SENTENZA N. 155 ANNO 2020

Sentenza 155/2020 (ECLI:IT:COST:2020:155)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente: CARTABIA - Redattore:  ZANON
Udienza Pubblica del 23/06/2020;    Decisione  del 25/06/2020
Deposito del 21/07/2020;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  Art. 11 quater della legge 11/02/2019, n. 12 (recte: art. 11 quater del decreto- legge 14/12/2018, n. 135, convertito con modificazioni, nella legge 11/02/2019, n. 12).
Massime: 
Atti decisi: ric. 53/2019
  

Pronuncia

SENTENZA N. 155

ANNO 2020


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11-quater della legge 11 febbraio 2019, n. 12 (recte: art. 11-quater del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione», convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12), promosso dalla Regione Toscana, con ricorso notificato il 10-15 aprile 2019, depositato in cancelleria il 17 aprile 2019, iscritto al n. 53 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito il Giudice relatore Nicolò Zanon ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 23 giugno 2020;

deliberato nella camera di consiglio del 25 giugno 2020.


Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 10-15 aprile 2019 e depositato il successivo 17 aprile (reg. ric. n. 53 del 2019), la Regione Toscana ha impugnato l’art. 11-quater della legge 11 febbraio 2019, n. 12 (recte: art. 11-quater del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione», convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12), nella parte in cui, attraverso l’inserimento dei commi 1-quinquies e 1-septies nell’art. 12 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), dispone che il canone di concessione delle grandi derivazioni idroelettriche, previsto al comma 1-quinquies, ed il canone aggiuntivo, di cui al successivo comma 1-septies, corrisposti alle Regioni, siano rispettivamente destinati – per almeno il (o per un importo non inferiore al) 60 per cento – alle Province e alle Città metropolitane il cui territorio sia interessato dalle medesime derivazioni.

Le disposizioni impugnate, secondo la ricorrente, contrasterebbero con gli artt. 117, terzo comma, 118 e 119, primo, secondo e quarto comma, della Costituzione.

2.– La Regione Toscana ricorda in apertura come – nel testo novellato dall’art. 11-quater del d.l. n. 135 del 2018 – il comma 1 dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999 abbia stabilito il passaggio a titolo gratuito, in favore delle Regioni, della proprietà delle opere idroelettriche per le quali siano scadute le concessioni in atto, o vi siano state revoche e rinunce alle concessioni stesse.

Con il medesimo intervento normativo (nuovo comma 1-bis del citato art. 12), lo Stato ha previsto che le Regioni, ove non ritengano sussistere un prevalente interesse pubblico a un diverso utilizzo delle acque, incompatibile con il mantenimento dell’uso a fine idroelettrico, possono assegnare le concessioni di grandi derivazioni idroelettriche a operatori economici, individuati mediante l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica, oppure a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato sia ugualmente scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica, o infine mediante forme di partenariato pubblico-privato.

Modalità e procedure dell’assegnazione dovranno essere regolate con leggi regionali entro il 31 dicembre 2020. Sempre mediante legge regionale, secondo i criteri indicati nel comma 1-quinquies dell’art. 12, a carico dei concessionari dovrà essere determinato un canone semestrale.

È stabilito che una quota di tale canone, pari almeno al 60 per cento, sia destinata «alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni» (nuovo comma 1-quinquies dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999). Inoltre, fino alla nuova assegnazione della concessione, il titolare del rapporto scaduto è tenuto a versare alla Regione un canone aggiuntivo rispetto al canone demaniale, da corrispondere per l’esercizio degli impianti nelle more dell’assegnazione. Anche tale canone aggiuntivo è destinato «per un importo non inferiore al 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni» (nuovo comma 1-septies del citato art. 12).

3.– La Regione Toscana assume che le due disposizioni concernenti la destinazione dei canoni siano illegittime, in quanto impositive di un vincolo puntuale a favore di Province e Comuni, non giustificato, nella materia in questione, dall’esistenza di funzioni assegnate a tali enti locali.

A tale proposito, richiamando la giurisprudenza costituzionale che ha tratteggiato l’evoluzione della disciplina delle derivazioni idroelettriche (è citata la sentenza n. 1 del 2008), la ricorrente ricorda che, innovando il precedente regime di proprietà e di gestione statale per le strutture comprese nel territorio di Regioni a statuto ordinario, nel 1998 era intervenuta una nuova regolazione della materia (art. 86 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59»). In particolare, pur conservandosi al momento la proprietà statale, la gestione del demanio idrico era stata trasferita alle Regioni, salvo quella delle grandi derivazioni (per le quali le concessioni avrebbero dovuto essere rilasciate dallo Stato, d’intesa con le Regioni interessate), riservata appunto allo Stato fino a quando non fosse stata recepita la direttiva 96/92/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 dicembre 1996, concernente norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica.

La direttiva in questione ha ricevuto attuazione con il già citato d.lgs. n. 79 del 1999, così determinandosi la condizione per il trasferimento alle Regioni della completa gestione delle derivazioni. A partire dal 1° gennaio 2001 è stato effettuato – mediante il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 ottobre 2000 (Individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di demanio idrico) – il trasferimento alle Regioni del personale, delle strutture e degli atti concernenti le derivazioni di acque pubbliche.

Con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, alle Regioni ordinarie è stata attribuita competenza legislativa concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (art. 117, terzo comma, Cost).

Resta confermato, secondo la ricorrente, che nessuna competenza è riservata, nella materia in discussione, a Province e Città metropolitane.

4.– La Regione Toscana richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui, nell’ambito di una materia attribuita alla competenza legislativa concorrente, le Regioni hanno titolo a determinare i canoni per le concessioni idroelettriche, fermi restando i principi di onerosità e proporzionalità in rapporto all’entità dello sfruttamento della risorsa pubblica e a quella dei profitti ricavati (sono citate le sentenze n. 158 del 2016 e n. 64 del 2014). La censurata previsione di una devoluzione obbligatoria del 60 per cento ad enti territoriali violerebbe quindi l’art. 117, terzo comma, Cost., trattandosi di precetto specifico e puntuale, impartito con disposizione di dettaglio.

Per altro verso, premessa la spettanza alle Regioni della competenza amministrativa nella materia, la ricorrente assume che l’incompleta disponibilità delle entrate finanziarie costituite dai canoni per le concessioni idroelettriche si risolve in un ostacolo al corretto esercizio delle funzioni relative, con conseguente violazione dell’art. 118 Cost.

Per la stessa ragione sarebbe vulnerata l’autonomia finanziaria delle Regioni, garantita dall’art. 119 Cost., e in particolare dal quarto comma della previsione costituzionale. Secondo il computo prospettato dalla ricorrente, le norme impugnate priverebbero la Regione Toscana di un importo di circa 2,2 milioni di euro (su 3,7 milioni complessivi) a fini di esercizio delle proprie competenze funzionali nella materia.

Ancora, la violazione dell’art. 119, secondo comma, Cost. emergerebbe, ad avviso della ricorrente, dal fatto che le disposizioni censurate, contenendo precetti specifici e puntuali sull’entità delle entrate e delle spese, non varrebbero ad esprimere principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, ma detterebbero norme di dettaglio, incompatibili con l’autonomia finanziaria della Regione (sono citate le sentenze n. 43 del 2016, n. 22 del 2014, n. 217 e n. 139 del 2012, n. 182 del 2011, n. 237 del 2009, n. 169 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 36 del 2004).

5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio con atto depositato il 27 maggio 2019.

Dopo avere a sua volta riassunto contenuti ed evoluzione della disciplina in esame, l’Avvocatura chiede che le questioni sollevate dalla Regione Toscana siano dichiarate non fondate, in base all’assunto che lo Stato, nella specie, avrebbe esercitato la propria competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, che comprenderebbe pacificamente l’uso delle acque e il relativo regime concessorio. In proposito sono evocate due disposizioni del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), gli artt. 144 (che stabilisce la pertinenza al demanio dello Stato di tutte le acque) e 154 (che assegna allo Stato la fissazione di criteri generali per la determinazione, ad opera delle Regioni, dei canoni di concessione per l’utenza di acqua pubblica).

Spetterebbe bensì alle Regioni la determinazione dei canoni di concessione, in base alla competenza concorrente prevista (art. 117, terzo comma, Cost.) in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (sono citate le sentenze n. 158 del 2016, n. 85 e n. 64 del 2014), ma la competenza statale a definire, mediante decreti ministeriali, i criteri generali per la fissazione della misura dei canoni stessi discenderebbe dal secondo comma dell’art. 117 Cost., ed in particolare dalla competenza legislativa esclusiva dello Stato per la «tutela della concorrenza» (è citata la sentenza n. 59 del 2017).

In sostanza, ad avviso della difesa dello Stato, la ricorrente avrebbe potuto dolersi solo d’una determinazione statale dell’ammontare dei canoni, ciò che, tuttavia, le disposizioni impugnate non prevedono affatto.

Quanto infine all’obbligatoria destinazione di una quota maggioritaria dei canoni alle Province o alle Città metropolitane, lo Stato avrebbe esercitato la propria competenza concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica» (art. 117, terzo comma, Cost.). D’altronde – osserva l’Avvocatura generale – è risalente il principio che una parte delle risorse ricavate dai canoni riscossi dalle derivazioni idroelettriche (nella specie del “sovracanone”, istituito dalla legge 27 dicembre 1953, n. 959, recante «Norme modificatrici del T.U. delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici») debba essere destinata alle comunità locali che risentono della presenza delle deviazioni e delle opere idrauliche nel proprio territorio (sono citate le sentenze di questa Corte n. 533 del 2002, n. 257 del 1982 e n. 132 del 1957).

6.– Con memoria depositata il 2 marzo 2020 la Regione Toscana ha insistito per l’accoglimento delle proposte questioni di legittimità costituzionale.

Secondo la ricorrente, dal quadro della giurisprudenza costituzionale emerge che la quantificazione e l’introito dei canoni sono materia di competenza concorrente, in quanto relativi alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (sono citate le sentenze n. 59 del 2017, n. 158 del 2016, n. 85 e n. 64 del 2014, n. 205 del 2011 e n. 1 del 2008). La competenza statale sarebbe limitata alla determinazione delle soglie massime, in ottica di tutela della concorrenza (sentenze n. 59 del 2017, n. 158 del 2016 e n. 28 del 2014), mentre la determinazione in concreto dei canoni spetterebbe alle Regioni, come confermato dalla stessa normativa censurata, dopo che l’intera gestione del demanio idrico, e le funzioni concernenti i canoni, sono state loro trasferite dal d.lgs. n. 112 del 1998 (anche con riguardo alle grandi derivazioni, dopo il recepimento della direttiva 96/92/CE mediante il d.lgs. n. 79 del 1999).

Non sarebbe dunque conferente il riferimento alle competenze statali in materia di tutela dell’ambiente.

Quanto alla destinazione necessaria della quota maggioritaria dei canoni, osserva la ricorrente che il citato d.lgs. n. 112 del 1998 aveva rimesso interamente alle Regioni la gestione dei proventi delle concessioni, e che sarebbe del tutto implausibile attribuire alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione un effetto di parziale riduzione di tale autonomia (è citata la sentenza di questa Corte n. 13 del 2004).

Privi poi di pertinenza sarebbero anche i rilievi dell’Avvocatura generale sulla destinazione del sovracanone, basati sull’assunto di una pretesa sua assimilazione al canone di concessione, ed invece qualificabile come prestazione patrimoniale imposta a fini solidaristici, attinente alla materia della finanza locale (è citata la sentenza n. 533 del 2002). Ribadisce la ricorrente che, per parte sua, il canone di concessione risponde solo ai criteri generali di onerosità e di proporzionalità (sentenza n. 158 del 2016 e n. 85 del 2014).

D’altronde – prosegue la difesa della Regione – lo Stato avrebbe potuto imporre una parziale utilizzazione dei canoni in chiave compensativa per gli enti territoriali indicando un principio in tal senso e lasciando dettare alle Regioni la normativa di dettaglio, utile a definire le specifiche modalità del ristoro parziale delle collettività locali, a fronte dell’uso industriale delle acque.

Invece, le disposizioni impugnate avrebbero direttamente stabilito la devoluzione automatica di più della metà del canone alle Province e alle Città metropolitane, che pure mancherebbero di funzioni in materia e che non sarebbero nemmeno le collettività locali più direttamente interessate dall’utilizzo della risorsa idrica da parte dei concessionari delle grandi derivazioni.

Infine, le disposizioni impugnate non rientrerebbero nemmeno nell’ambito della competenza statale per il «coordinamento della finanza pubblica». Poiché tali disposizioni conterrebbero previsioni puntuali e specifiche, che non consentono alla Regione alcun margine di attuazione, anche quanto alla specifica destinazione di una entrata, non si sarebbe realmente in presenza di disposizioni di principio in tale materia (sono citate le sentenze di questa Corte n. 238 e n. 87 del 2018, n. 183 del 2016, n. 218 e n. 153 del 2015, n. 289 del 2013 e n. 69 del 2011).


Considerato in diritto

1.– La Regione Toscana ha impugnato l’art. 11-quater della legge 11 febbraio 2019, n. 12 (recte: art. 11-quater del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 recante «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione», convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12), nella parte in cui, attraverso l’inserimento dei commi 1-quinquies e 1-septies nell’art. 12 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), dispone che il canone di concessione delle grandi derivazioni idroelettriche, previsto al comma 1-quinquies, ed il canone aggiuntivo, di cui al successivo comma 1-septies, corrisposti alle Regioni, siano rispettivamente destinati – per almeno il (o per un importo non inferiore al) 60 per cento – alle Province e alle Città metropolitane il cui territorio sia interessato dalle medesime derivazioni.

Ritiene la ricorrente che le disposizioni censurate violerebbero anzitutto l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, poiché determinazione e riscossione dei canoni versati dai concessionari di derivazioni idroelettriche attengono alla materia «produzione, trasporto e distribuzione dell’energia», di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, nel cui ambito è preclusa allo Stato l’adozione di norme di dettaglio, introduttive di precetti specifici e puntuali quanto alla destinazione dei canoni così determinati e riscossi.

Vi sarebbe altresì violazione dell’art. 118 Cost., poiché le disposizioni impugnate priverebbero le Regioni di una cospicua risorsa finanziaria, ostacolando il corretto esercizio delle funzioni amministrative assegnate alle Regioni medesime nella materia in questione.

Infine, sarebbe violato l’art. 119, primo, secondo e quarto comma, Cost., poiché l’introduzione di norme che riducono le risorse finanziarie utilizzabili dalle Regioni, con previsioni di dettaglio che esulano dalla formulazione di principi fondamentali della materia, relativamente a funzioni legislative e amministrative proprie delle Regioni medesime, provocherebbe per dette Regioni una limitazione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa e pregiudicherebbe il criterio di adeguatezza delle risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni indicate.

2. – Le questioni sollevate su entrambe le disposizioni impugnate sono fondate, per violazione di tutti i parametri evocati.

Così come rilevato dalla Regione ricorrente, e peraltro non contestato dall’Avvocatura generale dello Stato, la disciplina delle grandi derivazioni idroelettriche è, per gli aspetti qui rilevanti, rimessa alla competenza concorrente di Stato e Regioni, in virtù di quanto stabilito al terzo comma dell’art. 117 Cost. con riferimento alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia».

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte è costante.

Così, a fronte di ricorsi regionali che avevano impugnato una legge statale introduttiva di una proroga di lungo periodo delle concessioni in atto per grandi derivazioni idroelettriche, si era chiarito come la competenza esclusiva statale dovesse riguardare le procedure di assegnazione delle concessioni (rientranti nella tutela della concorrenza, che peraltro veniva in quel caso frustrata dal ritardo imposto nella liberalizzazione del mercato), ma la materia fosse per il resto riconducibile, appunto, alla competenza concorrente concernente l’energia. Un ambito materiale, quest’ultimo, in cui la legislazione dello Stato è chiamata a dettare principi fondamentali e non invece norme di dettaglio, tali dovendosi considerare quelle concernenti una determinata e generalizzata proroga dei rapporti concessori in atto (sentenza n. 1 del 2008).

Successivamente, di fronte ad un nuovo provvedimento di proroga, l’assunto è stato confermato: «[l]e disposizioni impugnate, […] in quanto attengono alla durata ed alla programmazione delle concessioni di grande derivazione d’acqua per uso idroelettrico, si ascrivono alla materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, attribuita alla competenza legislativa concorrente». E poiché, anche in quel caso, le norme censurate ponevano un precetto specifico e puntuale – prevedendo la proroga automatica di dette concessioni – esse dovevano configurarsi quali norme di dettaglio, conseguendone l’illegittimità costituzionale (sentenza n. 205 del 2011).

Ancora più rilevante per il caso di specie, e altrettanto chiara, è la giurisprudenza costituzionale relativa alla quantificazione della misura dei canoni dovuti dai concessionari di impianti di grandi derivazioni d’acqua a scopo idroelettrico, che ha particolarmente considerato le interferenze tra legislazione statale e regionale al riguardo. Se infatti la sentenza n. 28 del 2014 aveva limitato la competenza legislativa esclusiva statale alla disciplina delle procedure di gara e di assegnazione delle concessioni, la successiva sentenza n. 64 del 2014 ha ribadito la riconducibilità della materia al terzo comma dell’art. 117 Cost., procedendo poi alla disamina di quelli che, in base alla normativa statale intervenuta al momento, potevano considerarsi principi fondamentali della materia «produzione, distribuzione e trasporto nazionale dell’energia». Essi erano stati individuati nel principio di onerosità della concessione e in quello della proporzionalità del canone alla entità dello sfruttamento della risorsa pubblica e all’utilità economica che il concessionario ne ricava.

La sentenza n. 85 del 2014 aveva poi confutato la tesi – anche in quel giudizio sostenuta dall’Avvocatura generale a supporto del ricorso proposto dallo Stato contro una legge regionale che determinava la misura dei canoni di concessione idroelettrica – che nella specie fosse rilevante la materia «tutela dell’ambiente» e fosse dunque violata la competenza legislativa esclusiva dello Stato stesso: giacché, osservò questa Corte, il ricorrente faceva sostanzialmente riferimento alla competenza in tema di servizio idrico integrato, «ambito questo ben diverso da quello afferente alle derivazioni a scopo idroelettrico, rispetto al quale non può ritenersi che si verta in materia di tutela dell’ambiente, quanto piuttosto prevalentemente in materia di energia».

La sentenza n. 158 del 2016 – nel confermare la non conferenza del riferimento alla materia della tutela ambientale – ha poi specificamente rigettato la tesi secondo cui la disciplina dei canoni atterrebbe interamente alla «tutela della concorrenza». Quest’ultimo ambito rileva, piuttosto, con riguardo alla definizione di «criteri generali» per la fissazione degli importi massimi, restando comunque anche quest’ultima determinazione, nel rispetto di quei criteri, rimessa alla legislazione regionale. In sintesi, è dunque «ascrivibile alla tutela della concorrenza non l’intera disciplina della determinazione dei canoni delle concessioni ad uso idroelettrico […] ma soltanto la definizione dei “criteri generali” che debbono poi essere seguiti dalle Regioni al momento di stabilire la misura dei canoni». Si è aggiunto che, d’altra parte, questa soluzione è «in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui la natura di materia trasversale della tutela della concorrenza fa sì che essa possa intersecare qualsivoglia titolo di competenza legislativa regionale, ma “nei limiti strettamente necessari per assicurare gli interessi” cui è preposta (sentenze n. 452 del 2007 e n. 272 del 2004)».

Questo assunto è con chiarezza confermato dalla sentenza n. 59 del 2017, in cui si ribadisce che determinazione e quantificazione della misura dei canoni devono essere ricondotte alla competenza legislativa concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., mentre è ascrivibile alla «tutela della concorrenza» la definizione, con decreto ministeriale, dei «criteri generali» che condizionano la determinazione, da parte delle Regioni, dei valori massimi dei canoni. La sentenza riafferma, inoltre, che le Regioni, salvo l’onere di adeguarsi a quanto verrà stabilito dallo Stato, hanno attualmente titolo, nell’ambito della propria competenza, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., a determinare i canoni idroelettrici nel rispetto dei già menzionati principi fondamentali della onerosità della concessione e della proporzionalità del canone alla entità dello sfruttamento della risorsa pubblica e all’utilità economica che il concessionario ne ricava (nello stesso senso anche la sentenza n. 119 del 2019).

Come si vede, pur non avendo mai direttamente affrontato questioni relative alla disciplina dell’utilizzo e della destinazione dei canoni di spettanza dell’ente concedente, la giurisprudenza di questa Corte ha disegnato un quadro, complesso ma stabile, che riferisce alla materia di competenza concorrente più volte ricordata («produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia») le disposizioni relative alla misura dei canoni di concessione, in tale ambito spettando allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (onerosità della concessione e proporzionalità del canone all’entità dello sfruttamento della risorsa pubblica e all’utilità economica che il concessionario ne ricava) e alla Regione la fissazione del quantum, nel rispetto dei criteri generali di competenza esclusiva statale che condizionano, per ragioni di tutela della concorrenza, la determinazione dei valori massimi.

3. – Pur incorporando proprio le due disposizioni impugnate nel presente giudizio, la più recente normativa statale intervenuta in materia di grandi derivazioni idroelettriche – cioè il d.l. n. 135 del 2018, come convertito nella legge n. 12 del 2019 – si presenta in linea con il quadro appena delineato.

La nuova disciplina dispone il passaggio in proprietà delle Regioni delle opere e degli impianti di cui all’art. 25 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici). Reca altresì – a fini di coerenza con la normativa dell’Unione europea – le regole cui dovrà attenersi la legislazione regionale a venire, in particolare in tema di modalità e termini per lo svolgimento delle procedure di assegnazione in concessione delle grandi derivazioni idroelettriche in scadenza, di criteri di ammissione alla gara, di requisiti dei partecipanti, ed enuncia altresì principi e criteri generali per la determinazione dei canoni. A quest’ultimo proposito, riconosce espressamente la competenza regionale quanto alla fissazione in concreto della misura dei canoni stessi, ribadendo i già ricordati principi fondamentali in materia.

Nel contesto di tale disciplina, le due disposizioni impugnate appaiono dissonanti, proprio perché connotate da un grado di pervasività e di dettaglio incompatibile, sia con il livello di principio cui si mantiene il resto della disciplina relativa ai canoni, sia con la materia nel caso di specie conferente.

Il comma 1-quinquies dell’art. 11-quater del d.l. n. 135 del 2018 prevede che il canone demaniale, determinato con legge regionale secondo i principi indicati dalla stessa disposizione, «è destinato per almeno il 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni».

Il successivo comma 1-septies, a sua volta, stabilisce che il titolare di una concessione scaduta deve riversare alla Regione un «canone aggiuntivo» rispetto al canone demaniale, «da corrispondere per l’esercizio degli impianti nelle more dell’assegnazione». Anche tale canone aggiuntivo, precisa la disposizione, «è destinato per un importo non inferiore al 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni».

Ebbene, al lume della giurisprudenza prima riassunta, è corretto l’assunto di fondo della Regione ricorrente: le scelte normative appena descritte si risolvono, infatti, in previsioni specifiche circa il quantum da destinare alle Province e alle Città metropolitane, per fini generali di finanziamento. Non muta certo la loro natura – nel senso di collocarle a un livello di principio – la circostanza che tali previsioni indichino solo una percentuale minima, consentendo così, ma solo in astratto, una diversa determinazione regionale: giacché è evidente che questa scelta, pur concepibile, dovrebbe esclusivamente orientarsi verso la destinazione agli enti ricordati di una quota addirittura maggiore del canone e del canone aggiuntivo, nella sola prospettiva di un’ulteriore riduzione delle entrate regionali.

D’altra parte, posto che canoni e canoni aggiuntivi sono determinati dagli atti di concessione, sulla base della legislazione statale e delle successive leggi regionali, sulla scorta di parametri matematici, è possibile calcolare con una certa precisione il costo dell’applicazione delle norme impugnate a carico della finanza regionale. E così, del resto, ha fatto la Regione ricorrente nei propri atti difensivi, con puntuali riferimenti a dati analitici riferiti alle entrate del caso di specie, come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte laddove le Regioni lamentino la violazione dei principi contenuti nell’art. 119 Cost. a causa dell’inadeguatezza delle risorse a loro disposizione (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2019, n. 5 del 2018, n. 192 del 2017, n. 249 e n. 125 del 2015).

Risulta così evidente che la legge dello Stato, attraverso una disposizione di dettaglio – disposta, oltretutto, in favore di enti territoriali privi di competenze funzionali o gestionali in materia di grandi derivazioni idroelettriche – stabilisce la destinazione di una quota maggioritaria del canone e del canone aggiuntivo dovuto alla Regione dai concessionari, spingendosi fino a quantificare in misura predeterminata (sia pure in termini percentuali) i fondi da “dirottare” fuori della disponibilità regionale.

Si verifica in tal modo non solo la violazione del riparto di competenze stabilito dall’art. 117, terzo comma, Cost., ma altresì la lesione degli artt. 118 e 119 Cost., posto che dall’applicazione delle norme impugnate risulterebbero più che dimezzati gli introiti derivanti dalle concessioni in esame, ciò che rende credibile il lamentato pregiudizio per il pieno e corretto esercizio delle funzioni amministrative regionali in materia (art. 89, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, recante «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59»).

In queste condizioni, sono in effetti a rischio la corretta ripartizione delle risorse, la necessaria corrispondenza tra queste ultime e le relative funzioni amministrative e, in ultimo, la garanzia del buon andamento dei servizi con quelle risorse finanziati (sentenze n.10 del 2016, n. 188 del 2015, n. 4 del 2014 e n. 51 del 2013). Ben vero che l’autonomia finanziaria costituzionalmente garantita agli enti territoriali, come costantemente afferma la giurisprudenza di questa Corte, non comporta una rigida garanzia quantitativa e che le risorse disponibili possono subire modifiche e, in particolare, riduzioni. Ma la giurisprudenza costituzionale ha allo stesso modo chiarito che tali riduzioni non devono rendere difficile, o addirittura impossibile, lo svolgimento delle funzioni attribuite (ancora sentenza n. 83 del 2019).

4.– Non colgono nel segno gli argomenti opposti dalla difesa statale.

Non è conferente l’evocazione, oltretutto piuttosto generica, di ambiti di competenza implicanti addirittura una riserva di legislazione in favore dello Stato, come la «tutela dell’ambiente» – che, come visto, la giurisprudenza costituzionale non ha mai considerato pertinente in tema di canoni di concessione relativi alle grandi derivazioni idroelettriche – oppure la «tutela della concorrenza», i cui limiti di influenza nell’ambito materiale in esame sono già stati illustrati.

Non corretto risulta altresì l’ulteriore argomento sviluppato dalla difesa dello Stato a sostegno della non fondatezza delle censure, incentrato sull’evocazione di una competenza statale in tema di «coordinamento della finanza pubblica».

L’Avvocatura generale menziona la sentenza n. 533 del 2002 di questa Corte, nata da impugnative dello Stato e della Regione Veneto contro una norma della Provincia autonoma di Bolzano, con la quale si era disposto che i cosiddetti sovracanoni, relativi a concessioni di derivazione di acque pubbliche per uso idroelettrico, fossero versati alla Provincia contestualmente al versamento dei canoni demaniali. La sentenza in questione aveva riferito la disciplina di tali sovracanoni alla materia della «finanza locale» – avuto riguardo all’art. 80 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) – e riconosciuto il rango di “principio generale” alle norme statali che destinano le somme riscosse a quel titolo ai consorzi tra i Comuni del bacino imbrifero relativo alla grande derivazione (con conseguente illegittimità della legge provinciale che in quel caso li destinava, invece, alla Provincia autonoma di Bolzano).

Il riferimento alla disciplina dei sovracanoni è, tuttavia, fuorviante. Questi ultimi – come proprio la sentenza n. 533 del 2002 ha contribuito a chiarire – sono prestazioni patrimoniali diverse da quelle concernenti i canoni demaniali, e sono previste e regolate da norme apposite (art. 1, comma ottavo, della legge 27 dicembre 1953, n. 959, recante «Norme modificatrici del T.U. delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici», e art. 53 del r.d. n. 1775 del 1933), non interessate dalla recente novella in tema di grandi derivazioni.

I sovracanoni si differenziano dal canone demaniale, anzitutto per il destinatario: non il concedente, ma il consorzio di Comuni, o degli enti locali comunque incisi dalle opere destinate a compensare l’alterazione del corso naturale delle acque per effetto della loro regimazione artificiale (art. 1, quattordicesimo comma, della legge n. 959 del 1953), o ancora i «Comuni rivieraschi [e le] rispettive Province» (art. 53, primo comma, del r.d. n. 1775 del 1933). Si distinguono, inoltre, per la finalizzazione (il progresso economico e sociale delle popolazioni sulle quali impatta la grande derivazione, nonché la realizzazione di opere di sistemazione montana non di competenza statale). Diversa infine è la loro natura giuridica, non essendo il sovracanone posto in relazione sinallagmatica con il rilascio della concessione, presentandosi invece quale «prestazione patrimoniale imposta a fini solidaristici» (sentenza n. 533 del 2002), non correlata alla utilizzazione dell’acqua pubblica (in particolare, si veda il già citato quattordicesimo comma dell’art. 1 della legge n. 959 del 1953).

La determinazione dei sovracanoni è, quindi, riferita dalla sentenza n. 533 del 2002 alle materie della «armonizzazione dei bilanci pubblici» e del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», in allora entrambe interamente comprese nella previsione dell’art. 117, terzo comma, Cost. come materie di potestà legislativa concorrente.

Il fatto è che la disciplina censurata dalla Regione Toscana non riguarda i sovracanoni e non può quindi ripetere quella finalizzazione economico-sociale che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, dovrebbe giustificarla, e che dovrebbe emergere dalla destinazione dei fondi ad enti locali genericamente «interessati» dalle derivazioni.

Del resto, i sovracanoni previsti dalla disciplina attualmente vigente si distinguono nettamente dal canone demaniale e dal canone aggiuntivo previsti rispettivamente dai commi 1-quinquies e 1-septies dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999.

Questa conclusione si impone rispetto al comma 1-quinquies dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999, il quale – nel contesto, si ricordi, di un trasferimento delle opere concernenti grandi derivazioni alla proprietà delle Regioni – prescrive nel primo e nel secondo periodo il pagamento di un canone ad opera dei concessionari, di natura chiaramente dominicale.

Ma vale anche per la seconda disposizione, che riguarda le prestazioni dovute dai titolari di concessione scaduta per l’esercizio della stessa fino alla sua (nuova) assegnazione. La norma, che prevede la prosecuzione della fornitura di energia e del versamento del canone già indicati al comma 1-quinquies, prescrive «un canone aggiuntivo, rispetto al canone demaniale», chiaramente imposto in ragione della possibilità di esercitare e sfruttare la concessione dopo la sua scadenza. E anche per questo «canone aggiuntivo» è previsto un versamento alle Province (o Città metropolitane), in misura non inferiore al 60 per cento.

Da un lato non v’è ragione di supporre che il legislatore abbia fatto ricorso casuale ad una espressione diversa da quella di sovracanone, quale quella di «canone aggiuntivo»: espressione che sta appunto ad indicare un canone che si aggiunge a quello demaniale e non si distingue, per natura, da questo. Dall’altro lato, la permanente vigenza della disciplina dei sovracanoni – non solo non incisa dalla complessiva disciplina qui in questione, ma, soprattutto, non coinvolta dall’accoglimento delle questioni sollevate dalla ricorrente – tranquillizza quanto al permanente adempimento delle distinte esigenze solidaristiche e di finanza pubblica, a favore degli enti locali territoriali interessati, cui tale ultima disciplina presiede.

Per quel che occorra, si deve aggiungere che la stessa invocazione della materia del coordinamento della finanza pubblica, con il connesso riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, implica un contesto normativo in cui sarebbe comunque illegittima una normativa statale recante un vincolo dettagliato di destinazione delle entrate spettanti alle Regioni. Sicché, se la legislazione statale intendesse, in futuro, configurare correttamente un principio che affermi il concorso degli enti locali alla fruizione delle entrate provenienti dai concessionari di grandi derivazioni (estendendo anche all’ambito materiale dei canoni demaniali il principio affermato in precedenza solo riguardo ai sovracanoni), dovrebbe prescindere da una quantificazione in dettaglio delle percentuali di riparto, limitandosi a stabilire la “direttiva” per una distribuzione, secondo criteri razionali, dei fondi rivenienti dallo sfruttamento delle derivazioni idroelettriche, tenendo peraltro conto, in primo luogo, della necessità delle Regioni di disporre delle risorse adeguate per il corretto esercizio delle funzioni amministrative assegnatele in materia, come già si è detto (supra, punto 3).

Nell’attuale tenore, invece, entrambe le previsioni censurate si mostrano per quello che sono, e cioè disposizioni di dettaglio configuranti uno specifico vincolo, quantitativamente determinato, su entrate di spettanza regionale, che non può che ridurre fortemente la capacità regionale di esercitare correttamente le corrispondenti funzioni amministrative, e che dispone la destinazione maggioritaria delle risorse medesime al finanziamento di enti locali privi di funzioni sulle grandi derivazioni idroelettriche, e il cui territorio è solo genericamente interessato da queste ultime.

Le disposizioni impugnate sono pertanto in contrasto con tutti i parametri evocati dalla ricorrente.


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11-quater del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135 (Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, nella legge 11 febbraio 2019, n. 12, che ha inserito i commi 1-quinquies ed 1-septies nell’art. 12 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), limitatamente, nel comma 1-quinquies, al periodo «Il canone così determinato è destinato per almeno il 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni», e, nel comma 1-septies, al periodo «; tale canone aggiuntivo è destinato per un importo non inferiore al 60 per cento alle province e alle città metropolitane il cui territorio è interessato dalle derivazioni».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2020.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2020.

Il Cancelliere

F.to: Roberto MILANA