SENTENZA N. 165
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 6, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria nel procedimento vertente tra D. D.A. e altri e la Presidenza del Consiglio dei ministri e altri, con ordinanza del 30 aprile 2019, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti l’atto di costituzione di D. D.A., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Daria de Pretis ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 23 giugno 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 24 giugno 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 30 aprile 2019, iscritta al n. 152 del registro ordinanze del 2019, il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 6, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
Il rimettente è stato adito da D. D.A., ricercatore confermato a tempo indeterminato in possesso di abilitazione scientifica nazionale di prima fascia, per l’annullamento, sia della nota con cui l’Università della Calabria, presso cui presta servizio, ha respinto la sua istanza di essere sottoposto alla valutazione per la chiamata in ruolo come professore associato, sia del regolamento del citato ateneo sulla chiamata dei professori di ruolo di prima e seconda fascia, nonché per l’accertamento del suo diritto soggettivo a essere sottoposto alla procedura di valutazione.
Nel giudizio principale, promosso nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, del Ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, nonché dell’Università della Calabria, sono intervenuti ad adiuvandum altri ricercatori a tempo indeterminato con abilitazione scientifica nazionale e mai valutati dai propri atenei per la chiamata nel ruolo dei professori associati.
1.1.– Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 6, della legge n. 240 del 2010 nella parte in cui prevede che la procedura di valutazione di cui al comma 5 dello stesso articolo «può essere utilizzata», anziché «è utilizzata», per la chiamata nel ruolo di professore di prima e seconda fascia di ricercatori a tempo indeterminato e nella parte in cui prevede il termine ultimo del 31 dicembre 2019 per l’utilizzazione di tale procedura. L’art. 24 sui “Ricercatori a tempo determinato” definisce al comma 3, lettera b), la figura del ricercatore cosiddetto “di tipo B” e stabilisce, al citato comma 5, che «nel terzo anno di contratto di cui al comma 3, lettera b), l’università valuta il titolare del contratto stesso, che abbia conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16, ai fini della chiamata nel ruolo di professore associato, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera e)».
1.2.– Dopo avere respinto il motivo di ricorso fondato sul preteso contrasto della norma censurata con il diritto dell’Unione europea, il rimettente ritiene impraticabile un’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto la lettera dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010 – là dove prevede, al comma 5, che nel terzo anno di contratto l’università «valuta» il ricercatore di tipo B in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale ai fini della chiamata in ruolo come professore associato e, al comma 6, che la stessa procedura di valutazione «può» essere utilizzata, ai medesimi fini, per i ricercatori a tempo indeterminato muniti anch’essi dell’abilitazione scientifica nazionale – deporrebbe con chiarezza nel senso di individuare a carico dell’università un obbligo di valutazione solo nel primo caso e una mera facoltà nel secondo.
Le questioni sarebbero dunque rilevanti, giacché soltanto il loro accoglimento consentirebbe di annullare il diniego impugnato nel giudizio principale.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ricostruisce sinteticamente il quadro normativo delineato dalla riforma di cui alla legge n. 240 del 2010 con riguardo alle figure dei ricercatori a tempo determinato, titolari dei contratti di lavoro subordinato disciplinati alle lettere a) e b) del comma 3 dell’art. 24, e all’esaurimento del ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato istituito dall’art. 1 del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché´ sperimentazione organizzativa e didattica) e osserva che la norma censurata violerebbe innanzi tutto l’art. 3 Cost., per irragionevolezza «estrinseca» e per lesione del principio di uguaglianza.
Sotto il primo profilo, la scelta legislativa di non sottoporre “di diritto” i ricercatori a tempo indeterminato che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica nazionale alla valutazione della propria università per la chiamata nel ruolo di professore di prima e seconda fascia sarebbe incongrua rispetto al fine di selezionare i docenti meritevoli, perseguito dalla legge n. 240 del 2010. Non vi sarebbe ragionevole giustificazione di limitare per costoro la indicata chiamata e ciò produrrebbe, inoltre, l’effetto paradossale di negare il diritto di essere valutato a un ricercatore a tempo indeterminato con abilitazione di prima fascia, attribuendolo invece a un ricercatore a tempo determinato con abilitazione solo di seconda fascia.
Ad avviso del rimettente, l’irragionevolezza del trattamento riservato ai ricercatori a tempo indeterminato potrebbe rivelarsi ancora «più profonda» qualora la Corte di giustizia dell’Unione europea, pronunciando su un rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 3 aprile 2019, n. 4336, ritenesse che la clausola 5 (recante «Misure di prevenzione degli abusi») dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva n. 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 2008, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato, vada interpretata nel senso che osti a una normativa nazionale che, come quella italiana, preclude ai ricercatori cosiddetti “di tipo A”, assunti con contratto di lavoro a tempo determinato di durata triennale prorogabile per due anni, la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato. La stabilizzazione di tali ricercatori, infatti, «li assimilerebbe di molto ai ricercatori confermati».
Sotto il secondo profilo, la norma censurata introdurrebbe un’irragionevole disparità di trattamento dei ricercatori a tempo indeterminato che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica nazionale rispetto ai ricercatori a tempo determinato di tipo B in possesso di analoga abilitazione, per i quali il citato comma 5 dell’art. 24, assunto a tertium comparationis, prevede l’automatica sottoposizione a valutazione nel terzo anno di contratto ai fini della chiamata in ruolo come professori associati. E ciò nonostante l’omogeneità delle due situazioni quanto a modalità di reclutamento (pubblico concorso con valutazione di titoli e pubblicazioni, da discutere pubblicamente con una commissione), a mansioni (ricerca, didattica, didattica integrativa e di servizio agli studenti) e a impegno lavorativo (350 ore in regime di tempo pieno nei primi tre anni), «in disparte le differenze eminentemente legate alla durata del rapporto».
1.3.1.– L’art. 24, comma 6, della legge n. 240 del 2010 violerebbe altresì l’art. 97 Cost.
Il rimettente osserva che questa Corte, in fattispecie diversa, ha già affermato che l’obiettivo di favorire il ricambio generazionale nell’università, pur appartenendo alla discrezionalità del legislatore, deve essere bilanciato, nel rispetto dell’art. 97 Cost., con l’esigenza di mantenere in servizio docenti in grado di dare un positivo contributo per l’esperienza professionale acquisita, in funzione dell’efficiente andamento del servizio (è citata la sentenza n. 83 del 2013). Analogamente, «pur nel rinnovo dello statuto della figura del ricercatore», contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’amministrazione «ostacolare la progressione di ricercatori di esperienza sol perché entrati nel vigore di pregressa disciplina».
2.– Con atto depositato il 21 ottobre 2019 si è costituito in giudizio D. D.A., ricorrente nel processo principale, che ha concluso per l’accoglimento delle questioni.
Dopo avere tratteggiato le figure del ricercatore a tempo indeterminato e di quello a tempo determinato di tipo B, mettendone in evidenza le caratteristiche comuni per modalità di reclutamento e mansioni a essi riservate, la parte privata aderisce sostanzialmente alle censure mosse dal rimettente.
Quanto alla violazione del principio di uguaglianza nell’accesso al ruolo dei professori associati, i ricercatori a tempo indeterminato sarebbero sottoposti, rispetto ai loro omologhi a tempo determinato di tipo B, a un trattamento penalizzante e discriminatorio, aggravato dal fatto che i secondi hanno maturato, al momento della valutazione, un periodo di servizio di soli tre anni, pari alla durata del loro contratto, mentre i primi potrebbero avere conseguito – come avrebbe effettivamente conseguito il ricorrente nel processo principale – un’anzianità di servizio ben più lunga, oltre ad avere superato la procedura di conferma con valutazione dell’attività di ricerca scientifica e di didattica integrativa da parte di una commissione nazionale.
Un’ulteriore «sperequazione» ai danni dei ricercatori a tempo indeterminato, «assolutamente gratuita e incomprensibilmente punitiva», deriverebbe poi dalla possibilità, concessa dall’attuale formulazione dell’art. 24, comma 3, lettera b), della legge n. 240 del 2010, che i contratti ivi disciplinati siano stipulati non solo con i ricercatori a tempo determinato di tipo A o con i titolari degli assegni di ricerca previsti all’art. 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), come era stabilito ab origine, ma anche con chi abbia conseguito l’abilitazione scientifica nazionale di prima o di seconda fascia ovvero abbia usufruito per almeno tre anni non consecutivi degli assegni di ricerca di cui all’art. 22 della stessa legge n. 240 del 2010. Mentre nell’impianto originario di quest’ultima legge si accedeva alla posizione di ricercatore di tipo B solo avendo maturato un periodo almeno triennale di servizio con l’università (nella forma del contratto di tipo A o dell’assegno di ricerca ex art. 51, comma 6, della legge n. 449 del 1997), nell’attuale assetto normativo possono accedere anche soggetti che non hanno intrattenuto alcun rapporto di servizio con l’università. E, come rilevato dal giudice a quo, potrebbe assurdamente capitare che un ricercatore di ruolo in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale di prima fascia, come lo stesso ricorrente nel processo principale, non venga chiamato dal proprio ateneo come professore associato, mentre dovrebbe essere chiamato un ricercatore a tempo determinato di tipo B che abbia conseguito la sola abilitazione di seconda fascia.
Il denunciato trattamento normativo violerebbe anche gli artt. 4 e 35 Cost. Tali disposizioni impedirebbero al legislatore di introdurre senza giustificazione razionale norme che comprimono le aspettative di crescita professionale dei lavoratori, con particolare riguardo a quelli che, come i ricercatori universitari, prestano un servizio pubblico. La «elevazione professionale» dei ricercatori a tempo indeterminato si troverebbe in una sorta di limbo, rimessa alle scelte discrezionali dell’università di appartenenza, che potrebbero dipendere da circostanze e valutazioni indipendenti dal merito e legate, ad esempio, a ragioni di carattere economico-finanziario e alla disponibilità dei cosiddetti “punti organico”.
Quanto alla violazione dell’art. 97 Cost., una disciplina che, come quella censurata, subordina l’avanzamento in carriera dei ricercatori di ruolo a valutazioni del tutto discrezionali nell’an e nel quando, senza dare rilievo al merito dell’attività scientifica e didattica svolta, svilirebbe la figura principalmente coinvolta nell’attività di ricerca scientifica, in contrasto con lo scopo che l’art. 1 della legge n. 240 del 2010, richiamando gli artt. 9, comma primo, e 33, comma primo, Cost., assegna alle università quali «sede primaria di libera ricerca e di libera formazione nell’ambito dei rispettivi ordinamenti e [...] luogo di apprendimento ed elaborazione critica delle conoscenze».
Il ricercatore di ruolo, a differenza di quello a tempo determinato di tipo B, si troverebbe infatti in una situazione di vera e propria soggezione nei confronti del proprio ateneo, che ne minerebbe la libertà di ricerca. Sarebbe posto in condizione di «subalternità rispetto alla sua struttura di afferenza, nonché rispetto ai professori ordinari del suo settore scientifico disciplinare» e al «potere di fatto che il professore ordinario “di riferimento” [...] è in grado di esercitare nell’ambito del Dipartimento». Un ricercatore a tempo indeterminato di eccellente valore potrebbe non essere chiamato nei ruoli di professore associato solo perché «nel suo settore scientifico disciplinare è stato attivato un posto da ricercatore di tipo B, che vincola apposite risorse per la chiamata di quest’ultimo», a prescindere dal merito. La perdita di ogni chance di progressione in carriera provocherebbe nel ricercatore a tempo indeterminato demotivazione e frustrazione, con inevitabili ricadute sul suo rendimento e con compromissione, oltre che delle istanze di promozione della ricerca scientifica e della libertà di trasmissione del sapere garantite dalla Costituzione, anche del principio di buon andamento, che le università sono tenute a rispettare.
La norma censurata contrasterebbe, infine, con l’art. 2 Cost. Nel contesto dell’università, formazione sociale dove si sviluppa la personalità dello studioso nella relazione con i colleghi, essa riserverebbe alla valutazione discrezionale del dipartimento di appartenenza la decisione sulla progressione in carriera del ricercatore di ruolo in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, così mortificandolo in ambito lavorativo e peggiorandone il rendimento e la qualità della vita, nonché la stessa dignità.
3.– Con atto depositato il 22 ottobre 2019 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza delle questioni.
Ad avviso dell’interveniente, la ratio della automatica procedura di valutazione riservata ai ricercatori di tipo B (cosiddetta tenure-track), di cui al comma 5 dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010, risiederebbe nella necessità di assicurare il trattenimento nell’ateneo del ricercatore che ivi si è formato all’esito di un percorso lungo, strutturato e contraddistinto da un susseguirsi di contratti a tempo determinato, assolvendo dunque anche a una finalità di stabilizzazione dell’organico. Senza tale procedura, infatti, il ricercatore di tipo B, a differenza di quello a tempo indeterminato, non avrebbe più alcun rapporto di lavoro con l’università, perderebbe continuità scientifica e sarebbe tagliato fuori dal sistema nelle more dell’indizione delle ordinarie procedure comparative di reclutamento ex art. 18 della legge n. 240 del 2010.
Il comma 6 dello stesso art. 24, invece, sarebbe una norma speciale che consente alle università, per un periodo di tempo limitato, di utilizzare la procedura del comma 5 per chiamare nel ruolo dei professori di prima e seconda fascia sia professori associati che ricercatori a tempo indeterminato in servizio nelle medesime università e in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, entro un contingente massimo rispetto alla totalità delle assunzioni di professori e utilizzando risorse destinate a tal fine, fino alla metà di quelle necessarie per coprire i posti disponibili di professore di ruolo.
Sussisterebbero dunque differenze tra i soggetti destinatari delle due procedure, nonché tra le rationes sottese alle stesse procedure e tra i loro presupposti, in quanto l’una, di carattere obbligatorio, è volta a immettere nel ruolo dei professori associati ricercatori sui quali l’università ha investito negli anni e che sarebbero destinati altrimenti a uscire dal sistema, mentre con l’altra il legislatore ha inteso concedere alle università la facoltà di far progredire in ruolo studiosi già inquadrati tra i docenti a tempo indeterminato.
La differenza sostanziale alla base del diverso meccanismo di progressione dovrebbe essere individuata nel «differente percorso che struttura i due profili in esame».
Il ricercatore di tipo B, infatti, è sottoposto a un primo concorso per stipulare il contratto a tempo determinato di tipo A, alla valutazione per il rinnovo biennale di tale contratto, a un secondo concorso per accedere al contratto a tempo determinato di tipo B, alla valutazione per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e, infine, alla valutazione per l’immissione nel ruolo dei professori associati.
Il ricercatore a tempo indeterminato, invece, sarebbe una figura residua del vecchio sistema di reclutamento universitario contraddistinta da una maggiore stabilità. Per giungere all’immissione in ruolo quale professore di seconda fascia, deve aver superato un solo concorso e avere ottenuto la conferma in ruolo, oltre all’abilitazione scientifica nazionale. L’ordinamento avrebbe comunque apprestato anche per tale figura specifiche chance di carriera, mediante la procedura speciale ex art. 24, comma 6, o mediante quella ordinaria ex art. 18 della legge n. 240 del 2010.
La progressione del ricercatore di tipo B non potrebbe essere assimilata a quella del ricercatore a tempo indeterminato, in quanto caratterizzata da molteplici prove concorsuali e valutazioni della produttività scientifica, che giustificherebbero «l’automatismo premiale» delineato dal legislatore, cui si affianca un «meccanismo di incentivo» della produttività degli studiosi al fine di reclutare i migliori, selezionati attraverso un puntuale percorso di perfezionamento. Il ricercatore a tempo indeterminato vedrebbe invece consolidarsi la propria posizione con il primo concorso e la valutazione per la conferma. La diversità e non assimilabilità delle due figure, alla base dei diversi sistemi di reclutamento, sarebbe stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza amministrativa.
La prospettata violazione dell’art. 3 Cost. non sarebbe dunque fondata e, anzi, un’equiparazione di trattamento determinerebbe una discriminazione al contrario, favorendo ingiustamente i ricercatori a tempo indeterminato e sottraendo le risorse vincolate alla tenure-track a vantaggio di coloro che sono già stabili nel sistema. Inoltre, sarebbe compressa l’autonomia costituzionalmente garantita alle università in ordine alle politiche di reclutamento e all’uso delle risorse economiche, che rimarrebbero in gran parte vincolate alla chiamata di studiosi già nei rispettivi ruoli. Ciò che comporterebbe la contestuale erosione del principio di comparazione, sotteso alle procedure di cui all’art. 18 della legge n. 240 del 2010, e la diminuzione delle chance di chiamata di soggetti estranei all’ateneo.
Infine, la temporaneità della previsione censurata sarebbe giustificata dalla sua eccezionalità, avendo il legislatore delineato un regime transitorio nel quale gli atenei possono valorizzare i docenti in servizio escludendo le procedure comparative aperte anche agli “esterni”, in considerazione della contestuale introduzione, ai fini della progressione in carriera, dell’ulteriore requisito dell’abilitazione scientifica nazionale.
4.– Il ricorrente nel processo principale ha depositato il 1° giugno 2020 una memoria illustrativa, insistendo per l’accoglimento delle questioni.
4.1.– In primo luogo, osserva che per effetto dei piani straordinari di reclutamento dei ricercatori a tempo determinato di tipo B, ai quali il legislatore ha fatto ripetutamente ricorso negli ultimi anni – da ultimo, con il decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), in corso di conversione – per fare fronte al drammatico aumento del precariato universitario, la discriminazione subìta dai ricercatori a tempo indeterminato si sarebbe notevolmente acuita.
Infatti, allorché i ricercatori di tipo B – così reclutati – accedono alla posizione di professore di seconda fascia ex art. 24, comma 5, della legge n. 240 del 2010, le risorse attribuite per il loro reclutamento straordinario devono essere utilizzate dalle università come co-finanziamento di tali posizioni, per le quali non sono state previste risorse aggiuntive. Il meccanismo così congegnato dai decreti ministeriali di attuazione dei suddetti piani straordinari (il primo dei quali sarebbe stato impugnato da alcuni ricercatori a tempo indeterminato, tuttavia con esito negativo: è citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 23 marzo 2020, n. 2022, che avrebbe rilevato il difetto di interesse dei ricorrenti) comporterebbe, di conseguenza, la sottrazione delle risorse a disposizione degli atenei per la chiamata dei ricercatori a tempo indeterminato nel ruolo dei professori associati.
4.2.– In secondo luogo, la parte ribadisce che la possibilità di stipulare contratti di tipo B in regime di tempo definito – recentemente ammessa dall’art. 5, comma 5-bis, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi), convertito, con modificazioni, nella legge 28 giugno 2019, n. 58 – consentirebbe a un ricercatore di quel tipo che avesse conseguito l’abilitazione scientifica nazionale, dopo soli tre anni di impegno a tempo definito, di “scavalcarne” uno a tempo indeterminato dotato della stessa abilitazione, nonostante quest’ultimo abbia dovuto per almeno tre anni, sino alla conferma nel ruolo, prestare obbligatoriamente un impegno a tempo pieno. Né si potrebbe obiettare che per accedere al contratto di tipo B sono necessari tre anni di assegni di ricerca, di borse di studio o di contratti di tipo A, poiché l’attuale disciplina legittima l’accesso anche a chi è solo in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale.
4.3.– Infine, il ricorrente nel processo principale contesta che i ricercatori a tempo indeterminato appartengano a un ruolo a esaurimento, come ritenuto dal giudice a quo. La figura infatti, lungi dall’essere stata abolita, sarebbe disciplinata in modo organico dalla legge n. 240 del 2010, come dimostra la rubrica del suo art. 6, dedicata allo «Stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo», nonché il fatto che viene presa in considerazione anche da leggi successive, tra cui, ad esempio, la legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), che esonera i ricercatori confermati in materie giuridiche dall’obbligo della formazione continua (art. 11) e li inserisce tra i membri delle commissioni di esame per l’abilitazione da avvocato (art. 47).
Inoltre, si dovrebbe considerare che, quando il legislatore ha inteso mettere in esaurimento il ruolo degli assistenti universitari, lo ha fatto con una disposizione espressa (art. 3, comma quattordicesimo, del decreto-legge 1° ottobre 1973, n. 580, recante «Misure urgenti per l’Università», convertito, con modificazioni, nella legge 30 novembre 1973, n. 766), continuando a definirlo tale in leggi successive, come all’art. 6, comma 4, della legge n. 240 del 2010.
5.– Il 15 giugno 2020 D. D.A. ha depositato anche «brevi note aggiuntive», ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1, lettera c).
In esse contesta l’assunto del Presidente del Consiglio dei ministri secondo cui la ratio della previsione censurata andrebbe individuata nella necessità di trattenere nell’università il ricercatore di tipo B in essa formatosi «all’esito di un percorso lungo, strutturato e contraddistinto da un susseguirsi di contratti a tempo determinato», che renderebbe la sua progressione in carriera non assimilabile a quella del ricercatore a tempo indeterminato.
Secondo la disciplina vigente infatti i contratti di tipo B potrebbero essere stipulati anche con chi ha conseguito soltanto l’abilitazione scientifica nazionale di prima o di seconda fascia, senza avere intrattenuto alcun rapporto di servizio con l’università, mentre il ricercatore a tempo indeterminato ha superato un concorso pubblico ed è stato sottoposto alla valutazione di conferma nel ruolo, oltre ad avere «alle spalle» un periodo di almeno tre anni di regime a tempo pieno.
Inoltre, il sistema sarebbe congegnato in modo tale da incoraggiare le università a bandire procedure per il reclutamento di ricercatori di tipo B – alle quali però non possono partecipare quelli a tempo indeterminato – anziché procedure valutative “aperte” per posti di professore associato, giacché questi ultimi impegnano «0,7 punti organico», mentre i posti di ricercatori di tipo B impegnano solo «0,5 punti organico». D’altra parte, reclutare ricercatori di tipo B sarebbe più conveniente anche perché possono svolgere attività didattica non integrativa, e le università potrebbero così «riservarsi un momento di ulteriore verifica del rendimento del docente-ricercatore prima di assumerlo definitivamente come professore associato».
Di conseguenza, i ricercatori a tempo indeterminato, oltre a non essere titolari del diritto alla automatica sottoposizione a valutazione, vedrebbero ridursi significativamente le chance di divenire professori associati tramite le procedure bandite ex art. 18 della legge n. 240 del 2010, e verrebbero così a trovarsi in una sorta di «binario morto». D’altro canto, l’estensione a essi della procedura ex art. 24, comma 5, richiederebbe «risorse estremamente esigue», tali da non giustificare nemmeno sotto il profilo economico la censurata discriminazione.
6.– Il 15 giugno 2020 anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato «brevi note», insistendo per l’infondatezza delle questioni e chiedendo in alternativa la restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza.
L’interveniente ribadisce che la ragione della censurata diversità di trattamento deve essere individuata nel «differente percorso» che caratterizza i ricercatori a tempo determinato di tipo B e quelli a tempo indeterminato. La progressione di carriera dei primi sarebbe infatti connotata da maggiore complessità, presupponendo molteplici prove concorsuali e valutazioni della produttività scientifica, non previste invece per i secondi, ai quali il legislatore garantirebbe comunque «ben due procedure – una ordinaria ed una speciale – mediante le quali assicurare le chance di carriera».
La differenza tra le due categorie deriverebbe anche dal diverso «regime di impegno», in quanto l’art. 6 della legge n. 240 del 2010 prevede per i ricercatori a tempo determinato l’obbligo di svolgere anche compiti di didattica, mentre i ricercatori a tempo indeterminato possono essere titolari di «corsi e moduli curriculari» solo con il loro consenso e compatibilmente con la programmazione didattica definita dai competenti organi accademici.
Quanto al termine per l’utilizzo delle procedure, l’interveniente ribadisce che esso, in ragione dell’eccezionalità della norma sulla valutazione dei ricercatori a tempo indeterminato, troverebbe «fondamento nell’esigenza di strutturare un regime transitorio che consenta agli Atenei [di] valorizzare i docenti in servizio».
A questo riguardo, l’Avvocatura precisa che nel frattempo il termine è stato prorogato fino al 31 dicembre 2021 dall’art. 5, comma 2 [recte: comma 1, lettera b], del decreto-legge 29 ottobre 2019, n. 126 (Misure di straordinaria necessità ed urgenza in materia di reclutamento del personale scolastico e degli enti di ricerca e di abilitazione dei docenti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 2019, n. 159, sicché la rilevanza delle questioni dovrebbe poter essere nuovamente valutata anche alla luce di tale recente intervento normativo.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 6, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
La questione è stata sollevata in un giudizio promosso da un ricercatore universitario a tempo indeterminato in servizio presso l’Università della Calabria e in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale di prima fascia, per l’annullamento della nota con cui la stessa Università ha respinto la sua richiesta di essere sottoposto alla valutazione per la chiamata in ruolo come professore associato e del regolamento dello stesso ateneo sulla chiamata dei professori di ruolo di prima e seconda fascia, nonché per l’accertamento del suo diritto soggettivo a essere sottoposto alla procedura di valutazione.
La disposizione censurata, nella versione vigente al momento della pronuncia dell’ordinanza di rimessione, così stabiliva: «[n]ell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 18, comma 2, dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo, la procedura di cui al comma 5 può essere utilizzata per la chiamata nel ruolo di professore di prima e seconda fascia di professori di seconda fascia e ricercatori a tempo indeterminato in servizio nell’università medesima, che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16. A tal fine le università possono utilizzare fino alla metà delle risorse equivalenti a quelle necessarie per coprire i posti disponibili di professore di ruolo. A decorrere dal nono anno l’università può utilizzare le risorse corrispondenti fino alla metà dei posti disponibili di professore di ruolo per le chiamate di cui al comma 5».
Più precisamente, la previsione è oggetto di censura nella parte in cui dispone che la procedura di valutazione riservata dal comma 5 ai titolari dei contratti di cui al comma 3, lettera b), dello stesso articolo «può essere utilizzata» – per la chiamata nel ruolo di professore di seconda fascia di ricercatori a tempo indeterminato che abbiano ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale – e non invece «è utilizzata», come lo stesso comma 5 prevede per i ricercatori a tempo determinato cosiddetti di tipo B, i quali, una volta ottenuta l’abilitazione scientifica nazionale, sono sottoposti di diritto alla valutazione ai fini della chiamata dalla propria Università. È censurata inoltre nella parte in cui fissa il termine ultimo del 31 dicembre 2019 (e cioè «al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo» all’entrata in vigore della legge n. 240 del 2010) per l’utilizzazione di tale procedura.
1.1.– L’art. 24, comma 6, della legge n. 240 del 2010 violerebbe innanzitutto l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della irragionevolezza e della lesione del principio di uguaglianza.
Nel primo senso, la scelta legislativa di configurare come discrezionale il potere di ciascuna Università di sottoporre a valutazione per la chiamata i ricercatori a tempo indeterminato che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica nazionale sarebbe incongrua rispetto al fine di selezionare i meritevoli perseguito dalla legge n. 240 del 2010. L’irragionevolezza di questa limitazione sarebbe dimostrata dalla paradossale conseguenza che ne deriverebbe, per cui a un ricercatore a tempo indeterminato in possesso dell’abilitazione di prima fascia sarebbe negato il diritto di essere valutato per la chiamata a professore associato, diritto spettante invece per legge ai ricercatori a tempo determinato con abilitazione solo di seconda fascia.
Nel secondo senso, la norma censurata determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento dei ricercatori a tempo indeterminato rispetto ai ricercatori a tempo determinato di tipo B quanto al regime della chiamata a professori associati, pur essendo la posizione dei due tipi di ricercatore, a giudizio del rimettente, sostanzialmente sovrapponibile per modalità di reclutamento, mansioni e impegno lavorativo. Il comma 5 dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010, assunto a tertium comparationis, riserva infatti solo ai secondi, una volta giunti al terzo anno del contratto e ottenuta l’abilitazione scientifica di seconda fascia, il meccanismo dell’automatica sottoposizione a valutazione ai fini della chiamata in ruolo come professori associati.
Sarebbe violato infine l’art. 97 Cost., in quanto il principio del buon andamento dell’amministrazione esigerebbe che l’obiettivo, pur legittimo, di favorire il ricambio generazionale del personale accademico sia bilanciato con quello del rispetto delle esigenze di progressione di carriera dei ricercatori reclutati nel vigore della disciplina precedente.
2.– Così definiti i termini delle questioni, occorre occuparsi di alcuni profili preliminari alla decisione nel merito.
2.1.– In primo luogo, devono essere dichiarate inammissibili, in quanto dirette a estendere il thema decidendum oltre i termini definiti nell’atto di rimessione, le questioni proposte nei suoi atti difensivi dalla parte privata con riferimento agli artt. 4 e 35, nonché 2 Cost. Per costante orientamento di questa Corte, infatti, non possono essere presi in considerazione «ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 56 del 2009, n. 86 del 2008)» (sentenza n. 203 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 150 e n. 85 del 2020).
2.2.– In secondo luogo, è adeguata la motivazione con cui il rimettente esclude la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata. La lettera dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010, là dove prevede, al comma 5, che l’università «valuta» il ricercatore di tipo B in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale ai fini della chiamata in ruolo come professore associato e, al comma 6, che la stessa procedura «può» essere utilizzata per i ricercatori a tempo indeterminato, depone con chiarezza nel senso di configurare un obbligo di valutazione solo nel primo caso e una mera facoltà nel secondo.
Le questioni sono dunque rilevanti, perché soltanto il loro accoglimento consentirebbe di annullare il diniego impugnato nel giudizio principale.
2.3.– Va inoltre respinta l’istanza del Presidente del Consiglio dei ministri di restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza, in conseguenza dell’intervenuta modifica del comma 6 dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010 a opera dell’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto-legge 29 ottobre 2019, n. 126 (Misure di straordinaria necessità ed urgenza in materia di reclutamento del personale scolastico e degli enti di ricerca e di abilitazione dei docenti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 2019, n. 159.
Per quello che qui rileva, lo ius superveniens, sostituendo, all’art. 24, comma 6, le parole «dell’ottavo» con le parole «del decimo», si limita a differire al 31 dicembre 2021 il termine, prima fissato al 31 dicembre 2019, entro cui le università possono utilizzare la procedura di valutazione del comma 5 a favore dei ricercatori a tempo indeterminato (e dei professori di seconda fascia). È così introdotta un’ulteriore proroga del termine in questione, che, originariamente stabilito al 31 dicembre del sesto anno successivo all’entrata in vigore della legge n. 240 del 2010 (quindi al 31 dicembre 2017), era già stato prorogato una prima volta al 31 dicembre 2019 (dall’art. 4, comma 3-bis, del decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, recante «Proroga e definizione di termini», convertito, con modificazioni, nella legge 27 febbraio 2017, n. 19).
Pur incidendo su un frammento normativo investito dalle censure, la modifica si risolve nel semplice prolungamento del termine precedentemente stabilito, che non costituisce in sé oggetto della questione, diretta a contestare non la durata ma l’esistenza stessa di un limite temporale all’utilizzo della procedura di valutazione.
Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, un’eventuale restituzione degli atti al giudice rimettente, ove questa non sia giustificata dalla necessità che sia nuovamente valutata la perdurante rilevanza nel giudizio a quo e la non manifesta infondatezza della quaestio a suo tempo sollevata, potrebbe condurre, proprio in aperto contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale che non può essere disgiunta dalla sua tempestività, a un inutile dilatamento dei tempi dei giudizi a quibus, soggetti per due volte alla sospensione conseguente al promovimento dell’incidente di legittimità costituzionale, e a una duplicazione dello stesso giudizio di costituzionalità, con il rischio di vulnerare il canone di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost. (sentenze n. 222 del 2015, n. 172 del 2014 e n. 186 del 2013).
La marginalità dello ius superveniens comporta invece il “trasferimento” delle questioni sulla disposizione così modificata, rimanendo sostanzialmente invariata la norma in essa contenuta e, con essa, le censure che la investono (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2018 e n. 84 del 1996).
3.– Nel merito le questioni non sono fondate.
3.1.– La riforma del sistema universitario operata con la legge n. 240 del 2010 ha trasformato la figura del ricercatore universitario, introducendo la nuova posizione del ricercatore a contratto a tempo determinato, destinata a sostituire quella del vecchio ricercatore a tempo indeterminato, a suo tempo istituita con l’art. 1, comma 4, del d.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), adottato in attuazione della legge 21 febbraio 1980, n. 28 (Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica).
Sulla scia di quanto già anticipato con la legge 4 novembre 2005, n. 230 (Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari), che aveva limitato l’assunzione di ricercatori di questo tipo alla copertura dei posti banditi non oltre il 30 settembre 2013 (art. 1, commi 7 e 22), la riforma del 2010 ne ha definitivamente vietato il reclutamento, stabilendo espressamente che, dalla sua entrata in vigore, per la copertura dei posti di ricercatore le università possono avviare esclusivamente le procedure previste per il reclutamento dei ricercatori a tempo determinato (art. 29, comma 1).
Già questo consente di cogliere una prima sostanziale diversità fra i due tipi di posizione in esame: a regime, quella del nuovo ricercatore a tempo determinato; destinata al progressivo superamento, quella del vecchio ricercatore di ruolo. A tale diversa collocazione nella prospettiva definita dalla riforma, si accompagnano molteplici differenze sostanziali di regime giuridico, riguardanti modalità di accesso, compiti e, soprattutto, la stabilità o la precarietà delle due posizioni.
3.1.1.– L’accesso al ruolo dei ricercatori «a tempo indeterminato», definiti anche ricercatori «di ruolo», avveniva per pubblici concorsi decentrati presso le singole sedi universitarie, con le modalità originariamente disciplinate dal d.P.R. n. 382 del 1980, poi dall’art. 2 della legge 3 luglio 1998, n. 210 (Norme per il reclutamento dei ricercatori e dei professori universitari di ruolo), e da ultimo, e per l’ultima volta, dall’art. 1, comma 7, del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180 (Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca), convertito, con modificazioni, nella legge 9 gennaio 2009, n. 1, sulla base della valutazione comparativa dei candidati.
Dopo tre anni dalla immissione in ruolo i ricercatori venivano sottoposti a un giudizio di conferma da parte di una commissione nazionale e, nel caso di giudizio favorevole, erano immessi nella fascia dei ricercatori confermati (art. 7, quinto comma, della legge n. 28 del 1980). In tale ruolo – nel quale possono optare per il regime di impegno a tempo pieno o a tempo definito – sono destinati a restare fino all’eventuale passaggio ad altra posizione accademica o comunque fino alla cessazione del servizio per limiti di età.
Al ricercatore a tempo indeterminato sono affidati compiti principalmente di ricerca scientifica, cui si aggiungono attività didattiche integrative dei corsi di insegnamento ufficiali, quali esercitazioni, collaborazione con gli studenti nella preparazione delle tesi di laurea e partecipazione alla sperimentazione di nuove modalita` di insegnamento (art. 32, primo comma, del d.P.R. n. 382 del 1980). Dal 1990 è inoltre possibile affidare al ricercatore di ruolo, con il suo consenso, ulteriori corsi o moduli di insegnamento (art. 12, comma 3, della legge 19 novembre 1990, n. 341, recante «Riforma degli ordinamenti didattici universitari»; possibilità poi confermata a condizioni più stringenti dall’art. 11 della legge n. 230 del 2005).
Questo sistema di compiti trova sostanziale conferma nell’art. 6 della legge n. 240 del 2010, che in particolare impone ai ricercatori di ruolo di riservare annualmente ai descritti compiti di didattica integrativa e di servizio agli studenti «fino ad un massimo di 350 ore in regime di tempo pieno e fino ad un massimo di 200 ore in regime di tempo definito» (comma 3).
3.1.2.– La riforma del 2010 introduce come detto la nuova figura del ricercatore a tempo determinato (art. 24, rubricato appunto «Ricercatori a tempo determinato»), selezionato con procedure pubbliche disciplinate dalle singole università con proprio regolamento nel rispetto dei criteri elencati al comma 2 dello stesso art. 24, e con il quale l’università stipula apposito contratto di durata triennale per lo svolgimento «delle attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti nonché delle attività di ricerca» (comma 1).
Il comma 3 del citato art. 24 disciplina due tipi di contratto.
Il primo – previsto alla lettera a) del comma 3, da cui la definizione corrente del destinatario come ricercatore “di tipo A” – ha durata triennale, prorogabile per due anni per una sola volta previa positiva valutazione delle attivita` didattiche e di ricerca svolte. Requisiti di accesso alla selezione sono il titolo di dottore di ricerca o un titolo equivalente, ovvero, per i settori interessati, il diploma di specializzazione medica, nonché eventuali ulteriori requisiti definiti nel regolamento di ateneo. La posizione del ricercatore di tipo A corrisponde al passaggio intermedio fra la posizione del titolare di assegno di dottorato o di post-dottorato e la carriera accademica, ed è destinata ad aprire l’accesso alla posizione di ricercatore di tipo B.
Questo secondo tipo di contratto, previsto alla lettera b) del comma 3 – da cui la definizione di ricercatore “di tipo B” – ha durata triennale. Originariamente era riservato ai ricercatori di tipo A o a coloro che hanno usufruito per almeno tre anni di assegni di ricerca (ai sensi dell’art. 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica») o di borse post-dottorato (ai sensi dell’art. 4 della legge 30 novembre 1989, n. 398, recante «Norme in materia di borse di studio universitarie»), ovvero di analoghi contratti, assegni o borse in atenei stranieri. L’accesso al contratto di tipo B è stato successivamente esteso a coloro che sono in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale di professore di prima o di seconda fascia, o del titolo di specializzazione medica o di assegni di ricerca di cui all’art. 22 della stessa legge (versione attuale della citata lettera b introdotta dall’art. 1, comma 338, della legge 11 dicembre 2016, n. 232, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019»).
Il rapporto instaurato sulla base di ciascuno dei due contratti può essere a tempo pieno o a tempo definito, essendo stata estesa tale possibilità anche ai contratti di tipo B, per i quali era originariamente previsto solo il regime di tempo pieno (la modifica è stata introdotta al comma 4 dell’art. 24 dall’art. 5, comma 5-bis, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, recante «Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi», convertito, con modificazioni, nella legge 28 giugno 2019, n. 58). L’impegno annuo complessivo richiesto a tutti i ricercatori a tempo determinato per attività di didattica, didattica integrativa e servizio agli studenti e` pari a 350 ore per il regime di tempo pieno e a 200 ore per il regime di tempo definito.
3.2.– Per quello che qui rileva, occorre ricordare inoltre che la legge n. 240 del 2010 ha integralmente riformato il sistema di reclutamento dei professori universitari, segnando il passaggio da un sistema basato su concorsi locali a un sistema a due stadi, consistenti, il primo, nell’«abilitazione scientifica nazionale» per le funzioni di professore di prima o di seconda fascia nei diversi settori scientifico-disciplinari, e, il secondo, nella «chiamata» presso il singolo ateneo a seguito di una valutazione comparativa in sede locale aperta a candidati in possesso dell’abilitazione scientifica nello specifico settore concorsuale della posizione messa a bando.
La procedura per l’abilitazione scientifica si svolge a livello nazionale e si basa su una valutazione di titoli e pubblicazioni (art. 16 della legge n. 240 del 2010); la durata dell’abilitazione è di quattro anni, successivamente elevati a sei e infine a nove, quale è attualmente (in seguito alla modifica disposta dall’art. 5, comma 1, lettera a, del d.l. n. 126 del 2019). La chiamata vera e propria avviene invece a cura della singola università, che gestisce la relativa procedura comparativa sulla base del proprio apposito regolamento (art. 18 della legge n. 240 del 2010).
Se questo è il metodo ordinario di reclutamento dei professori associati e ordinari, ossia delle sole figure di ruolo del sistema a regime, la stessa legge n. 240 del 2010 prevede, al comma 5 dell’art. 24, per i ricercatori a tempo determinato di tipo B, un meccanismo di chiamata particolare, che prescinde dall’avvio della descritta procedura comparativa. In coerenza con il carattere temporaneo del contratto, la riforma ha disegnato per questo tipo di ricercatori a contratto un sistema di avanzamento nella carriera, da ricercatore a tempo determinato a professore associato, ispirato al modello anglosassone del cosiddetto tenure-track, cioè a un percorso accademico connotato, alternativamente, dal carattere per così dire automatico dell’avanzamento in presenza di determinate condizioni (abilitazione nazionale ed esito positivo della valutazione dell’ateneo) ovvero dall’uscita dall’università se quelle condizioni non si sono realizzate. In questo modo è previsto che, all’esito del triennio del contratto, il ricercatore di tipo B che ha ottenuto nel frattempo l’abilitazione scientifica nazionale è doverosamente sottoposto alla valutazione dell’università di appartenenza e, in caso di superamento positivo di essa, è chiamato dalla stessa università come professore associato. Per il ricercatore di tipo B che abbia conseguito la necessaria abilitazione scientifica nazionale questo costituisce dunque il modo normale di immissione nel ruolo di professore associato al termine del periodo di contratto. Al contrario, il rapporto con l'università del ricercatore di tipo B termina definitivamente qualora egli non abbia ottenuto l’abilitazione o se la successiva valutazione dell’ateneo non abbia avuto esito positivo. La potenziale (e a determinate condizioni fisiologica) continuità del percorso così tracciato dalla riforma è confermata dal fatto che l’università, quando bandisce un contratto di ricercatore di tipo B, è tenuta a impegnare le risorse necessarie per la copertura di una posizione di professore associato.
Occorre precisare a questo punto che la previsione oggetto della presente questione di costituzionalità (comma 6 dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010) estende transitoriamente l’applicazione del meccanismo di chiamata appena descritto – riservato come detto in via ordinaria alla chiamata a professore associato dei ricercatori di tipo B – ai ricercatori a tempo indeterminato in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale di professore di prima o di seconda fascia – oltre che ai professori associati in possesso dell’abilitazione di professore di prima fascia – per i quali l’avanzamento al grado superiore della carriera dovrebbe avvenire in via ordinaria secondo la procedura di chiamata regolata all’art. 18 della legge n. 240 del 2010.
In deroga a quest’ultima disciplina, alle singole università è dunque consentito, nei limiti delle risorse disponibili e nell’ambito delle percentuali delle medesime risorse indicate dalla stessa legge, effettuare chiamate attraverso procedure riservate agli interni nei ruoli dei professori, associato o ordinario, di chi presta servizio presso di esse come ricercatore di ruolo. Al carattere eccezionale e derogatorio dell’utilizzo della descritta procedura di chiamata dei ricercatori a tempo indeterminato si accompagna, oltre alla ricordata temporaneità (il termine per l’utilizzo è attualmente fissato al 31 dicembre 2021), la discrezionalità del ricorso alla procedura da parte del singolo ateneo, discrezionalità di cui appunto il rimettente si duole.
La ragione della previsione nel contesto della normativa di riforma è evidente: con essa il legislatore ha inteso farsi carico delle aspettative di chi era già in servizio, reclutato sulla base della disciplina previgente, e apprestare un canale accelerato per assorbire le vecchie posizioni dei ricercatori di ruolo, offrendo una chance di avanzamento all’interno dell’ateneo di appartenenza a coloro fra essi che hanno conseguito l’abilitazione nazionale. Stante la limitatezza delle risorse, tuttavia, e la necessità di salvaguardare il prioritario obiettivo di messa a regime del nuovo sistema, la scelta di chiamare attraverso la procedura riservata agli interni il personale a tempo indeterminato già in servizio è affidata alla valutazione discrezionale di ciascun ateneo, che vi provvede nell’esercizio dell’autonomia a esso garantita nel reclutamento del personale accademico, in attuazione delle proprie politiche di sviluppo e sulla base della ponderazione dei diversi interessi in gioco.
Fra gli interessi di cui ogni università deve necessariamente tenere conto, nel momento in cui si determina a operare o meno la chiamata, non possono non esservi le legittime aspirazioni di sviluppo di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato che hanno ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale e desiderano essere chiamati nella posizione corrispondente.
Conviene ricordare, in ogni caso, che le scelte al riguardo degli atenei sono state accompagnate da ripetute misure legislative e interventi finanziari diretti a favorire la chiamata attraverso la descritta procedura come professori associati dei ricercatori a tempo indeterminato in possesso di abilitazione scientifica nazionale.
Già la legge n. 240 del 2010, al comma 9 dell’art. 29, aveva riservato apposite risorse per gli anni 2011 e seguenti ai fini della chiamata di professori di seconda fascia anche secondo la descritta procedura dell’art. 24, comma 6, sulla base di un piano straordinario poi attuato con i decreti del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca scientifica del 15 dicembre 2011 e del 28 dicembre 2012.
Successivamente, l’art. 1, comma 401, lettera b), della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nell’adottare misure di sostegno per l’accesso dei giovani alla ricerca e per la competitività del sistema universitario italiano a livello internazionale, ha autorizzato «in deroga alle vigenti facoltà assunzionali» la copertura di nuovi posti destinati alla progressione in carriera dei ricercatori universitari a tempo indeterminato in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, «nel limite di spesa di 10 milioni di euro a decorrere dall’anno 2020». Di questi posti, almeno il 50 per cento deve essere coperto con le procedure aperte di valutazione comparativa di cui all’art. 18 della legge n. 240 del 2010 e non più del 50 per cento mediante chiamata secondo la procedura dell’art. 24, comma 6, della stessa legge. L’applicazione di questa misura è stata prorogata per l’anno 2021 dall’art. 6, comma 5-sexies, del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 162 (Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2020, n. 8, nel limite di spesa incrementato a 15 milioni di euro annui a decorrere dal 2022.
4.– Alla luce di quanto esposto è agevole respingere le censure di irragionevolezza e di ingiustificata disparità di trattamento. Le ragioni della non fondatezza di entrambe coincidono e consentono di trattare insieme i due profili di lamentata lesione dell’art. 3 Cost.
4.1.– La scelta legislativa espressa nella norma censurata è dunque, contrariamente a quanto affermato dal giudice a quo, coerente con l’assetto generale della riforma e non risulta in contrasto con la logica che la ispira, di progressione per merito nella carriera universitaria. Come detto, l’impostazione di fondo è che, nel sistema a regime, solo due sono le posizioni di ruolo a tempo indeterminato, quella di professore associato e quella di professore ordinario, a ciascuna delle quali si accede per una procedura a doppio stadio, in cui entrambi i passaggi si svolgono in concorrenza e sono aperti a tutti coloro che siano in possesso dei requisiti previsti.
Nel descritto contesto, il carattere discrezionale del potere dell’università di chiamata ex art. 24, comma 6, esprime un non irragionevole bilanciamento fra l’interesse dei ricercatori a tempo indeterminato, ai quali è offerto in via transitoria un canale di accesso, alternativo e a partecipazione riservata, alla posizione di professore associato, e l’interesse degli atenei a operare autonomamente le proprie scelte di reclutamento del personale.
Nella scelta discrezionale che la legge le affida, l’università è tenuta a considerare tutti gli interessi in gioco e a bilanciare in particolare l’interesse dei ricercatori a tempo indeterminato meritevoli a vedersi chiamati come professori associati con le effettive esigenze didattiche e di ricerca dell’università stessa, nonché con l’interesse all’uso più consono delle risorse destinate al reclutamento, come noto limitate, in attuazione delle proprie politiche di sviluppo. La chiamata del ricercatore comporta infatti l’impegno di nuove risorse destinate a coprire il maggior costo di un professore associato, ciò che – si osserva anticipando l’esame della lamentata disparirà di trattamento – non avviene nel caso di chiamata a professore associato del ricercatore di tipo B, per la quale l’impegno di risorse avviene per legge nel momento del bando del contratto di tipo B. La coerenza della soluzione adottata dal legislatore con la norma censurata rispetto agli obiettivi generali di selezione dei docenti perseguiti dalla riforma universitaria – e, in definitiva, la sua non irragionevolezza – è confermata anche dal quadro complessivo delle misure di sostegno per la ricerca universitaria, nel quale essa attualmente si colloca. Si ricordano, a questo proposito, le citate previsioni che hanno riservato anche ai ricercatori a tempo indeterminato in possesso di abilitazione scientifica nazionale, «in deroga alle vigenti facoltà assunzionali» e con lo stanziamento di specifiche risorse aggiuntive – la cui “esiguità”, lamentata dal ricorrente nel processo principale, non è di immediata evidenza – procedure straordinarie per la chiamata di professori di seconda fascia, sia di tipo comparativo, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 240 del 2010, sia di tipo “interno”, ai sensi proprio dell’art. 24, comma 6, della medesima legge.
Né vale infine a dimostrare la lamentata irragionevolezza della norma la considerazione che il reclutamento dei ricercatori di tipo B ridurrebbe le risorse da destinare alla chiamata attraverso procedura riservata di ricercatori a tempo indeterminato in servizio. In un sistema a risorse limitate, la soluzione adottata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità bilancia in modo certamente non irragionevole l’interesse alla messa a regime del sistema e al ricambio generazionale del personale accademico con l'interesse del personale già in servizio alla progressione in carriera.
4.2.– Ugualmente non fondato è il profilo di censura riguardante la denunciata disparità di trattamento fra i ricercatori a tempo indeterminato e i ricercatori di tipo B, quanto al regime della chiamata a professore associato attraverso procedura riservata.
A sostegno della censura, il giudice a quo invoca come tertium comparationis il comma 5 dello stesso art. 24, là dove prevede che al termine del loro contratto triennale i ricercatori di tipo B in possesso di abilitazione scientifica nazionale sono automaticamente valutati dalle università di appartenenza ai fini della chiamata in ruolo come professori associati, e chiede un intervento in parte sostitutivo e in parte ablativo sul censurato comma 6, che regola lo stesso tipo di chiamata dei ricercatori di ruolo muniti del medesimo titolo abilitativo: per un verso la sottoposizione a valutazione da parte delle università di questi secondi dovrebbe essere trasformata da facoltativa in automatica; per altro verso, dovrebbe essere eliminato il limite temporale previsto dalla norma per l’utilizzo della procedura, che diventerebbe in tal modo permanente.
Come precisato sopra (punti 3.1 e 3.2), tuttavia, le due figure di ricercatore che il rimettente rappresenta come sostanzialmente sovrapponibili presentano talune diversità per aspetti del rispettivo regime giuridico – riguardanti le modalità di reclutamento e i compiti, e in particolare l’impegno didattico –, ma ciò che radicalmente le differenzia è il fatto, del resto così evidente da non richiedere molte precisazioni, di essere, la prima, una posizione a tempo determinato, legata all’amministrazione da un rapporto contrattuale di durata triennale non rinnovabile, e la seconda, invece, una posizione a tempo indeterminato stabilmente incardinata nella pubblica amministrazione. Queste «differenze eminentemente legate alla durata del rapporto» – che il giudice a quo mostra di considerare marginali («in disparte») senza tuttavia offrire alcuna motivazione al riguardo – sono già da sole sufficienti a escludere in radice la prospettata disparità di trattamento.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 85 del 2020, n. 155 del 2014, n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004). Di conseguenza, la non omogeneità delle fattispecie normative messe a confronto rende il tertium comparationis indicato dal giudice a quo inidoneo a svolgere tale funzione (ex plurimis, sentenze n. 276 e n. 133 del 2016; ordinanza n. 46 del 2020).
Tanto più decisive risultano, le descritte differenze, al fine di escludere che il diverso regime della chiamata a professore associato determini un’irragionevole discriminazione dei ricercatori di ruolo, considerato che tale chiamata nel caso del ricercatore a tempo determinato conduce alla immissione in ruolo (in alternativa alla fuoriuscita dal sistema accademico), mentre nel caso del ricercatore a tempo indeterminato si risolve in un passaggio da una posizione stabile a un’altra.
La procedura automatica di valutazione di cui al comma 5 dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010 è così riservata a ricercatori che, se non chiamati, alla scadenza del contratto vedrebbero cessare il loro rapporto di lavoro con l’università e che, pur in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale, in attesa dell’indizione e dello svolgimento delle ordinarie procedure comparative di reclutamento ex art. 18 della legge n. 240 del 2010 rischierebbero di perdere continuità scientifica.
La disposizione mira a consentire ai ricercatori a tempo determinato meritevoli di passare alla posizione di professore associato e assume al contempo una funzione incentivante e premiale, non essendo estranea alla scelta del legislatore la considerazione del lungo e impegnativo percorso compiuto dai ricercatori qui considerati, ordinariamente contraddistinto dal succedersi di contratti a tempo determinato – da quelli di tipo A, di durata triennale prorogabile per due anni, a quelli di tipo B, anch’essi triennali – e dalle plurime positive valutazioni della produttività scientifica (nonché dell’attività didattica svolta) che a tale progressione si riferiscono.
Affatto diversa è, come visto sopra, la ratio del carattere discrezionale della facoltà concessa al comma 6 dello stesso art. 24, che contempera l’obiettivo di dare risposta alle legittime aspettative di progressione in carriera dei ricercatori già di ruolo, per i quali non sussiste alcun rischio di esclusione dal sistema universitario, con le esigenze di garanzia delle autonome scelte degli atenei in materia di organizzazione della didattica e della ricerca e nell’impegno delle risorse destinate al reclutamento.
Non muta infine i termini della questione l’argomento valorizzato dal rimettente in chiave di paradosso, secondo cui al ricercatore a tempo indeterminato con abilitazione di prima fascia verrebbe negato il diritto di essere valutato, attribuito invece al ricercatore a tempo determinato con abilitazione “solo” di seconda fascia.
Al ricercatore a tempo indeterminato in possesso dell’abilitazione di prima fascia e degli altri necessari requisiti – così come del resto al ricercatore a tempo determinato che si trovi nella stessa condizione – è consentito di partecipare alle procedure aperte per la copertura di posti di prima fascia disciplinate all’art. 18 della legge n. 240 del 2010, senza che dalle speciali discipline di chiamata di cui ai commi 5 e 6 dell’art. 24 sia possibile desumere argomenti per ampliarne la portata applicativa, come sarebbe se si pretendesse di far valere in quella sede l’abilitazione di prima fascia. E d’altro canto, in risposta al ricordato e solo apparente paradosso, è facile osservare che lo stesso comma 6 consente al ricercatore di ruolo anche l’accesso diretto alla prima fascia, se in possesso della relativa abilitazione, accesso non consentito invece dal comma 5 al ricercatore di tipo B che fosse titolare della medesima abilitazione.
In conclusione, il regime speciale apprestato dal legislatore per i ricercatori a tempo determinato di tipo B rispecchia la peculiarità del nuovo percorso di carriera e si basa su un diverso regime di finanziamento. Le situazioni poste a raffronto non si prestano, pertanto, a una valutazione comparativa, che imponga l’estensione della disciplina prevista per i primi ai ricercatori a tempo indeterminato (sentenza n. 20 del 2018).
4.3.– Per le ragioni esposte, si deve escludere anche la violazione del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., che il giudice a quo ravvisa nel fatto che il legislatore, nel perseguire con il nuovo «statuto del ricercatore» l’obiettivo del ricambio generazionale, avrebbe sacrificato la progressione di ricercatori di esperienza «sol perché entrati nel vigore di pregressa disciplina».
Come visto, la norma censurata non ostacola la progressione in carriera dei ricercatori a tempo indeterminato ma si limita ad offrire un canale di progressione ulteriore che si affianca al sistema ordinario di reclutamento dei professori ex art. 18 della legge n. 240 del 2010.
Contrariamente a quanto ritiene il rimettente, dunque, il legislatore non ha affatto sacrificato l’interesse dei ricercatori di ruolo a favore di quello al ricambio generazionale, ma tra tali interessi ha operato un non irragionevole bilanciamento.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 6, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA