Ordinanza 93/2014

Ordinanza  93/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore GROSSI
Camera di Consiglio del 12/03/2014    Decisione  del 07/04/2014
Deposito del 10/04/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 13, c. 5° ter, e 14 del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286; art. 12 della legge 06/03/1998, n. 40.
Massime:
Atti decisi:ord. 241/2013

ORDINANZA N. 93
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 13, comma 5-ter, e 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e dell’art. 12 della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso dal Giudice di pace di Roma nel procedimento relativo a Y.F.H. con ordinanza del 17 giugno 2013, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto che, con ordinanza del 17 giugno 2013, il Giudice di pace di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale: a) dell’art. 13, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come aggiunto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 12 novembre 2004, n. 271 – secondo cui «Al fine di assicurare la tempestività del procedimento di convalida dei provvedimenti di cui ai commi 4 e 5, ed all’articolo 14, comma 1, le questure forniscono al giudice di pace, nei limiti delle risorse disponibili, il supporto occorrente e la disponibilità di un locale idoneo» –, «per contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 13, 24, 97, 111 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848»; b) dell’art. 14 del medesimo decreto legislativo n. 286 del 1998, «e della legge 6 marzo 1998 n. 40 art. 12 (quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell’Interno, di concerto con i ministri per la Solidarietà sociale e del Tesoro), in riferimento ai Centri di identificazione ed espulsione perché non istituiti né regolamentati con legge, violando il principio della riserva di legge nell’organizzazione dei pubblici uffici per contrasto con gli articoli 2, 3, 10, 13, 24, 97, 111, 117 della Costituzione, in relazione all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848»;
che il giudice rimettente premette di essere chiamato a decidere sulla convalida del provvedimento di trattenimento di una cittadina extracomunitaria presso il Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria in Roma, emesso dal Questore di Messina il 5 giugno 2013 (in esecuzione del provvedimento di espulsione adottato, nella stessa data, dal Prefetto di Messina), nonché sulla richiesta di convalida di detto provvedimento, proposta dal Questore di Roma il 7 giugno 2013 (atti entrambi depositati l’8 giugno 2013);
che, «nel dubbio tra le due opposte richieste» sollecitate dalle parti – l’una di non convalida per inutile decorso del previsto termine di quarantotto ore, l’altra tesa ad insistere nella richiesta di convalida – il giudice rimettente «sospendeva il procedimento in corso ritenendo che non fosse possibile decidere in base agli atti ed alla legislazione vigente», «anche alla luce della situazione di fatto rappresentata dalla disamina degli atti e dalla non ragionevolezza delle norme citate di cui al D. Lgsvo n. 286/98, relative all’accertamento di quale fosse il Centro di Identificazione ed Espulsione più vicino, nonché di quale fosse il locale idoneo reso disponibile e fornito dalle questure al giudice di pace, al fine di assicurare la tempestività del procedimento di convalida»;
che l’indeterminatezza della normativa di riferimento consentirebbe al Ministero dell’interno di individuare i Centri, in tutto il territorio nazionale, nei quali trattenere gli stranieri espulsi, scegliendo, in tal modo, anche il giudice di pace competente, che dovrebbe recarsi presso il luogo indicato dal potere esecutivo per effettuare tempestivamente la convalida;
che risulterebbe di dubbia legittimità costituzionale il richiamato art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui demanda al Ministero dell’interno di individuare i Centri già esistenti o di «costituirne di nuovi»;
che di dubbia legittimità risulterebbe altresì l’istituto del trattenimento degli stranieri in riferimento al principio di uguaglianza, di non discriminazione e del diritto di libertà personale («art. 3, art. 10, art. 13 Cost.»);
che, infatti, in ossequio al principio della riserva di legge, la disciplina dei Centri di identificazione ed espulsione dovrebbe essere integralmente affidata alla legge;
che, al contrario, «il Testo Unico dell’immigrazione non contiene nessuna prescrizione circa le modalità del trattenimento nei CIE», salve disposizioni del tutto generiche, evocandosi a confronto il diverso regime previsto dall’ordinamento penitenziario;
che, in proposito, non potrebbe valere il regolamento di attuazione del predetto testo unico sulla immigrazione, proprio perché si tratta di fonte secondaria, risultando, del resto, la gestione dei Centri disciplinata da un capitolato di appalto, approvato con decreto ministeriale del 21 novembre 2008;
che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la materia interferirebbe con il sereno ed imparziale esercizio della giurisdizione, visto che i locali adibiti al giudice di pace sono forniti dall’Amministrazione dell’interno, segnalandosi, al riguardo, come il Consiglio superiore della magistratura avrebbe avuto modo di stigmatizzare tale stato di fatto in un parere del 21 ottobre 2004;
che la norma di cui all’art. 13, comma 5-ter, in discorso dovrebbe, dunque, «essere emendata riportando all’interno degli uffici del giudice di pace, o di locali ad esso riferibili, lo svolgimento delle udienze relative alle convalide dei giudici di pace dei trattenimenti, degli stranieri espulsi, presso i centri di identificazione ed espulsione, configurandosi in caso contrario una evidente lesione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione […] e del dovere di imparzialità e di parità davanti ad un giudice terzo (art. 111 della Costituzione)»;
che violati sarebbero pure gli artt. 97 e 13 Cost., posto che le decisioni sulla convalida incidono sulla libertà personale;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza e, in subordine, infondata;
che «le ragioni esplicitate in punto di rilevanza» risulterebbero, infatti, nell’ordinanza di rimessione, «vaghe e contraddittorie nonché carenti anche sotto il profilo logico e sostanziale», non risultando spiegati i motivi per i quali l’eventuale rimozione delle norme denunciate influirebbe sulla decisione della controversia sottoposta al giudizio del rimettente;
che non sarebbero, infatti, evidenziati elementi dai quali dedurre che la cittadina extracomunitaria sia stata assoggettata ad una restrizione «non regolare» o inadeguata, ciò che soltanto potrebbe giustificare la proposizione di un dubbio di legittimità costituzionale della normativa censurata;
che, al contrario, il giudice rimettente si limita ad esprimere un dubbio «essenzialmente sul momento cronologico, del tutto marginale, della notifica del provvedimento» di espulsione, senza che risulti chiarito come la rimozione delle norme denunciate potrebbe determinare un miglioramento della condizione della persona trattenuta;
che, d’altra parte, le argomentazioni svolte nell’ordinanza risultano analoghe a quelle poste a fondamento di altra questione di legittimità costituzionale, decisa con ordinanza n. 109 del 2010, nel senso della manifesta inammissibilità;
che, nel merito, la questione sarebbe, comunque, infondata, dal momento che le modalità dello svolgimento del procedimento di convalida all’interno dei Centri di permanenza risulterebbero rispettose della disciplina censurata, né potrebbe intravedersi pericolo per l’esercizio sereno ed imparziale delle funzioni giurisdizionali, considerate le misure di controllo e di sicurezza che presidiano quei Centri;
che il ricorso alla normativa secondaria sarebbe imposto dall’esigenza di «una fonte di disciplina duttile e di rapida approvazione»;
che il rispetto delle condizioni di trattenimento sarebbe assicurato proprio dalla previsione di cui all’art. 14 denunciato, oltre che dall’art. 21 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394  (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), in tema di libertà assicurate allo straniero trattenuto;
che tale disciplina generale sarebbe a fondamento del richiamato capitolato di appalto per la gestione dei Centri, in conformità anche a quanto disposto dalla direttiva 16 dicembre 2008, n. 2008/115/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare).
Considerato che il Giudice di pace di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale: a) dell’art. 13, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come aggiunto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 12 novembre 2004, n. 271, – secondo cui «Al fine di assicurare la tempestività del procedimento di convalida dei provvedimenti di cui ai commi 4 e 5, ed all’articolo 14, comma 1, le questure forniscono al giudice di pace, nei limiti delle risorse disponibili, il supporto occorrente e la disponibilità di un locale idoneo» –, «per contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 13, 24, 97, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848»; b) dell’art. 14 del medesimo decreto legislativo n. 286 del 1998, «e della legge 6 marzo 1998 n. 40 art. 12 (quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera, ovvero il respingimento, perché occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell’Interno, di concerto con i ministri per la Solidarietà sociale e del Tesoro), in riferimento ai Centri di identificazione ed espulsione perché non istituiti né regolamentati con legge, violando il principio della riserva di legge nell’organizzazione dei pubblici uffici per contrasto con gli articoli 2, 3, 10, 13, 24, 97, 111, 117 della Costituzione, in relazione all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848»;
che, a fondamento delle prospettate censure, il giudice rimettente indica una serie di “inconvenienti” cui darebbe luogo il meccanismo di individuazione dei Centri di identificazione ed espulsione da parte del Ministro dell’interno, di concerto con altri ministri, facendo, tra l’altro, incidentalmente riferimento: all’inadeguatezza dei locali messi a disposizione per l’effettuazione del giudizio di convalida; alle esigenze di sicurezza non adeguatamente soddisfatte; alla varietà delle sedi presso le quali effettuare le convalide, con possibili effetti disfunzionali per il giudice chiamato a celebrare l’udienza in tempi ristretti; alla devoluzione al solo potere esecutivo del compito di identificare il Centro presso il quale ricoverare lo straniero cui la misura del trattenimento si riferisce; alla mancanza di prescrizioni precise da parte della normativa di settore su aspetti che si reputano fondamentali per l’amministrazione della giustizia;
che, a fronte della nutrita platea di “doglianze” prospettate – nessuna delle quali correlata ad una specifica disposizione di legge, ma tutte dedotte in termini generici ed onnicomprensivi, alla stregua di dati di comune esperienza –, il giudice rimettente richiama una altrettanto estesa gamma di parametri costituzionali senza, tuttavia, precisare quale degli asseriti “inconvenienti” si verrebbe a porre con essi in specifico contrasto;
che, invero, gli enunciati riferimenti “critici” oscillano tra una pretesa mancata tutela dello straniero – senza peraltro che risultino evidenziati profili di carenza difensiva o di trattamenti indebitamente repressivi – e pregiudizi di tipo “logistico” del giudice di pace, chiamato a spostarsi nei vari luoghi per l’espletamento dell’udienza di convalida;
che, dunque, al di là dell’evidente genericità delle censure, le stesse finiscono per risolversi in questioni di mero fatto, del tutto avulse da vizi ascrivibili alle disposizioni denunciate e, quindi, insuscettibili, come tali, di formare oggetto di un dubbio di legittimità costituzionale;
che, accanto a ciò, l’ordinanza di rimessione risulta carente nella motivazione in punto di rilevanza della questione, dal momento che nessuno degli “inconvenienti” additati presenta una qualche palese interferenza con i dubbi manifestati a proposito delle contrapposte richieste avanzate dalle parti all’esito dell’udienza («se convalidare o meno il provvedimento di trattenimento della Questura di Messina del 5/6/2013, asseritamente notificato il 6/6/2013, oppure quello di richiesta di trattenimento della Questura di Roma emesso in data 7/06/2013, entrambi depositati l’8/06/2013»);
che, peraltro, la relativa attività procedimentale non appare preclusa da quegli “inconvenienti” che, nella stessa prospettazione del rimettente, hanno ormai esaurito qualsiasi effetto, essendosi l’udienza conclusa e residuando in capo al giudice solo il compito di decidere;
che, d’altra parte, analoga questione era stata già sollevata dallo stesso giudice rimettente e decisa nel senso della manifesta inammissibilità con l’ordinanza n. 109 del 2010, nella quale non si mancò di rilevare, fra l’altro, come la questione risultasse proposta «in maniera del tutto ipotetica e astratta», attraverso l’enunciazione di «una serie di generiche perplessità prive di alcun riferimento concreto ad effettivi condizionamenti esterni, idonei ad inficiare» l’imparzialità e l’indipendenza del giudice rimettente «nell’adozione del provvedimento giurisdizionale oggetto del giudizio principale»;
che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 5-ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come aggiunto dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241 (Disposizioni urgenti in materia di immigrazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 12 novembre 2004, n. 271, e dell’art. 14 del medesimo decreto legislativo n. 286 del 1998 («e della legge 6 marzo 1998 n. 40 art. 12»), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 13, 24, 97, 111 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Giudice di pace di Roma con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Ordinanza 92/2014

Ordinanza  92/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore CRISCUOLO
Camera di Consiglio del 12/03/2014    Decisione  del 07/04/2014
Deposito del 10/04/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 2 della legge 29/12/2011, n. 218.
Massime:
Atti decisi:ord. 186/2013

ORDINANZA N. 92
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 29 dicembre 2011, n. 218 (Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo), promosso dal Tribunale ordinario di Benevento nel procedimento vertente tra Pennino Costruzioni s.r.l. e M.S., con ordinanza del 28 giugno 2012, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2014 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, promosso dalla società Pennino Costruzioni s.r.l. nei confronti di M.S., il Tribunale ordinario di Benevento, in composizione monocratica, con ordinanza del 28 giugno 2012 (r.o. n. 186 del 2013), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 29 dicembre 2011, n. 218 (Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo);
che, come riferisce il giudice a quo, il decreto ingiuntivo era stato emesso il 14-22 giugno 2011, su ricorso di M.S., quale cessionario del credito vantato dall’ing. L.S. per prestazioni professionali rese nei confronti di Pennino Costruzioni s.r.l., ed era stato notificato alla società intimata il 13 luglio 2011;
che quest’ultima aveva proposto opposizione, notificata il 3 ottobre 2011 con invito a comparire per l’udienza del 10 febbraio 2012, e si era costituita in giudizio il 12 ottobre 2011;
che l’intimata aveva eccepito: 1) l’estinzione del credito professionale di L.S., stante l’integrale pagamento avvenuto prima della cessione all’opposto del credito stesso; 2) l’emissione del decreto ingiuntivo senza il parere del competente ordine professionale; 3) il carattere eccessivo della somma richiesta, anche perché comprensiva di attività professionali non svolte da L.S.;
che la medesima società aveva chiesto di essere autorizzata a chiamare in causa il cedente L.S. e, nel merito, la revoca del decreto ingiuntivo;
che l’opposto, costituendosi in giudizio, aveva eccepito in via preliminare la tardività della costituzione dell’opponente, perché effettuata oltre il termine di cinque giorni di cui agli artt. 165 e 645 del codice di procedura civile, con conseguente improcedibilità dell’opposizione, alla luce della sentenza della Corte di cassazione, resa a sezioni unite, il 9 settembre 2010, n. 19246;
che – prosegue il rimettente – nel merito l’opposto aveva evidenziato che la cessione del credito era stata notificata alla società debitrice in data 7 luglio 2010, per cui ogni successivo eventuale pagamento, eseguito dall’opponente in favore dell’originario creditore cedente, non era opponibile ad esso cessionario;
che l’opposto aveva rilevato, altresì, la congruità del corrispettivo richiesto, anche in relazione alle tariffe professionali vigenti all’epoca delle prestazioni, e la non obbligatorietà del parere dell’ordine professionale per l’emissione del provvedimento monitorio, concludendo per la dichiarazione d’improcedibilità dell’opposizione e, in subordine, per il rigetto di essa;
che l’opponente aveva dedotto l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità, stante il disposto dell’art. 2 della legge n. 218 del 2011;
che l’opposto aveva chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge ora citata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., rilevando che l’opposizione era stata proposta da Pennino Costruzioni s.r.l. dopo la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 19246 del 2010, secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la previsione della riduzione a metà dei termini a comparire, stabilita dall’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., determinerebbe il dimezzamento automatico dei termini di comparizione dell’opposto e dei termini di costituzione dell’opponente;
che tale duplice automatismo conseguirebbe – ad avviso della Corte di cassazione nella pronuncia richiamata – alla mera proposizione dell’opposizione, e, quindi, non soltanto nel caso di assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello ordinario, con conseguente improcedibilità dell’opposizione nel caso di costituzione dell’opponente oltre i cinque giorni dalla notifica della citazione;
che, tutto ciò premesso, il Tribunale dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 218 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 111 e 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU);
che, in punto di rilevanza, secondo il giudice a quo, nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale del censurato art. 2, in conformità al principio giuridico di cui alla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 19246 del 2010, l’opposizione a decreto ingiuntivo dovrebbe essere dichiarata improcedibile, per essersi la società opponente costituita in giudizio oltre i cinque giorni di cui all’art. 165 cod. proc. civ., letto in combinato disposto con l’art. 645, secondo comma, del medesimo codice, nel testo vigente all’epoca dell’instaurazione del giudizio principale;
che il rimettente sottolinea come fosse consolidato l’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell’opponente fosse da equiparare alla sua mancata costituzione e comportasse l’improcedibilità dell’opposizione medesima (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 20 agosto 1992, n. 9684; 3 aprile 1990, n. 2707 e 13 febbraio 1978, n. 652);
che – rileva ancora il Tribunale – qualora, invece, l’art. 2 della legge n. 218 del 2011 fosse ritenuto costituzionalmente legittimo, in quanto rispettoso dei limiti generali alla efficacia retroattiva delle leggi, l’eccezione di improcedibilità dell’opposizione dovrebbe essere considerata infondata;
che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo, dopo avere riportato il contenuto dell’art. 2 della legge n. 218 del 2011, osserva che detta norma, avuto riguardo al suo preciso tenore letterale, non potrebbe essere interpretata in modo diverso dal senso reso palese dal significato proprio delle parole, per cui non potrebbe essere disapplicata nella sua efficacia retroattiva, né interpretata in modo conforme ai principi costituzionali sanciti dal giudice delle leggi e dalla Corte EDU in materia di retroattività delle leggi;
che il Tribunale sottolinea come la Corte di cassazione (sezione prima civile, sentenza 17 maggio 2012, n. 7792) si sia già espressa nel senso della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della citata norma, ma il caso preso in esame atteneva ad un’opposizione a decreto ingiuntivo iscritta a ruolo in data 6 marzo 2002, cioè in epoca in cui la pregressa giurisprudenza della Corte di cassazione era costante nell’affermare che il termine di costituzione dell’opponente si riduce automaticamente a cinque giorni quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 marzo 1998, n. 3316 e sezione seconda civile, sentenza 7 aprile 1987, n. 3355);
che, pertanto, le argomentazioni svolte dalla Corte di cassazione nella sentenza sopra richiamata, per ritenere conforme a Costituzione la norma censurata senza scorgere «alcuna intrusione indebita del legislatore nei procedimenti in corso», sarebbero da riferire ad un giudizio instaurato e deciso dai giudici di merito in epoca anteriore alla sentenza, a sezioni unite, della Corte di cassazione n. 19246 del 2010;
che la società Pennino, invece, aveva proposto l’opposizione nell’ottobre del 2011, cioè dopo oltre un anno dalla sopra richiamata pronuncia, secondo cui l’automatico dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente opererebbe, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui quest’ultimo abbia assegnato all’opposto un termine a comparire non inferiore a quello ordinario;
che, pertanto, ad avviso del rimettente, la società ben poteva essere a conoscenza dell’interpretazione data all’art. 165 cod. proc. civ. dalla Corte di cassazione a sezioni unite, nell’esercizio della funzione nomofilattica ad essa riservata dall’ordinamento e, quindi, ben poteva costituirsi in giudizio nel termine abbreviato di cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione;
che – aggiunge il giudice a quo – l’opposto, nell’avviare lo speciale procedimento di cui agli artt. 633 e seguenti cod. proc. civ., sapeva di potere fare affidamento su di una norma che, secondo l’interpretazione datane dalle sezioni unite della Corte di cassazione, successivamente non contrastata da alcun difforme giudicato, garantiva una più sollecita trattazione del procedimento di opposizione mediante la previsione del dimezzamento automatico del termine di costituzione in giudizio dell’opponente, per il solo fatto che si trattasse di un’opposizione a decreto ingiuntivo e, quindi, a prescindere dalla volontà dell’opponente medesimo di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello previsto per il processo di cognizione ordinario;
che l’intervento del legislatore, realizzato con la censurata norma transitoria interpretativa, avrebbe comportato un mutamento delle “regole del gioco” a procedimento già in corso, senza che vi fosse una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo né un dibattito giurisprudenziale irrisolto;
che, secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe, altresì, i limiti costituzionali dell’efficacia retroattiva delle leggi;
che il Tribunale osserva, al riguardo, come, sebbene il divieto di retroattività della legge (art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale) non riceva nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost., l’introduzione da parte del legislatore di norme retroattive debba trovare adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare beni costituzionalmente rilevanti, che assurgano a «motivi imperativi di interesse generale», e non debba violare i limiti generali dell’efficacia retroattiva delle leggi, come individuati dalla Corte costituzionale (sentenza n. 78 del 2012) e dalla Corte Edu;
che, ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe, in primo luogo, il principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento (art. 3 Cost.);
che, mentre le cause di opposizione a decreto ingiuntivo, caratterizzate da analoga questione di improcedibilità per la costituzione dell’opponente oltre il termine di cinque giorni dalla notifica dell’atto di citazione, che siano state decise medio tempore tra l’arresto giurisprudenziale di cui alla sentenza n. 19246 del 2010 delle sezioni unite della Corte di cassazione e l’intervento legislativo di cui alla legge n. 218 del 2011, hanno trovato una definizione in rito con dichiarazione di improcedibilità dell’opposizione, anche con sentenze passate in giudicato, altre cause contemporanee, non definite alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011, per un mero e casuale dato temporale, non potrebbero essere decise, in base ad una norma precedentemente vigente, come interpretata dalle sezioni unite della Corte di cassazione, in senso favorevole ai creditori opposti;
che, pertanto, secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., per ingiustificata disparità di trattamento di situazioni simili, per inosservanza dei limiti di coerenza e di certezza dell’ordinamento giuridico, nonché per violazione dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti, quale principio connaturato allo Stato di diritto;
che, per gli stessi motivi, risulterebbero violati anche il principio della tutela dei diritti davanti all’autorità giurisdizionale (art. 24 Cost.) e quello del giusto processo (art. 111 Cost.);
che, ad avviso del giudice a quo, il citato art. 2 contrasterebbe anche con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 6 della Convenzione Edu, come interpretato in modo consolidato dalla Corte di Strasburgo;
che il rimettente ricorda come, secondo la Corte di Strasburgo, il legislatore possa intervenire retroattivamente modificando le norme vigenti in materia civile, purché non vengano ad essere violati i principi della preminenza del diritto e dell’equo processo sanciti dall’art. 6 della CEDU, così ingerendosi nell’amministrazione della giustizia, con incidenza su cause in corso, salvo che per imperative ragioni di interesse generale (ex plurimis, CEDU, sezione seconda, sentenza 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia);
che, ad avviso del giudice a quo, nel caso di specie, non sarebbero ravvisabili i «motivi imperativi di interesse generale», idonei a giustificare il censurato intervento del legislatore su tutti i processi di opposizione a decreto ingiuntivo pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011, compresi quelli instaurati in epoca successiva alla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 19246 del 2010;
che, in tal modo, secondo il rimettente, sarebbe violato anche l’art. 102 Cost., stante l’invasione della sfera giurisdizionale riservata alla magistratura ordinaria;
che, con atto depositato in data 24 settembre 2013, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità e, nel merito, di non fondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale;
che, ad avviso della difesa dello Stato, infatti, la legge n. 218 del 2011, nel ridefinire i termini per le opposizioni a decreto ingiuntivo, avrebbe posto fine ad una situazione di incertezza del dato normativo, determinatasi a seguito della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, n. 19246 del 2010;
che la difesa statale ricorda come le sezioni unite della Corte di cassazione, con la richiamata sentenza, modificando il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, abbiano ritenuto il dimezzamento automatico del termine di costituzione per l’opponente quale conseguenza del solo fatto della proposizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo, stante la previsione della dimidiazione dei termini di comparizione, ai sensi dell’art. 645 cod. proc. civ.;
che il Presidente del Consiglio dei ministri sottolinea come a tale mutamento giurisprudenziale abbia fatto seguito una giurisprudenza di merito (Trib. Torino, sezione prima, ordinanza 11 ottobre 2010; Trib. Milano, ordinanza 13 ottobre 2010; Trib. Varese, sentenza 8 ottobre 2010, n. 1274) volta ad evitare la declaratoria di improcedibilità delle opposizioni a decreto ingiuntivo già in corso alla data della sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, n. 19246 del 2010, nonché una dottrina alquanto critica;
che, peraltro, – prosegue la difesa statale – la Corte di cassazione ha nuovamente rimesso la questione alle sezioni unite, ritenendo che la riduzione automatica a cinque giorni del termine di costituzione in giudizio, a prescindere da ogni consapevole scelta dell’opponente, di cui alla sentenza n. 19246 del 2010, non sarebbe compatibile con i principi del giusto processo che deve svolgersi «in condizioni di parità tra le parti» ed essere «regolato dalla legge» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 marzo 2011, n. 6514);
che l’interveniente pone in evidenza come, con la norma censurata, il legislatore sia intervenuto per fare chiarezza in un quadro di incertezze del dato normativo che rischiava di travolgere i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo in corso;
che, in particolare, con la legge n. 218 del 2011 il legislatore avrebbe, da un lato, inciso sulla disciplina generale dei termini di costituzione in giudizio, espungendo dall’art. 645 cod. proc. civ. il riferimento alla dimidiazione dei termini a comparire (art. 1) e, dall’altro, interpretato autenticamente l’art. 165 cod. proc. civ., con specifico riferimento ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della norma, nel senso della correlazione del dimezzamento del termine di costituzione dell’opponente alla scelta di quest’ultimo di assegnare un termine a comparire inferiore a quello ordinario (art. 2), con ciò confermando il previo consolidato orientamento di legittimità in materia (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 1° settembre 2006, n. 18942; 27 novembre 1998, n. 12044; 30 marzo 1998, n. 3316; 3 marzo 1995, n. 2460 e sezione seconda civile, sentenza 7 aprile 1987, n. 3355);
che la difesa erariale ritiene, dunque, priva di fondamento la censura mossa dal giudice a quo in riferimento all’art. 3 Cost.;
che essa richiama, al riguardo, la giurisprudenza costituzionale secondo cui le leggi retroattive, non solo interpretative, ma anche innovative, non possono dirsi costituzionalmente illegittime, per violazione dell’art. 3 Cost., qualora si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in esso contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, e non contrastino con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis, sentenze n. 15 del 2012, n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009);
che, pertanto, ad avviso della difesa dello Stato, con l’opzione ermeneutica di cui all’art. 2 della legge n. 218 del 2011, il legislatore non avrebbe introdotto nella disposizione interpretata elementi ad essa estranei, limitandosi ad assegnarle un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario e confermando, legislativamente, un orientamento giurisprudenziale consolidato che correlava la riduzione del termine di costituzione dell’opponente alla scelta di quest’ultimo di fissare all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario;
che – sottolinea il Presidente del Consiglio dei ministri – la stessa Corte di cassazione, con la sentenza del 17 maggio 2012, n. 7792, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 218 del 2011, sulla base della considerazione che la disposizione censurata, rappresentando una delle possibili letture del dato normativo, trova adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza;
che la difesa dello Stato esclude, peraltro, anche la sussistenza dell’assunta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU;
che, infatti – conformemente all’orientamento giurisprudenziale della Corte europea, che ammette un’incidenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia attraverso la produzione di norme retroattive solo se giustificata da «motivi imperativi di interesse generale» – la norma censurata, nel confermare l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità fino alla citata pronuncia innovativa delle sezioni unite della Corte di cassazione, avrebbe superato una situazione di oggettiva incertezza, contribuendo a realizzare i principi di interesse generale della certezza del diritto e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge;
che la difesa erariale esclude anche l’assunta violazione degli artt. 24 e 111 Cost., rilevando come l’incidenza di una norma interpretativa sui giudizi in corso sia da considerare un fenomeno fisiologico (ex plurimis, sentenza n. 376 del 2004 e ordinanza n. 428 del 2006);
che, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbe, altresì, infondata la censura relativa alla violazione dell’art. 102 Cost., in quanto, come affermato dalla Corte costituzionale, non sarebbe configurabile a favore del giudice una esclusività nell’esercizio dell’attività ermeneutica che possa precludere quella spettante al legislatore (sentenza n. 15 del 2012).
Considerato che il Tribunale ordinario di Benevento, in composizione monocratica, con ordinanza del 28 giugno 2012 (r.o. n. 186 del 2013), dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 29 dicembre 2011, n. 218 (Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo);
che la norma censurata dispone che «Nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, l’articolo 165, primo comma, del codice di procedura civile si interpreta nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell’attore ivi prevista si applica, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’articolo 163-bis, primo comma, del medesimo codice»;
che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011 e n. 393 del 2006);
che il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare, dunque, disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale» ai sensi della Corte Edu (ex multis, sentenza n. 15 del 2012);
che la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, pertanto, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis, sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009);
che, con riguardo ai principi qui richiamati, nel caso in esame non sussistono le violazioni dell’art. 3 Cost. ipotizzate dal rimettente, sotto il profilo della irragionevolezza, della disparità di trattamento di situazioni omogenee, della lesione del principio di legittimo affidamento nonché dell’eccesso dei cosiddetti limiti di coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico;
che, infatti, l’opzione ermeneutica prescelta dal legislatore non ha introdotto nella disposizione interpretata elementi ad essa estranei, ma le ha assegnato un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex multis, sentenze n. 15 del 2012 e n. 257 del 2011), cioè ha reso vincolante un dettato comunque ascrivibile al tenore letterale della disposizione interpretata;
che ciò è reso palese dal rilievo che quella opzione interpretativa – che correla, per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011, la dimidiazione del termine di costituzione dell’opponente all’esercizio da parte di quest’ultimo della facoltà di assegnare all’opposto un termine a comparire inferiore a quello previsto dall’art. 163-bis, primo comma, cod. proc. civ. – aveva trovato spazio nella consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 218 del 2011;
che è significativo come, poi, la Corte di cassazione, dopo avere definito l’art. 2 della legge n. 218 del 2011 norma di «interpretazione autentica», ne abbia fatto applicazione, così superando il precedente orientamento di cui alla sentenza delle sezioni unite n. 19246 del 2010 (Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 16 febbraio 2012, n. 2242);
che proprio il contrasto emerso in giurisprudenza sull’interpretazione dell’art. 165, primo comma, cod. proc. civ. (in combinato disposto con l’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ.), in quanto fonte di dubbi ermeneutici con conseguente incremento del contenzioso, giustifica ulteriormente l’intervento legislativo finalizzato a garantire la certezza applicativa del sistema, con ciò escludendone ogni carattere d’irragionevolezza;
che non è ravvisabile, altresì, la violazione dell’art. 24 Cost., sotto il profilo del diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto la norma censurata assicura: 1) con riguardo ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011 ed incardinati prima della sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 19246 del 2010, la tutela dell’affidamento incolpevole dell’opponente in relazione ad atti compiuti sulla base di un consolidato previo orientamento giurisprudenziale e prima della oggettiva conoscibilità del cosiddetto overruling, comportante un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte; 2) con riguardo ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 218 del 2011 ed incardinati dopo la sentenza ora citata, il non aggravamento della posizione di una sola delle parti del giudizio nell’esercizio del diritto di difesa, ferma restando la possibilità da parte dell’opposto di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163-bis, terzo comma, cod. proc. civ., a tutela dell’interesse di quest’ultimo alla trattazione sollecita del giudizio;
che, del pari, non sussiste la violazione dell’art. 111 Cost., sotto il profilo del principio del “giusto processo”, perché – fermo il punto che l’incidenza di una norma interpretativa su giudizi in corso è fenomeno fisiologico, (sentenza n. 376 del 2004 e ordinanza n. 428 del 2006) – la norma censurata non interferisce sull’esercizio della funzione giudiziaria e sulla parità delle parti nello specifico processo, bensì pone una disciplina generale sull’interpretazione di un’altra norma e, dunque, si colloca su un piano diverso da quello dell’applicazione giudiziale delle norme a singole fattispecie (ex plurimis, sentenza n. 15 del 2012, punto 3.3. del Considerato in diritto e ordinanza n. 428 del 2006);
che è da escludere, altresì, la violazione dell’art. 102 Cost., sotto il profilo di un’assunta invasione della sfera giurisdizionale riservata alla magistratura ordinaria, in quanto, sulla base delle argomentazioni esposte sopra, l’intervento legislativo deve ritenersi legittimo, mentre non è configurabile a favore del giudice «una esclusività nell’esercizio dell’attività ermeneutica che possa precludere quella spettante al legislatore, in quanto l’attribuzione per legge ad una norma di un determinato significato non lede la potestas iudicandi, ma definisce e delimita la fattispecie normativa che è oggetto della potestas medesima» (ex plurimis, sentenze n. 15 del 2012, punto 3.3. del Considerato in diritto e n. 234 del 2007, punto 17 del Considerato in diritto);
che, per le ragioni fin qui esposte, non sussiste neanche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, nel significato e nella portata chiariti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo;
che la regola di diritto, affermata dalla Corte europea con sentenza in data 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri contro Italia, è che «Se, in linea di principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio di prevalenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall’articolo 6 ostano, salvo che per ragioni imperative d’interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte» (sentenza n. 15 del 2012, punto 3.3. del Considerato in diritto);
che, anche secondo la detta regola, dunque, sussiste uno spazio, sia pur delimitato, per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.), se giustificato da «motivi imperativi di interesse generale» che spetta innanzitutto al legislatore nazionale e a questa Corte valutare, con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto dalla Convenzione europea ai singoli ordinamenti statali;
che, «diversamente, se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d’influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione, priva di significato concreto» (sentenze n. 15 del 2012, punto 3.3. del Considerato in diritto e n. 257 del 2011, punto 5.1. del Considerato in diritto);
che, nella fattispecie, la norma censurata si è limitata ad enucleare una delle possibili opzioni ermeneutiche dell’originario testo normativo, peraltro già fatta propria da un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità;
che la soluzione prescelta dal legislatore ha superato una situazione di oggettiva incertezza, contribuendo così a realizzare principi d’indubbio interesse generale e di rilievo costituzionale, quali sono la certezza del diritto e l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge;
che, pertanto, le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Benevento sono manifestamente infondate.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 29 dicembre 2011, n. 218 (Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Benevento, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Ordinanza 91/2014

Ordinanza  91/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore GROSSI
Udienza Pubblica del 25/02/2014    Decisione  del 07/04/2014
Deposito del 10/04/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 13 e 22 del decreto legislativo 23/02/2006, n. 109.
Massime:
Atti decisi:ord. 200/2012

ORDINANZA N. 91
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 22 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nel procedimento vertente tra A.C. e il Ministero della giustizia e il Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza del 15 giugno 2012, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di A.C. e del Consiglio superiore della magistratura nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 febbraio 2014 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi l’avvocato Antonio Lirosi per A.C. e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Consiglio superiore della magistratura e per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 103, 104 e 107 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 22 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150), «nella parte in cui la formulazione di tali previsioni è suscettibile di essere interpretata nel senso che l’individuazione della sede di trasferimento del magistrato sia rimessa alla Sezione Disciplinare del C.S.M., con riveniente reclamabilità delle relative decisioni dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione»;
che, in particolare, le norme censurate si presterebbero ad essere interpretate nel senso che sarebbe attratta nella sfera della giurisdizione ordinaria la cognizione in ordine alla «determinazione (amministrativa) di individuazione della sede di destinazione del magistrato, nel caso di trasferimento cautelare disposto nell’ambito del procedimento disciplinare»;
che il TAR rimettente è stato investito dal ricorso proposto da un magistrato sottoposto a procedimento disciplinare avverso l’ordinanza, emessa il 17 maggio 2012, con la quale la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ne aveva disposto il trasferimento provvisorio e che, dovendo decidere sulla istanza cautelare, la stessa sarebbe risultata «insuscettibile di immediata delibazione», proprio in considerazione del dubbio di legittimità costituzionale come sopra sollevato;
che la rilevanza della questione sarebbe suffragata dall’art. 10, comma 2, del codice del processo amministrativo, che inibisce al giudice amministrativo l’adozione di misure cautelari ove dubiti della sussistenza della propria giurisdizione in ordine alla controversia ad esso devoluta;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, nei casi previsti dall’art. 13, comma 2, e dall’art. 22, comma 1, ultimo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006, sussisterebbero «elementi di non chiarita perplessità, anche alla luce dei difformi orientamenti manifestati dalla giurisprudenza amministrativa e della stessa Cassazione», in ordine alle controversie «aventi ad oggetto il provvedimento di individuazione della sede presso la quale il magistrato venga trasferito»;
che il profilo inerente alla individuazione della sede di servizio del magistrato trasferito sarebbe espressione non già del potere disciplinare ma di un’attribuzione di tipo amministrativo, con conseguente devoluzione del relativo contenzioso al giudice amministrativo;
che, invece, tenuto conto della disciplina dettata dalla circolare del CSM n. 12046 dell’8 giugno 2009 sulle procedure per i trasferimenti disposti dalla sezione disciplinare, l’individuazione del giudice competente per le controversie relative alla sede verrebbe fatta dipendere dalla scelta della stessa sezione disciplinare, diretta a individuare o non l’ufficio di destinazione, risultando l’atto relativo, nel primo caso, di natura disciplinare e, perciò, sottratto alla giurisdizione amministrativa, e di natura amministrativa, nel secondo, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo;
che detto epilogo interpretativo risulterebbe segnato da «insanabili contraddittorietà», tali da indurre a ritenere necessaria la riconduzione del contenzioso relativo all’individuazione della sede di trasferimento nell’ambito della cognizione del giudice amministrativo;
che la sottrazione, invece, della cognizione di tali controversie al giudice amministrativo confliggerebbe con: a) l’art. 3 Cost., «in ragione del differenziato trattamento riservato, quanto alle potenzialità di sollecitazione del sindacato giurisdizionale, al solo magistrato assoggettato a trasferimento “cautelare”»; b) l’art. 24 Cost., «in ragione della vulnerata potenzialità di piena esplicazione del diritto di difesa, escluso, per il caso di ritenuta giurisdizione delle (sole) Sezioni Unite, dall’attivabilità degli strumenti di tutela cautelare propri del giudizio amministrativo»; c) gli artt. 24 e 103 Cost., «a fronte della sottrazione alla cognizione del giudice amministrativo di vicende contenziose aventi ad oggetto l’esercizio del potere amministrativo e sostanziate dalla rappresentazione in giudizio di posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo, per le quali negli organi della giustizia amministrativa va ravvisato il “giudice naturale” precostituito per legge»; d) l’art. 97 Cost., «a fronte della rimessione ad un organo non amministrativo (la Sezione disciplinare del C.S.M.) dell’esercizio di un potere avente, invece, sostanza propriamente amministrativa, con consentita esercitabilità dell’opzione individuativa della sede e/o dell’ufficio di destinazione del magistrato cautelarmente trasferito anche indipendentemente dalla verificabilità della situazione degli organici degli uffici (preordinata a coniugare la relativa scelta con esigenze di ottimale allocazione delle risorse umane), con riveniente vulnerazione dei principi di corretto andamento della Pubblica Amministrazione e di efficacia/efficienza dell’azione amministrativa»; e) l’art. 104 Cost., «in quanto l’attribuzione in via esclusiva della competenza de qua alla Sezione Disciplinare è idonea ad elidere le attribuzioni rimesse al Plenum dell’Organo di autogoverno, al quale è rimessa l’adozione del (conclusivo) provvedimento di trasferimento a fronte della formulazione della relativa proposta ad opera della III Commissione dell’organo di autogoverno»; f) l’art. 107 Cost., «in quanto le vulnerate prerogative di tutela riservate, per effetto dell’indicata devoluzione delle controversie di che trattasi alle Sezioni Unite, vengono a suscitare ricadute direttamente pregiudizievoli sull’attuazione del principio di inamovibilità, la cui dinamica attuazione nell’ordinamento non può prescindere dal necessario coordinamento di esso con l’attuazione di un sistema di piena tutela della posizione giuridica in proposito vantata dal magistrato»;
che si è costituito il Consiglio superiore della magistratura ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo entrambi che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata;
che, dopo aver svolto una approfondita disamina del complesso articolarsi del contenzioso generato dai vari provvedimenti adottati dal Consiglio superiore della magistratura e aver sottolineato che – alla data della proposizione dell’atto di intervento – era pendente davanti alle sezioni unite della Corte di cassazione regolamento preventivo di giurisdizione teso a contestare proprio la giurisdizione dell’attuale rimettente, la difesa erariale deduce la inammissibilità per irrilevanza della questione proposta;
che, infatti, il giudice a quo nulla avrebbe detto a proposito della sussistenza dei presupposti per la tutela cautelare richiesta, arrestandosi davanti al dubbio sulla propria giurisdizione e sollevando la questione di legittimità costituzionale attraverso l’enunciazione di un semplice quesito interpretativo;
che la carenza di giurisdizione del rimettente sarebbe, peraltro, in quanto manifesta, rilevabile da parte della stessa Corte costituzionale, come tempestivamente dedotto anche nel giudizio amministrativo;
che la mancata indagine del giudice a quo circa la sussistenza dei presupposti per l’invocata tutela cautelare (periculum in mora e fumus boni iuris), negati tanto da parte dello stesso TAR quanto del Consiglio di Stato, renderebbe una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale del tutto «ininfluente sul giudizio sospeso»;
che, non avendo il giudice a quo considerato la possibilità che una tutela cautelare possa essere assicurata dal giudice investito della controversia – le sezioni unite della Corte di cassazione – o anche da quello che ha emesso il provvedimento oggetto di contestazione (la sezione disciplinare del CSM), ha anche omesso di sperimentare la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa denunciata;
che le censure proposte direttamente nei riguardi della circolare del CSM n. 12046 dell’8 giugno 2009 sarebbero inammissibili, non trattandosi di atto di normazione primaria, per di più irrilevante in quanto modificato proprio in parte qua;
che la questione sarebbe ulteriormente inammissibile per l’erroneità dei parametri indicati e comunque per la genericità e l’incongruità delle argomentazioni svolte a supporto del richiamo ad alcuni di essi;
che la questione sarebbe, comunque, manifestamente infondata, atteso che l’atto impugnato avrebbe natura sicuramente giurisdizionale in quanto proveniente da organo giurisdizionale, distinto dallo stesso CSM;
che, a proposito della distinzione tra le ipotesi rispettivamente previste dall’art. 13, comma 2, e dall’art. 22, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, si segnala la necessità che il procedimento sia unico, con unicità di giurisdizione in entrambi i casi, secondo anche le conclusioni del Procuratore generale in sede di regolamento preventivo di giurisdizione;
che non sussisterebbe, poi, alcun vulnus per le garanzie difensive del magistrato, mentre l’ipotesi di “scomporre” il procedimento in due componenti, l’una giurisdizionale e l’altra amministrativa, risulterebbe del tutto incoerente;
che anche la parte privata ha depositato atto di costituzione, per chiedere una declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate, senza, tuttavia, svolgere alcun argomento;
che in una memoria depositata il 4 febbraio 2014, l’Avvocatura generale, insistendo nelle richieste già formulate, ha segnalato che la Corte di cassazione, a sezioni unite, con ordinanza 28 novembre 2012, n. 21112, ampiamente riportata nella memoria, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia di cui al giudizio principale e ha ritenuto «priva di rilevanza» la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR medesimo e qui all’esame;
che, secondo l’Avvocatura, il TAR rimettente «avrebbe dovuto attendere la decisione del regolamento preventivo di giurisdizione da parte delle Sezioni Unite», «posto che, in difetto di giurisdizione, la questione era priva di rilevanza»;
che, con atto depositato lo stesso 4 febbraio 2014, la parte privata – dopo ampia rievocazione del nutrito contenzioso attivato in relazione ai vari provvedimenti adottati nei suoi confronti dal CSM – ha sostenuto l’ammissibilità della questione, malgrado la richiamata pronuncia delle Sezioni unite che hanno negato la giurisdizione del giudice amministrativo;
che, infatti, inibire a quest’ultimo di sollevare la questione equivarrebbe ad «escludere la prerogativa dell’autorità giudiziaria ad ottenere lo scrutinio costituzionale sulla questione di giurisdizione ed imporle di quietarsi rispetto alle valutazioni espresse dal medesimo organo (la Cassazione) della cui giurisdizione si discute sotto il profilo della legittimità costituzionale»;
che – quanto alla fondatezza dell’assunto secondo il quale non sarebbe stata sperimentata una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme denunciate – il giudice rimettente avrebbe, al contrario, proposto una lettura delle norme proprio nel senso che gli atti individuativi della sede di destinazione del magistrato trasferito abbiano comunque natura amministrativa, sollevando la questione per l’ipotesi che si aderisse al diverso orientamento della Corte di cassazione;
che la tesi del Consiglio di Stato, secondo la quale non si determinerebbe, nella specie, un vuoto di tutela sotto il profilo cautelare, risulterebbe incompatibile con quanto previsto agli artt. 24 e 112 Cost., mancando la terzietà dell’organo decidente;
che costituirebbe, poi, semplice espediente per superare i denunciati profili di violazione della legalità in materia disciplinare l’affrettata modifica della circolare del CSM sui trasferimenti, adottata in corso di causa e pendente la questione di legittimità costituzionale;
che, quanto al merito, sarebbe piuttosto la competenza delle Sezioni unite a costituire una eccezione al principio della giurisdizione amministrativa nella materia disciplinare del pubblico impiego, con la conseguenza che ogni dilatazione della natura giurisdizionale degli atti della sezione disciplinare dovrebbe avere copertura legislativa;
che, essendo l’atto individuativo della sede di destinazione estraneo alle finalità del potere disciplinare, lo stesso non rientrerebbe nella sfera delle attribuzioni giurisdizionali della competente sezione del CSM;
che sussisterebbero ulteriori profili di illegittimità costituzionale, diversi da quelli prospettati dal giudice rimettente, e relativi alla dilatazione arbitraria delle competenze della sezione disciplinare del CSM a discapito del plenum nonché alla illegittimità della richiamata circolare sui trasferimenti, concludendosi per «l’illegittimità costituzionale delle norme oggetto dell’ordinanza di rimessione del TAR o di quelle altre ad esse consequenzialmente collegate».
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 103, 104 e 107 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 22 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150), «nella parte in cui la formulazione di tali previsioni è suscettibile di essere interpretata nel senso che l’individuazione della sede di trasferimento del magistrato sia rimessa alla Sezione Disciplinare del C.S.M., con rinveniente reclamabilità delle relative decisioni dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione»;
che, a parere del giudice rimettente, una simile prospettiva ermeneutica si porrebbe in contrasto con: a) l’art. 3 Cost. «in ragione del differenziato trattamento riservato, quanto alle potenzialità di sollecitazione del sindacato giurisdizionale, al solo magistrato assoggettato a trasferimento “cautelare”»; b) l’art. 24 Cost., «in ragione della vulnerata potenzialità di piena esplicazione del diritto di difesa, escluso, per il caso di ritenuta giurisdizione delle (sole) Sezioni Unite, dall’attivabilità degli strumenti di tutela cautelare propri del giudizio amministrativo»; c) gli artt. 24 e 103 Cost., «a fronte della sottrazione alla cognizione del giudice amministrativo di vicende contenziose aventi ad oggetto l’esercizio del potere amministrativo e sostanziate dalla rappresentazione in giudizio di posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo, per le quali negli organi della giustizia amministrativa va ravvisato il “giudice naturale” precostituito per legge»; d) l’art. 97 Cost., «a fronte della rimessione ad un organo non amministrativo (la Sezione Disciplinare del C.S.M.) dell’esercizio di un potere avente, invece, sostanza propriamente amministrativa, con consentita esercitabilità dell’opzione individuativa della sede e/o dell’ufficio di destinazione del magistrato cautelarmente trasferito anche indipendentemente dalla verificabilità della situazione degli organici degli uffici (preordinata a coniugare la relativa scelta con esigenze di ottimale allocazione delle risorse umane), con riveniente vulnerazione dei principi di corretto andamento della Pubblica Amministrazione e di efficacia/efficienza dell’azione amministrativa»; e) l’art. 104 Cost., «in quanto l’attribuzione in via esclusiva della competenza de qua alla Sezione Disciplinare è idonea ad elidere le attribuzioni rimesse al Plenum dell’Organo di autogoverno, al quale è rimessa l’adozione del (conclusivo) provvedimento di trasferimento a fronte della formulazione della relativa proposta ad opera della III Commissione dell’organo di autogoverno»; f) l’art. 107 Cost.; «in quanto le vulnerate prerogative di tutela riservate, per effetto dell’indicata devoluzione delle controversie di che trattasi alle Sezioni Unite, vengono a suscitare ricadute direttamente pregiudizievoli sull’attuazione del principio di inamovibilità, la cui dinamica attuazione nell’ordinamento non può prescindere dal necessario coordinamento di esso con l’attuazione di un sistema di piena tutela della posizione giuridica in proposito vantata dal magistrato»;
che l’Avvocatura generale dello Stato, con memoria depositata il 4 febbraio 2014, ha dedotto che le sezioni unite della Corte di cassazione, a seguito di regolamento di giurisdizione proposto, nel procedimento a quo, dalla parte pubblica, hanno dichiarato, con ordinanza n. 21112 del 28 novembre 2012, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;
che, ancor prima, deve rilevarsi che il giudice rimettente coinvolge nel quesito di legittimità costituzionale, in forma paritetica e cumulativa, due disposizioni fra loro eterogenee quanto a struttura e dinamica procedimentale;
che, infatti, mentre l’art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede che «Nei casi di procedimento disciplinare per addebiti punibili con una sanzione diversa dall’ammonimento, su richiesta del Ministro della giustizia o del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, in via cautelare e provvisoria, può disporre il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni del magistrato incolpato», l’art. 22, comma 1, ultimo periodo, dello stesso provvedimento stabilisce che, nell’ipotesi di sottoposizione del magistrato a procedimento penale ovvero a procedimento disciplinare per fatti che siano incompatibili con l’esercizio delle funzioni, «Nei casi di minore gravità il Ministro della giustizia o il Procuratore generale possono chiedere alla Sezione Disciplinare [in luogo della sospensione cautelare e del collocamento fuori ruolo] il trasferimento provvisorio dell’incolpato ad altro ufficio di un distretto limitrofo, ma diverso da quello indicato nell’articolo 11 del codice di procedura penale»;
che, a fronte delle due diverse ipotesi normative, accomunate soltanto dal profilo inerente al trasferimento provvisorio dell’incolpato, il giudice rimettente non concentra le proprie censure né sull’una né sull’altra delle alternative, formulando dunque un quesito in forma ambigua, se non ancìpite;
che, d’altra parte, omettendo di fornire precise indicazioni in tal senso, il giudice rimettente viene meno anche all’obbligo di esauriente descrizione della fattispecie sottoposta a giudizio, ai fini del necessario scrutinio in punto di rilevanza della questione;
che, inoltre, è lo stesso giudice rimettente a sottolineare come il prospettato dubbio di legittimità costituzionale trarrebbe alimento non già da un difetto intrinseco delle norme censurate, ma soltanto da una possibile loro interpretazione, potendosi, eventualmente, esse prestarsi a far considerare attratta nella sfera della giurisdizione ordinaria anche la cognizione in ordine alla «determinazione (amministrativa) di individuazione della sede di destinazione del magistrato, nel caso di trasferimento cautelare disposto nell’ambito del procedimento disciplinare»;
che, di conseguenza, la questione proposta mira, nella sostanza, a sollecitare un mero avallo interpretativo rispetto alla scelta tra una pluralità di opzioni che spetta al giudice a quo effettuare, attraverso, se del caso, la sperimentazione di soluzioni che pongano la normativa coinvolta al riparo dai prospettati dubbi di legittimità costituzionale (ordinanza n. 198 del 2013; sentenza n. 21 del 2013);
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 13 e 22 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 103, 104 e 107 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 90/2014

Sentenza  90/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore FRIGO
Udienza Pubblica del 25/03/2014    Decisione  del 07/04/2014
Deposito del 10/04/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 630 e 637, c. 3°, codice di procedura penale.
Massime:
Atti decisi:ord. 198/2013

SENTENZA N. 90
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 630 e 637, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte d’appello di Napoli nel procedimento penale a carico di P.G. con ordinanza del 19 marzo 2013, iscritta al n. 198 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione di P.G. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 marzo 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi l’avvocato Carmine Giovine per P.G. e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 19 marzo 2013, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato, in riferimento all’art. 24, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 630 e 637, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono la revisione della condanna sulla base della sola diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, allorché risulti evidente che la condanna stessa si è fondata su un errore di fatto incontrovertibilmente emergente da quelle stesse prove».
La Corte rimettente premette di essere investita della richiesta di revisione proposta da una persona condannata, con sentenza della Corte d’appello di Salerno del 7 febbraio 2007 – divenuta irrevocabile il 29 febbraio 2008, a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro di essa dall’imputato – alla pena di due mesi e venti giorni di arresto e 18.000 euro di ammenda, per i reati di cui all’art. 20, primo comma, lettera c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) e all’art. 163 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).
Riferisce, altresì, il giudice a quo che, nella suddetta sentenza di condanna – confermativa, sul punto, di quella emessa in primo grado – la Corte salernitana aveva ritenuto che, alla luce delle risultanze processuali, l’imputato avesse realizzato opere edilizie difformi da quelle per le quali aveva ottenuto la concessione e che nessuna incidenza sulla sua responsabilità penale potesse, altresì, avere l’autorizzazione in sanatoria rilasciatagli il 10 febbraio 2002 dal Comune di Pontecagnano Faiano ai sensi dell’art. 10 della legge n. 47 del 1985, la quale avrebbe viceversa confermato la sussistenza delle difformità contestate.
Nella richiesta di revisione, l’istante ha esposto che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la Procura della Repubblica presso la Corte d’appello di Salerno aveva avviato il procedimento per l’esecuzione dell’ordine di demolizione delle opere. Il tecnico comunale incaricato degli accertamenti preliminari, all’esito di un sopralluogo, aveva peraltro accertato che, contrariamente a quanto ritenuto nel precedente giudizio, l’immobile oggetto del procedimento di esecuzione era conforme alle prescrizioni dell’autorizzazione in sanatoria: circostanza, questa, confermata in una successiva nota del responsabile del settore urbanistico del Comune.
Ad avviso del condannato, il predetto «accertamento tecnico», svolto da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni e come tale dotato di «fede privilegiata», costituirebbe una «nuova prova sopravvenuta», ai sensi dell’art. 630, comma 1, numero 3), cod. proc. pen., atta a dimostrare che i reati edilizi erano estinti per effetto di sanatoria e, dunque, a legittimare la revisione della sentenza di condanna (art. 631 in riferimento all’art. 531 cod. proc. pen.).
La Corte rimettente nega, tuttavia, validità a tale tesi. Dagli atti del giudizio di cognizione emergerebbe, infatti, che i giudici avevano preso in esame l’autorizzazione rilasciata all’imputato, che sanava le opere qualificate come abusive nel capo di imputazione, attribuendo, tuttavia, una erronea valenza alla frase contenuta nella parte finale del provvedimento – ambigua, se isolata dal contesto – in base alla quale la sanatoria era subordinata alla condizione che «l’unità immobiliare, ad ultimazione dei lavori, resti la medesima di cui alla concessione edilizia n. 38/98, escludendo frazionamenti o divisioni di unità immobiliari non espressamente autorizzate». I giudici del precedente giudizio avevano, infatti, ritenuto che con tale «contraddittoria espressione» – da essi stessi definita «sibillin[a]» – l’amministrazione comunale, anziché porre una prescrizione rivolta all’interessato, intendesse escludere dalla sanatoria le medesime opere che, viceversa, erano state autorizzate. In tal modo, i giudici della cognizione – sia in sede di merito che in sede di legittimità – sarebbero incorsi in un errore di fatto, reso evidente anche dalla considerazione che non avrebbe alcuna logica la sanatoria di un’opera parzialmente difforme dalla concessione edilizia, subordinata alla condizione che l’opera stessa rispetti la concessione.
Il rilevato errore di fatto avrebbe avuto, d’altro canto, una incidenza decisiva sulla condanna, giacché, in sua assenza, il reato di cui all’art. 20, primo comma, lettera c), della legge n. 47 del 1985 avrebbe dovuto essere dichiarato estinto per intervenuto condono. Né rileverebbe la concomitante condanna per il reato di cui all’art. 163 del d.lgs. n. 490 del 1999, essendo ammissibile la revisione parziale.
Nondimeno, la circostanza che il provvedimento di sanatoria figurasse già tra gli atti a disposizione dei giudici del precedente giudizio (e da essi concretamente presi in esame) impedirebbe di ritenere che l’attestazione circa la corrispondenza tra opere realizzate e opere sanate, rilasciata dal tecnico comunale successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna e confermata tramite la testimonianza assunta in sede di revisione, costituisca una «prova nuova», nei sensi in cui tale concetto è inteso dal «diritto vivente». L’attestazione in questione integrerebbe, in effetti, solo «una sorta di “interpretazione autentica” del provvedimento amministrativo da parte del funzionario che lo ha redatto, volt[a] a rimuoverne […] il rilevato carattere di ambiguità che aveva indotto in errore di fatto i giudici della cognizione».
L’elemento in esame non legittimerebbe, di conseguenza, la revisione della condanna, posto che, ai sensi degli artt. 630 e 637, comma 3, cod. proc. pen., come interpretati dal «diritto vivente», non sarebbe ammessa la revisione in assenza di una prova «obiettivamente nuova, ossia nemmeno implicitamente valutata dal giudice della cognizione».
Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale delle citate disposizioni, nella parte in cui non consentono la revisione sulla base della sola diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, allorché la condanna risulti fondata su un errore di fatto incontrovertibilmente desumibile da quelle stesse prove. La preclusione censurata violerebbe, in specie, l’art. 24, quarto comma, Cost. – che configura, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’«immediato referente» costituzionale dell’istituto della revisione – in quanto implicherebbe l’«elisione del diritto dell’imputato ingiustamente condannato ad ottenere la revisione della ingiusta condanna».
A parere della Corte rimettente, infatti, la revisione non potrebbe essere negata, senza violare l’evocato parametro costituzionale, quando emerga con assoluta certezza che la condanna si è basata su un errore di fatto, anche se desumibile dalle sole prove già esaminate dal giudice del precedente giudizio.
La questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo. In assenza della possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, stante il carattere espresso della preclusione da esse sancita, l’unica alternativa al rigetto della richiesta di revisione sarebbe rappresentata dalla proposizione dell’incidente di legittimità costituzionale.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
Secondo la difesa dello Stato, la questione mirerebbe, infatti, ad introdurre un nuovo mezzo straordinario di impugnazione volto a porre rimedio ad errori contenuti nei provvedimenti giurisdizionali: intervento che – come già deciso da questa Corte in circostanze analoghe – implicherebbe, per la varietà delle soluzioni possibili, scelte discrezionali riservate al legislatore.
3.– Si è costituita la parte istante nel giudizio di revisione, la quale ha chiesto, in via principale, l’accoglimento della questione e, in subordine, che la Corte precisi che, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, rientra nell’ipotesi di revisione prevista dall’art. 630, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. anche il caso – oggetto del giudizio a quo – in cui la nuova prova, pur vertendo su un tema già esaminato nel precedente giudizio, valga a dimostrare l’errore di fatto in cui è incorso il relativo giudice.
4.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria, con la quale – oltre a ribadire il profilo di inammissibilità già prospettato – ha chiesto che la questione venga dichiarata comunque infondata nel merito.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, l’intervento richiesto dalla Corte rimettente trasformerebbe la revisione in una impugnazione tardiva che permette di dedurre in ogni tempo ciò che nel processo definitivamente concluso non è stato rilevato, in contrasto con il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Nella specie, la sopravvenuta dichiarazione del tecnico comunale non costituirebbe una nuova prova, ma un semplice elemento utile per una diversa valutazione di prove già assunte: valutazione che l’imputato aveva la possibilità di prospettare, con gli ordinari strumenti processuali, nel giudizio di merito.

Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale degli artt. 630 e 637, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consentono la revisione delle sentenze di condanna irrevocabili sulla base della sola diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, allorché la condanna risulti fondata su un errore di fatto «incontrovertibilmente emergente da quelle stesse prove».
Ad avviso della Corte rimettente, la preclusione censurata violerebbe l’art. 24, quarto comma, della Costituzione, compromettendo il diritto della persona ingiustamente condannata ad ottenere senza limiti di tempo la rimozione della pronuncia di condanna.
2.– La questione è inammissibile.
Nella formulazione del petitum, il giudice a quo coniuga due concetti tra loro antinomici: da un lato, l’errore di valutazione (la «diversa valutazione delle prove» – che nella prospettiva della Corte rimettente dovrebbe giustificare la revisione – è, infatti, quella destinata a correggere una precedente valutazione inesatta); dall’altro, l’errore di fatto.
Alla luce di nozioni generalmente accolte – tanto in ambito processuale penale che processuale civile – l’errore di fatto, con riguardo ai provvedimenti giurisdizionali, è la falsa percezione da parte del giudice, per equivoco o svista, di quanto emergeva dagli atti del giudizio e che non soltanto era incontroverso, ma anche incontrovertibile. Si tratta, dunque, di un errore meramente percettivo, che non coinvolge in nessun modo l’attività valutativa e interpretativa di situazioni processuali esattamente colte dal giudice nella loro oggettività.
Di contro, allorché il giudice ha esattamente percepito la realtà processuale, ma erra nell’attribuirle una determinata valenza probatoria in luogo di un’altra, si è di fronte ad un errore valutativo o di giudizio. È chiaro, dunque, che il primo tipo di errore esclude l’altro, e viceversa.
3.– Alla luce del tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, appare peraltro evidente come il risultato perseguito dal giudice a quo non sia quello di rendere emendabili tout court, in sede di revisione, gli errori di tipo valutativo: prospettiva nella quale l’infondatezza della questione risulterebbe palese, posto che la regola enunciata dall’art. 637, comma 1, cod. proc. pen. – in forza della quale il giudice della revisione «non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio» – ha una ratio solidissima, nella sua ovvietà. Se fosse possibile rimettere in discussione sine die gli apprezzamenti del materiale probatorio (già esistente) posti a base delle pronunce di condanna, i giudizi penali non avrebbero mai fine e rimarrebbe svuotato il concetto stesso di giudicato, il quale mira ad assicurare una tutela certa e stabile delle situazioni giuridiche, escludendo, con ciò, una condizione di perenne sindacabilità delle decisioni.
L’obiettivo cui mira il giudice a quo è, per converso e nella sostanza, quello di rendere emendabili, tramite lo strumento della revisione, gli errori di fatto che abbiano avuto una influenza decisiva sulla pronuncia di condanna.
In questa ottica, è peraltro dirimente il rilievo che l’errore addebitato, nel caso di specie, dalla Corte partenopea ai giudici del precedente giudizio non è, con tutta evidenza, un errore di fatto, ma un errore a carattere valutativo.
Alla luce di quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, infatti, i predetti giudici hanno rilevato in modo corretto il tenore letterale del provvedimento su cui fa perno la richiesta di revisione – costituito dall’autorizzazione in sanatoria delle opere edili abusive per le quali l’imputato era stato tratto a giudizio – senza incorrere in alcuna falsa percezione dell’oggettiva realtà processuale. I medesimi giudici avrebbero invece errato, secondo la Corte rimettente, nell’interpretare una frase contenuta nella parte conclusiva del provvedimento – da essi definita «sibillin[a]» e che lo stesso giudice a quo qualifica come «contraddittoria» e «ambigua» – scorgendovi una conferma dell’abusività dei lavori in discussione, anziché una prescrizione condizionante la sanatoria, rispettata dall’imputato. Tema, questo, che – sempre secondo quanto riferito dalla Corte partenopea – costituiva un punto controverso sul quale la sentenza irrevocabile ha specificamente pronunciato.
4.– La circostanza che si sia, dunque, chiaramente di fronte ad un (supposto) errore a carattere valutativo, e non già ad un errore di fatto – come invece opinato dalla Corte rimettente – rende la questione inammissibile per difetto di rilevanza. Ciò, a prescindere da ogni rilievo sul merito delle censure, in ordine al quale varrebbero comunque considerazioni analoghe a quelle dianzi prospettate, posto che gli errori di fatto compiuti dai giudici del merito, «incontrovertibilmente emergent[i] da[lle] stesse prove» poste a base della loro decisione, sono emendabili (e debbono essere quindi dedotti) tramite i mezzi ordinari di impugnazione, mentre quelli incorsi nel giudizio di cassazione possono essere corretti (e vanno quindi dedotti) tramite il ricorso straordinario di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. (soggetto anch’esso a termine di decadenza, ai sensi del comma 2 di tale articolo, proprio al fine di evitare che la sentenza irrevocabile di condanna resti “instabile” a tempo indeterminato), senza che possa ravvisarsi la necessità costituzionale di consentire la deduzione sine die dei medesimi errori “a valle” del giudicato, tramite l’istituto della revisione.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 630 e 637, comma 3, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento all’art. 24, quarto comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 89/2014

Sentenza  89/2014
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore AMATO
Udienza Pubblica del 25/02/2014    Decisione  del 07/04/2014
Deposito del 10/04/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Art. 14, c. 24° bis, del decreto legge 31/05/2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 30/07/2010, n. 122.
Massime:
Atti decisi:ric. 99/2010

SENTENZA N. 89
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 24-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dalla Provincia autonoma di Bolzano con ricorso notificato il 28 settembre 2010, depositato in cancelleria il 5 ottobre 2010 ed iscritto al n. 99 del registro ricorsi 2010.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 febbraio 2014 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano e l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 28 settembre 2010 e depositato il successivo 5 ottobre (reg. ric. n. 99 del 2010), la Provincia autonoma di Bolzano ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 24-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento all’art. 8, primo comma, numero 1), e al Titolo VI del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).
Il comma 24-bis dell’art. 14 stabilisce: «I limiti previsti ai sensi dell’articolo 9, comma 28, possono essere superati limitatamente in ragione della proroga dei rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle regioni a statuto speciale, nonché dagli enti territoriali facenti parte delle predette regioni, a valere sulle risorse finanziarie aggiuntive appositamente reperite da queste ultime attraverso apposite misure di riduzione e razionalizzazione della spesa certificate dagli organi di controllo interno. Restano fermi, in ogni caso, i vincoli e gli obiettivi previsti ai sensi del presente articolo. Le predette amministrazioni pubbliche, per l’attuazione dei processi assunzionali consentiti ai sensi della normativa vigente, attingono prioritariamente ai lavoratori di cui al presente comma, salva motivata indicazione concernente gli specifici profili professionali richiesti».
Secondo la Provincia autonoma di Bolzano, con la norma impugnata lo Stato darebbe luogo ad un’ingerenza significativa nella competenza legislativa primaria della ricorrente in materia di organizzazione degli uffici e del personale (art. 8, primo comma, numero 1, dello statuto speciale), nonché di finanza locale (Titolo VI dello statuto speciale), dettando condizioni e limitazioni restrittive in merito all’assunzione del personale provinciale ed alla predisposizione delle relative risorse.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio chiedendo che le questioni prospettate siano dichiarate inammissibili e infondate.
2.1.– In via preliminare, l’Avvocatura generale eccepisce la tardività del ricorso proposto avverso le norme del d.l. n. 78 del 2010 non modificate in sede di conversione e quindi, in ipotesi, immediatamente lesive.
2.2. – Nel merito, prima di esaminare le singole censure, la difesa statale si sofferma sul contesto economico in cui si inseriscono le norme impugnate, sottolineando come il d.l. n. 78 del 2010 sia stato adottato nel pieno di una grave crisi economica internazionale, al fine di assicurare stabilità finanziaria al Paese nella sua interezza e di rafforzare la competitività sui mercati economici e finanziari.
Pertanto, secondo la difesa statale, le misure adottate non possono essere sezionate, ma vanno viste ed esaminate nel loro complesso, in quanto l’una sorregge l’altra per raggiungere insieme le finalità di stabilizzazione e di rilancio economico.
Da questo punto di vista si tratterebbe di interventi rientranti nella competenza statale del «coordinamento della finanza pubblica», idonea a vincolare anche le Regioni speciali e le Province autonome.
D’altra parte, argomenta l’Avvocatura generale, quando sopravvengono circostanze di straordinaria necessità ed urgenza, non può pretendersi che si esplichino le modalità di concertazione previste dai rispettivi statuti speciali. Anzi, lo Stato, avendo la responsabilità della politica economica nazionale, deve poter intervenire con la dovuta urgenza e rapidità, nell’interesse dell’intera comunità.
Se ne deve concludere, secondo l’Avvocatura, che, nella ricorrenza di situazioni eccezionali, «possa derogarsi anche alle procedure statutarie, come alle altre sinanco costituzionali, in ragione dell’esigenza di salvaguardare la salus rei publicae e in applicazione dei principi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale (art. 2), dell’unità della Repubblica (art. 5), e della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10), che contenuti nella premessa alla prima parte della Costituzione si impongono a tutti, Stato e autonomie comprese».
Quanto alle singole censure, la difesa statale ritiene che il comma 24-bis dell’art. 14 non violi lo statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige, in quanto porrebbe un principio di riforma economico-sociale, a favore dei lavoratori precari, difficilmente contestabile nella situazione sociale attuale.
3.– L’udienza di discussione, originariamente fissata in data 7 giugno 2011, è stata oggetto di plurimi rinvii per pendenza di una trattativa tra le parti al fine di pervenire ad un componimento bonario delle contrapposte posizioni.
In data 1° ottobre 2013 la Provincia di Bolzano ha depositato istanza di trattazione in quanto la trattativa di cui sopra non ha prodotto l’esito auspicato.
In prossimità della nuova udienza la Provincia ricorrente e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato memorie nelle quali hanno insistito nelle conclusioni già rassegnate, rispettivamente, nel ricorso e nell’atto di costituzione, nonché nelle memorie precedentemente prodotte.
3.1.– In particolare, l’Avvocatura generale sottolinea che l’art. 14, comma 24-bis, sarebbe una norma più favorevole per la Provincia autonoma, poiché le consente di superare i limiti di spesa posti dall’art. 9, comma 28, e dunque non potrebbe ledere la sua autonomia statutaria.
3.2.– Ad avviso della ricorrente, invece, la norma impugnata, pur derogando all’art. 9, comma 28, ne replicherebbe i profili di incostituzionalità, in quanto assoggetterebbe a nuovi limiti l’autonomia di spesa della Provincia autonoma in materia di personale.
Con la norma in esame, infatti, lo Stato, esprimendo un favor per i lavoratori assunti a tempo determinato, si sostituirebbe alla Provincia nella gestione delle politiche assunzionali, sia nel circoscrivere l’operatività della deroga ai limiti di cui all’art. 9 al solo regime di prorogatio di tali rapporti di lavoro, sia esplicitamente imponendo alla Provincia autonoma di assegnare priorità nelle assunzioni al personale precario. In tal modo il legislatore statale avrebbe introdotto misure di dettaglio palesemente lesive della competenza provinciale.


Considerato in diritto
1.– Con ricorso notificato il 28 settembre 2010 e depositato il successivo 5 ottobre (reg. ric. n. 99 del 2010), la Provincia autonoma di Bolzano ha promosso, tra l’altro, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 24-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento all’art. 8, primo comma, numero 1), e al Titolo VI del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).
La disposizione impugnata stabilisce che le Regioni speciali e gli enti territoriali facenti parte di tali Regioni, in caso di proroga dei rapporti di lavoro a tempo determinato, possano superare il limite imposto dall’art. 9, comma 28, a condizione che reperiscano risorse aggiuntive attraverso misure di riduzione e di razionalizzazione della spesa certificate dagli organi di controllo interno. La norma prevede, inoltre, un criterio di priorità per le assunzioni dei lavoratori a tempo determinato in regime di proroga.
In tal modo, secondo la Provincia autonoma di Bolzano, lo Stato darebbe luogo ad un’ingerenza significativa nella competenza legislativa primaria della ricorrente in materia di organizzazione degli uffici e del personale (art. 8, primo comma, numero 1, dello statuto speciale), nonché di finanza locale (Titolo VI dello statuto speciale), dettando condizioni e limitazioni restrittive in merito all’assunzione del personale provinciale ed alla predisposizione delle relative risorse.
2.– Riservata a separate pronunce la decisione sulle altre questioni promosse dalla ricorrente, deve essere esaminata preliminarmente l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri.
L’Avvocatura generale dello Stato sostiene, in particolare, che il ricorso sia tardivo, perché proposto avverso disposizioni del d.l. n. 78 del 2010 non modificate in sede di conversione e quindi, in ipotesi, immediatamente lesive delle competenze regionali. Tali disposizioni, dunque, avrebbero dovuto essere impugnate entro il termine di decadenza di cui all’art. 127, secondo comma, Cost., decorrente dalla data di pubblicazione del decreto-legge.
L’eccezione non può essere accolta.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, la Regione che ritenga lese le proprie competenze da norme contenute in un decreto-legge «può riservare l’impugnazione a dopo l’entrata in vigore» della relativa legge di conversione, perché «soltanto a partire da tale momento il quadro normativo assume un connotato di stabilità e l’iniziativa d’investire la Corte non rischia di essere vanificata dall’eventualità di una mancata conversione» (ex plurimis, sentenza n. 232 del 2011).
D’altra parte, con specifico riguardo all’impugnato comma 24-bis, tale norma risulta inserita nell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010 in sede di conversione ad opera della legge 30 luglio 2010, n. 122, e dunque la stessa eccezione di inammissibilità del ricorso si fonda su un presupposto del tutto erroneo.
3.– Sempre in via preliminare, la Corte osserva che i giudizi avverso il d.l. n. 78 del 2010 sono stati promossi dalla Provincia autonoma di Bolzano sulla base di una delibera adottata in via d’urgenza dalla Giunta, ai sensi dell’art. 44, numero 5), dello statuto speciale. In tali casi, gli atti di ratifica dei rispettivi Consigli devono intervenire ed essere prodotti in giudizio non oltre il termine di costituzione della parte ricorrente (sentenza n. 142 del 2012).
Nel caso di specie non rileva la tempestività di siffatta ratifica e del relativo deposito, in quanto questa Corte ha più volte ribadito che per i ricorsi promossi prima della citata sentenza sussistono gli estremi dell’errore scusabile già riconosciuto in ipotesi del tutto analoghe da questa Corte, in ragione del fatto che tale profilo di inammissibilità a lungo non è stato rilevato, sì da ingenerare affidamento nelle parti in ordine ad una interpretazione loro favorevole (sentenze n. 219 del 2013, n. 203 del 2012, n. 202 del 2012, n. 178 del 2012 e n. 142 del 2012).
Il ricorso è perciò sotto tale aspetto ammissibile.
4.– Nel merito la difesa dello Stato premette che il d.l. n. 78 del 2010 è stato adottato per far fronte con urgenza ad una grave crisi economica internazionale. L’eccezionalità della situazione, sempre ad avviso dell’Avvocatura, consentirebbe allo Stato di derogare «alle procedure statutarie, come alle altre sinanco costituzionali, in ragione dell’esigenza di salvaguardare la salus rei publicae e in applicazione dei principi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale (art. 2), dell’unità della Repubblica (art. 5), e della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10), che contenuti nella premessa alla prima parte della Costituzione si impongono a tutti, Stato e autonomie comprese».
Questo assunto non può essere condiviso. Le disposizioni costituzionali evocate dalla parte resistente, infatti, non consentono allo Stato di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte seconda della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali. In particolare, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, «il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale» (sentenza n. 151 del 2012).
5.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 24-bis, del d.l. n. 78 del 2010, non è fondata.
5.1.– La disposizione impugnata stabilisce che «I limiti previsti ai sensi dell’articolo 9, comma 28, possono essere superati limitatamente in ragione della proroga dei rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle regioni a statuto speciale, nonché dagli enti territoriali facenti parte delle predette regioni, a valere sulle risorse finanziarie aggiuntive appositamente reperite da queste ultime attraverso apposite misure di riduzione e razionalizzazione della spesa certificate dagli organi di controllo interno». Esso, infine, prevede che «Le predette amministrazioni pubbliche, per l’attuazione dei processi assunzionali consentiti ai sensi della normativa vigente, attingono prioritariamente ai lavoratori di cui al presente comma, salva motivata indicazione concernente gli specifici profili professionali richiesti».
È bensì vero che tale disposizione si colloca tra quelle che la rubrica dell’art. 14 riconduce nominalmente al patto di stabilità interno, ma il suo contenuto normativo – nel quale il patto non è neppure menzionato – la connette strettamente all’art. 9, comma 28, che questa Corte ha qualificato come principio di coordinamento della finanza pubblica (da ultimo, nella sentenza n. 61 del 2014).
Né tale connessione genetica e normativa ribadisce nei confronti delle Regioni speciali il limite posto dall’art. 9, comma 28, perché, al contrario, consente a tali Regioni e alle Province autonome di derogare ad esso, prevedendo che possano procedere a nuove assunzioni nella misura in cui riescano a reperire le necessarie risorse. Si tratta, dunque, di una norma più favorevole per la Provincia autonoma, che risulta priva di qualsivoglia portata lesiva.
5.2.– Quanto infine all’ultimo periodo del comma 24-bis, esso stabilisce un criterio di priorità «per l’attuazione dei processi assunzionali consentiti», disponendo che le amministrazioni pubbliche interessate attingano prioritariamente ai lavoratori a tempo determinato in regime di proroga, «salva motivata indicazione concernente gli specifici profili professionali richiesti». Vi è dunque una preferenza espressa dal legislatore statale, derogabile da quello regionale.
Nel dare un’indicazione in termini di “priorità” rispetto ai lavoratori da assumere, infatti, il legislatore statale non pone vincoli rigidi, ma lascia alle singole amministrazioni la scelta in ordine alle assunzioni da operare, con la sola richiesta di motivazione, ove necessitino di profili professionali specifici.
Pertanto, non si tratta di una norma di dettaglio, ma di una norma che prescrive un criterio generale e impone di motivare le eventuali determinazioni regionali difformi da tale criterio.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Provincia autonoma di Bolzano con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 24-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promossa, in riferimento all’art. 8, primo comma, numero 1), e al Titolo VI del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dalla Provincia autonoma di Bolzano con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 aprile 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI