiedenti asilo del diritto a iscriversi all’anagrafe dei residenti, senza una causa giustificatrice idonea.
Per la portata e per le conseguenze anche in termini di stigma sociale dell’esclusione operata con la norma oggetto del presente giudizio, di cui è non solo simbolica espressione l’impossibilità di ottenere la carta d’identità, la prospettata lesione dell’art. 3, primo comma, Cost. assume in questo contesto – al di là della stessa violazione del principio di eguaglianza – la specifica valenza di lesione della connessa «pari dignità sociale».
Pur potendo il legislatore valorizzare le esistenti differenze di fatto tra cittadini e stranieri (sentenza n. 104 del 1969), esso non può porre gli stranieri (o, come nel caso di specie, una certa categoria di stranieri) in una condizione di “minorazione” sociale senza idonea giustificazione, e ciò per la decisiva ragione che lo status di straniero non può essere di per sé considerato «come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi» (in questi termini sentenza n. 249 del 2010; analogamente, tra le tante, sentenze n. 166 del 2018, n. 230, n. 119 e n. 22 del 2015, n. 309, n. 202, n. 172, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 172 del 2012, n. 245 e n. 61 del 2011, n. 187 del 2010, n. 306 e n. 148 del 2008, n. 324 del 2006, n. 432 del 2005, n. 252 e n. 105 del 2001, n. 203 del 1997, n. 62 del 1994, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n. 104 del 1969, n. 120 del 1967).
La norma censurata, privando i richiedenti asilo del riconoscimento giuridico della loro condizione di residenti, incide quindi irragionevolmente sulla «pari dignità sociale», riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua permanenza regolare nel territorio italiano.
Da questo punto di vista, in concreto, il diniego di iscrizione anagrafica presenta effetti pregiudizievoli per i richiedenti asilo quanto all’accesso ai servizi anche ad essi garantiti. Senza entrare nel merito della dibattuta questione relativa alla possibilità o meno di ottenere, per ciascun servizio, l’erogazione da parte delle amministrazioni competenti in assenza della residenza anagrafica – questione che non viene in rilievo in questa sede – non si può negare che la previsione della fornitura dei servizi nel luogo di domicilio, anziché in quello di residenza (art. 13, comma 1, lettera b, numero 1, del d.l. n. 113 del 2018), rende, quantomeno, ingiustificatamente più difficile l’accesso ai servizi stessi, non fosse altro che per gli ostacoli di ordine pratico e burocratico connessi alle modalità di richiesta dell’erogazione – che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua certificazione a mezzo dell’anagrafe – e per la stessa difficoltà di individuare il luogo di domicilio, a fronte della certezza offerta invece dal dato formale della residenza anagrafica.
Si deve pertanto concludere che, anche sotto questo profilo, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.
5.– Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, deriva l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 13 citato. Come messo in evidenza nel punto 2.2.2, il complesso delle disposizioni contenute nello stesso art. 13 costituisce infatti un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro nel divieto di iscrizione anagrafica.
Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va perciò dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018.
6.– Sono assorbite le ulteriori questioni di legittimità costituzionale prospettate dai Tribunali rimettenti.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, sollevata, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 31 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA