SENTENZA N. 145
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Treviso nel procedimento vertente tra G. S. e M. P., con ordinanza del 16 luglio 2019, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Giovanni Amoroso nella camera di consiglio del 26 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.‒ Il Tribunale ordinario di Treviso, con ordinanza del 16 luglio 2019, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 2019, ha sollevato tre distinte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del codice di procedura civile, per violazione: dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; dell’art. 25, secondo comma, Cost., nella parte in cui la disposizione impugnata sanziona «gli atti che comunque arrechino pregiudizio al minore» assumendo una carenza di determinatezza della fattispecie; dell’art. 3, primo comma, Cost., laddove stabilisce irragionevolmente il limite massimo della sanzione ivi prevista nell’importo di euro 5.000,00, in quanto di gran lunga superiore alla «sanzione pecuniaria» contemplata dall’art. 570 del codice penale per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.
2.‒ Il giudice rimettente riferisce che, nell’ambito di un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la ricorrente, oltre alla domanda principale sullo status e a quelle sulle questioni economiche, aveva chiesto la condanna del coniuge separato al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende ai sensi dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., per l’inadempimento dello stesso rispetto all’obbligo di mantenimento della figlia minore sancito nella sentenza di separazione.
All’udienza di precisazione delle conclusioni, peraltro, il resistente produceva la sentenza della sezione penale del Tribunale ordinario di Treviso n. 651 del 2017, depositata in data 30 maggio 2017, mediante la quale ne era stata accertata la responsabilità penale per aver omesso di versare il contributo al mantenimento della figlia nella misura di cui alla pronuncia di separazione, con l’applicazione della pena di cui all’art. 570 cod. pen.
Per tale ragione, come riferisce lo stesso giudice a quo, il resistente chiedeva negli scritti conclusivi il rigetto della domanda avente ad oggetto la condanna dello stesso al pagamento della sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende ex art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., in quanto sui medesimi fatti era già intervenuta la predetta sentenza di condanna, n. 651 del 2017, divenuta irrevocabile.
In punto di rilevanza, il giudice rimettente evidenzia, in primo luogo, che la domanda proposta dalla ricorrente volta alla condanna del coniuge separato al pagamento della sanzione pecuniaria ex art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., dovrebbe trovare accoglimento a fronte del pacifico e reiterato inadempimento del padre agli obblighi di mantenimento sanciti in favore della figlia nella sentenza di separazione, condotta che integrerebbe la fattispecie prevista dal medesimo secondo comma di tale disposizione normativa nella parte in cui sanziona gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore».
In particolare, il Tribunale rimettente assume la rilevanza delle questioni ritenendo applicabili – pur consapevole dell’esistenza, anche nella giurisprudenza di merito, di diverse impostazioni interpretative sulla problematica – le sanzioni contemplate dall’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., anche in relazione all’inadempimento agli obblighi di mantenimento dei figli, in quanto: a) sul piano letterale la formula «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore» è di ampiezza tale da ricomprendere una vasta categoria di fattispecie tra le quali deve essere annoverato anche il pregiudizio derivante dalla mancata contribuzione economica in favore della prole; b) sul piano teleologico-sistematico, tale conclusione sarebbe corroborata dalla circostanza che il mantenimento dei figli minori rientra nel dovere di assistenza materiale disposto dagli artt. 30 Cost. e 147 del codice civile ed è indispensabile per l’esplicazione e lo sviluppo della personalità del minore nonché per l’indipendenza del genitore collocatario nell’esercizio delle proprie facoltà genitoriali; c) sotto il profilo della ratio legis, l’esclusione dall’ambito applicativo delle sanzioni di cui all’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., dell’inadempimento agli obblighi di mantenimento avrebbe dovuto essere espressamente contemplata, stante l’importanza della questione.
Il rimettente, con riferimento, poi, alla non manifesta infondatezza della prima questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., rispetto al parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, premette che, in conformità ai criteri enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sin dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, la sanzione di cui all’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., pur qualificata come amministrativa, è in realtà una sanzione sostanzialmente penale, poiché: a) si tratta di una trasgressione significativa, al punto che le stesse condotte sono punite dall’art. 570 cod. pen.; b) la struttura dell’illecito è analoga sotto il profilo strutturale a un illecito penale atteso che, a fronte del verificarsi di una fattispecie tipica, la stessa contempla una cornice edittale assimilabile a quelle stabilite dai precetti penali; c) deve ritenersi grave, stante l’importo massimo della stessa, pari ad euro 5.000,00, importo superiore a quello previsto da numerose multe e ammende in materia penale nonché alla stessa multa comminabile per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare; d) è irrogata nell’ambito di un procedimento di carattere giurisdizionale nel contraddittorio tra le parti; e) lo scopo della stessa, infine, condivide le finalità di natura preventiva del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 cod. pen.
In virtù di tale premessa, il giudice rimettente sottolinea che la disposizione impugnata non è suscettibile di un’interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo ritenersi applicabile, come evidenziato in punto di rilevanza, anche all’inadempimento degli obblighi di natura economica, e che nella fattispecie processuale, considerata la gravità di tale inadempimento, la sanzione richiesta dovrebbe essere comminata.
Il Tribunale di Treviso, premessa la qualificazione in termini sostanzialmente penali della sanzione in questione, dubita della legittimità costituzionale dello stesso art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., in relazione al parametro di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., con riferimento alla necessaria determinatezza dei precetti penali. In particolare, quanto alla non manifesta infondatezza di tale questione, il giudice rimettente sottolinea che la disposizione censurata, nella parte in cui fa riferimento, ai fini dell’applicabilità di una sanzione sostanzialmente penale, anche agli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore», finisce con il demandare l’individuazione delle condotte sanzionate a una valutazione discrezionale dell’autorità giudiziaria, non potendosi ritenere che tali atti debbano ricondursi alle ipotesi contemplate dal primo comma dello stesso art. 709-ter cod. proc. civ., in ragione di un’assunta autonomia tra i due commi.
Il giudice a quo, infine, in ordine alla questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., rispetto al parametro di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in punto di manifesta infondatezza sottolinea che la medesima contempla un trattamento sanzionatorio di gran lunga superiore, nella misura massima, a quello previsto, per i medesimi fatti, dall’art. 570 cod. pen., con ciò integrando un’irragionevole disparità di trattamento tra soggetti puniti per una stessa condotta nell’ambito dei due procedimenti.
3.– Nel giudizio incidentale non si sono costituite le parti del giudizio a quo.
4.– Con atto del 31 dicembre 2019, è invece intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione.
In particolare, quanto alla dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, l’Avvocatura sottolinea che il Tribunale rimettente parte da un erroneo presupposto interpretativo, ossia da quello dell’applicabilità delle sanzioni previste dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. (e tra esse di quella contemplata al numero 4 di tale disposizione normativa) anche in presenza di violazioni di carattere meramente economico, e ciò in contrasto sia con la formulazione letterale e la ratio della disposizione normativa, sia con la giurisprudenza di legittimità (viene citata Corte di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 giugno 2018, n. 16980).
Rileva, inoltre, il Presidente del Consiglio dei ministri che la sanzione in questione non è in ogni caso qualificabile come sanzione penale, poiché non è paragonabile per gravità alle sanzioni amministrative qualificate sostanzialmente penali dalla giurisprudenza europea.
Sottolinea, altresì, la difesa statale che, a escludere la fondatezza della censura, e quindi l’integrazione del ne bis in idem come configurato dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, concorre la circostanza che le condotte punite dall’art. 570 cod. pen. non sono costituite dal mero inadempimento agli obblighi di mantenimento, richiedendo un quid pluris, ossia l’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza all’avente diritto, non ricorrendo, dunque, l’identità dei fatti sanzionati.
Il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia, per altro verso, l’infondatezza anche della seconda questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, in riferimento al parametro di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., poiché le condotte sanzionabili ex art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ. possono essere determinate in base alle disposizioni normative che regolano l’esercizio della responsabilità genitoriale o in ragione del contenuto dei provvedimenti giurisdizionali che si assumono violati.
Con riferimento alla terza questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo, afferente la compatibilità dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., con l’art. 3, primo comma, Cost., l’Avvocatura rileva infine che l’ordinanza di rimessione, nell’assumere quale tertium comparationis la sola sanzione pecuniaria contemplata dall’art. 570 cod. pen., non considera né il maggiore stigma sociale correlato a una condanna in sede penale né che lo stesso art. 570 cod. pen. prevede, al primo comma, in via alternativa rispetto alla multa, la pena della reclusione sino a un anno e, al secondo comma, congiuntamente sia la pena detentiva che quella pecuniaria, con un trattamento sanzionatorio complessivamente più grave rispetto a quello stabilito dalla disposizione censurata.
Considerato in diritto
1.‒ Il Tribunale ordinario di Treviso, con ordinanza del 16 luglio 2019, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 2019, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, tre distinte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che, nell’ambito di un giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il genitore che abbia posto in essere atti che arrechino pregiudizio al minore sia passibile della «sanzione amministrativa pecuniaria» da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro, in favore della Cassa delle ammende, per l’inadempimento all’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento, previsto, nel caso di specie, dalla sentenza di separazione coniugale, in favore della figlia minorenne.
In primo luogo, il giudice rimettente assume la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, sul divieto di bis in idem, poiché la sanzione pecuniaria contemplata dalla previsione censurata avrebbe, in virtù dei canoni enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sin dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, natura sostanzialmente penale, e dovrebbe essere comminata per il medesimo fatto, ossia per l’omesso pagamento dell’assegno di mantenimento disposto nella pronuncia di separazione coniugale in favore della figlia minore, per il quale il convenuto era stato già condannato in sede penale.
Il giudice a quo assume, inoltre, che lo stesso art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., nella parte in cui consente di comminare una «sanzione amministrativa pecuniaria» in favore della Cassa delle ammende per «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore», violi anche l’art. 25, secondo comma, Cost., in ragione dell’indeterminatezza delle condotte censurabili con una sanzione di carattere sostanzialmente penale.
Il Tribunale rimettente ritiene, poi, violato anche l’art. 3, primo comma, Cost., in riferimento al tertium comparationis costituito dal trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 570 del codice penale, ritenendo irragionevole che la sanzione pecuniaria per un identico fatto sia determinata dalla disposizione censurata nella misura massima di euro 5.000, di gran lunga superiore alla multa prevista dall’art. 570, primo comma, cod. pen., pari, nel massimo, ad euro 1.032.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato non ha formulato eccezioni di inammissibilità; appare, tuttavia, opportuno un breve esame preliminare di due profili attinenti alla sufficiente motivazione dell’ordinanza di rimessione quanto rispettivamente alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate.
2.1.‒ Sotto un primo profilo, sebbene l’ordinanza di rimessione faccia riferimento a una sentenza di condanna in sede penale «ex art. 570 cod. pen.», si comprende agevolmente, dalla lettura della medesima, ove si riferisce che tale condanna è correlata al mero mancato pagamento dell’assegno di mantenimento per la figlia minorenne disposto in sede di separazione dei coniugi, che, in realtà, si tratta del reato (in conformità alla normativa applicabile ratione temporis) introdotto dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), che – estendendo alla separazione coniugale la tutela penale a tal fine già contemplata per i provvedimenti pronunciati nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio dall’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) – ha individuato come condotta penalmente sanzionata la «violazione degli obblighi di natura economica» mediante l’applicazione di tale ultima disposizione, che già prevedeva le pene stabilite dall’art. 570 cod. pen. per il coniuge che si fosse sottratto all’obbligo di corresponsione dell’assegno, in particolare, per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli. Tale delitto è oggi confluito nell’art. 570-bis cod. pen. in attuazione della «riserva di codice» (sentenza n. 189 del 2019), che continua a prevedere l’applicazione delle pene di cui all’art. 570 cod. pen. al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli.
Quindi, benché il giudice rimettente non si sia confrontato con tale più ampio quadro normativo, è ben chiaro che il “fatto” penalmente rilevante e per il quale il genitore resistente è già stato condannato con l’applicazione delle pene di cui all’art. 570 cod. pen., consiste nell’inadempimento dell’obbligo di natura economica fissato dal giudice per il mantenimento della prole. Ed è lo stesso “fatto” che il giudice rimettente assume a possibile presupposto della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla disposizione censurata.
Di qui la rilevanza delle questioni.
2.2.‒ Sotto un distinto profilo, neppure può ritenersi – come invece è avvenuto in altre fattispecie nelle quali era stato dedotto dinanzi a questa Corte il mancato rispetto del divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU (da ultimo, sentenza n. 222 del 2019; ordinanza n. 114 del 2020) – che l’ordinanza di rimessione, nell’argomentare la non manifesta infondatezza, in particolare, della prima questione di legittimità costituzionale, abbia descritto in modo insufficiente il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento poiché, sebbene la stessa non abbia espressamente richiamato la più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha comunque effettuato un sufficiente vaglio delle relative condizioni, non limitandosi ad assumere, sic et simpliciter, una violazione del divieto in questione, concepito in una prospettiva meramente processuale.
3.– Nel merito, la prima questione di legittimità costituzionale – con la quale il Tribunale rimettente assume la violazione da parte dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU sul divieto di bis in idem – non è fondata, in quanto è possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.
4.– Giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento in cui si inserisce la medesima disposizione.
L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilisce: «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende».
Tale disposizione è stata inserita, nelle norme del codice di procedura civile dedicate alla separazione coniugale, dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006, che ha contestualmente introdotto la regola generale dell’affidamento condiviso della prole della coppia parentale in regime di separazione, regola che è subito apparsa foriera di più frequenti controversie tra i genitori sulle modalità di attuazione di questo nuovo istituto con un maggiore coinvolgimento del giudice per dirimere ogni genere di contrasto.
La collocazione della norma nell’ambito della disciplina processuale della separazione coniugale non ne limita l’operatività a questo solo àmbito, in quanto l’art. 4, comma 2, della stessa legge n. 54 del 2006 stabilisce espressamente che le nuove disposizioni dettate per la separazione giudiziale si applicano anche ai casi di «scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».
L’art. 709-ter cod. proc. civ. demanda, nel primo comma, al giudice del procedimento in corso il potere di risolvere le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale ovvero alle modalità dell’affidamento. Tali “controversie” sono costituite da disaccordi e contrasti che insorgono di frequente tra i genitori quando si tratta di individuare le modalità attuative dell’affidamento, ossia le forme di esercizio della responsabilità genitoriale ogni qual volta sia stato pronunciato un provvedimento di affidamento.
Nelle ipotesi in cui vengano accertate, poi, gravi inadempienze rispetto agli obblighi contenuti nei provvedimenti sull’esercizio della potestà genitoriale o sull’affidamento della prole o, in alternativa, il compimento di atti che arrechino pregiudizio al minore ovvero ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il medesimo giudice può non soltanto modificare i provvedimenti in vigore, ma anche pronunciare, a carico del genitore inadempiente, le misure sanzionatorie di cui ai numeri da 1) a 4) della stessa disposizione.
Proprio da questi poteri demandati all’autorità giudiziaria dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. si evince che lo scopo principale della norma è quello di superare le difficoltà da lungo tempo emerse nella prassi applicativa rispetto alla possibilità di assicurare l’effettività del diritto della prole ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori – in linea con le finalità generali della stessa legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso – anche ove tale diritto sia riconosciuto in un provvedimento di carattere giurisdizionale che disciplina le modalità di affidamento, per tutti gli aspetti diversi da quelli economici, e il diritto/dovere di visita del genitore non collocatario, ossia profili afferenti a obbligazioni complesse di carattere infungibile, incidenti su diritti di carattere non patrimoniale.
Le evidenziate difficoltà si correlavano soprattutto alla sostanziale inidoneità del modello dell’esecuzione forzata delineato dal Terzo libro del codice di procedura civile per l’attuazione delle decisioni giudiziarie in tema di affidamento e responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori (o maggiorenni portatori di handicap) – inidoneità riconosciuta, pur incidentalmente, da questa Corte (ordinanza n. 68 del 1987) – almeno per tutti gli aspetti diversi dalle questioni di carattere economico. Per queste ultime, invece, oltre all’esecuzione per espropriazione forzata, sono previsti vari meccanismi volti ad assicurare una adeguata tutela del diritto di credito quali, ad esempio, il sequestro o il pagamento diretto da parte di terzi ai sensi dell’art. 156 del codice civile, e la possibilità ex art. 545 cod. proc. civ. di pignorare il trattamento stipendiale anche al di là del limite generale del cosiddetto quinto, oltre alla tutela penale di cui, attualmente, agli artt. 570 e 570-bis cod. pen.
In questo contesto deve collocarsi l’introduzione nel codice di procedura civile dell’art. 709-ter ad opera della legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso, quale disposizione volta principalmente a colmare oggettive lacune che si erano registrate nell’assicurare una tutela effettiva dei diritti della prole di una coppia genitoriale disgregata, correlati a obblighi di natura infungibile pur consacrati in provvedimenti giudiziari.
In particolare, si è consentito al giudice della cognizione – adito con il ricorso di cui all’art. 709-ter cod. proc. civ., a fronte di violazioni dei provvedimenti concernenti le modalità di esercizio della responsabilità genitoriale ovvero di quelle di affidamento – di modificare o integrare il contenuto di tali provvedimenti. Il legislatore, quindi, al fine di superare il problema derivante dall’inidoneità dell’esecuzione forzata, ha per un verso demandato al giudice di merito una nuova competenza, che si svincola da moduli rigidi come quelli esecutivi, per sfruttare pienamente la maggiore flessibilità della tutela giurisdizionale di cognizione, e risponde alla finalità di individuare l’autorità più adatta a risolvere le questioni che possono sorgere nella fase di attuazione della misura; per un altro, ha attribuito a tale giudice, accertato l’inadempimento alle statuizioni contenute nei provvedimenti già emanati nei confronti della coppia parentale, il potere di comminare, ove richiesto con ricorso ai sensi del secondo comma della stessa disposizione, le misure sanzionatorie ivi contemplate.
Quanto alla «sanzione amministrativa pecuniaria», dell’importo ricompreso tra un minimo di 75 euro ed un massimo di 5.000 euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dalla disposizione censurata in parte qua, la stessa realizza innanzi tutto – sul modello di altri sistemi processuali – una forma di indiretto rafforzamento dell’esecuzione delle obbligazioni di carattere infungibile. Si tratta di obbligazioni il cui adempimento dipende in via esclusiva dalla volontà dell’obbligato e l’esecuzione indiretta si realizza, previa necessaria istanza di parte, attraverso un sistema di compulsione all’adempimento spontaneo prevedendo, in mancanza dello stesso, l’obbligo di corrispondere una somma in favore dello Stato. In ciò tale modello si accosta nella finalità – pur divergendo nel meccanismo processuale – alle misure di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare introdotte successivamente dall’art. 614-bis cod. proc. civ., ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che – poi divenute misure di coercizione indiretta – hanno invece vocazione generale, consentono l’esercizio di un potere d’ufficio del giudice e prevedono la corresponsione delle somme liquidate in favore dell’altra parte.
5.‒ Ciò premesso quanto al contenuto della disposizione censurata, va ora chiarita la portata dell’invocato parametro.
5.1.‒ L’ordinanza di rimessione richiama, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., il divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU secondo cui «[n]essuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato».
Tale garanzia – operante anche per l’Italia stante l’invalidità, ritenuta dalla giurisprudenza della Corte EDU, della riserva a suo tempo presentata – è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo in modo da non correlarsi esclusivamente alla qualificazione, nel diritto interno degli Stati contraenti, di una sanzione come penale, nel senso che possono assumere rilievo, in via alternativa, la natura della misura e la gravità delle conseguenze in cui l’accusato rischia di incorrere (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi). Una sanzione può pertanto essere qualificata come sostanzialmente penale, ove ciò possa desumersi, alternativamente, dalla natura dell’infrazione (rispetto alla quale occorre considerare il carattere e la struttura della norma trasgredita, ad esempio verificando se essa si caratterizza in termini di generalità dei destinatari o valutando la caratura degli interessi che essa tutela), ovvero dalla natura e dalla gravità della sanzione (con riferimento a quest’ultimo profilo, come evidenziato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, possono ad esempio assumere rilevanza: lo scopo punitivo-deterrente della sanzione: sentenza 21 febbraio 1984, Ozturk contro Repubblica federale tedesca; il grado di afflittività della sanzione: sentenza 24 febbraio 1994, Bendenoun contro Francia; la pertinenzialità rispetto ad un fatto di reato: sentenza 23 settembre 1998, Malige contro Francia).
È noto che inizialmente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha declinato in una prospettiva prevalentemente processuale il principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, affermando che lo stesso tutela l’individuo non tanto contro la possibilità di essere sanzionato due volte per il medesimo reato, ma ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per un reato per il quale è stato già giudicato, non importa se con esito assolutorio o di condanna (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
In seguito, tuttavia, nella giurisprudenza della stessa Corte si è registrata una significativa evoluzione nell’interpretazione della portata del divieto convenzionale di bis in idem rispetto ai procedimenti sanzionatori misti, evoluzione che è stata suggellata dalla pronuncia della grande camera, resa il 15 novembre 2016 in relazione al caso A. e B. contro Norvegia, la quale – avvicinandosi armonicamente a quelle che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Fransson), erano le declinazioni del medesimo divieto, per come espresso dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – ha affermato che sottoporre a processo penale una persona già sanzionata a livello amministrativo con l’applicazione di una sanzione sostanzialmente penale non viola di per sé il divieto di bis in idem, purché tra i due procedimenti vi sia una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, nel quadro di un approccio unitario e coerente e le risposte sanzionatorie cumulate non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato. Ne deriva che i due procedimenti possono non solo essere avviati, ma anche concludersi con l’irrogazione di due distinte sanzioni purché ricorrano, congiuntamente, le seguenti condizioni: le sanzioni perseguano finalità differenti ed abbiano in concreto ad oggetto profili diversi della medesima condotta antisociale; la duplicità dei procedimenti costituisca una conseguenza prevedibile della condotta; vi sia un’interazione probatoria tra i procedimenti, realizzata mediante la collaborazione tra le autorità preposte alla definizione degli stessi; ricorra una stretta connessione sul piano temporale tra i due procedimenti, pur non strettamente paralleli, tale da non assoggettare l’incolpato ad un “eterno giudizio” per il medesimo fatto; la sanzione comminata nel primo procedimento sia tenuta in considerazione nell’altro, in modo che venga rispettata una proporzionalità complessiva della pena.
Pertanto, la previsione di un duplice binario sanzionatorio per il medesimo fatto non viola il principio di ne bis in idem allorché si tratti di procedimenti paralleli e integrati sotto l’aspetto sia sostanziale che temporale.
5.2.‒ A fronte di tale decisione, questa stessa Corte, con la sentenza n. 43 del 2018, in ragione del «mutamento del significato della normativa interposta, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione per effetto di una pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo, che esprime il diritto vivente europeo», ha restituito gli atti al giudice a quo che aveva denunciato una violazione del principio del ne bis in idem nell’accezione convenzionale a fronte di una fattispecie normativa di cosiddetto doppio binario sanzionatorio, attraverso il parametro interposto dell’art. 117, primo comma, Cost., per una necessaria rivalutazione della questione sollevata. In proposito, nella stessa sentenza n. 43 del 2018, questa Corte ha sottolineato che, a fronte della decisione resa dalla grande camera della Corte di Strasburgo nel caso A. e B. contro Norvegia, si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi come preordinati ad un’unica, prevedibile e non sproporzionata, risposta punitiva.
Il principio del ne bis in idem ha quindi finito con l’acquisire una forte connotazione sostanziale pur non perdendo quella processuale, posto che presuppone l’esistenza di un duplice procedimento.
Inoltre, come più volte affermato da questa Corte, il principio del ne bis in idem trova, sebbene ivi non espressamente contemplato, saldo fondamento nella Costituzione (sentenze n. 381 del 2006, n. 230 del 2004 e n. 284 del 2003).
Come incisivamente sottolineato dalla sentenza n. 200 del 2016, tale principio si correla agli artt. 24 e 111 Cost., in quanto «è immanente alla funzione ordinante cui la Carta ha dato vita, perché non è compatibile con tale funzione dell’ordinamento giuridico una normativa nel cui ambito la medesima situazione giuridica possa divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire» ed è volto a evitare che il singolo possa essere esposto ad una spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto.
Sotto un distinto profilo, non può trascurarsi che nell’ordinamento nazionale il medesimo principio, inteso secondo un connotato anche sostanziale, si salda, seppur a livello di normazione primaria, con il generale canone di specialità espresso non solo per i reati dall’art. 15 cod. pen., ma, con riferimento ai rapporti tra sanzioni amministrative e sanzioni penali dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), finalizzato ad impedire tendenzialmente una “doppia incriminazione” sostanziale per il medesimo fatto. Il principio di specialità tra sanzioni amministrative e penali è inoltre ribadito dall’art. 19 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), avente anch’esso lo scopo di evitare che un identico fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto, tanto come illecito amministrativo, quanto come illecito penale.
Pertanto, costituisce principio cardine del nostro sistema quello per il quale un doppio binario sanzionatorio rappresenta non già una regola, bensì un’eccezione, che però deve trovare giustificazione in esigenze di complementarità del trattamento punitivo complessivo.
5.3.‒ Mette conto anche ricordare che il principio del ne bis in idem, oltre ad assurgere a principio interno di rango costituzionale, trova tutela, come accennato, anche nell’art. 50 CDFUE secondo cui «[n]essuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge»; disposizione che, stante la clausola di equivalenza contenuta nel terzo periodo dell’art. 52, incorpora il contenuto minimo dell’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la previsione di un duplice binario sanzionatorio non confligge con il principio di ne bis in idem ove: la normativa di riferimento persegua un obiettivo di interesse generale, tale da giustificare il cumulo di procedimenti e di sanzioni, che devono avere uno scopo complementare; contenga norme che garantiscano un coordinamento che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare derivante per i soggetti interessati da un cumulo di procedimenti; preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario in relazione alla gravità del reato di cui si tratti (grande sezione, sentenza 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci; sentenza 20 marzo 2018, in causa C-537/16, Garlsson Real Estate e altri; sentenza 20 marzo 2018, in cause C-596/16 e C-597/16, Di Puma e altri).
Pertanto, sulla portata del principio del divieto di bis in idem si registra ormai una convergenza coerente, in una prospettiva di tutela multilivello dei diritti, della giurisprudenza di questa Corte con quella delle Corti europee.
6.‒ L’applicazione nella fattispecie in esame di tale principio e dei limiti in cui possa ritenersi legittimo il doppio binario sanzionatorio, secondo la richiamata giurisprudenza tanto della Corte europea dei diritti dell’uomo che di questa Corte, che ne ha condiviso gli ultimi sviluppi (sentenze n. 222 del 2019 e n. 43 del 2018), dà fondamento e corpo al dubbio di legittimità costituzionale espresso dal giudice rimettente con la prima questione.
Ed infatti, da una parte alla sanzione contemplata dall’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., anche se espressamente definita amministrativa, deve riconoscersi natura sostanzialmente penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem, in virtù dei criteri enunciati dalla Corte EDU sin dalla pronuncia Engel contro Paesi Bassi.
Assume rilievo in tal senso, in primo luogo, la gravità della sanzione pecuniaria irrogabile sino ad un importo massimo di 5.000 euro; gravità che deve essere invero valutata nello specifico contesto di misure irrogate in ambito familiare, diverso da quello del diritto dell’impresa o altresì da quello di significative violazioni in materia tributaria.
La natura pubblicistica e deterrente della sanzione è inoltre evidente per la circostanza che la stessa è disposta non in favore dell’altra parte, bensì della Cassa delle ammende.
Inoltre, sussisterebbe anche l’idem factum della condotta sanzionata in sede penale, con le pene di cui all’art. 570 cod. pen., e di quella sanzionata in sede civile, con la «sanzione amministrativa pecuniaria», ove appunto si ritenesse – come, pur plausibilmente, assume il giudice rimettente – che tra gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore» possa rientrare anche l’inadempimento dell’obbligo di pagamento dell’assegno di mantenimento della prole.
6.1.‒ Se così, la legittimità della doppia sanzione per l’idem factum dovrebbe, in tal caso, confrontarsi – nella prospettiva del giudice a quo – con il rispetto del canone della “stretta connessione nella sostanza e nel tempo”, enunciato dalla citata sentenza A. e B. contro Norvegia della Corte EDU e recepito, come limite al generale principio del ne bis in idem, anche dalla giurisprudenza di questa Corte.
Benché rientri nella discrezionalità del legislatore prevedere, in deroga del principio di specialità, un apparato sanzionatorio articolato su più misure complementari e integrate – penali, amministrative, civili – il cui controllo di legittimità sia affidato a giudici diversi, occorre però che sussista un “nesso sufficientemente stretto in sostanza e in tempo” (un «lien matériel et temporel suffisamment étroit», secondo la citata sentenza della Corte EDU) tale da formare un “insieme coerente” in una logica di complementarietà per il raggiungimento di un obiettivo complessivo di repressione dell’idem factum.
Invece nella fattispecie in esame si avrebbe, in primo luogo, che, sul piano della sussistenza del nesso sostanziale, non sarebbe identificabile una funzione differenziata, quand’anche parzialmente, nelle due sanzioni previste, le quali invece risulterebbero parimenti accomunate dalla stessa finalità di deterrenza, a carattere special-preventivo, volta a indurre il genitore al pagamento dell’assegno di mantenimento in favore della prole, senza che sia necessario attivare gli strumenti del processo esecutivo civile. Le sanzioni, penale e “amministrativa”, risulterebbero essere del tutto sovrapponibili e non già complementari.
Inoltre mal si concilia con il criterio di stretta connessione nella sostanza un completamento solo eventuale – e quindi, in fondo, casuale – del trattamento sanzionatorio complessivo perché da una parte, a fronte della perseguibilità d’ufficio del reato di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006 (e oggi di quello di cui all’art. 570-bis cod. pen.: Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 30 gennaio-24 febbraio 2020, n. 7277), l’applicazione della sanzione amministrativa presuppone che ci sia un ricorso del genitore che, nel contesto di una controversia insorta in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento, lamenti l’inadempimento dell’altro genitore obbligato al pagamento dell’assegno di mantenimento per la prole. D’altra parte il giudice, pur a fronte di tale comprovato inadempimento, non sarebbe comunque obbligato ad irrogare la sanzione pecuniaria “amministrativa”, potendo limitarsi – come prevede la disposizione censurata – ad ammonire il genitore inadempiente o a condannarlo al risarcimento del danno; misure che, pur avendo una connotazione latamente punitiva, non hanno natura sostanzialmente penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem.
In secondo luogo, la sanzione “amministrativa” contemplata dal secondo comma, numero 4), dell’art. 709-ter cod. proc. civ., per come è costruita, non consente di ritenere prevedibile, per il soggetto che pone in essere la condotta, la duplice risposta sanzionatoria in applicazione di norme chiare e precise; ciò implica che non dev’esservi discrezionalità nell’irrogazione delle sanzioni, potendo solo in tal modo il soggetto agente sapere che, se porrà in essere una condotta illecita, incorrerà non soltanto nella sanzione penale, ma anche in quella pecuniaria “amministrativa”. Al contrario, l’irrogazione della sanzione “amministrativa” di cui all’art. 709-ter cod. proc. civ. dipende da una serie di variabili correlate alla volontà del genitore che lamenti l’inadempimento dell’altro genitore. Solo a seguito del ricorso del primo, nel contesto di una procedura di separazione o scioglimento degli effetti civili del matrimonio, è possibile per il giudice adito l’emanazione di una misura di contrasto dell’inadempimento nell’esercizio della responsabilità genitoriale o nelle modalità dell’affidamento; misura che, peraltro, nel quadro di quelle contemplate dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ., potrebbe – come già sottolineato – essere, anche a fronte di una medesima condotta, quella diversa dell’ammonimento o del risarcimento del danno.
Né la rilevata assenza di una stretta connessione tra le sanzioni penale e “amministrativa”, potrebbe essere superata dalla sola possibilità di comminare un trattamento sanzionatorio complessivo proporzionale alla gravità del fatto. La proporzionalità di quest’ultimo, pur costituendo un criterio di preminente importanza, non può rappresentare l’unica ragione giustificatrice, in assenza di una stretta connessione sotto il profilo sostanziale, della duplice repressione di un medesimo fatto. La possibilità di irrogare una sanzione proporzionata costituisce, invero, un posterius rispetto alla valutazione in ordine alla connessione stretta tra diverse sanzioni per lo stesso fatto.
7.‒ Si ha quindi che il possibile contrasto tra la disposizione censurata e il principio del ne bis in idem – che, per le ragioni appena indicate, insorgerebbe ove la prima fosse interpretata nei termini indicati dal giudice rimettente – conduce univocamente verso un’interpretazione alternativa che sia costituzionalmente orientata nel senso di escludere la duplice sanzione dell’idem factum in assenza di una “stretta connessione in sostanza e nel tempo”.
Nella fattispecie in esame può ben ritenersi che la sanzione pecuniaria “amministrativa” introdotta dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006 (con la previsione dell’art. 709-ter cod. proc. civ.) sia simmetrica e parallela a quella prevista dal successivo art. 3 e non già complementare a quest’ultima.
Come già sopra anticipato, tale legge ha previsto, all’art. 1, la regola generale dell’affidamento condiviso dei minori e dell’esercizio tendenzialmente congiunto della potestà genitoriale rimettendo al giudice ogni decisione in caso di disaccordo. La stessa disposizione ha novellato l’art. 155 cod. civ. sui provvedimenti riguardo ai figli e ha introdotto, in particolare, l’art. 155-bis cod. civ., che regola l’affidamento a un solo genitore e l’opposizione all’affidamento condiviso, e l’art. 155-ter cod. civ. sulla revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.
A fronte di nuovi diritti e nuovi obblighi, spesso di fare infungibile, e in assenza (all’epoca) di misure indirette per favorirne l’esecuzione (le misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ. sarebbero state introdotte solo alcuni anni dopo), lo stesso legislatore ha approntato, all’art. 2, uno specifico e mirato strumento processuale di tutela, costituito appunto dall’art. 709-ter cod. proc. civ. La ratio di tale norma è ben posta in evidenza dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato che «l’intento del legislatore appare palesemente quello di fornire uno strumento per la soluzione di conflitti tra genitori, riguardo ai figli, che, a seguito della nuova normativa, potrebbero presentarsi più frequentemente» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21718). In altra pronuncia si è fatta applicazione dell’art. 709-ter cod. proc. civ. con riferimento alla violazione delle prescrizioni date dal giudice nel calendario delle visite del minore (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 giugno 2018, n. 16980). Parimenti – nell’escludersi l’applicabilità dell’art. 614-bis cod. proc. civ. – si è però precisato come la disposizione censurata possa offrire tutela al diritto di visita del figlio minore del genitore non collocatario a fronte delle condotte pregiudizievoli poste in atto dall’altro genitore (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 6 marzo 2020, n. 6471).
Parallelamente lo stesso legislatore ha rafforzato, all’art. 3, la già esistente tutela penale a fronte di una tipica obbligazione pecuniaria suscettibile di esecuzione forzata, oltre che di altre misure di garanzia della responsabilità patrimoniale, quale è quella avente ad oggetto l’assegno di mantenimento della prole nelle procedure di separazione dei coniugi e di scioglimento degli effetti civili del matrimonio. L’art. 3, infatti, prevede per la «violazione degli obblighi di natura economica» l’applicazione dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e quindi le pene contemplate dall’art. 570 cod. pen.
Questo parallelismo tra l’art. 2, che ha introdotto l’art. 709-ter cod. proc. civ., e l’art. 3, che ha rafforzato l’art. 12-sexies citato, consente di escludere, in forza del canone dell’interpretazione conforme, che le due norme si intersechino e che la condotta sanzionata come reato dall’art. 3 della legge n. 54 del 2006 con le pene dell’art. 570 cod. pen. possa essere sanzionata anche con la pena pecuniaria “amministrativa” dell’art. 2.
La disposizione censurata ha dunque la sua ratio e la sua giustificazione nell’esigenza di assicurare una tutela effettiva rispetto all’adempimento di una serie di obblighi di carattere prevalentemente infungibile nei confronti della prole, per i quali prima dell’emanazione della stessa mancavano efficaci strumenti di attuazione e di coazione.
Per converso gli aspetti patrimoniali del rapporto tra i genitori e la prole, relativi all’assegno di mantenimento, non hanno mai posto significativi problemi attuativi, in quanto le relative pronunce sono eseguibili nelle forme del processo esecutivo per espropriazione (anche mediante un pignoramento dei crediti del debitore) e presidiate in sede penale dal reato di cui all’art. 570-bis cod. pen. (sentenza n. 189 del 2019) e finanche – ove il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento ridondi in deprivazione dei mezzi di sussistenza – da quello di cui all’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen.
L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., deve quindi essere interpretato nel senso che il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento della prole, nella misura in cui è già sanzionato penalmente, non è compreso nel novero delle condotte inadempienti per le quali può essere irrogata dall’autorità giudiziaria adita la sanzione pecuniaria “amministrativa” in esame. Le condotte suscettibili di tale sanzione sono infatti “altre”, ossia le tante condotte, prevalentemente di fare infungibile, che possono costituire oggetto degli obblighi relativi alla responsabilità genitoriale e all’affidamento di minori.
Pertanto, nei termini sopra precisati, la prima questione deve ritenersi non fondata.
8.‒ L’ordinanza di rimessione, assumendo la natura sostanzialmente penale, in virtù dei criteri elaborati dalla già ricordata giurisprudenza della Corte EDU, della misura contemplata dalla disposizione censurata, dubita, inoltre, della compatibilità della stessa con l’art. 25, secondo comma, Cost., nella parte in cui sanziona anche gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore», per violazione del canone di determinatezza in ordine alla individuazione dei comportamenti sanzionabili.
8.1.– La questione non è fondata.
Il principio di legalità di cui all’invocato parametro costituzionale, che trova applicazione anche per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente punitiva (sentenze n. 139 del 2019 e n. 223 del 2018), non risulta violato dalla disposizione censurata.
Il secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. – come già rilevato – individua in via alternativa le condotte che possono giustificare l’applicazione delle sanzioni ivi previste, le quali possono consistere in gravi inadempienze, da riferirsi agli obblighi concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriale o l’affidamento dei minori; ovvero in atti che comunque arrechino pregiudizio al minore; o anche in atti che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento.
La censura del Tribunale rimettente si appunta, in particolare, sulla ritenuta indeterminatezza dell’espressione «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore».
La giurisprudenza di legittimità – premesso che l’art. 709-ter cod. proc. civ. attribuisce al giudice la facoltà di applicare una o più tra le misure previste dalla stessa norma nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti «che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» – ha precisato che l’uso della congiunzione disgiuntiva evidenzia che avere ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali relative alle modalità di affidamento dei figli è un fatto che giustifica di per sé l’applicazione di una o più tra le misure previste, anche in mancanza di un pregiudizio in concreto accertato a carico del minore (sentenza della Corte di cassazione n. 16980 del 2018).
È possibile quindi individuare i comportamenti sanzionabili in quelle condotte – da ricondurre a “inadempienze o violazioni” di prescrizioni dettate in un provvedimento giurisdizionale, pur non apparentemente “gravi” – che abbiano arrecato alla prole un danno, anche non patrimoniale, accertabile e valutabile secondo gli ordinari criteri.
Questa Corte ha del resto costantemente ribadito il principio secondo cui il ricorso a un’enunciazione sintetica della norma incriminatrice, piuttosto che a un’analitica enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza purché, mediante l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, sia possibile attribuire un significato chiaro, intelligibile e preciso alla previsione normativa (sentenze n. 25 e n. 24 del 2019 e n. 172 del 2014).
È peraltro compatibile con il principio di determinatezza l’uso, nella formula descrittiva dell’illecito sanzionato, di una tecnica esemplificativa oppure di concetti extragiuridici diffusi o, ancora, di dati di esperienza comune o tecnica (così già la sentenza n. 42 del 1972), tanto più ove, come nella fattispecie considerata, l’opera maieutica della giurisprudenza, specie di legittimità, consenta di specificare il precetto legale (sentenza n. 139 del 2019).
9.‒ Il Tribunale ordinario di Treviso dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., nella parte in cui stabilisce il limite massimo dell’importo della sanzione pecuniaria “amministrativa” nella somma di euro 5.000. La censura è posta in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., indicando come tertium comparationis l’art. 570 cod. pen., che prevede, per una condotta che costituisce reato, la pena della multa in una misura massima pari a euro 1.032.
9.1.– La questione non è fondata.
Il reato che viene in rilievo ai fini della comparazione posta dal giudice rimettente, non esclusa di per sé dall’interpretazione conforme della disposizione censurata, nei termini sopra indicati, è quello avente ad oggetto la condotta costituita dall’omesso pagamento dell’assegno di mantenimento della prole disposto nell’ambito del giudizio di separazione. Avendo riguardo alla normativa applicabile ratione temporis, il reato – come già rilevato – è quello di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006, che aveva esteso alla separazione tale tutela penale già contemplata dall’art. 12-sexies della legge n. 898 del 1970 per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento dei figli disposto dalla sentenza di divorzio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La pena applicabile è quella di cui al primo comma dell’art. 570 cod. pen., al quale il predetto art. 12-sexies rinvia per la sua determinazione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866) e quindi la pena della multa è alternativa e non congiunta a quella della reclusione.
Vi è però pur sempre il maggiore stigma sociale che si correla alla comminazione di sanzioni anche solo pecuniarie, ma formalmente qualificate come penali, al di là dell’importo concreto della pena irrogata, non senza considerare che comunque è prevista, in via alternativa, la pena della reclusione, che di per sé connota la maggiore gravità del trattamento sanzionatorio.
Non sussiste quindi alcun ingiustificato trattamento differenziato.
10.‒ Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal giudice rimettente con riferimento all’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., sono quindi tutte infondate nei termini sopra indicati.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, dal Tribunale ordinario di Treviso con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 3, primo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Treviso con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA