Ordinanza 3/2014

Ordinanza  3/2014
Giudizio
Presidente MAZZELLA - Redattore MAZZELLA
Camera di Consiglio del 04/12/2013    Decisione  del 13/01/2014
Deposito del 13/01/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 1 e 2 della legge 25/11/2003, n. 339.
Massime:
Atti decisi:ord. 59/2013

ORDINANZA N. 3
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Luigi MAZZELLA; Giudici : Sabino CASSESE, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato), promosso dal Tribunale di Nocera Inferiore, nel procedimento vertente tra R. C. ed altra e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 24 marzo 2011 iscritta al n. 59 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 2013 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Nocera Inferiore – nel procedimento di reclamo proposto ai sensi dell’art. 669-terdecies del codice di procedura civile da C.R. avverso l’ordinanza di rigetto del suo ricorso in via d’urgenza volto ad ottenere, in via principale, la declaratoria di nullità e/o illegittimità del provvedimento della pubblica amministrazione che gli aveva revocato l’autorizzazione all’esercizio della professione forense, in subordine la sospensione del medesimo provvedimento ed il contestuale riconoscimento della provvisoria riviviscenza dell’atto autorizzativo all’esercizio della suddetta professione – ha, con ordinanza depositata il 24 marzo 2011, iscritta al n. 59 del registro ordinanze dell’anno 2013, sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, nonché al canone della ragionevolezza intrinseca riconducibile all’art. 3, secondo comma, Cost., degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato);
che, ad avviso del collegio rimettente, che richiama le argomentazioni esposte dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, a fondamento di identico dubbio di legittimità costituzionale della normativa in oggetto (è citata l’ordinanza n. 24689 del 6 dicembre 2010), le disposizioni censurate violerebbero gli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., come pure il parametro della ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché, non solo imporrebbero un sacrificio irragionevolmente lesivo del sicuro e giustificato affidamento di mantenere nel tempo lo stato di avvocati part-time maturato da tutti i dipendenti pubblici i quali, come il ricorrente nel giudizio a quo, si erano avvalsi da diversi anni dell’opzione in tal senso prevista dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), già reputata conforme a Costituzione da questa Corte con sentenza n. 189 del 2001, ma addirittura sconvolgerebbero la consolidata situazione giuridica sorta in capo a costoro in forza del regime previgente, avendo essi realizzato, in una simile prospettiva, investimenti intellettuali ed economici finalizzati all’avvio della nuova attività professionale e, correlativamente, affrontato pregnanti mutamenti della propria impostazione di vita, al prezzo di inevitabili rinunce a migliori prospettive di carriera nell’ambito della pubblica amministrazione. Con la conseguenza della probabile lesione di tutta una serie di consolidate aspettative, nonché di un legittimo affidamento nella certezza del diritto e nella sicurezza giuridica, valore costituzionalmente protetto (peraltro in settori di peculiare rilevanza costituzionale come quelli del lavoro e della libera iniziativa economica), che le previste misure limitate nel tempo sarebbero palesemente inidonee a salvaguardare;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri per eccepire la manifesta infondatezza della questione.
Considerato che, in via preliminare, le questioni sollevate dal Tribunale di Nocera Inferiore sono ammissibili, perché il collegio rimettente, investito del reclamo avverso l’ordinanza di rigetto emessa in prime cure, ha accolto la domanda del ricorrente di sospensione del provvedimento di revoca dell’autorizzazione all’esercizio della professione forense (in concomitanza con la prestazione di lavoro pubblico) proprio sulla base della ritenuta non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale della normativa in oggetto e, quindi, ha sospeso il giudizio principale in attesa della decisione di questa Corte;
che, di conseguenza, il giudice a quo non ha esaurito in via definitiva il suo potere cautelare, essendosi implicitamente riservato di rivalutare il provvedimento adottato in via d’urgenza all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, in coerenza con il principio secondo cui, ogni qual volta il fumus boni iuris sia ravvisato alla luce della ritenuta non manifesta infondatezza della questione sollevata, la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato è di carattere provvisorio, sino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale (in tal senso, specificamente, sentenza n. 236 del 2010; ordinanza n. 25 del 2006);
che, nel merito, questa Corte, con la sentenza n. 166 del 2012, ha già dichiarato non fondate questioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle sollevate con l’ordinanza in esame e, segnatamente, appunto quelle, proposte dalla Corte di cassazione - sezioni unite, alle quali l’odierno rimettente ha fatto largamente rinvio;
che, in tale occasione, è stata, innanzitutto, esclusa, nel solco della sentenza n. 390 del 2006 di questa stessa Corte, la denunciata violazione degli artt. 4 e 35 Cost., da un lato, dell’art. 41 Cost., dall’altro. Dei primi due, in quanto essi, nel garantire il diritto al lavoro, ne affidano l’attuazione, quanto ai tempi e ai modi, alla discrezionalità del legislatore, nella specie esercitata in modo non irragionevole. Dell’ultimo, perché non viene qui in rilievo un’attività economica, ma una modalità di espletamento del servizio presso enti pubblici ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della prestazione di lavoro pubblico in termini rispettosi dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione, nonché ad un corretto esercizio della professione forense;
che, inoltre, sul punto nodale del dubbio di legittimità ora riproposto dal giudice a quo, si è evidenziato che «la normativa transitoria dettata dall’art. 2 della legge in oggetto […] soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003. Scelta inevitabilmente destinata a produrre effetti, proprio per la sua portata generale, anche sulle posizioni dei dipendenti pubblici part-time legittimamente trovatisi ad esercitare in concomitanza la professione di avvocati. Essi, infatti, anziché cadere immediatamente sotto il divieto, hanno potuto beneficiare di un termine di trentasei mesi per esprimere la decisione dell’attività cui dedicarsi in futuro in via esclusiva (con diritto al tempo pieno in caso di opzione per il mantenimento del rapporto d’impiego pubblico) e, nell’ipotesi di una prima manifestazione optativa per la professione forense, di un ulteriore quinquennio per l’esercizio dello ius poenitendi, tale da garantire loro il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno (entro tre mesi dalla richiesta) con il solo limite della sospensione, nelle more, dell’anzianità»;
che, dunque, questa Corte ha ritenuto che vi è stato tutto il tempo perché i dipendenti pubblici part-time già autorizzati (come il ricorrente nel giudizio a quo) all’esercizio della professione forense potessero valutare, di fronte ad una interdizione oramai generalizzata allo svolgimento contemporaneo delle due attività, presupposti e situazioni, personali e familiari, per orientare la propria scelta nella direzione del mantenimento del rapporto di lavoro pubblico piuttosto che in quella dell’esercizio esclusivo della professione legale, con la disponibilità di uno spatium deliberandi supplementare a beneficio dell’opzione per la più solida posizione lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione, in caso di preferenza inizialmente manifestata per la più aleatoria attività libero-professionale;
che, conseguentemente, nelle conclusioni della citata pronuncia si è sancito che «il descritto regime di tutela, lungi dal tradursi in un regolamento irrazionale lesivo dell’affidamento maturato dai titolari di situazioni sostanziali legittimamente sorte sotto l’impero della normativa previgente, è da ritenere assolutamente adeguato a contemperare la doverosa applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’avvenire (con effetto, altresì, sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale, già ammessi dalla legge dell’epoca all’esercizio della professione legale», anche perché, diversamente opinando, si sarebbe avuto il risultato, giudicato certamente irragionevole, «di conservare “ad esaurimento” una riserva di lavoratori pubblici part-time, contemporaneamente avvocati, all’interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona» (sent. n. 166 del 2012, cit.);
che a tal proposito, onde prevenire distorsioni come quella sopra paventata, si è ribadito il principio che raccomanda di evitare diversità di trattamento diffuse e indeterminate nel tempo, «non potendosi lasciare nell’ordinamento sine die una duplicità di discipline diverse e parallele per le stesse situazioni» (sentenza n. 378 del 1994);
che, dopo la citata pronuncia di non fondatezza, il quadro normativo di riferimento è rimasto sostanzialmente immutato, perché l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense con l’impiego pubblico part-time non solo non è stata minimamente scalfita dalla normativa sopravvenuta di cui al decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148 (v., in particolare, artt. 5 e 5 bis) e al correlativo decreto del Presidente della Repubblica 7 agosto 2012, n. 137 (Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), ma è stata, anzi, rafforzata – con l’espressa inconciliabilità «con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato» – dall’art. 18, lettera d), della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (v. Corte di cassazione - sezioni unite, n. 11833 del 16 maggio 2013);
che il giudice a quo non ha sollevato nuovi profili di censura, né prospettato ragioni o argomenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già sottoposti all’esame di questa Corte e da essa valutati nella richiamata precedente pronuncia di non fondatezza (sent. n. 166 del 2012, cit.);
che, pertanto, le argomentazioni poste a base della testé citata pronunzia debbono essere integralmente confermate, sicché le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore vanno dichiarate, a questo punto, manifestamente infondate (ex plurimis: ordinanze n. 32 del 2013, n. 301 del 2011, nn. 261 e 153 del 2010, n. 356 del 2003 e n. 170 del 2002), non contrastando la normativa impugnata con alcuno dei parametri costituzionali evocati.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, nonché al principio di ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di Nocera Inferiore, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2014.
F.to:
Luigi MAZZELLA, Presidente e Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 2/2014

Sentenza  2/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore NAPOLITANO
Udienza Pubblica del 22/10/2013    Decisione  del 13/01/2014
Deposito del 13/01/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 2 della legge della Regione Toscana 24/11/2012, n. 64.
Massime:
Atti decisi:ric. 8/2013

SENTENZA N. 2
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Toscana 24 novembre 2012, n. 64 (Modifiche alla l.r. 69/2008, alla l.r. 65/2010, alla l.r. 66/2011, alla l.r. 68/2011 e alla l.r. 21/2012), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 21-28 gennaio 2013, depositato in cancelleria il 24 gennaio 2013 ed iscritto al n. 8 del registro ricorsi 2013.
Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;
udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi l’avvocato dello Stato Stefano Varone per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Toscana.

Ritenuto in fatto
1.− Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale il 21-28 gennaio 2013 e depositato nella cancelleria della Corte costituzionale il 24 gennaio 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, in riferimento all’art. 117, commi primo e secondo, lettera e), della Costituzione, l’art. 2 della legge della Regione Toscana 24 novembre 2012, n. 64 (Modifiche alla l.r. 69/2008, alla l.r. 65/2010, alla l.r. 66/2011, alla l.r. 68/2011 e alla l.r. 21/2012).
1.1.− Secondo il ricorrente, la norma regionale impugnata, inserendo nell’art. 82 della legge della Regione Toscana 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011), il comma 1-bis − il quale prevede che «Nelle more dell’espletamento della procedura concorsuale per l’affidamento dei servizi di trasporto pubblico locale su gomma al gestore unico di cui all’articolo 90 e fino al subentro dello stesso, gli enti locali competenti provvedono, nei limiti degli stanziamenti di bilancio, a garantire la continuità del servizio reiterando, anche oltre il primo biennio, i provvedimenti di emergenza emanati ai sensi del comma 1» −, verrebbe a violare la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), nonché il primo comma del ricordato art. 117, in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 5 del Regolamento CE 23 ottobre 2007, n. 1370 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai servizi pubblici di trasporto dei passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio – CEE – n. 1191/69 e – CEE – n. 1107/70).
1.2.− L’art. 5, comma 5, del Regolamento CE n. 1370 del 2007, difatti, stabilisce che: «L’autorità competente può prendere provvedimenti di emergenza in caso di interruzione del servizio o di pericolo imminente di interruzione. I provvedimenti di emergenza assumono la forma di un’aggiudicazione diretta di un contratto di servizio pubblico o di una proroga consensuale di un contratto di servizio pubblico oppure di un’imposizione dell’obbligo di fornire determinati servizi pubblici. […] I contratti di servizio pubblico aggiudicati o prorogati con provvedimento di emergenza o le misure che impongono di stipulare un contratto di questo tipo hanno una durata non superiore a due anni».
Pertanto, a detta del ricorrente, poiché il comma 1-bis, introdotto dall’art. 2 della legge della Regione Toscana n. 64 del 2012, consente agli enti locali la possibilità di adottare un secondo provvedimento di proroga successivo a quello già disposto e per il quale non viene precisata la durata («anche oltre il primo biennio»), non solo si porrebbe in contrasto con quanto previsto dal diritto europeo, ma recherebbe anche un grave vulnus al principio della libera concorrenza, che la disciplina comunitaria intende salvaguardare.
Le finalità del citato Regolamento CE, prosegue l’Avvocatura dello Stato, sono difatti indirizzate a tutelare al massimo il principio della libera concorrenza, così che eventuali deroghe allo stesso − nel caso di specie, la proroga dei contratti in essere per l’affidamento dei servizi di trasporto pubblico locale su gomma − debbono sia rispondere a circostanze eccezionali (nel regolamento si parla di procedimenti «emergenziali»), sia essere temporalmente limitate, e sono, comunque, possibili solo se necessarie per assicurare la continuità dei servizi di trasporto pubblico; condizioni che non sembrerebbero essere state rispettate dalla disposizione regionale impugnata.
Non sanerebbero, poi, secondo il ricorrente, il vizio di legittimità costituzionale della norma sospettata neanche eventuali considerazioni relative alla naturale scadenza di un contratto né l’inerzia dell’amministrazione competente nel dare tempestivamente avvio alle procedure per un nuovo affidamento.
1.3.– Infine, si sottolinea come il legislatore regionale, con la disposizione in oggetto, avrebbe trascurato di fissare un termine certo entro il quale la Regione e gli enti locali sarebbero stati tenuti necessariamente a provvedere alle procedure concorsuali per l’affidamento del servizio, previsione che – a parere del ricorrente – avrebbe quanto meno circoscritto «temporalmente il sacrificio della concorrenza che deriva dall’affidamento diretto, riconducendolo nei termini di eccezionalità e di proporzionalità (il minimo possibile nella situazione emergenziale)».
Alla luce di quanto esposto, il Presidente del Consiglio dei ministri chiede che la Corte costituzionale dichiari l’illegittimità dell’art. 2 della legge della Regione Toscana n. 64 del 2012 per violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lettera e), Cost.
2.– Nel giudizio si è costituita la Regione Toscana, in persona della Presidente pro tempore della Giunta regionale, chiedendo che il ricorso sia respinto, in quanto infondato per i motivi di seguito esposti.
2.1.− La difesa regionale premette che, con la legge reg. n. 65 del 2010, la Regione Toscana, anticipando le recenti scelte legislative nazionali, ha riformato la disciplina del trasporto pubblico locale al fine di aumentare l’efficienza e l’efficacia del sistema tramite l’individuazione «dell’ambito territoriale ottimale unico di livello regionale, nonché attraverso l’individuazione e l’incentivazione di un nuovo modello di governo del sistema, che, garantendo la partecipazione dei vari livelli istituzionali, avrebbe dovuto consentire, a partire dal 2012, il passaggio ad un unico soggetto gestore, con massima semplificazione delle procedure, maggiori economie di scala ed ottimizzazione delle risorse».
Quindi, prosegue la resistente, con la messa a regime della riforma del trasporto pubblico locale (che, peraltro, si è inserita «in un quadro di incertezza normativa ed economico finanziaria»), si è maggiormente evidenziata l’esigenza di intervenire sulla durata dei contratti in essere, per poter consentire la prosecuzione dei servizi di trasporto sino al termine di decorrenza del nuovo affidamento. Pertanto, la Regione Toscana ha avviato la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento del servizio, senza, però, riuscire a portarla a termine per l’aggravarsi della crisi economica finanziaria che ha prodotto un’ulteriore ed imprevista riduzione dei fondi statali per il trasporto pubblico locale. In tal modo, si è determinata la necessità di una nuova programmazione delle risorse disponibili sul bilancio regionale ed un rinvio dell’espletamento delle procedure di gara per il gestore unico.
Da ciò la necessità, per la Regione, di individuare uno strumento normativo idoneo a garantire la continuità del servizio di trasporto su gomma, stante la scadenza, nel 2010, dei contratti stipulati dalle Province a seguito di gara per l’affidamento dei servizi in oggetto e l’impossibilità di bandire la seconda tornata di gare, a causa delle già ricordate riduzioni dei trasferimenti statali destinati al settore.
2.1.1.− In un primo momento − prosegue la resistente Regione − gli enti locali hanno cercato di garantire comunque la prosecuzione del servizio, in applicazione dell’art. 82, comma 1, della legge reg. n. 65 del 2010, attraverso atti di imposizione degli obblighi di servizio, di cui all’art. 5, comma 5, del ricordato Regolamento CE.
In proposito, si ricorda che il legislatore statale − allo scopo di adeguare la normativa nazionale a quella europea − con l’art. 4, comma 32-ter, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, ha imposto ai gestori l’obbligo di assicurare l’integrale e regolare prosecuzione dell’attività, al fine di mantenere i servizi a prescindere dal titolo di affidamento e dalle relative originarie scadenze.
Venuta meno questa ultima norma a seguito della dichiarazione di illegittimità della medesima da parte della Corte costituzionale con la sentenza n. 199 del 2012, ed essendosi ulteriormente aggravata la situazione finanziaria – al riguardo la difesa regionale ricorda come l’art. 16-bis, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, abbia rinviato ad un decreto ministeriale il compito di definire criteri e modalità con cui trasferire le risorse alle Regioni – si è verificata una situazione di sempre maggiore incertezza ed indeterminatezza sulle risorse disponibili per il trasporto pubblico locale, che ha inevitabilmente prodotto la totale paralisi di ogni pur minima programmazione del servizio, data l’impossibilità di aggiudicare la gara senza conoscere «se, quando e quante risorse sar[ebbero state] disponibili».
2.2.− Alla luce di tali considerazioni, conclude la difesa regionale, le circostanze eccezionali ed imprevedibili evocate dal comma 5 dell’art. 5 del richiamato Regolamento CE, atte a legittimare, come più analiticamente precisa in seguito, l’adozione di provvedimenti emergenziali da parte della Regione, sembrano essersi verificate. Di conseguenza, il legislatore regionale, con la disposizione impugnata, ha solo cercato di evitare il rischio di interruzioni nello svolgimento dei servizi di trasporto pubblico locale (peraltro in ossequio alla ratio stessa della normativa comunitaria); rischio concreto ed imminente a causa dell’impossibilità, in assenza della necessaria copertura finanziaria, di attivare, nei tempi previsti, l’affidamento del nuovo contratto di servizio.
Né, prosegue la difesa regionale, vi sarebbe stata «inerzia […] nel dare tempestivamente avvio alle procedure per un nuovo affidamento» da parte della Regione Toscana, la quale, al contrario «ha provveduto ad iniziare la procedura di gara, che non ha potuto essere completata, in quanto lo Stato non ha ancora erogato le risorse per il trasporto pubblico locale, che, comunque, doveva essere garantito».
2.2.1.− Infine, la Regione Toscana sottolinea come i provvedimenti di emergenza di cui all’articolo 82, comma l-bis, della legge reg. n. 65 del 2010 «non costituirebbero una mera estensione di quelli adottati ai sensi del comma l, ma si fondano su un presupposto fattuale distinto e sopravvenuto».
Il comma l dell’art. 82 della ricordata legge regionale, difatti, prevede la proroga dei contratti in essere per consentire la messa a regime della riforma del trasporto pubblico locale (TPL), mentre il comma l-bis la prevede al fine di scongiurare il rischio di interruzione dei servizi a causa della carenza di risorse a copertura del servizio, la quale, del resto, non ha consentito alla Regione di completare le procedure di gara per l’affidamento al gestore unico, entro i termini preventivati.
2.2.2.− Da ultimo, la Regione ricorda di avere sottoposto, con nota 17 settembre 2012, un quesito in merito a tale questione alla Commissione europea, ottenendo una risposta che, nel complesso e difficile quadro normativo e finanziario italiano, considera possibile l’applicazione al caso di specie dell’art. 5, comma 5, del citato Regolamento CE n. 1370 del 2007.
Tutto ciò premesso, la Regione resistente chiede alla Corte costituzionale una declaratoria di infondatezza della questione di illegittimità costituzionale in esame.
3.− In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Toscana ha depositato memoria nella quale ribadisce i motivi, già esposti nell’atto di costituzione in giudizio, che avrebbero impedito alla stessa di espletare gare pubbliche per la selezione del gestore, consistenti sia nella riduzione dei finanziamenti statali alle Regioni, sia nella non prevedibilità della entità dei medesimi e della loro durata nel tempo, in relazione ai progressivi contenimenti di spesa determinati dai reiterati interventi di finanza pubblica.
Pertanto, stante la delineata incertezza e precarietà della situazione finanziaria regionale, la Toscana aveva potuto garantire, di volta in volta, l’affidamento del servizio di trasporto pubblico locale solo per periodi inferiori all’anno e non, come previsto dall’art. 15 della legge della Regione Toscana 31 luglio 1998, n. 42 (Norme per il trasporto pubblico locale), per un lasso di tempo non inferiore ai tre anni.
Solo dal 2014 – precisa la difesa regionale – la Toscana potrà garantire la disponibilità finanziaria necessaria per poter espletare la gara finalizzata al rinnovo dei contratti in concessione per l’affidamento del servizio pubblico locale grazie al nuovo meccanismo di concorso finanziario dello Stato agli oneri relativi al trasporto pubblico locale previsto dal legislatore nazionale per fronteggiare la situazione di emergenza creatasi.
Inoltre, conclude la difesa della Regione Toscana, è da tenere presente che la disposizione impugnata si è limitata a recepire una norma comunitaria, peraltro nell’ambito del trasporto pubblico locale, cioè di una materia di competenza legislativa regionale, allo scopo di impedire l’interruzione di tale servizio, con grave conseguente danno per l’intera collettività.
Né, nel caso di specie, sarebbe stata violata alcuna norma statale in tema di tutela della concorrenza, in quanto i gestori titolari dei contratti scaduti o in scadenza erano stati scelti in base alla legge reg. n. 42 del 1998 e la nuova gara, «res[a] non attuabile per la carenza oggettiva […] di risorse nazionali», era stata prevista in base a quanto disposto dagli articoli dall’83 al 91 della legge reg. n. 65 del 2010.
Pertanto, sulla base di tali considerazioni e rinviando integralmente a quanto già esposto nell’atto di costituzione, la resistente insiste perché la questione promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri venga dichiarata non fondata.

Considerato in diritto
1.− Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso − in riferimento all’art. 117, commi primo e secondo, lettera e), della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Toscana 24 novembre 2012, n. 64 (Modifiche alla l.r. 69/2008, alla l.r. 65/2010, alla l.r. 66/2011, alla l.r. 68/2011 e alla l. r. 21/2012), nella parte in cui inserisce nell’art. 82 della legge della Regione Toscana 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011) il comma 1-bis.
Con tale disposizione, per il ricorrente, la Regione reitera la proroga dei contratti di affidamento in concessione relativi a servizi pubblici locali, in particolare al trasporto pubblico locale su gomma, senza peraltro stabilire un termine finale (revocando, tra l’altro, un bando di gara per le nuove concessioni, che doveva anche realizzare un sistema di trasporti regionali integrato), contratti che erano stati già prorogati dal comma 1 dello stesso art. 82 − al fine di garantire la continuità del servizio fino all’espletamento della procedura concorsuale − in applicazione di quanto previsto dal comma 5 dell’ art. 5 del Regolamento CE 23 ottobre 2007, n. 1370 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo ai servizi pubblici di trasporto dei passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio – CEE – n. 1191/69 e – CEE – n. 1107/70).
1.1.− L’art. 5 del citato Regolamento (recepito dall’art. 61 della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», il quale espressamente prevede che le Autorità competenti possano avvalersi per l’affidamento dei servizi di trasporto pubblico locale di quanto stabilito dall’art. 5, paragrafi 2, 4, 5 e 6 di tale regolamento), infatti, disciplina le modalità di affidamento dei servizi di trasporto pubblico passeggeri su strada e su ferrovia, con efficacia precettiva vincolante per gli Stati membri dal 3 dicembre 2009.
In particolare, il comma 5 stabilisce − per fare fronte a situazioni di emergenza in caso di interruzione o possibilità d’interruzione del servizio – che gli enti locali competenti, «nelle more dell’espletamento della procedura concorsuale per l’affidamento dei servizi di trasporto pubblico locale su gomma al gestore unico di cui all’articolo 90 e fino al subentro dello stesso», possano adottare provvedimenti di emergenza, i quali assumono la forma di un’aggiudicazione diretta di un contratto di servizio pubblico o di una proroga consensuale di un contratto di servizio pubblico oppure di un’imposizione dell’obbligo di fornire determinati servizi pubblici. La citata norma comunitaria precisa, altresì, che «i contratti di servizio pubblico aggiudicati o prorogati con provvedimento di emergenza o le misure che impongono di stipulare un contratto di questo tipo hanno una durata non superiore a due anni».
1.2.− Secondo il ricorrente, l’art. 2 della legge della Regione Toscana n. 64 del 2012, così stabilendo, nel rimettere «alla facoltà degli enti locali la possibilità di adottare un secondo provvedimento di proroga successivo al primo già disposto, senza peraltro circoscriverne nel tempo la durata», violerebbe sia il primo comma dell’art. 117, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con le finalità concorrenziali perseguite dal diritto europeo (in particolare, con l’art. 5 del Regolamento CE n. 1370 del 2007), sia il secondo comma, lettera e), del medesimo articolo della Costituzione, in quanto arrecherebbe un grave vulnus alla regole della libera concorrenza, venendo ad invadere la potestà legislativa esclusiva dello Stato in tale materia.
2.– In riferimento alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. la questione è fondata.
2.1.− È necessario, preliminarmente, individuare la materia, tra quelle contemplate dall’art. 117 Cost., alla quale ricondurre la disciplina in esame: in particolare, secondo quanto prescrive la costante giurisprudenza di questa Corte, tenendo presente l’oggetto e la disciplina da essa prevista, nonché l’interesse da essa tutelato, al fine di verificare se al legislatore regionale sia consentito di stabilire, come nel caso in esame, la proroga delle precedenti concessioni relativamente al trasporto pubblico locale, senza limiti di tempo.
Non può essere condivisa l’opinione espressa dalla difesa della Regione resistente, secondo la quale la norma censurata sarebbe riconducibile alla materia del trasporto pubblico locale, materia di competenza legislativa regionale di tipo residuale, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 222 del 2005). La disposizione in esame − pur avendo attinenza con detta materia – disciplina (peraltro in maniera difforme dalla normativa nazionale) modalità di affidamento della gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica, ed è riconducibile «secondo consolidata giurisprudenza della Corte, […] alla materia “tutela della concorrenza”, di competenza esclusiva statale, tenuto conto della sua incidenza sul mercato» (sentenza n. 46 del 2013).
Del resto, in numerose pronunce, questa Corte ha precisato che le materie di competenza esclusiva e nel contempo «trasversali» dello Stato, come la tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. − stante il loro carattere «finalistico» − «possono influire su altre materie attribuite alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni fino ad incidere sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano», quale, appunto, nel caso in oggetto, quella della disciplina del trasporto pubblico locale (sentenze n. 291 e n. 18 del 2012; n. 150 del 2011; n. 288 del 2010; n. 431, n. 430, n. 401, n. 67 del 2007 e n. 80 del 2006).
2.2.− La disciplina delle modalità dell’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica è, quindi, da ricondurre alla materia della tutela della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi del comma secondo, lettera e), dell’art. 117 Cost., tenuto conto della sua diretta incidenza sul mercato e «perché strettamente funzionale alla gestione unitaria del servizio» (ex plurimis: sentenze n. 46 del 2013; n. 62 e n. 32 del 2012; n. 339, n. 320, n. 187 e n. 128 del 2011; n. 325 del 2010). Lo scrutinio di legittimità costituzionale va, pertanto, effettuato con riferimento alla copiosa giurisprudenza relativa a questa materia.
2.2.1.− Anche recentemente questa Corte, con la sentenza n. 173 del 2013 − dichiarando l’illegittimità costituzionale di una norma della Regione Liguria che prevedeva, in tema di demanio marittimo, una proroga automatica delle concessioni già esistenti senza fissazione di un termine di durata − ha ribadito che «il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni viola l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando altresì una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), dal momento che coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non hanno la possibilità, alla scadenza della concessione, di prendere il posto del vecchio gestore se non nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza un valido programma di investimenti. Al contempo, la disciplina regionale impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, ponendo barriere all’ingresso, tali da alterare la concorrenza».
Ugualmente, con espresso riferimento a possibilità di rinnovi o proroghe automatiche di contratti in concessione relativi al trasporto pubblico locale, questa Corte ha reiteratamente affermato che non è consentito al legislatore regionale disciplinare il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni alla loro scadenza − in contrasto con i principi di temporaneità e di apertura alla concorrenza − poiché, in tal modo, dettando vincoli all’entrata, verrebbe ad alterare il corretto svolgimento della concorrenza nel settore del trasporto pubblico locale, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici ed invadendo la competenza esclusiva del legislatore statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
È stata, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali, le quali prevedevano la possibilità di proroghe automatiche di contratti di trasporto pubblico locale (sentenza n. 123 del 2011), ovvero il mantenimento di affidamenti preesistenti in capo agli stessi concessionari di servizi di trasporto pubblico locale oltre il termine ultimo previsto dal legislatore statale per il passaggio al nuovo sistema di affidamento di tali servizi tramite procedure concorsuali (sentenza n. 80 del 2011).
2.2.2.− Di conseguenza, è solo con l’affidamento dei servizi pubblici locali mediante procedure concorsuali che si viene ad operare una effettiva apertura di tale settore e a garantire il superamento di assetti monopolistici. In particolare, si è più volte sottolineato al riguardo che «la disciplina delle procedure di gara, la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione mirano a garantire che le medesime si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei principi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento. La gara pubblica, dunque, costituisce uno strumento indispensabile per tutelare e promuovere la concorrenza (sentenze n. 401 del 2007 e n. 1 del 2008)» (sentenza n. 339 del 2011).
2.3.− Anche nel caso di specie, la norma impugnata − nello stabilire la possibilità, per gli enti locali, di reiterare la proroga dei contratti dei gestori dei servizi di trasporto pubblico locale, senza neppure che vi sia l’indicazione di un termine finale di cessazione delle medesime − ha posto in essere una disciplina che opera una distorsione nel concetto di concorrenza ponendosi in contrasto con i principi generali, stabiliti dalla legislazione statale.
Né ha valore quanto affermato dalla Regione circa il, peraltro non univoco, contenuto della risposta che la Direzione generale della mobilità e dei trasporti della Commissione europea ha fornito al quesito relativo alla possibilità di reiterare, in situazioni emergenziali, anche oltre i due anni previsti dal comma 5 dell’art. 5 del Regolamento CE n.1370/2007, le misure consentite da tale disposizione. Infatti, pur prescindendo dalla circostanza che se il quesito fosse stato indirizzato anche alla Direzione generale per la concorrenza la risposta, in particolare con riferimento alla mancanza di qualsivoglia termine finale per l’attivazione delle procedure ad evidenza pubblica, forse sarebbe stata più completa, in ogni caso, trattandosi di materia attinente alla tutela della concorrenza, è solo il legislatore statale che, in base all’ordinamento costituzionale italiano, deve farsi carico di eventuali problemi emergenziali.
3.− Alla luce di tali considerazioni, l’art. 2 della legge della Regione Toscana n. 64 del 2012, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Restano assorbite le censure sollevate nei confronti del medesimo art. 2 in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Toscana 24 novembre 2012, n. 64 (Modifiche alla l.r. 69/2008, alla l.r. 65/2010, alla l.r. 66/2011, alla l.r. 68/2011 e alla l. r. 21/2012), nella parte in cui inserisce il comma 1-bis nell’articolo 82 della legge della Regione Toscana 29 dicembre 2010, n. 65 (Legge finanziaria per l’anno 2011).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 1/2014

Sentenza  1/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore TESAURO
Udienza Pubblica del 03/12/2013    Decisione  del 04/12/2013
Deposito del 13/01/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 4, c. 2°, 59 e 83, c. 1°, n. 5, e 2°, del decreto Presidente della Repubblica 30/03/1957 n. 361, nel testo risultante dalla legge 21/12/2005, n. 270; artt. 14, c. 1°, e 17, c. 2° e 4°, del decreto legislativo 20/12/1993, n. 533, nel testo risultante dalla legge 21/12/2005, n. 270.
Massime:
Atti decisi:ord. 144/2013

SENTENZA N. 1
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5 e comma 2 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo risultante dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica); degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalla legge n. 270 del 2005, promosso dalla Corte di cassazione nel giudizio civile vertente tra Aldo Bozzi ed altri e la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altro con ordinanza del 17 maggio 2013 iscritta al n. 144 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di costituzione di Aldo Bozzi ed altri;
udito nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2013 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Claudio Tani, Aldo Bozzi e Felice Carlo Besostri per Aldo Bozzi ed altri.

Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 17 maggio 2013, la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59 e 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), nel testo in vigore con le modificazioni apportate dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), nonché degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo in vigore con le modificazioni apportate dalla legge n. 270 del 2005, in riferimento agli artt. 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, anche alla luce dell’art. 3, protocollo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).
1.1.– Il rimettente premette di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso promosso nei confronti della sentenza della Corte d’appello di Milano, resa il 24 aprile 2012, con cui quest’ultima, confermando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda con la quale un cittadino elettore aveva chiesto che fosse accertato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in coerenza con i principi costituzionali.
In particolare, la Corte di cassazione precisa che il suddetto cittadino elettore aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’interno, deducendo che nelle elezioni per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica svoltesi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 270 del 2005 e, specificamente, in occasione delle elezioni del 2006 e del 2008, egli aveva potuto esercitare il diritto di voto secondo modalità configurate dalla predetta legge in senso contrario ai principi costituzionali del voto «personale ed eguale, libero e segreto» (art. 48, secondo comma, Cost.) ed «a suffragio universale e diretto» (artt. 56, primo comma e 58, primo comma, Cost.). Pertanto, chiedeva fosse dichiarato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in modo libero e diretto, secondo le modalità previste e garantite dalla Costituzione e dal protocollo 1 della CEDU, e quindi chiedeva di ripristinarlo secondo modalità conformi alla legalità costituzionale. A tal fine eccepiva l’illegittimità costituzionale di svariate disposizioni delle leggi elettorali della Camera e del Senato. Il Tribunale di Milano, dinanzi al quale svolgevano interventi ad adiuvandum venticinque cittadini elettori, con sentenza del 18 aprile 2011, rigettava le eccezioni preliminari di inammissibilità per difetto di giurisdizione e insussistenza dell’interesse ad agire e, nel merito, respingeva le domande, giudicando manifestamente infondate le proposte eccezioni di illegittimità costituzionale. Avverso tale decisione veniva proposto appello che veniva, tuttavia, anche quanto alla fondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale, respinto nel merito.
1.2.– In linea preliminare, la Corte di cassazione rileva, anzitutto, che sulla questione della sussistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 100 del codice di procedura civile, in specie sull’interesse dei predetti a proporre un’azione di accertamento della pienezza del proprio diritto di voto, quale diritto politico di rilevanza primaria, di cui sarebbe precluso l’esercizio in modo conforme alla Costituzione dalla legge n. 270 del 2005, si è formato il giudicato, considerato che i giudici di merito avevano respinto le relative eccezioni delle amministrazioni convenute in giudizio e che queste ultime non hanno proposto ricorso incidentale.
1.3.– Il rimettente afferma, inoltre, che anche sulla questione della giurisdizione si è formato il giudicato, non essendo stata più riproposta. Un’azione di accertamento di un diritto, d’altra parte, non avrebbe potuto che essere promossa dinanzi al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti fondamentali, non interferendo in nessun modo con la giurisdizione riservata alle Camere, tramite le rispettive Giunte parlamentari (art. 66 Cost.), in tema di operazioni elettorali.
1.4.– Quanto, poi, alla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale proposte, la Corte di cassazione ne ravvisa la sussistenza sulla base della considerazione che l’accertamento della pienezza del diritto di voto non può avvenire se non all’esito del controllo di costituzionalità delle norme di cui alla legge n. 270 del 2005, da cui si ritiene derivi la lesione del predetto diritto.
1.5. – Ancora preliminarmente, il rimettente rileva, infine, che, nella specie, sussiste il necessario nesso di pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale proposte rispetto al giudizio principale, posto che quest’ultimo deve essere definito con una sentenza che accerti la portata del diritto azionato e lo ripristini nella pienezza della sua espansione, anche se per il tramite della sentenza della Corte costituzionale. Il petitum del giudizio principale sarebbe, pertanto, separato e distinto rispetto a quello oggetto del giudizio di legittimità costituzionale. Peraltro, nei casi di leggi che, nel momento stesso in cui entrano in vigore, creano in maniera immediata restrizioni dei poteri o doveri in capo a determinati soggetti, i quali, pertanto, si trovano per ciò stesso già pregiudicati da esse, come nel caso in esame delle leggi elettorali, l’azione di accertamento rappresenterebbe l’unica strada percorribile per la tutela giurisdizionale di diritti fondamentali di cui, altrimenti, non sarebbe possibile una tutela efficace e diretta.
1.6.– Nel merito, la Corte di cassazione, in contrasto con quanto ritenuto dai giudici di merito, premette che l’assenza di una espressa base giuridica della materia elettorale nella Costituzione non autorizza a ritenere che la relativa disciplina non debba essere coerente con i conferenti principi sanciti dalla Costituzione ed in specie con il principio di eguaglianza inteso come principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., e con il vincolo del voto personale, eguale, libero e diretto (artt. 48, 56 e 58 Cost.), in linea, peraltro, con una consolidata tradizione costituzionale comune a molti Stati.
Né varrebbe ad escludere la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale delle leggi elettorali l’obiezione che, rientrando queste ultime nella categoria delle leggi costituzionalmente necessarie, non ne sarebbe possibile l’espunzione dall’ordinamento nemmeno in caso di illegittimità costituzionale, poiché, in tal modo, si finirebbe col tollerare la permanente vigenza di norme incostituzionali, di rilevanza essenziale per la vita democratica di un Paese. D’altra parte, la Corte di cassazione sottolinea che le questioni di legittimità costituzionale proposte non mirano «a far caducare l’intera legge n. 270/2005, né a sostituirla con un’altra eterogenea, impingendo nella discrezionalità del legislatore», ma solo a «ripristinare nella legge elettorale contenuti costituzionalmente obbligati, senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale a garantire il rinnovo degli organi costituzionali». A tal proposito la Corte di cassazione sottolinea che «tale conclusione non è contraddetta né ostacolata dalla eventualità che si renda necessaria un’opera di mera cosmesi normativa e di ripulitura del testo per la presenza di frammenti normativi residui, che può essere realizzata dalla Corte costituzionale, avvalendosi dei suoi poteri (in specie di quelli di cui all’art. 27, ultima parte, della legge n. 87 del 1953) o dal legislatore in attuazione dei principi enunciati dalla stessa Corte».
1.7.– Tanto premesso, il rimettente censura anzitutto l’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui prevede che l’Ufficio elettorale nazionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi» (comma 1, n. 5) e stabilisce che, in caso negativo, ad essa viene attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere tale consistenza.
Tali disposizioni, non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e, quindi, trasformando una maggioranza relativa di voti (potenzialmente anche molto modesta) in una maggioranza assoluta di seggi, determinerebbero irragionevolmente una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica.
Esse, inoltre, delineerebbero un meccanismo premiale manifestamente irragionevole, il quale, da un lato, incentivando il raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere al premio, si porrebbe in contraddizione con l’esigenza di assicurare la governabilità, stante la possibilità che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio si sciolga o uno o più partiti che ne facevano parte ne escano; dall’altro, provocherebbe una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio sarebbe in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l’altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura.
La previsione dell’attribuzione del premio di maggioranza recata dalle predette disposizioni comprometterebbe poi l’eguaglianza del voto e cioè la «parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso», in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost., tenuto conto che la distorsione provocata dalla predetta attribuzione del premio costituirebbe non già un mero inconveniente di fatto, ma il risultato di un meccanismo irrazionale poiché normativamente programmato per tale esito.
1.8.– Analoghe censure sono, poi, rivolte all’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui prevede che l’Ufficio elettorale regionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione abbia conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 2) e che, in caso negativo, «l’ufficio elettorale regionale assegna alla coalizione di liste o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 4).
Anche le predette disposizioni, infatti, nella parte in cui non subordinano l’attribuzione del premio di maggioranza su scala regionale al raggiungimento di una soglia minima di voti, sarebbero tali da determinare una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica.
Esse, inoltre, recherebbero un meccanismo intrinsecamente irrazionale, che di fatto finirebbe con contraddire lo scopo di assicurare la governabilità, in quanto, essendo il premio diverso per ogni Regione, il risultato sarebbe una sommatoria casuale dei premi regionali, che potrebbero finire per elidersi tra loro e addirittura rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea tra i due rami del Parlamento, e compromettendo sia il funzionamento della forma di governo parlamentare, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce alla Camera ed al Senato.
Un’ulteriore censura è, infine, prospettata con riferimento agli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost., in quanto, posto che l’entità del premio, in favore della lista o coalizione che ha ottenuto più voti, varia da Regione a Regione ed è maggiore nelle Regioni più grandi e popolose, il peso del voto (che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi) sarebbe diverso a seconda della collocazione geografica dei cittadini elettori.
1.9.–Vengono, infine, censurati l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, l’art. 59, comma 1, del medesimo d.P.R., nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».
Tali disposizioni violerebbero gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., che stabiliscono che il suffragio è «diretto» per l’elezione dei deputati e dei senatori; l’art. 48, secondo comma, Cost. che stabilisce che il voto è personale e libero; l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU, che riconosce al popolo il diritto alla «scelta del corpo legislativo»; e l’art. 49 Cost. Esse, infatti, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione dei candidati, renderebbero il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presuppone l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia né libero, né personale.
2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio principale, i quali, nell’atto di costituzione e nella memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme censurate con l’ordinanza di rimessione; nonché che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale, per relationem, anche dell’art. 83, commi 1, n. 3 e 6, del d.P.R. n. 361 del 1957 e dell’art. 16, comma 1, lettera b), n. 1 e n. 2, del d.lgs. n. 533 del 1993.
In particolare, con riguardo alle norme inerenti al premio di maggioranza, i ricorrenti ne sostengono l’irrazionalità, sulla scia di quanto già evidenziato dalla dottrina ed affermato dalla giurisprudenza costituzionale, in sede di sindacato di ammissibilità del referendum abrogativo (sentenze n. 15 e n. 16 del 2008 e n. 13 del 2012), proprio in relazione al fatto che le vigenti leggi elettorali attribuiscono un enorme premio di maggioranza alla lista che ha ottenuto anche un solo voto in più delle altre, senza prevedere il raggiungimento di una soglia minima di voti.
Quanto al voto di preferenza, i ricorrenti lamentano che l’esercizio di tale diritto sia stato illegittimamente soppresso dal legislatore del 2005, in contrasto con la Costituzione, che, all’art. 48, secondo comma, stabilisce che il voto è «personale ed eguale, libero e segreto» ed agli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, prevede che il voto deve avvenire «a suffragio universale e diretto», assicurando in tal modo che il voto sia espresso dalla persona che vota (elettorato attivo) e ricevuto direttamente dalla persona che si è candidata (elettorato passivo). Attribuendo rilevanza esclusiva all’ordine di inserimento dei candidati nella medesima lista, già deciso dagli organi di partito, ed eliminando ogni potere dell’elettore di incidere direttamente sulla composizione dell’Assemblea, la legge avrebbe trasformato le elezioni in un procedimento di mera ratifica dell’ordine di lista deciso dagli organi di partito, conferendo a costoro l’esclusivo potere non più di designazione di una serie di nomi da sottoporre singolarmente alla scelta diretta degli elettori, ma di nomina.
3.– All’udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati) e del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica), nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), relative all’attribuzione del premio di maggioranza su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato, nonché di quelle disposizioni che, disciplinando le modalità di espressione del voto come voto di lista, non consentono all’elettore di esprimere alcuna preferenza.
1.1.– In particolare, la Corte di cassazione censura, anzitutto, l’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957, nella parte in cui dispone che l’Ufficio elettorale nazionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi» (comma 1, n. 5) e stabilisce che, in caso negativo, «ad essa viene ulteriormente attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere tale consistenza» (comma 2).
Tali disposizioni violerebbero l’art. 3 Cost., congiuntamente agli artt. 1, secondo comma, e 67 Cost., in quanto, non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e, quindi, trasformando una maggioranza relativa di voti, potenzialmente anche molto modesta, in una maggioranza assoluta di seggi, determinerebbero irragionevolmente una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica.
Esse, inoltre, avrebbero stabilito un meccanismo di attribuzione del premio manifestamente irragionevole, il quale, da un lato, sarebbe in contrasto con l’esigenza di assicurare la governabilità, in quanto incentiverebbe il raggiungimento di accordi tra le liste al solo fine di accedere al premio, senza scongiurare il rischio che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio possa sciogliersi, o uno o più partiti che ne facevano parte escano dalla stessa. Dall’altro, provocherebbe un’alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio sarebbe in grado di eleggere gli organi di garanzia che restano in carica per un tempo più lungo della legislatura.
Tale modalità di attribuzione del premio di maggioranza stabilita dalle predette disposizioni comprometterebbe, inoltre, l’eguaglianza del voto e cioè la parità di condizione dei cittadini nel momento in cui il voto viene espresso, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost. La distorsione che ne risulta non costituirebbe, infatti, un mero inconveniente di fatto, ma sarebbe il risultato di un meccanismo irrazionale normativamente programmato per determinare tale esito.
1.2.– Analoghe censure sono rivolte all’art. 17 del d.lgs. n. 533 del 1993 (concernente la disciplina dell’elezione del Senato della Repubblica), nella parte in cui stabilisce che l’Ufficio elettorale regionale verifica «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione abbia conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all’unità superiore» (comma 2) e che, in caso negativo, «l’ufficio elettorale regionale assegna alla coalizione di liste o alla singola lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all'unità superiore» (comma 4).
Anche tali disposizioni, nella parte in cui non subordinano l’attribuzione del premio di maggioranza su scala regionale al raggiungimento di una soglia minima di voti, determinerebbero, irragionevolmente, una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica. Inoltre, avrebbero creato un meccanismo intrinsecamente irrazionale, in contrasto con lo scopo di assicurare la governabilità. Infatti, essendo detto premio diverso per ogni Regione, il risultato sarebbe una somma casuale dei premi regionali, che potrebbero finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea, così da compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce alla Camera ed al Senato.
Le predette disposizioni violerebbero anche gli artt. 3 e 48, secondo comma, Cost., in quanto, posto che l’entità del premio, in favore della lista o coalizione che ha ottenuto più voti, varia da Regione a Regione ed è maggiore in quelle più grandi e popolose, il peso del voto – che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi – sarebbe diverso a seconda della collocazione geografica dei cittadini elettori.
1.3.– La Corte di cassazione censura, infine, l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, l’art. 59 del medesimo d.P.R., nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».
Tali disposizioni, ad avviso del rimettente, violerebbero gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., i quali stabiliscono che il suffragio è diretto per l’elezione dei deputati e dei senatori; l’art. 48, secondo comma, Cost., in virtù del quale il voto è personale e libero; l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), che riconosce al popolo il diritto alla «scelta del corpo legislativo»; e l’art. 49 Cost. Dette norme, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza per i candidati, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione di tutti i candidati, renderebbero, infatti, il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non potrebbero sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presupporrebbe l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia libero, né personale.
2.– In ordine all’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale in esame, va premesso che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, siffatto controllo ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) «va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere» (tra le molte, sentenza n. 263 del 1994). Il riscontro dell’interesse ad agire e la verifica della legittimazione delle parti, nonché della giurisdizione del giudice rimettente, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza dell’incidente di legittimità costituzionale, sono, inoltre, rimessi alla valutazione del giudice a quo e non sono suscettibili di riesame da parte di questa Corte, qualora sorretti da una motivazione non implausibile (fra le più recenti, sentenze n. 91 del 2013, n. 280 del 2012, n. 279 del 2012, n. 61 del 2012, n. 270 del 2010).
Nella specie, la Corte di cassazione, con motivazione ampia, articolata ed approfondita, ha plausibilmente argomentato in ordine sia alla pregiudizialità delle questioni di legittimità costituzionale rispetto alla definizione del giudizio principale, sia alla rilevanza delle medesime.
Essa ha affermato che nel giudizio principale è stata proposta un’azione di accertamento avente ad oggetto il diritto di voto, finalizzata – come tutte le azioni di tale natura, la cui generale ammissibilità è desunta dal principio dell’interesse ad agire – ad accertare la portata del diritto, ritenuta incerta. L’esistenza di detto interesse e della giurisdizione – ha sottolineato l’ordinanza – costituisce, peraltro, oggetto di un giudicato interno. La sussistenza dell’uno e dell’altra è stata, infatti, contestata dalle Amministrazioni nella fase di merito, con eccezione rigettata dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Milano, e non è stata reiterata dinanzi alla Corte di cassazione mediante la proposizione di ricorso incidentale, con la conseguenza che deve ritenersi definitivamente precluso il riesame di tale profilo.
Il rimettente, con argomentazioni plausibili, ha altresì sottolineato, in ordine alla natura ed oggetto dell’azione, che gli attori hanno agito allo scopo «di rimuovere un pregiudizio», frutto di «una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica che postula di essere rimossa mediante un’attività ulteriore, giuridica e materiale, che consenta ai cittadini elettori di esercitare realmente il diritto di voto in modo pieno e in sintonia con i valori costituzionali». A suo avviso, gli attori hanno, quindi, chiesto al giudice ordinario – in qualità di giudice dei diritti – di accertare la portata del proprio diritto di voto, resa incerta da una normativa elettorale in ipotesi incostituzionale, previa l’eventuale proposizione della relativa questione. Pertanto, l’eventuale accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale non esaurirebbe la tutela richiesta nel giudizio principale, che si realizzerebbe solo a seguito ed in virtù della pronuncia con la quale il giudice ordinario accerta il contenuto del diritto dell’attore, all’esito della sentenza di questa Corte.
Al riguardo, in ordine ai presupposti della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, va ricordato che, secondo un principio enunciato da questa Corte fin dalle sue prime pronunce, «la circostanza che la dedotta incostituzionalità di una o più norme legislative costituisca l'unico motivo di ricorso innanzi al giudice a quo non impedisce di considerare sussistente il requisito della rilevanza, ogni qualvolta sia individuabile nel giudizio principale un petitum separato e distinto dalla questione (o dalle questioni) di legittimità costituzionale, sul quale il giudice rimettente sia chiamato a pronunciarsi» (sentenza n. 4 del 2000; ma analoga affermazione era già contenuta nella sentenza n. 59 del 1957), anche allo scopo di scongiurare «la esclusione di ogni garanzia e di ogni controllo» su taluni atti legislativi (nella specie le leggi-provvedimento: sentenza n. 59 del 1957).
Nel caso in esame, tale condizione è soddisfatta, perchè il petitum oggetto del giudizio principale è costituito dalla pronuncia di accertamento del diritto azionato, in ipotesi condizionata dalla decisione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, non risultando l’accertamento richiesto al giudice comune totalmente assorbito dalla sentenza di questa Corte, in quanto residuerebbe la verifica delle altre condizioni cui la legge fa dipendere il riconoscimento del diritto di voto. Per di più, nella fattispecie qui in esame, la questione ha ad oggetto un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, il diritto di voto, che ha come connotato essenziale il collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme, ed è proposta allo scopo di porre fine ad una situazione di incertezza sulla effettiva portata del predetto diritto determinata proprio da «una (già avvenuta) modificazione della realtà giuridica», in ipotesi frutto delle norme censurate.
L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso di tale giudizio si desume precisamente dalla peculiarità e dal rilievo costituzionale, da un lato, del diritto oggetto di accertamento; dall’altro, della legge che, per il sospetto di illegittimità costituzionale, ne rende incerta la portata. Detta ammissibilità costituisce anche l’ineludibile corollario del principio che impone di assicurare la tutela del diritto inviolabile di voto, pregiudicato – secondo l’ordinanza del giudice rimettente – da una normativa elettorale non conforme ai principi costituzionali, indipendentemente da atti applicativi della stessa, in quanto già l’incertezza sulla portata del diritto costituisce una lesione giuridicamente rilevante. L’esigenza di garantire il principio di costituzionalità rende quindi imprescindibile affermare il sindacato di questa Corte – che «deve coprire nella misura più ampia possibile l’ordinamento giuridico» (sentenza n. 387 del 1996) – anche sulle leggi, come quelle relative alle elezioni della Camera e del Senato, «che più difficilmente verrebbero per altra via ad essa sottoposte» (sentenze n. 384 del 1991 e n. 226 del 1976).
Nel quadro di tali principi, le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili, anche in linea con l’esigenza che non siano sottratte al sindacato di costituzionalità le leggi, quali quelle concernenti le elezioni della Camera e del Senato, che definiscono le regole della composizione di organi costituzionali essenziali per il funzionamento di un sistema democratico-rappresentativo e che quindi non possono essere immuni da quel sindacato. Diversamente, si finirebbe con il creare una zona franca nel sistema di giustizia costituzionale proprio in un ambito strettamente connesso con l’assetto democratico, in quanto incide sul diritto fondamentale di voto; per ciò stesso, si determinerebbe un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato.
3.– Nel merito, la prima delle questioni in esame riguarda il premio di maggioranza assegnato per la elezione della Camera dei deputati. L’art. 83 del d.P.R. n. 361 del 1957 prevede che l’Ufficio elettorale nazionale verifichi «se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi abbia conseguito almeno 340 seggi» (comma 1, n. 5), sulla base dall’attribuzione di seggi in ragione proporzionale; e stabilisce, in caso negativo, che ad essa venga attribuito il numero di seggi necessario per raggiungere quella consistenza (comma 2).
Secondo la Corte di cassazione, tali disposizioni, non subordinando l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e, quindi, trasformando una maggioranza relativa di voti, potenzialmente anche molto modesta, in una maggioranza assoluta di seggi, avrebbero stabilito, in violazione dell’art. 3 Cost., un meccanismo di attribuzione del premio manifestamente irragionevole, tale da determinare una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica, lesiva della stessa eguaglianza del voto, peraltro neppure idonea ad assicurare la stabilità di governo.
3.1.– La questione è fondata.
Questa Corte ha da tempo ricordato che l’Assemblea Costituente, «pur manifestando, con l’approvazione di un ordine del giorno, il favore per il sistema proporzionale nell’elezione dei membri della Camera dei deputati, non intese irrigidire questa materia sul piano normativo, costituzionalizzando una scelta proporzionalistica o disponendo formalmente in ordine ai sistemi elettorali, la configurazione dei quali resta affidata alla legge ordinaria» (sentenza n. 429 del 1995). Pertanto, la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996). Il principio costituzionale di eguaglianza del voto – ha inoltre rilevato questa Corte – esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenza n. 43 del 1961).
Non c’è, in altri termini, un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico.
Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 242 del 2012 e n. 107 del 1996; ordinanza n. 260 del 2002).
Nella specie, proprio con riguardo alle norme della legge elettorale della Camera qui in esame, relative all’attribuzione del premio di maggioranza in difetto del presupposto di una soglia minima di voti o di seggi, questa Corte, pur negando la possibilità di sindacare in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo profili di illegittimità costituzionale, in particolare attinenti alla ragionevolezza delle predette norme, ha già segnalato l’esigenza che il Parlamento consideri con attenzione alcuni profili di un simile meccanismo. Alcuni aspetti problematici sono stati ravvisati nella circostanza che il meccanismo premiale è foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa, in quanto consente ad una lista che abbia ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi. In tal modo si può verificare in concreto una distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi che, pur essendo presente in qualsiasi sistema elettorale, nella specie assume una misura tale da comprometterne la compatibilità con il principio di eguaglianza del voto (sentenze n. 15 e n. 16 del 2008). Successivamente, questa Corte, stante l’inerzia del legislatore, ha rinnovato l’invito al Parlamento a considerare con attenzione i punti problematici della disciplina, così come risultante dalle modifiche introdotte con la legge n. 270 del 2005, ed ha nuovamente sottolineato i profili di irrazionalità segnalati nelle precedenti occasioni sopra ricordate, insiti nell’«attribuzione dei premi di maggioranza senza la previsione di alcuna soglia minima di voti e/o di seggi» (sentenza n. 13 del 2012); profili ritenuti, tuttavia, insindacabili in una sede diversa dal giudizio di legittimità costituzionale.
Gli stessi rilievi, nella perdurante inerzia del legislatore ordinario, non possono che essere ribaditi e, conseguentemente, devono ritenersi fondate le censure concernenti l’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957. Tali disposizioni, infatti, non superano lo scrutinio di proporzionalità e di ragionevolezza, al quale soggiacciono anche le norme inerenti ai sistemi elettorali.
In ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, quale quello in esame, siffatto scrutinio impone a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.
Nella specie, le suddette condizioni non sono soddisfatte.
Le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo. Questo obiettivo è perseguito mediante un meccanismo premiale destinato ad essere attivato ogniqualvolta la votazione con il sistema proporzionale non abbia assicurato ad alcuna lista o coalizione di liste un numero di voti tale da tradursi in una maggioranza anche superiore a quella assoluta di seggi (340 su 630). Se dunque si verifica tale eventualità, il meccanismo premiale garantisce l’attribuzione di seggi aggiuntivi (fino alla soglia dei 340 seggi) a quella lista o coalizione di liste che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, e ciò pure nel caso che il numero di voti sia in assoluto molto esiguo, in difetto della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi.
Le disposizioni censurate non si limitano, tuttavia, ad introdurre un correttivo (ulteriore rispetto a quello già costituito dalla previsione di soglie di sbarramento all’accesso, di cui al n. 3 ed al n. 6 del medesimo comma 1 del citato art. 83, qui non censurati) al sistema di trasformazione dei voti in seggi «in ragione proporzionale», stabilito dall’art. 1, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, in vista del legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi, ma rovesciano la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare. In tal modo, dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.
In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali.
Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto. In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952).
Le norme censurate, pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare, dettano una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. In definitiva, detta disciplina non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente.
Deve, quindi, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957.
4.– Le medesime argomentazioni vanno svolte anche in relazione alle censure sollevate, in relazione agli stessi parametri costituzionali, nei confronti dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, che disciplina il premio di maggioranza per le elezioni del Senato della Repubblica, prevedendo che l’Ufficio elettorale regionale, qualora la coalizione di liste o la singola lista, che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione, non abbiano conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, assegni alle medesime un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione.
Anche queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.
Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.
Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993.
5.– Occorre, infine, esaminare le censure relative all’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, all’art. 59, comma 1, del medesimo d.P.R., nonché all’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».
Secondo il rimettente, tali disposizioni, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione e la collocazione in lista di tutti i candidati, renderebbero il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presuppone l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Ciò violerebbe gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU, che riconosce al popolo il diritto alla “scelta del corpo legislativo”, e l’art. 49 Cost. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia né libero, né personale, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.
5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.
Le norme censurate, concernenti le modalità di espressione del voto per l’elezione dei componenti, rispettivamente, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, si inseriscono in un contesto normativo in base al quale tale voto avviene per liste concorrenti di candidati (art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957; art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 533 del 1993), presentati «secondo un determinato ordine», in numero «non inferiore a un terzo e non superiore ai seggi assegnati alla circoscrizione» (art. 18-bis, comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957 ed art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 533 del 1993). Le circoscrizioni elettorali, la cui disciplina non è investita dalle censure qui esaminate, corrispondono sempre, per il Senato, ai territori delle Regioni (art. 2 del d.lgs. n. 533 del 1993); per la Camera dei deputati (Allegato A alla legge n. 270 del 2005), le circoscrizioni corrispondono ai territori regionali, con l’eccezione delle Regioni di maggiori dimensioni, nelle quali sono presenti due circoscrizioni (Piemonte, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia) o tre (Lombardia).
La ripartizione dei seggi tra le liste concorrenti è, inoltre, effettuata in ragione proporzionale, con l’eventuale attribuzione del premio di maggioranza (art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957), che è definito, per il Senato, «di coalizione regionale» (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 533 del 1993); e sono proclamati «eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo l’ordine di presentazione» nella lista (art. 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957 ed art. 17, comma 7, del d.lgs. n. 533 del 1993).
In questo quadro, le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso.
Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la “presentazione di alternative elettorali” e la “selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche” – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati.
Sulla base di analoghi argomenti, questa Corte si è già espressa, sia pure con riferimento al sistema elettorale vigente nel 1975 per i Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, contraddistinto anche esso dalla ripartizione dei seggi in ragione proporzionale fra liste concorrenti di candidati. In quella occasione, la Corte ha affermato che la circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare l’ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino: a condizione che quest’ultimo sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza» (sentenza n. 203 del 1975).
Nella specie, tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito.
In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).
Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione.
Resta, pertanto, assorbita la questione proposta in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU. Peraltro, nessun rilievo assume la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 13 marzo 2012 (caso Saccomanno e altri contro Italia), resa a seguito di un ricorso proposto da alcuni cittadini italiani che deducevano la pretesa violazione di quel parametro precisamente dalle norme elettorali qui in esame, sentenza che ha dichiarato tutti i motivi di ricorso manifestamente infondati, sul presupposto dell’«ampio margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati in materia» (paragrafo 64). Spetta, in definitiva, a questa Corte di verificare la compatibilità delle norme in questione con la Costituzione.
6.– La normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo», così come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 13 del 2012). Le leggi elettorali sono, infatti, “costituzionalmente necessarie”, in quanto «indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» (sentenza n. 13 del 2012; analogamente, sentenze n. 15 e n. 16 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995, n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, n. 29 del 1987), dovendosi inoltre scongiurare l’eventualità di «paralizzare il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica previsto dall’art. 88 Cost.» (sentenza n. 13 del 2012).
In particolare, la normativa che rimane in vigore stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l’attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato. Ciò che resta, invero, è precisamente il meccanismo in ragione proporzionale delineato dall’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957 e dall’art. 1 del d.lgs. n. 533 del 1993, depurato dell’attribuzione del premio di maggioranza; e le norme censurate riguardanti l’espressione del voto risultano integrate in modo da consentire un voto di preferenza. Non rientra tra i compiti di questa Corte valutare l’opportunità e/o l’efficacia di tale meccanismo, spettando ad essa solo di verificare la conformità alla Costituzione delle specifiche norme censurate e la possibilità immediata di procedere ad elezioni con la restante normativa, condizione, quest’ultima, connessa alla natura della legge elettorale di «legge costituzionalmente necessaria» (sentenza n. 32 del 1993). D’altra parte, la rimettente Corte di cassazione aveva significativamente puntualizzato che «la proposta questione di legittimità costituzionale non mira a far caducare l’intera legge n. 270/2005 né a sostituirla con un’altra eterogenea impingendo nella discrezionalità del legislatore, ma a ripristinare nella legge elettorale contenuti costituzionalmente obbligati (concernenti la disciplina del premio di maggioranza e delle preferenze), senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale a garantire il rinnovo degli organi costituzionali», fatta salva «l’eventualità che si renda necessaria un’opera di mera cosmesi normativa e di ripulitura del testo per la presenza di frammenti normativi residui, che può essere realizzata dalla Corte costituzionale, avvalendosi dei poteri che ha a disposizione».
La presente decisione non può andare al di là di quanto ipotizzato e richiesto dal giudice rimettente.
Per quanto riguarda la possibilità per l’elettore di esprimere un voto di preferenza, eventuali apparenti inconvenienti, che comunque «non incidono sull’operatività del sistema elettorale, né paralizzano la funzionalità dell’organo» (sentenza n. 32 del 1993), possono essere risolti mediante l’impiego degli ordinari criteri d’interpretazione, alla luce di una rilettura delle norme già vigenti coerente con la pronuncia di questa Corte: come, ad esempio, con riferimento alle previsioni, di cui agli artt. 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957, e 17, comma 7, del d.lgs. n. 533 del 1993, che, nella parte in cui stabiliscono che sono proclamati eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima «secondo l’ordine di presentazione», non appaiono incompatibili con l’introduzione del voto di preferenza, dovendosi ritenere l’ordine di lista operante solo in assenza di espressione della preferenza; o, ancora, con riguardo alle modalità di redazione delle schede elettorali di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 361 del 1957 ed all’art. 11, comma 3, del d.lgs n. 533 del 1993, che, nello stabilire che nella scheda devono essere riprodotti i contrassegni di tutte le liste regolarmente presentate nella circoscrizione, secondo il fac-simile di cui agli allegati, non escludono che quegli schemi siano integrati da uno spazio per l’espressione della preferenza; o, quanto alla possibilità di intendere l’espressione della preferenza come preferenza unica, in linea con quanto risultante dal referendum del 1991, ammesso con sentenza n. 47 del 1991, in relazione alle formule elettorali proporzionali. Simili eventuali inconvenienti potranno, d’altro canto, essere rimossi anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi della presente pronuncia e delle soluzioni interpretative sopra indicate. Resta fermo ovviamente, che lo stesso legislatore ordinario, ove lo ritenga, «potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua» (sentenza n. 32 del 1993).
7.– È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.
Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984).
Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti.
Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.
Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.).

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI