SENTENZA N. 97 ANNO 2020

Sentenza 97/2020 (ECLI:IT:COST:2020:97)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: CARTABIA - Redattore:  ZANON
Udienza Pubblica del 05/05/2020;    Decisione  del 05/05/2020
Deposito del 22/05/2020;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  Art. 41 bis, c. 2° quater, lett. f), della legge 26/07/1975, n. 354.
Massime: 
Atti decisi: ordd. 222 e 223/2019
  

Pronuncia

SENTENZA N. 97

ANNO 2020


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, nei procedimenti a carico di G. G. e C. G., con due ordinanze del 23 ottobre 2019, rispettivamente iscritte ai numeri 222 e 223 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti gli atti di costituzione di G. G. e di C. G. nonché gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito il Giudice relatore Nicolò Zanon ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1) lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 5 maggio 2020;

deliberato nella camera di consiglio del 5 maggio 2020


Ritenuto in fatto

1.– La Corte di cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo tenore, adottate in pari data e nella medesima composizione collegiale (rispettivamente iscritte ai numeri 222 e 223 del registro ordinanze 2019), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità».

2.– Nel giudizio iscritto al r.o. n. 222 del 2019, il collegio rimettente riferisce che la vicenda sottoposta al vaglio di legittimità nasce dal reclamo al Magistrato di sorveglianza di Spoleto proposto da G. G., detenuto sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit., avverso l’ordine di servizio del 15 marzo 2015 con il quale la direzione dell’istituto penitenziario ha comunicato il divieto di scambiare oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, a seguito delle innovazioni apportate al citato regime differenziato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica). Secondo il reclamante, lo scambio di oggetti, e in particolare di generi alimentari «provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario in base al cd. mod. 72)», non poteva mettere a rischio il perseguimento delle finalità cui è preordinato il regime carcerario previsto dall’art. 41-bis ordin. penit., considerato che i detenuti interessati allo scambio erano già stati ammessi «a fruire in comune la cd. socialità».

Espone ancora il rimettente che il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha dichiarato inammissibile il reclamo presentato ai sensi dell’art. 35-bis ordin. penit., conformemente a quanto previsto dall’art. 4, comma l, della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (d’ora innanzi: DAP), non potendosi riconoscere la sussistenza di alcun diritto soggettivo avente ad oggetto «il passaggio di generi alimentari ad altri ristretti».

Tale provvedimento di inammissibilità era oggetto di reclamo, accolto, dinnanzi al Tribunale di sorveglianza di Perugia. Secondo il collegio, lo scambio di oggetti (e di generi alimentari in particolare, provenienti dai pacchi famiglia, dal sopravvitto, dal cibo somministrato dalla stessa amministrazione penitenziaria) riceverebbe tutela in base al combinato disposto degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), della legge n. 354 del 1975. Dovrebbe in particolare riconoscersi un diritto soggettivo «a fruire di momenti di socialità tra persone ristrette» anche al detenuto sottoposto a regime differenziato, il quale può condividere la cosiddetta socialità all’interno del relativo “gruppo”, secondo quanto previsto dallo stesso art. 41-bis ordin. penit. e dall’art. 3.1 della citata circolare del DAP. Del resto, sempre secondo il Tribunale di sorveglianza, essendo lo scambio di oggetti comunque limitato a quelli di «modico valore» – in base alla previsione generale dell’art. 15 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) – non sarebbe possibile configurare alcuna «posizione di supremazia» tra i detenuti. In definitiva, il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non sarebbe giustificabile in forza di «ragioni di sicurezza», non potendosi rilevare «alcuna congruità tra lo stesso e il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza». Infine, sempre secondo il collegio, poiché i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità possono incontrarsi liberamente, dovrebbe escludersi che, attraverso il divieto di scambio di oggetti di modico valore (e di generi alimentari), possa essere «neutralizzato il pericolo per l’ordine e la sicurezza costituito dal passaggio di comunicazioni non consentite, potendo le stesse essere trasmesse oralmente».

Riferisce la Corte di cassazione rimettente che, sulla base di tali premesse, il Tribunale di sorveglianza di Perugia, con ordinanza, ha disposto la disapplicazione dell’art. 4, comma l, della circolare del DAP del 2 ottobre 2017 e dell’ordine di servizio della direzione della casa di reclusione, oggetto dell’originaria impugnazione. Ricorda inoltre la Corte come sia stato ordinato alla stessa direzione di emettere un diverso ordine di servizio, volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità cui il reclamante è assegnato.

Contro questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della giustizia, sostenendo che l’interpretazione fornita dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sarebbe «contraria all’inequivoco tenore letterale» della disposizione censurata. Quest’ultima, «secondo quanto confermato dalla giurisprudenza di legittimità», non consentirebbe di superare il divieto di scambio di oggetti anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità: secondo il ricorrente, la formulazione letterale della disposizione, «chiarissima nello statuire che solo il divieto di comunicazione ammette deroga all’interno del medesimo gruppo di socialità», si giustificherebbe con la considerazione che lo scambio di oggetti non sarebbe «così essenziale alla socializzazione come il comunicare», risultando quindi ragionevole il divieto di procedervi nell’ambito del «bilanciamento tra l’interesse alla socializzazione del detenuto e l’interesse (fondante il regime del 41-bis) ad arginare flussi informativi tra detenuti in regime speciale».

2.1.– Ciò premesso in punto di fatto, il collegio rimettente evidenzia che la disposizione censurata prevede, testualmente, la adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi».

Ricostruisce, poi, l’interpretazione di tale disposizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, riproducendo, in particolare, brani della motivazione della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977, secondo cui «tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo», deve ritenersi, «soprattutto in considerazione dell’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare”, (...) che, nel periodo sintattico in esame, le varie proposizioni riferite a comportamenti dei detenuti, in ordine ai quali va perseguita la “assoluta impossibilità” di realizzazione, siano costituiti, per un verso, dalla comunicazione fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e, per altro verso, dallo scambio di oggetti e dalla cottura di cibi». Diversamente, infatti, «la disposizione avrebbe contemplato “la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, e di cuocere cibi”». Pertanto, il perseguimento della “assoluta impossibilità” deve ritenersi «riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l’ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale le comunicazioni fra i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità»; mentre «la necessità di assicurare la “assoluta impossibilità” dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Il collegio rimettente afferma di condividere tale interpretazione, ribadita in diverse successive pronunce della Corte di legittimità (sono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima penale, 4 luglio 2019, n. 29301 e n. 29300, e 1° febbraio 2018, n. 4993), sicché esclude di poter pervenire «a un epilogo esegetico di significato opposto a quello fatto palese dal significato delle parole che quell’enunciato compongono».

2.2.– Ciò premesso, ritiene la Corte di legittimità che la disposizione censurata, nella parte in cui impone il divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, proprio perché non suscettibile di assumere un differente significato, sia incompatibile con il dettato costituzionale.

Il giudice a quo muove dal presupposto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la funzione della sospensione del regime penitenziario ordinario prevista dall’art. 41-bis ordin. penit. sarebbe quella di «rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà». Un obiettivo perseguito mediante la previsione di una serie di significative restrizioni a quegli istituti dell’ordinamento penitenziario che, ordinariamente rivolti a favorire il reinserimento sociale dei detenuti, sono tuttavia suscettibili di favorire il mantenimento dei contatti con l’ambiente esterno e, in particolare, con la consorteria criminale di appartenenza, consentendo ai reclusi di continuare a impartire direttive all’esterno o di mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività criminose dell’associazione (sono citate le pronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004, n. 192 del 1998 e n. 376 del 1997).

Ricorda, tuttavia, che quella medesima giurisprudenza costituzionale avrebbe imposto due limiti al regime differenziato.

Il primo vincolo, direttamente discendente dall’art. 3 Cost., atterrebbe «alla congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue», sicché non potrebbero essere imposte misure non riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza e, come tali, aventi una «portata puramente afflittiva», ingiustificabile anche laddove mirassero a uno «scopo “dimostrativo”, volto cioè a privare una categoria di detenuti di quelle che vengono considerate manifestazioni di “potere reale” e occasioni per aggregare intorno ad essi “consenso” traducibile in termini di potenzialità offensive criminali». Tale finalità andrebbe, piuttosto, perseguita attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario (viene richiamata la sentenza n. 351 del 1996).

Il secondo limite discenderebbe dai principi fissati nell’art. 27 Cost., in forza dei quali le restrizioni disposte ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. non potrebbero mai essere tali da «vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993).

A parere del collegio rimettente, mentre il divieto di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità «appare effettivamente funzionale a garantire gli obiettivi di prevenzione della misura», l’ulteriore disposizione, concernente il divieto di scambio di oggetti, in quanto riferito, indifferentemente, a tutti i detenuti in regime differenziato, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non potrebbe, invece, ritenersi «funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo “una portata meramente afflittiva”».

Secondo il giudice a quo, infatti, solo lo scambio di oggetti tra soggetti assegnati a differenti gruppi di socialità potrebbe consentire di veicolare informazioni tra detenuti che l’amministrazione penitenziaria ha ritenuto di non ammettere ad alcun tipo di comunicazione tra loro, «proprio per interrompere ogni forma di relazione e per ovviare al pericolo della circolazione di determinate conoscenze». Tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, viceversa, tale «essenziale esigenza» sarebbe, «per definizione, inesistente, dal momento che proprio la comune appartenenza al medesimo gruppo consentirebbe, a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti».

Nella visione del collegio rimettente, neppure potrebbe ritenersi che il divieto di scambio di oggetti possa giustificarsi in rapporto alla necessità di impedire che taluno degli appartenenti al medesimo gruppo di socialità possa acquisire, attraverso tale scambio, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario. Tale convincimento è rafforzato nel rimettente dalla sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale, secondo cui il manifestarsi, all’interno del carcere, di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito «attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e «non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti».

A tale proposito, ricorda ancora il rimettente, già la regola generale, posta dall’art. 15 del d.P.R. n. 230 del 2000, consente solo la cessione o lo scambio di beni «di “modico valore”»: nel caso di specie, verrebbero in questione generi alimentari (zucchero, caffè et similia) o, comunque, di prima necessità (per l’igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall’esterno – e quindi ulteriormente limitati ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), ordin. penit. – o acquistati al cosiddetto sopravvitto, sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere in ambito carcerario dovrebbe «ritenersi esclusa in radice».

Già in relazione al solo art. 3 Cost., dunque, il divieto in esame configurerebbe «una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai ristretti in regime ordinario e una irragionevole limitazione dal significato inutilmente vessatorio».

La stessa preclusione, per altro, contrasterebbe anche con il principio del finalismo rieducativo della pena, di cui all’art. 27 Cost., oltre ad integrare una limitazione al regime penitenziario ordinario contraria al senso di umanità: una volta stabilito che il diritto alla socialità debba essere esercitato nell’ambito di un limitato gruppo di detenuti, selezionato dalla stessa amministrazione penitenziaria in ragione della necessità di impedire il mantenimento dei legami con il contesto criminale di provenienza, la ulteriore limitazione conseguente all’applicazione del divieto imposto dalla disposizione censurata, nell’impedire «anche quelle forme “minime” di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano “senza filtri” ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali», finirebbe per realizzare una non consentita limitazione dei principi presidiati dall’art. 27 Cost.

2.3.– Quanto al profilo della rilevanza, il collegio rimettente evidenzia che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale, sia pure in parte qua, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit. «farebbe venire meno la base legale degli atti dell’Amministrazione penitenziaria in relazione ai quali è stato proposto il reclamo» e, segnatamente, dell’ordine di servizio 15 marzo 2015 e della circolare n. 3676/6126 del 2017 successivamente emanata dal DAP. Una tale pronuncia determinerebbe «il riespandersi, anche per tale categoria di reclusi, delle previsioni generali legate al diritto alla socialità quale momento essenziale del trattamento penitenziario» e, dunque, anche della facoltà di cedere «oggetti di modico valore» accordata a detenuti e internati dall’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, sicché anche per i reclusi sottoposti al regime differenziato diventerebbe esperibile il reclamo previsto, per il caso della lesione di diritti soggettivi, dal combinato disposto degli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit., in virtù dei quali il magistrato di sorveglianza, se accerta la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione penitenziaria di porvi rimedio entro un determinato termine. Evidenzia il collegio rimettente, infatti, che, sebbene il comma 2-sexies dell’art. 41-bis ordin. penit. abbia limitato il sindacato giurisdizionale sul regime detentivo speciale alla verifica della sussistenza dei presupposti applicativi, deve comunque ritenersi esperibile un controllo giudiziale sul contenuto dell’atto (viene richiamata la sentenza n. 190 del 2010 della Corte costituzionale), oggi esercitabile, appunto, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 35-bis ordin. penit.

2.4.– Si è costituito G. G., condividendo le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale in essa sollevate. La parte sottolinea, in particolare, quanto affermato nella sentenza n. 186 del 2018 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., limitatamente alle parole «e cuocere cibi».

3.– Nel giudizio iscritto al r.o. n. 223 del 2019, il collegio rimettente espone, in punto di fatto, che C. G., sottoposto al regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, ordin. penit, ha proposto reclamo, ai sensi dell’art. 35-bis ordin. penit., al Magistrato di sorveglianza di Spoleto, contro l’ordine di servizio n. 40 del 22 dicembre 2017, sulla cui base la direzione dell’istituto penitenziario ha disposto che, in conformità dell’art. 4 della circolare del DAP n. 3676/6126 del 2017, a decorrere dal 15 gennaio 2018 deve ritenersi vietato lo scambio di oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo “gruppo di socialità”. Il reclamante si sarebbe trovato improvvisamente impossibilitato a scambiare, con i detenuti inclusi nel gruppo di socialità di appartenenza, generi alimentari e oggetti destinati all’igiene personale o alla pulizia della stanza detentiva.

Con ordinanza del 27 marzo 2018, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha accolto il reclamo, ordinando alla direzione dell’istituto penitenziario di adottare un ordine di servizio tale da circoscrivere il divieto in questione ai soli detenuti non facenti parte del medesimo gruppo di socialità.

Contro il provvedimento di accoglimento ha proposto reclamo il Ministero della giustizia, chiedendo al Tribunale di sorveglianza di Perugia l’annullamento dell’ordinanza impugnata, sulla base della considerazione che il divieto di scambio di generi alimentari “infragruppo” sarebbe funzionale, non solo ad impedire posizioni di predominio tra i detenuti, ma anche ad evitare che vengano occultati beni, oggetti o messaggi diretti a mantenere i contatti con il sodalizio criminoso.

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha rigettato il reclamo, per motivi analoghi a quelli illustrati al precedente punto 2. In aggiunta, ha osservato che gli scambi in esame, quando ancora autorizzati, non hanno mai previsto la traditio diretta del bene tra un detenuto e l’altro, essendo inibito ai reclusi di portare con sé degli oggetti all’uscita della stanza detentiva, con le modeste deroghe (bottiglietta d’acqua, pacchetto di fazzoletti di carta, eccetera) previste dall’art.11.2 della più volte citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 e sussistendo, in ogni caso, «il filtro del controllo visivo quale ulteriore meccanismo a presidio di eventuali comunicazioni fraudolente».

Avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia ha proposto ricorso per cassazione il Ministero della giustizia, articolando le medesime considerazioni già illustrate in precedenza, in relazione al giudizio r.o. n. 222 del 2019.

3.1.– In punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, il giudice a quo adduce argomentazioni coincidenti con quelle dell’ordinanza iscritta al r.o. n. 222 del 2019, illustrate ai precedenti punti 2.2 e 2.3.

3.2.– Si è costituito C. G., aderendo all’impostazione dell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

4.– In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, depositando atti di analogo tenore e concludendo per la non fondatezza delle questioni.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, se la funzione del regime speciale è quella di impedire determinate comunicazioni, risulta «evidente» che anche la socialità, nei particolari termini in cui è consentita, «non è altro che un momento di dialogo che, necessario perché il detenuto conservi la possibilità di mantenere i rapporti sociali, può comunque trasformarsi in uno strumento per la trasmissione di messaggi all’esterno, che possono transitare ai familiari di taluno degli interlocutori».

Al fine di ridurre tale concreto rischio, il legislatore non solo avrebbe circoscritto gli incontri intramurari del detenuto sottoposto al regime differenziato al solo gruppo di socialità di appartenenza, ma avrebbe anche disposto che all’interno di tale gruppo le comunicazioni non assumano modalità diverse da quelle forme, gestuali o verbali, con le quali si intrecciano, primariamente, le relazioni umane.

La scelta del legislatore di vietare lo scambio o la cessione di oggetti anche con altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità avrebbe lo scopo di neutralizzare (o quantomeno ridurre) «il concreto e serio rischio che si vanifichino le peculiari finalità che quel regime mira a tutelare»: in assenza del divieto censurato, infatti, si consentirebbe «di veicolare all’interno del gruppo informazioni il cui contenuto sarebbe difficilmente intellegibile da parte del personale dell’Amministrazione, nonostante gli eventuali controlli auditivi o visivi apprestati, […] anche qualora ne fosse autorizzata l’intercettazione da parte dell’A.G.».

Secondo l’Avvocatura, a qualunque oggetto sarebbe possibile attribuire convenzionalmente un determinato «significato comunicativo», anche quando la res sia priva di una valenza simbolica intrinseca, sicché, tramite lo scambio di oggetti fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, si finirebbe per consentire anche l’eventuale «passaggio di informazioni criptate fra detenuti sottoposti al regime speciale all’interno dell’ambiente carcerario e poi, per il tramite dei colloqui di costoro con i familiari, anche all’esterno».

In definitiva, il legislatore, con una scelta «non irragionevole», avrebbe voluto evitare che lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, «di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti».

Inoltre, sempre secondo l’Avvocatura generale, per il tramite dello scambio o della cessione di oggetti potrebbero affermarsi, all’interno dello stesso gruppo di socialità, logiche di sopraffazione che condurrebbero «il detenuto più debole, per carisma personale o per carica rivestita all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, a soggiacere alle prevaricazioni di uno di quei pochi soggetti con i quali egli può avere contatti con immaginabili conseguenze in termini di sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario».

Per gli stessi motivi, l’Avvocatura considera «non pertinente» il richiamo operato dalle ordinanze di rimessione alla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., limitatamente alle parole «e cuocere cibi». L’interveniente, infatti, riconosce che il divieto di cuocere cibi, che la norma invalidata imponeva ai soli detenuti in regime differenziato, implicava una deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario, perché dotata di valenza «meramente e ulteriormente afflittiva, incongrua e inutile» rispetto alle esigenze che giustificano il regime differenziato. Ritiene, però, che quella medesima valutazione non si attagli al divieto di scambio di oggetti tra detenuti sottoposti al regime suddetto: diversamente dal divieto di cuocere cibi (attività quest’ultima ritenuta ontologicamente estranea al concetto di comunicazione), il divieto qui censurato «sottende la necessità di evitare […] che lo scambio di oggetti possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale tra detenuti, di complessa decifrabilità in fase di controllo».

5.– Entrambe le parti, in prossimità dell’udienza, hanno depositato memorie, ribadendo le conclusioni già avanzate negli atti di costituzione.

Esse replicano all’argomento addotto dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui all’oggetto scambiato si potrebbe attribuire un significato comunicativo convenzionale da trasmettere all’esterno: in particolare, la parte costituita nel giudizio iscritto al r.o. n. 222 del 2019 osserva che, nel corso dei colloqui visivi con i familiari, i detenuti non possono portare alcun oggetto, «fatta eccezione per una bottiglia di acqua (priva dell’etichetta) e un pacchetto di fazzoletti di carta» e che tali colloqui sono video registrati, sicché «qualunque gesto o parola di dubbio significato viene annotata e segnalata alla competente Autorità».

6.– L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, in data 15 aprile 2020, e dunque tardivamente, ulteriori memorie.

7.– In data 28 aprile 2020, in forza delle nuove modalità previste dal punto 1), lettera c), del decreto della Presidente della Corte costituzionale del 20 aprile 2020, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato, in entrambi i giudizi, brevi note finalizzate a svolgere alcune puntualizzazioni, alla luce delle considerazioni sviluppate dalle parti nelle memorie depositate in vista dell’udienza, ribadendo, in conclusione, la richiesta di rigetto delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto non fondate. Con la nota relativa al giudizio iscritto al r.o. n. 223 del 2019, ha aggiunto di ritenere «necessario che il legislatore individui divieti specifici, sottratti alla discrezionalità della singola struttura, al fine di pervenire al raggiungimento delle predette esigenze di sicurezza sottese all’istituto dell’art 41 bis ord. pen.», non potendo rimettersi «ad una valutazione “caso per caso”» il divieto di cessione di oggetti o cose tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità.


Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezione prima penale, con due ordinanze di analogo tenore, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità».

2.– In entrambi i giudizi, la Corte di legittimità rimettente si trova a decidere su ricorsi proposti dal Ministero della giustizia avverso ordinanze emesse dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, investito da reclami proposti in ordine alle modalità attuative del regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit. e, in particolare, del divieto di scambio di oggetti tra detenuti previsto dal comma 2-quater, lettera f) dell’articolo da ultimo citato e applicato dall’amministrazione penitenziaria con appositi ordini di servizio, anche in esecuzione della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (d’ora innanzi: DAP).

Il Tribunale di sorveglianza di Perugia – nel primo caso accogliendo il reclamo del detenuto, nell’altro rigettando quello del Ministero della giustizia – ha ordinato ai direttori degli istituti penitenziari di consentire lo scambio di oggetti (in particolare, generi alimentari provenienti dai pacchi famiglia, dal sopravvitto o dal cibo somministrato dalla stessa amministrazione penitenziaria, nonché beni di prima necessità, per l’igiene personale o la pulizia della cella) tra detenuti soggetti al regime speciale ai sensi dell’art. 41-bis ordin. penit., e appartenenti al medesimo gruppo di socialità.

La disposizione censurata prevede, testualmente, l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» («e cuocere cibi», recitava la norma prima della sentenza n. 186 del 2018 di questa Corte, che l’ha dichiarata costituzionalmente illegittima in questa parte). Il giudice del reclamo, nell’interpretare la disposizione, ha ritenuto che il divieto in essa stabilito, ove applicato anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non sarebbe giustificabile in forza di «ragioni di sicurezza».

Non si potrebbe, infatti, riconoscere «alcuna congruità» tra la suddetta interdizione e «il fine perseguito dal regime differenziato, costituito dalla necessità di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza».

Ciò premesso in punto di fatto, il collegio rimettente sottolinea che compito dell’interprete è «quello di verificare la compatibilità costituzionale delle disposizioni di legge non suscettibili, senza forzature ermeneutiche, di assumere un differente significato normativo», investendo, se del caso, questa Corte delle relative questioni di legittimità costituzionale.

In sostanza, il giudice a quo sottolinea di non poter pervenire alla medesima interpretazione, in ipotesi costituzionalmente conforme, accolta dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, giacché si tratterebbe di un’esegesi di segno opposto a quello fatto palese dal significato proprio delle parole utilizzate dal legislatore, secondo la loro connessione. Aderisce, perciò, all’interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «tenendo conto del significato e della connessione delle parole e dei segni grafici utilizzati, nonché del senso logico del testo», «la necessità di assicurare la “assoluta impossibilità” dello scambio di oggetti riguarda tutti gli scambi fra detenuti, e non è limitata ai soli scambi fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (è citata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977).

Chiarito il contenuto normativo della disposizione, il collegio rimettente la ritiene in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., sollevando le indicate questioni di legittimità costituzionale.

2.1.– Premette il giudice a quo che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la funzione della sospensione delle regole del regime penitenziario ordinario prevista dall’art. 41-bis ordin. penit. sarebbe quella di «rescindere i collegamenti ancora attuali sia tra i detenuti che appartengano a determinate organizzazioni criminali, sia tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà» (sono richiamate le pronunce n. 122 del 2017, n. 143 del 2013, n. 417 del 2004, n. 192 del 1998 e n. 376 del 1997).

Ricorda, tuttavia, anche i limiti che quella medesima giurisprudenza costituzionale avrebbe imposto al regime differenziato.

Il primo di essi, direttamente collegato all’art. 3 Cost., atterrebbe «alla congruità della misura applicata rispetto allo scopo che essa persegue»; l’altro, imposto dal rispetto dell’art. 27 Cost., impedirebbe alle restrizioni ordinate ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. di «vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena» e di «violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993).

Alla luce di tali principi, il divieto di scambio di oggetti, in quanto riferito, indifferentemente, a tutti i detenuti sottoposti al regime speciale di cui si discute, ancorché appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non potrebbe ritenersi «funzionale a fronteggiare alcun pericolo per la sicurezza pubblica, assumendo “una portata meramente afflittiva”», ingiustificabile anche laddove mirata ad evitare l’instaurazione di posizioni di dominio all’interno della comunità carceraria.

L’incongruità rispetto al fine di recidere i collegamenti ancora attuali tra i detenuti soggetti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. e tra gli stessi e gli altri componenti del sodalizio che si trovano in libertà, discenderebbe dal fatto che la comune appartenenza al medesimo gruppo di socialità consente, «a monte, lo scambio di qualunque contenuto informativo; e ciò senza dover ricorrere, appunto, allo scambio di oggetti».

L’inutilità del divieto censurato sarebbe, altresì, evidente anche in rapporto alla necessità di prevenire la formazione o il consolidamento di logiche di prevaricazione all’interno del medesimo gruppo di socialità, a tanto bastando – secondo principi ribaditi, da ultimo, nella sentenza n. 186 del 2018 di questa Corte – «la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario», tra le quali rileva, in particolare, la regola generale dettata dall’art. 15 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), che consente la cessione o lo scambio unicamente di «oggetti di modico valore».

Il divieto in esame, inoltre, sarebbe in contrasto anche con il principio del finalismo rieducativo della pena, presidiato dall’art. 27 Cost., oltre ad integrare una limitazione al regime penitenziario ordinario contraria al senso di umanità.

2.2.– Quanto al profilo della rilevanza, il collegio rimettente evidenzia che solo la dichiarazione di illegittimità costituzionale, sia pure in parte qua, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit. «farebbe venire meno la base legale degli atti dell’Amministrazione penitenziaria in relazione ai quali è stato proposto [l’originario] reclamo», consentendo al magistrato di sorveglianza di disapplicarli e di impartire all’amministrazione stessa ordini di segno opposto.

3.– Le due ordinanze di rimessione censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I relativi giudizi vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza.

4.– Il giudice a quo solleva le ricordate questioni di legittimità costituzionale dopo aver individuato, sulla base di un’univoca interpretazione testuale, il significato normativo della disposizione censurata, e dopo aver precisato che una diversa lettura è impedita proprio dal suo tenore letterale.

Al lume della giurisprudenza costituzionale, va preliminarmente sottolineato che questo iter argomentativo, percorso in entrambe le ordinanze, è corretto e consente l’accesso al merito. Infatti, questa Corte afferma in modo ormai costante che, laddove il rimettente abbia considerato la possibilità di un’interpretazione idonea a eliminare il dubbio di legittimità costituzionale, e l’abbia motivatamente scartata, la valutazione sulla correttezza dell’opzione ermeneutica prescelta riguarda non già l’ammissibilità della questione sollevata, bensì il merito di essa (ex multis, sentenze n. 50 e n. 11 del 2020, n. 241 e n. 189 del 2019, sentenza n. 135 del 2018).

5.– Con la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), contenente un ampio ventaglio di interventi nella materia evocata dal titolo della legge stessa, appunto la sicurezza pubblica, è stata profondamente incisa anche la disciplina recata dall’art. 41-bis ordin. penit., attraverso una serie di modifiche volte chiaramente a irrigidire il regime carcerario speciale.

Per la parte che qui particolarmente interessa, il comma 2-quater dell’art. 41-bis è stato modificato, eliminandosi ogni discrezionalità nella applicazione delle condizioni detentive speciali come è fatto palese dal tenore letterale della disposizione, secondo cui il provvedimento ministeriale di sospensione delle regole di trattamento carcerario «prevede», e non più «può prevedere», le misure dettagliate alle successive lettere (salvo quanto disposto dalla lettera a del medesimo comma, di cui si dirà più avanti al punto 8). La novella, in sostanza, elenca una serie di misure specifiche, che costituiscono il contenuto tipico e necessario del regime speciale (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). Dette misure, frutto di una valutazione svolta in via generale, ex ante, dal legislatore, devono perciò essere obbligatoriamente applicate a tutti i detenuti sottoposti a tale regime.

Tra le misure in questione figurano quelle disposte alla lettera f) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ordin. penit., oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale. Esse, pur assicurando anche ai detenuti in questione indispensabili momenti e forme di “socialità” intramuraria, circoscrivono queste relazioni all’interno di gruppi ristretti, costituiti da non più di quattro persone, limitandone altresì la durata massima.

I gruppi di socialità rappresentano la modalità prescelta dal legislatore per conciliare, da una parte, la finalità essenziale del regime differenziato (evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con le organizzazioni criminali di riferimento) e, dall’altra, l’esigenza di garantire le accennate forme indispensabili di socialità.

In questa chiave, è soprattutto fatto carico all’amministrazione penitenziaria di adottare «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti».

La disposizione ha dunque l’obbiettivo essenziale di mantenere gli incontri intramurari all’interno di determinati “gruppi di socialità”, e di evitare invece contatti tra detenuti appartenenti a gruppi diversi. La composizione di ciascun singolo gruppo, sempre opportunamente modificabile secondo le esigenze che via via si presentino, è governata da complessi criteri (attualmente previsti al punto 3.1 della circolare del 2 ottobre 2017, n. 3676/6126, del DAP), ispirati alla necessità di evitare ogni occasione di rafforzamento delle consorterie criminali, nonché ogni possibilità che vengano scambiati con l’esterno ordini, informazioni e notizie.

Per questo, come si è detto, contenuto essenziale della citata lettera f) è la «assoluta impossibilità di comunicare fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità», sul presupposto che, invece, una inevitabile relazione comunicativa possa svilupparsi fra i detenuti che al medesimo gruppo di socialità siano assegnati.

Tuttavia, nella lettura del rimettente, assume distinto rilievo anche l’ulteriore divieto, relativo allo scambio di oggetti. Sintatticamente e morfologicamente separato dal primo, esso assume un significato non già servente e accessorio al divieto di comunicazioni tra detenuti assegnati a gruppi diversi, ma una portata normativa autonoma, con efficacia per tutti i detenuti soggetti al regime speciale, pur se appartenenti al medesimo gruppo di socialità, impedendo perciò lo scambio di oggetti anche tra i detenuti già autorizzati a trascorrere insieme, all’interno del carcere, alcune ore della giornata.

Per vero, tale distinta portata non fu oggetto di esame nei lavori preparatori della ricordata legge n. 94 del 2009, e la stessa prima circolare DAP successiva a tale legge (4 agosto 2009, n. 286202, recante la disciplina dell’«[o]rganizzazione delle sezioni detentive adibite al contenimento di detenuti sottoposti al regime detentivo speciale») fornì una parafrasi non testuale della disposizione censurata, evidenziando la necessità di assicurare «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Sta di fatto, però, ed è quel che conta, che la giurisprudenza di legittimità (a partire da Cassazione penale, sezione prima penale, 8 febbraio 2017, n. 5977) si è in seguito attestata sulla lettura accolta dalle ordinanze di rimessione, nel senso che «il divieto di scambio di oggetti ha portata generale e che, pertanto, non è ammessa una diversa interpretazione che ne restringa l’ambito applicativo al caso di eterogeneità dei gruppi di socialità» (così, in particolare, Cassazione penale, sezione prima penale, 16 settembre 2019, n. 38223).

6.– Della disposizione così ricostruita nel suo significato normativo va pertanto vagliata la legittimità, alla luce dei parametri costituzionali evocati dal rimettente.

Si tratta, così, di accertare se il divieto legislativo di scambiare oggetti, in quanto necessariamente applicato anche ai detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità, determini effetti congrui e proporzionati, sia rispetto alle finalità del regime stesso, sia ai limiti cui è soggetta la sua applicazione, quali delineati dalla costante giurisprudenza di questa Corte.

Quanto alle finalità, il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 376 del 1998; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998).

Ciò che l’applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare è che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando l’ordinaria disciplina trattamentale, possano continuare (utilizzando particolarmente, in ipotesi, i colloqui con familiari o terze persone) a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa (ancora sentenze n. 186 del 2018, n. 122 del 2017 e n. 143 del 2013).

Quanto ai limiti cui soggiace l’applicazione del regime differenziato, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che, in base all’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., è possibile sospendere solo l’applicazione di regole e istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le richiamate esigenze di ordine e sicurezza. Correlativamente, ha affermato non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, non siano riconducibili a quelle concrete esigenze, poiché si tratterebbe in tal caso di misure palesemente incongrue o inidonee rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato. Se ciò accade, non solo le misure in questione non risponderebbero più al fine in vista del quale la legge consente siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, «divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996).

7.– Questa verifica, operata sulla disposizione censurata, fornisce esito negativo, sicché le sollevate questioni risultano fondate, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

In lesione dell’art. 3 Cost., il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno. In queste condizioni, non è giustificata la deroga – da tale divieto disposta – alla regola ordinariamente valida per i detenuti, che possono scambiare tra loro «oggetti di modico valore» (art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000), e la proibizione in parola finisce per assumere un significato meramente afflittivo, in violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.

Come meglio si dirà, infine, in ulteriore lesione dei parametri ricordati, il carattere non proporzionato del divieto in questione si evidenzia considerando la scelta legislativa di farne contenuto necessario del regime differenziato, da applicarsi – a prescindere dalle esigenze del caso concreto – ogni qualvolta sia disposto il provvedimento di assegnazione del detenuto al regime differenziato.

7.1.– Questa stessa Corte ha riconosciuto – peraltro, in riferimento al diverso divieto di scambiare con l’esterno libri e riviste, quale risultante dall’applicazione delle misure di cui alle lettere a) e c) del comma 2-quater dell’art. 41-bis – che «qualsiasi oggetto si presta astrattamente ad assumere – per effetto di una precedente convenzione, per la sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali tra le parti – un determinato significato comunicativo, quando non pure a fungere da sostituto “anomalo” dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno» (sentenza n. 122 del 2017).

Nel nostro caso, il significato simbolico o convenzionale insito nell’oggetto scambiato potrebbe efficacemente tradursi, in ipotesi, in una comunicazione da veicolare all’esterno, magari in occasione di un colloquio con familiari o (negli eccezionali casi in cui è consentito) terze persone.

A ben vedere, tuttavia, questa prima giustificazione non convince, proprio sul piano della sua congruità all’obbiettivo.

Il fatto è che i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità hanno varie occasioni di comunicare qualsiasi messaggio tra loro in forma orale, senza poter essere ascoltati, salve le casuali percezioni degli agenti comunque presenti per sorvegliare gli spazi comuni, e salve le specifiche captazioni o intercettazioni ambientali, che tuttavia devono essere appositamente autorizzate dall’autorità giudiziaria. In quelle stesse occasioni, pur essendo sottoposti a continua videosorveglianza, i detenuti ben possono inoltre scambiare comunicazioni in forma gestuale, dal significato non facilmente intelligibile.

Ciò accade nelle due ore giornaliere d’aria, nei cosiddetti “cortili passeggio”, ove è consentito svolgere esercizi fisici e portare solo pochissimi oggetti, per tipologie e quantità espressamente indicate. Accade altresì nelle comunicazioni da cella a cella, posto che, in base alle comuni regole del regime differenziato, le porte blindate delle camere di detenzione restano aperte dalle ore 7 alle ore 22 (d’estate) oppure fino alle ore 20 (d’inverno), e in questi orari ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità è consentito parlare tra loro, essendo le rispettive celle generalmente collocate non lontane l’una dall’altra.

È abitualmente prevista, poi, la predisposizione di “salette” – adibite a biblioteca, palestra e sala hobby – per l’attività in comune di tipo culturale, ricreativo e sportivo, possibile per un’ora al giorno (secondo le turnazioni stabilite dalla direzione d’istituto) e attraverso strumenti messi a disposizione dall’amministrazione.

I “cortili passeggio” e le “salette” vengono peraltro perquisiti ogni qualvolta esce e accede un gruppo, e anche nella saletta e nella palestra è consentito portare solo pochi oggetti, per tipologia e quantità espressamente indicate.

In tutte queste occasioni di socialità, anche a non voler considerare i messaggi (in ipotesi inascoltati) dal contenuto inequivocabile, è ben immaginabile che il più criptico significato simbolico o convenzionale di un oggetto scambiato possa essere agevolmente sostituito da un’esternazione orale o gestuale, apparentemente casuale, ma in realtà dal contenuto chiaro (solo) all’altro detenuto che ascolta od osserva.

In ultima analisi, vale per questa ipotetica giustificazione del divieto – impedire la trasmissione all’esterno del carcere di messaggi funzionali all’attività criminale dell’organizzazione malavitosa – un giudizio di incongruità rispetto allo scopo, cui non può non accompagnarsi, di conseguenza, la sottolineatura del carattere inutilmente e meramente afflittivo della misura.

È la stessa valutazione che questa Corte (sentenza n. 143 del 2013) ebbe a dare sui limiti di cadenza e di durata previsti dalla legge n. 94 del 2009 per i colloqui dei detenuti soggetti al regime differenziato con i propri difensori: non potendo, ovviamente, la disposizione cancellare del tutto quei colloqui, essa introduceva limiti suscettibili, bensì, di penalizzare la difesa, ma inutili a impedire, anche parzialmente, il temuto passaggio di direttive e informazioni tra il carcere e l’esterno. In quel caso – osservò la sentenza – alla indiscutibile compressione del diritto di difesa indotta dalla disposizione censurata, non corrispondeva un paragonabile incremento della tutela dell’interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini.

Anche in questo caso, in definitiva, alla certa compressione di una forma minima di socialità – estrinsecantesi, peraltro, nell’ambito di una cerchia assai ristretta di soggetti, e consistente nello scambio di cose di scarso valore e di immediata utilità, nella prospettiva di una (assai parziale) “normalità” di rapporti interpersonali – non corrisponde un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica.

Comprensibile se riferito a detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, il divieto in esame mostra la sua irragionevolezza se necessariamente applicato anche ai detenuti assegnati al medesimo gruppo.

7.2.– La valutazione non muta nemmeno a considerare l’altra possibile ratio dell’applicazione del divieto all’interno del medesimo gruppo di socialità, laddove cioè si ritenga che la proibizione si giustifichi al fine d’impedire che taluno degli appartenenti al gruppo possa acquisire, attraverso lo scambio di oggetti, una posizione di supremazia nel contesto penitenziario, simbolicamente significativa nell’ottica delle organizzazioni criminali e da comunicare, come tale, all’esterno del carcere.

Questa Corte (sentenza n. 186 del 2018) ha in effetti già affermato che il manifestarsi, all’interno del carcere, di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, deve essere impedito «attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario» e «non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti».

A tale proposito, la già ricordata regola generale, posta dall’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000, consente la cessione o lo scambio unicamente di beni di “modico valore”, sicché la possibilità di un utilizzo di beni di rilevante valore quale mezzo di accrescimento del potere in ambito carcerario è ragionevolmente da escludersi, già grazie all’applicazione della regola generale.

Nei giudizi a quibus, ad esempio, i beni che si intendevano scambiare con gli altri membri del gruppo di socialità consistevano in generi alimentari (zucchero, caffè et similia) o, comunque, di prima necessità (per l’igiene personale o la pulizia della cella) inviati dall’esterno – e quindi ulteriormente limitati ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), ordin. penit. – o acquistati al cosiddetto sopravvitto.

Osserva ancora l’Avvocatura generale dello Stato che lo scambio di oggetti può essere “imposto” all’interno del medesimo gruppo di socialità dal membro di maggiore caratura criminale, allo scopo di dimostrare, attraverso l’esercizio della capacità di costringere gli altri componenti a privarsi di beni essenziali e comunque posseduti in quantità limitata, la sua attitudine a mantenere, o rafforzare, la propria posizione di supremazia, creando “condizioni di sudditanza” all’interno del gruppo, anch’esse tanto più simbolicamente significative, nell’ottica delle organizzazioni criminali, in quanto comunicabili in varia forma all’esterno del carcere.

Anche a questo riguardo, tuttavia, l’applicazione delle regole penitenziarie specificamente dettate per i gruppi di socialità consente la costante osservazione dei gruppi e l’eventuale tempestiva modifica della loro composizione, che ben può essere suggerita proprio dalla rilevazione di un’anomala frequenza e unidirezionalità degli scambi.

In conclusione, la valutazione della ratio in parola non conduce a mutare le considerazioni già svolte, confermandosi anche sotto questo profilo la lesione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

8.– Così come non esiste un diritto fondamentale del detenuto sottoposto al regime differenziato a cuocere cibi (sentenza n. 186 del 2018), non esiste un suo diritto fondamentale a scambiare oggetti, nemmeno con i detenuti assegnati al suo stesso gruppo di socialità. E tuttavia, sia cuocere cibi, sia scambiare oggetti, sono facoltà dell’individuo, anche se posto in detenzione, che fanno parte di quei «piccoli gesti di normalità quotidiana» (ancora sentenza n. 186 del 2018), tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la libertà del detenuto stesso (analogamente, sentenza n. 349 del 1993, seguita dalle sentenze n. 20 e n. 122 del 2017 e n. 186 del 2018).

Pertanto, la compressione della possibilità di scambiare oggetti con gli altri detenuti del medesimo gruppo – espressione, questa, di una pur minimale facoltà di socializzazione – e la conseguente deroga all’applicazione delle regole ordinarie, potrebbe giustificarsi non in via generale e astratta, ma solo se esista, nelle specifiche condizioni date, la necessità in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini, e la motivata esigenza di prevenire – come recita l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera a), ordin. penit. – «contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate».

Da questo punto di vista, l’applicazione necessaria e generalizzata del divieto di scambiare oggetti anche ai detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, sconta il limite di essere frutto di un bilanciamento condotto ex ante dal legislatore, a prescindere, perciò, da una verifica in concreto dell’esistenza delle ricordate, specifiche, esigenze di sicurezza, e senza possibilità di adattamenti calibrati sulle peculiarità dei singoli casi.

È, in definitiva, la previsione ex lege del divieto assoluto a costituire misura sproporzionata, anche sotto questo profilo in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

Invece, anche dopo la presente sentenza di accoglimento, in forza della disposizione di cui alla lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, ordin. penit. – secondo cui la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 può comportare «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» – resterà consentito all’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, qualora concernenti oggetti di cui non sia consentita la detenzione durante i momenti di socialità, prevedendo in proposito una annotazione in appositi registri), nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni (con riferimento a certi oggetti che, più di altri, si prestano ad essere veicolo di comunicazioni difficilmente decifrabili, come già previsto, ad esempio, per il divieto – già disciplinato dalla citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 in via autonoma rispetto a quello, generale, qui censurato – di scambiare libri o copie parziali tra detenuti).

Naturalmente, tali limitazioni dovrebbero risultare giustificate da precise esigenze, da motivare espressamente, e sotto questi profili ben potrebbero essere sindacate, di volta in volta, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza, in attuazione di quanto disposto dagli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.

9.– In definitiva, il divieto di scambiare oggetti prescritto dalla norma censurata, se applicato necessariamente a detenuti assegnati al medesimo gruppo di socialità, viola gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Si giustifica perciò, ad opera di questa Corte, l’adozione di un dispositivo di accoglimento che riconduca la disposizione censurata entro i limiti del rispetto dei citati parametri costituzionali, ne elimini la necessaria applicazione anche ai detenuti che a tale medesimo gruppo siano assegnati, e ne circoscriva l’applicazione ai detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità.

L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2020.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2020.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

SENTENZA N. 96 ANNO 2020

Sentenza 96/2020 (ECLI:IT:COST:2020:96)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: CARTABIA - Redattore:  MODUGNO
Camera di Consiglio del 29/01/2020;    Decisione  del 11/02/2020
Deposito del 20/05/2020;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  Artt. 8, c. 1° e 3°, e 9, c. 1°, del decreto legislativo 15/01/2016, n. 8.
Massime: 
Atti decisi: ord. 101/2019
  

Pronuncia

SENTENZA N. 96

ANNO 2020


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Siracusa nel procedimento penale a carico di S. V., con ordinanza del 9 gennaio 2019, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2020.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 9 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di Siracusa ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848:

a) dell’art. 8, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui prevede l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 1, commi 1 e 5, del medesimo decreto legislativo ai fatti di cui all’art. 116, comma 15, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), anche se commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 8 del 2016, che li ha trasformati in illeciti amministrativi;

b) dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui dispone che ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale;

c) dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui stabilisce che, nei casi previsti dall’art. 8, comma 1, del medesimo decreto, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, per essersi posta alla guida di un motociclo senza aver conseguito la patente, nonché della contravvenzione di cui all’art. 75, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), per aver violato – commettendo il reato in precedenza indicato – gli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale applicata nei suoi confronti, e in particolare la prescrizione di vivere onestamente rispettando le leggi; fatti commessi il 22 gennaio 2013.

Il rimettente riferisce che il processo aveva subito, per varie ragioni, una serie di rinvii. Il 6 febbraio 2016 era entrato, peraltro, in vigore il d.lgs. n. 8 del 2016, che reca disposizioni in materia di depenalizzazione in attuazione dell’art. 2, comma 2, della legge delega 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili). L’art. 1, comma 1, del decreto prevede, in particolare, la trasformazione in illeciti amministrativi di tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, tra le quali rientra anche il reato di guida senza patente contestato all’imputato. In forza del comma 5, lettera b), del medesimo art. 1, per tale violazione si applica ora una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000.

L’art. 8 del d.lgs. n. 8 del 2016 prevede, altresì, al comma 1, che «[l]e disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili»; soggiungendo, al comma 3, che per tali violazioni «non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale».

Il successivo art. 9, comma 1, stabilisce, infine, che «[n]ei casi previsti dall’articolo 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data».

1.2.– Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni transitorie ora richiamate si porrebbero in contrasto con l’art. 76 Cost., per eccesso di delega.

Dalla relazione al d.lgs. n. 8 del 2016 emerge che il legislatore delegato – nella consapevolezza dell’assenza di una delega espressa che lo abilitasse ad adottare una normativa transitoria – ha ritenuto di poter introdurre la disciplina di cui agli artt. 8 e 9 traendo «decisiva ispirazione» dalle «già collaudate disposizioni» contenute negli artt. 100, 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205).

Il d.lgs. n. 507 del 1999 è stato, tuttavia, adottato in forza della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), la quale, all’art. 16, comma 1, lettera b), delegava espressamente il Governo a emanare «norme di carattere transitorio» (oltre che di attuazione e coordinamento). Di contro, la legge n. 67 del 2014, all’art. 2, comma 4, si limita a prevedere che i decreti legislativi contengano «le disposizioni necessarie al coordinamento con le altre norme legislative vigenti nella stessa materia», senza alcun riferimento alla disciplina transitoria.

Il silenzio della legge delega sul punto dovrebbe essere interpretato come indice della volontà del legislatore delegante di tener fermo il principio enunciato dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), per cui nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione: principio alla luce del quale – come chiarito dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione – nei casi di trasformazione di un illecito penale in illecito amministrativo, non è possibile, in assenza di un’apposita disciplina transitoria, applicare la nuova sanzione amministrativa ai fatti anteriormente commessi, con la conseguenza che il giudice penale non è tenuto a trasmettere gli atti all’autorità amministrativa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-28 giugno 2012, n. 25457).

1.3.– Le disposizioni denunciate violerebbero anche l’art. 25, secondo comma, Cost. «e/o» l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 7 CEDU, ponendosi in contrasto con il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.

Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, la natura penale di una sanzione, agli effetti degli artt. 6 e 7 della Convenzione, deve essere stabilita sulla base di criteri di tipo sostanziale, e non meramente formale (cosiddetti “criteri Engel”). Di là dalla qualificazione operata dal diritto interno, si deve, cioè, tener conto della natura dell’illecito, desunta dalle sue finalità e dall’ambito dei destinatari della previsione punitiva, nonché della gravità della sanzione cui l’autore del fatto si trova esposto.

Alla stregua di tali criteri, la nuova sanzione amministrativa introdotta dall’art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016 per la guida senza patente si connoterebbe come sostanzialmente penale. Essa è rivolta, infatti, alla generalità dei consociati; ha una finalità general-preventiva, e non certo riparatoria; è posta a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali la pubblica sicurezza e l’incolumità pubblica (mirando a garantire che si pongano alla guida dei veicoli i soli soggetti valutati come idonei sul piano psico-fisico e tecnico); risulta, infine, di significativa gravità.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 CEDU avrebbe, peraltro, mutato anche «la nozione di pena […] stabilita nel nostro ordinamento nazionale». Come rilevato dalla Corte costituzionale, da tale giurisprudenza si ricava, infatti, «il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione (“Nessuno può essere punito …”) – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (è citata la sentenza n. 196 del 2010).

La nuova sanzione introdotta dall’art. 1, commi 1 e 5, del d.lgs. n. 8 del 2016 – solo formalmente amministrativa, ma nella sostanza penale – resterebbe, dunque, soggetta ai principi di legalità e irretroattività valevoli per le sanzioni penali, ai sensi degli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU, i quali comportano che nel momento in cui è commesso il fatto debba esistere una disposizione che renda l’atto punibile e che la pena inflitta non debba superare i limiti fissati da tale disposizione.

Le norme censurate violerebbero i principi evocati, giacché, rendendo applicabile la nuova sanzione amministrativa per la guida senza patente anche ai fatti anteriormente commessi, ne avrebbero peggiorato il trattamento rispetto a quello concretamente applicabile sulla base della legge vigente al momento della loro realizzazione, alla luce del quale l’agente si è determinato a operare.

Tale risultato non sarebbe evitato dalla ricordata previsione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, secondo cui ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa di importo superiore «al massimo della pena originariamente inflitta per il reato», tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen. Nell’ambito di tale formula, il participio «inflitta» andrebbe inteso come sinonimo di «comminata» in astratto dal legislatore: rispetto alla pena applicata in concreto dal giudice non avrebbe, infatti, senso parlare di «massimo» o di «minimo». Di conseguenza, l’importo della sanzione amministrativa irrogabile per la guida senza patente non potrebbe superare euro 9.032, tale essendo il massimo edittale dell’ammenda stabilito dalla norma incriminatrice originaria.

Contrariamente a quanto si afferma nella relazione ministeriale, non si potrebbe, tuttavia, ritenere che tale previsione valga a salvaguardare «il principio di retroattività in mitius, pienamente realizzato dall’applicazione retroattiva delle più favorevoli sanzioni amministrative in luogo di quelle originarie penali».

In materia, non ci si potrebbe, infatti, arrestare alla considerazione per cui la sanzione amministrativa pecuniaria è, in linea di principio, più favorevole di una pena pecuniaria di pari importo, non potendo essere mai convertita – a differenza di questa – in pena limitativa della libertà personale, nel caso di mancato pagamento. Occorrerebbe, invece, valutare il rapporto tra sanzione penale e sanzione amministrativa in una «dimensione “qualitativa”», che tenga conto anche della situazione processuale e del contesto concreto in cui tali sanzioni si collocano.

In sede penale l’imputato può, infatti, evitare l’applicazione della sanzione tramite una serie di istituti, atti a determinare l’estinzione del reato o della pena, ovvero l’esclusione della punibilità: quali, ad esempio, la sospensione del processo con messa alla prova, la sospensione condizionale della pena, l’affidamento in prova al servizio sociale o l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Istituti tutti, quelli ora richiamati, riferibili – secondo il rimettente – alla tipologia di reato per il quale si procede, la cui pena edittale rientrava ampiamente nei relativi limiti di fruibilità, e che non trovano, invece, alcun equivalente in rapporto al nuovo illecito amministrativo.

In questa prospettiva, l’incidenza sul patrimonio di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 9.032 risulterebbe certamente maggiore di quella di un’ammenda, la cui applicazione sarebbe rimasta presumibilmente paralizzata dalla sospensione condizionale o da altri istituti.

La chiara formulazione letterale delle disposizioni censurate precluderebbe, d’altronde, una loro interpretazione in senso costituzionalmente e convenzionalmente conforme.

1.4.– Le questioni sarebbero, altresì, rilevanti nel giudizio a quo.

Il giudice rimettente si troverebbe, infatti, a dover applicare l’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, che gli impone di trasmettere gli atti all’autorità amministrativa, sul presupposto della retroattività delle nuove sanzioni, stabilita dal precedente art. 8: obbligo che verrebbe invece meno nel caso di accoglimento delle questioni. Quest’ultimo influirebbe, pertanto, sulla stessa formulazione del dispositivo della sentenza che definisce il giudizio, il quale si esaurirebbe nella sola assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce più reato.

Non verrebbe in considerazione, in senso contrario, il disposto dell’ultima parte dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, secondo cui l’obbligo di trasmissione resta escluso allorché, alla data di entrata in vigore del decreto (6 febbraio 2016), il reato risulti prescritto o estinto per altra causa. Il reato di guida senza patente contestato all’imputato si è, infatti, prescritto – tenuto conto dei periodi di sospensione del decorso della prescrizione connessi a taluni dei rinvii disposti – solo il 14 ottobre 2018, e dunque successivamente alla predetta data.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

Secondo l’interveniente, il giudice a quo avrebbe prospettato esclusivamente dubbi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni che rendono retroattivamente applicabili sanzioni amministrative pecuniarie per fatti già previsti come reato. L’applicazione di tali disposizioni è peraltro demandata, non già al giudice penale – il quale dovrebbe limitarsi a dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato –, ma soltanto all’autorità amministrativa, nonché, eventualmente, all’autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi in sede di opposizione contro i provvedimenti sanzionatori della prima. Pertanto, unicamente il giudice dell’opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio amministrativo potrebbe, semmai, denunciare i vizi di legittimità costituzionale oggi prospettati.

Il rimettente non avrebbe indicato, per altro verso, le ragioni che lo inducono a ritenere non conforme a Costituzione la disposizione dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016.


Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Siracusa dubita della legittimità costituzionale di tre disposizioni a carattere transitorio contenute nel decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), e segnatamente:

a) dell’art. 8, comma 1, nella parte in cui prevede che la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 1, commi 1 e 5, si applichi ai fatti di guida senza patente di cui all’art. 116, comma 15, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) anche se commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 8 del 2016, che li ha trasformati in illeciti amministrativi;

b) dell’art. 8, comma 3, nella parte in cui dispone che ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale;

c) dell’art. 9, comma 1, nella parte in cui stabilisce che, nei casi previsti dall’art. 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.

Secondo il giudice a quo, le disposizioni censurate violerebbero l’art. 76 della Costituzione, per eccesso di delega. La legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), sulla cui base il d.lgs. n. 8 del 2016 è stato emanato, non conteneva, infatti, alcuna delega espressa per l’adozione di norme transitorie, come sarebbe stato invece necessario ai fini dell’introduzione di una disciplina derogatoria rispetto al principio generale di irretroattività delle sanzioni amministrative, stabilito dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).

Sarebbero violati, altresì, gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, che sanciscono il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole: principio da ritenere riferibile anche alla nuova sanzione amministrativa per la guida senza patente, in ragione del suo carattere sostanzialmente penale alla stregua dei criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’applicazione della pena dell’ammenda, prevista dalla norma incriminatrice vigente al momento della commissione del fatto, poteva essere, infatti, evitata tramite una serie di istituti, atti a determinare l’estinzione del reato o della pena, ovvero la non punibilità dell’agente (quali – secondo il rimettente – la sospensione del processo con messa alla prova, la sospensione condizionale della pena, l’affidamento in prova al servizio sociale o l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto): istituti tutti viceversa inoperanti rispetto alla nuova sanzione amministrativa pecuniaria, la quale si rivelerebbe, di conseguenza, concretamente più afflittiva.

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha formulato due eccezioni preliminari.

2.1.– In primo luogo, ha sostenuto che le questioni, sollevate nell’ambito del processo penale instaurato per una violazione poi depenalizzata, sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza, non dovendo il giudice a quo fare applicazione delle norme censurate.

Le questioni sarebbero volte, infatti, a censurare la retroattività delle sanzioni amministrative introdotte dal d.lgs. n. 8 del 2016 per gli illeciti depenalizzati. Ma competente ad applicare tali sanzioni è l’autorità amministrativa: il giudice penale non dovrebbe far altro che assolvere l’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Sarebbe, semmai, il giudice dell’opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio amministrativo a dover denunciare i vizi di legittimità costituzionale oggi prospettati.

L’eccezione è infondata.

Questa Corte si è già pronunciata sul punto con la sentenza n. 109 del 2017, in sede di scrutinio di questioni di legittimità costituzionale, parzialmente analoghe alle odierne, degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, anch’esse sollevate da un giudice penale.

Al riguardo, si è osservato che «[l]e norme sospettate d’illegittimità costituzionale sono applicabili nel giudizio principale, in quanto l’obbligo – gravante sul giudice a quo – di disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente, previsto dall’art. 9 del citato decreto legislativo (e, in particolare, dai commi 1 e 3, rilevanti nel caso di specie), rinviene la sua giustificazione proprio nella retroattività delle sanzioni amministrative prevista, in generale, dall’art. 8».

Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dello Stato, l’accoglimento delle questioni risulterebbe, dunque, rilevante nel giudizio a quo, determinando il venir meno dell’obbligo di trasmissione degli atti che altrimenti grava sul giudice rimettente.

2.2.– Infondato appare anche l’eccepito difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, connesso al fatto che il rimettente non avrebbe indicato le ragioni per le quali ritiene non conforme a Costituzione il citato art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016.

L’obbligo di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa, stabilito da tale disposizione, “fa corpo” con l’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative ai fatti pregressi, prevista dall’art. 8, rappresentandone la naturale conseguenza. Le censure mosse a quest’ultima previsione si riverberano, pertanto, automaticamente su di esso, senza che risulti necessaria una ulteriore e specifica motivazione della sua denunciata non conformità alla Carta costituzionale.

3.– Ciò posto, con i quesiti di costituzionalità formulati, il Tribunale di Siracusa sottopone novamente a questa Corte la complessa tematica della cosiddetta successione impropria tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative, originata dagli interventi di depenalizzazione.

3.1.– I molteplici provvedimenti, generali o settoriali, di trasformazione di reati in illeciti amministrativi, che da oltre un quarantennio si susseguono nel nostro ordinamento, hanno generato, in effetti, un interrogativo ricorrente: quale sia, cioè, la sorte dei fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge depenalizzatrice.

Esclusa pacificamente l’ultrattività delle vecchie sanzioni penali, perché abolite (art. 2, secondo comma, cod. pen.), l’alternativa ermeneutica che si è posta è se – in assenza di un’apposita disciplina transitoria – i fatti pregressi debbano ritenersi soggetti alle nuove sanzioni amministrative o restino, invece, esenti da qualsiasi sanzione.

In contrasto con l’indirizzo già adottato sullo specifico tema dalle sezioni civili della Corte di cassazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenze 12 ottobre 2007, n. 21483; 18 gennaio 2007, n. 1078; 16 maggio 2006, n. 11406), le sezioni penali della medesima Corte – escludendo che possa ravvisarsi una “continuità” tra il vecchio illecito penale e il nuovo illecito amministrativo – si sono orientate, in modo largamente prevalente, a favore della seconda soluzione (quella della completa impunità dei fatti pregressi). Ciò, sia alla luce del principio di legalità enunciato dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, che impedisce di applicare le sanzioni amministrative a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte; sia in ragione della ritenuta impossibilità di estendere al fenomeno considerato il principio di retroattività della legge più favorevole al reo, di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen., trattandosi di principio circoscritto alla successione di leggi entrambe penali.

Tale orientamento, già recepito dalle sezioni unite penali con una pronuncia del 1994 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 16 marzo-27 giugno 1994, n. 7394), può considerarsi allo stato consolidato, dopo che esso è stato più di recente ribadito dal medesimo consesso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-28 giugno 2012, n. 25457).

L’esito della totale impunità dei fatti pregressi – postulato dalla giurisprudenza di legittimità penale sulla base delle coordinate generali del sistema vigente – può porre, però, sul piano sostanziale, problemi di coerenza con la ratio dell’intervento di depenalizzazione.

Diversamente, infatti, che nel caso della mera abolitio criminis, nel caso della depenalizzazione il legislatore continua indubbiamente ad annettere un disvalore alla condotta, tale da giustificare tuttora la sua punizione, sia pure con una sanzione di grado inferiore (amministrativa, anziché penale). Ciò non vale a spiegare perché chi ha commesso il fatto quando era represso in modo (tendenzialmente) più severo debba rimanere totalmente impunito, laddove invece chi lo commette quando è punito in modo (tendenzialmente) più mite soggiace, comunque sia, a una sanzione.

Proprio per scongiurare un simile risultato è divenuta, quindi, prassi ricorrente quella di corredare gli interventi di depenalizzazione con un’apposita disciplina transitoria, volta a rendere applicabili le nuove sanzioni amministrative, da essi introdotte per gli illeciti depenalizzati, anche ai fatti anteriori. Questa soluzione è stata, in fatto, ripetutamente adottata in occasione del varo di provvedimenti di depenalizzazione a carattere generale, a cominciare dal primo (art. 15 della legge 24 dicembre 1975, n. 706, recante «Sistema sanzionatorio delle norme che prevedono contravvenzioni punibili con l’ammenda») e poi seguito da altri (artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981; art. 4 della legge 28 dicembre 1993, n. 561, recante «Trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi»; artt. 100, 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205»).

3.2.– Alla medesima strategia si uniforma anche il d.lgs. n. 8 del 2016, oggetto dell’odierno scrutinio.

Tale decreto legislativo – adottato sulla base della delega conferita dall’art. 2 della legge n. 67 del 2014 – attua una depenalizzazione ad ampio spettro, che investe tutti i reati previsti da leggi speciali per i quali è comminata la sola pena pecuniaria (cosiddetta “depenalizzazione cieca”: art. 1), nonché una serie di reati, anche del codice penale, individuati singulatim (cosiddetta “depenalizzazione nominativa”: artt. 2 e 3).

Per quanto interessa ai presenti fini, la “depenalizzazione cieca” ha determinato la trasformazione in illecito amministrativo, tra gli altri, del reato di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, per il quale si procede nel giudizio a quo. La guida di veicoli in difetto del prescritto titolo abilitativo, precedentemente punita con la sola ammenda da 2.257 a 9.032 euro, è ora soggetta – in forza dell’art. 1, comma 5, lettera b), del d.lgs. n. 8 del 2016 – alla sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro (salvi i successivi aggiornamenti disposti ai sensi dell’art. 195 cod. strada).

L’intervento di depenalizzazione è accompagnato, anche in questo caso, da una disciplina transitoria, recata segnatamente dagli artt. 8 e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016: disciplina contro la quale si rivolgono le censure del rimettente.

L’art. 8, comma 1, stabilisce, in particolare, che «[l]e disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili».

Il successivo comma 3 dello stesso art. 8 pone, peraltro, un limite all’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative ai fatti anteriori, inteso a mantenere tale previsione nella logica del principio di retroattività della lex mitior, evitando che da essa possano viceversa sortire effetti peggiorativi del trattamento sanzionatorio. In quest’ottica, si prevede che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie».

Come correttamente rilevato dal giudice a quo, nell’ambito della formula «massimo della pena originariamente inflitta per il reato» il participio «inflitta» non può che essere inteso come sinonimo di «comminata» in astratto dal legislatore: rispetto a una pena ormai determinata in concreto dal giudice non avrebbe, infatti, senso parlare di «massimo» e di «minimo». Di conseguenza, i fatti di guida senza patente anteriori al decreto di depenalizzazione restano soggetti a una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 9.032, tale essendo il massimo edittale della vecchia ammenda.

L’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016 – ponendosi anch’esso nel solco di molteplici precedenti provvedimenti di depenalizzazione – stabilisce, infine, che «[n]ei casi previsti dall’articolo 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data». Le relative modalità procedurali sono regolate dai successivi commi 2 e 3: in particolare, nel caso in cui l’azione penale sia già stata esercitata – come nel giudizio a quo – il giudice pronuncia, ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1 (comma 3).

4.– Il giudice a quo muove alla disciplina transitoria ora ricordata – nelle parti indicate in principio – due ordini di censure.

La prima attiene alla violazione dell’art. 76 Cost., per eccesso di delega.

4.1.– Il rimettente rileva che la legge n. 67 del 2014 non conteneva alcuna delega espressa per l’adozione di una normativa transitoria: delega da ritenere viceversa necessaria – anche alla luce degli arresti delle sezioni unite penali della Corte di cassazione precedentemente ricordati – affinché il legislatore delegato potesse introdurre una disciplina derogatoria del principio generale di irretroattività delle sanzioni amministrative, stabilito dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981.

L’argomento è corroborato con la considerazione che, nella relazione allo schema di decreto delegato, si afferma che le norme censurate traggono «decisiva ispirazione» da quelle contenute in un precedente decreto di depenalizzazione: segnatamente, gli artt. 100, 101 e 102 del d.lgs. n. 507 del 1999. Ma, in quel caso, la normativa transitoria era espressamente autorizzata dalla legge di delegazione (art. 16, comma 1, lettera b, della legge 25 giugno 1999, n. 205, recante «Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario»).

4.2.– La questione non è fondata.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 212 del 2018; in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 194 del 2015, n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014, n. 98 del 2008).

In questa prospettiva, neppure il silenzio del legislatore delegante su uno specifico tema impedisce al legislatore delegato di disciplinarlo (sentenze n. 47 del 2014 e n. 134 del 2013), trattandosi in tal caso di verificare che le scelte di quest’ultimo non siano in contrasto con gli indirizzi generali della legge delega (sentenze n. 229 del 2014, n. 184 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010 e n. 341 del 2007; ordinanza n. 231 del 2009).

4.3.– Nella specie, dalla relazione allo schema del d.lgs. n. 8 del 2016 emerge come il legislatore delegato si sia espressamente posto il problema di stabilire se l’assenza, nella legge delega, di riferimenti alla normativa transitoria dovesse essere interpretata come indice della volontà del legislatore delegante di lasciare che la sorte dei fatti pregressi fosse regolata dagli artt. 2 cod. pen. e 1 della legge n. 689 del 1981, con il risultato di renderli non più sanzionabili, conformemente a quanto affermato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione.

Tale ipotesi interpretativa è stata, peraltro, scartata alla luce di tre argomenti: la contrarietà di un simile assetto alle esigenze sostanziali di tutela e di parità di trattamento; l’omogeneità tra l’illecito penale e l’illecito amministrativo, predicata dalla più recente giurisprudenza costituzionale, atta a rendere operante, nel caso di loro successione, il principio di retroattività della lex mitior; la circostanza che il silenzio del legislatore delegante non assumesse un significato univoco, stante la disciplina transitoria presente in altri provvedimenti di depenalizzazione.

Il convincimento espresso dal legislatore delegato è meritevole di avallo. Le disposizioni transitorie licenziate dal Governo, sulla scia dei precedenti legislativi, non contrastano con gli indirizzi generali della legge delega: esse costituiscono, all’opposto, un coerente sviluppo e completamento delle scelte del delegante. Per quanto dianzi osservato, evitare che si produca una completa impunità dei fatti pregressi risponde alla logica degli interventi di depenalizzazione, trattandosi di esito contrario alla ratio legis, che è quella di modificare in senso (tendenzialmente) mitigativo – e non già di eliminare – la sanzione per un fatto che resta, comunque sia, illecito.

La conclusione trova conforto, d’altra parte, anche nei pareri espressi dalle commissioni parlamentari sullo schema di decreto. Come più volte rilevato da questa Corte, il parere delle Commissioni parlamentari non è vincolante, né esprime interpretazioni autentiche della legge delega, ma costituisce pur sempre elemento che contribuisce alla corretta esegesi di quest’ultima (sentenze n. 127 del 2017 e n. 250 del 2016; analogamente, sentenze n. 79 del 2019 e n. 47 del 2014).

Nella specie, mentre la Commissione giustizia del Senato della Repubblica nulla ha eccepito sulle norme transitorie in discussione – benché il problema del loro raccordo con la legge di delegazione fosse stato specificamente posto in evidenza dal Governo –, la Commissione giustizia della Camera dei deputati ha addirittura suggerito modifiche intese a migliorare la formulazione delle norme stesse sul piano tecnico: dando mostra, così, di ritenerle pienamente comprese nella delega.

Di qui, dunque, l’infondatezza della questione.

5.– Il rimettente denuncia, in secondo luogo, la violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. e dall’art. 7 CEDU, quale norma interposta rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.

5.1.– Secondo il giudice a quo, entrambi i parametri evocati – quello convenzionale e quello costituzionale – sarebbero pertinenti alla fattispecie.

Da un lato, infatti, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal d.lgs. n. 8 del 2016 per la guida senza patente si connoterebbe come sostanzialmente penale alla luce dei “criteri Engel”, elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al fine di perimetrare il campo applicativo degli artt. 6 e 7 della Convenzione. La sanzione è, infatti, rivolta alla generalità dei consociati; ha una finalità general-preventiva, e non già riparatoria; è posta a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali la pubblica sicurezza e l’incolumità pubblica; risulta, infine, di significativa gravità.

Dall’altro lato, poi, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito che il principio dell’irretroattività enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. deve ritenersi valevole in rapporto non alla sola materia penale in senso stretto, ma alla generalità delle misure a carattere punitivo-afflittivo.

Le norme censurate non sarebbero, tuttavia, rispettose del principio in questione. Nonostante l’accorgimento adottato nell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, la disposta retroattività delle sanzioni amministrative di nuovo conio avrebbe comportato una modifica in senso peggiorativo del trattamento della guida senza patente, rispetto a quello prefigurato dalla legge vigente al tempo della commissione del fatto. In ambito penale, la vecchia pena dell’ammenda poteva essere, infatti, neutralizzata tramite una serie di istituti, atti a determinare l’estinzione del reato o della pena, o a escludere la punibilità: istituti che non trovano corrispondenza in rapporto alla sanzione amministrativa, la cui concreta incidenza sul patrimonio dell’autore della violazione risulterebbe, dunque, sicuramente maggiore.

5.2.– In via preliminare, va rilevato che, con riguardo alla censura in esame, non ricorre la ragione che ha indotto questa Corte a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 109 del 2017, una questione analoga, relativa alle stesse norme, ma che vedeva evocato come parametro il solo art. 25 Cost.

In quell’occasione, movendo dalla premessa che l’art. 25 Cost. si applichi unicamente alla materia penale, il giudice rimettente aveva evocato i “criteri Engel” per estendere la norma costituzionale interna alle sanzioni amministrative, anziché utilizzarli solo per dedurre una violazione dell’art. 7 CEDU e quindi, indirettamente, dell’art. 117, primo comma, Cost. Di qui, dunque, la declaratoria di inammissibilità della questione, per contraddittorietà del percorso argomentativo che la supportava.

Analoga contraddizione non è ravvisabile nell’odierno frangente.

Il Tribunale di Siracusa, da un lato, evoca come parametro anche l’art. 117, primo comma, Cost.; dall’altro, richiama la giurisprudenza di questa Corte – allo stato, come si dirà, costante – secondo la quale il principio di irretroattività in peius stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost. si applica anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo.

5.3.– Le odierne questioni sono, tuttavia, inammissibili per una diversa ragione.

Al riguardo, giova ricordare come, per un lungo periodo, la previsione dell’applicazione retroattiva della nuova disciplina sanzionatoria amministrativa, solitamente presente nei provvedimenti di depenalizzazione, non avesse suscitato particolari problemi dal punto di vista costituzionale. Predominava, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte, l’orientamento in forza del quale le garanzie previste dall’art. 25 Cost. – compresa quella del divieto di retroattività sfavorevole – dovevano ritenersi limitate alla sola materia penale, non risultando perciò riferibili alle sanzioni amministrative, ancorché frutto di interventi di depenalizzazione, il cui statuto garantistico doveva essere ricavato da altre disposizioni, quali gli artt. 23 e 97 Cost. (con specifico riguardo al principio di irretroattività, sentenza n. 68 del 1984; sotto altri profili, sentenze n. 356 del 1995, n. 118 del 1994 e n. 447 del 1988; ordinanze n. 150 del 2002, n. 159 del 1994 e n. 250 del 1992).

Il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative, in quanto stabilito solo a livello di legislazione ordinaria dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, avrebbe potuto essere, pertanto, all’occorrenza derogato dal legislatore. Prospettiva nella quale non sembrava assumere particolare risalto, sul piano costituzionale, l’eventualità che la disciplina transitoria di cui si va discorrendo potesse determinare, in concreto, un peggioramento del trattamento sanzionatorio dell’autore del fatto pregresso (nel senso della manifesta infondatezza, per inconferenza del parametro, di una questione di legittimità costituzionale strutturalmente simile alle odierne, concernente proprio il trattamento sanzionatorio della guida senza patente, ordinanza n. 150 del 2002).

5.4.– A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, questa Corte ha, tuttavia, riconosciuto che il duplice divieto insito nella previsione dall’art. 25, secondo comma, Cost. – di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante e di applicazione retroattiva di una legge che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato (sentenza n. 223 del 2018) – si presta ad essere esteso, data l’ampiezza della sua formulazione («[n]essuno può essere punito […]»), alle misure a carattere punitivo-afflittivo, anche se qualificate come amministrative. Ciò, in assonanza con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, riguardo alla nozione di «materia penale» agli effetti dell’art. 7 CEDU: indicazioni a loro volta suscettibili di assumere autonomo rilievo costituzionale interno attraverso la “mediazione” dell’art. 117, primo comma, Cost.

Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo «si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto» (sentenza n. 223 del 2018; sulla riferibilità del principio di irretroattività, stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost., alle sanzioni amministrative a carattere punitivo, altresì, sentenze n. 68 del 2017 e n. 104 del 2014; e, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019).

5.5.– In questo nuovo panorama, è emerso quindi il problema della legittimità della normativa transitoria collegata agli interventi di depenalizzazione, in ragione della possibilità che la prevista applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative determini una modifica in peius del trattamento sanzionatorio del fatto.

Occupandosi del tema in rapporto ad altra ipotesi di depenalizzazione, attinente specificamente al settore degli abusi di mercato, questa Corte ha rilevato che, nel caso particolare della successione della norma sanzionatoria amministrativa a una norma penale, la previsione dell’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni è di solito compatibile con la Costituzione. Normalmente essa implica, infatti, l’applicazione di un trattamento, non già più severo, ma più mite di quello previsto al momento del fatto. La sanzione penale si caratterizza, infatti, «sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa». La pena possiede, inoltre, «un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa» (sentenza n. 223 del 2018).

La presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo, sottesa alla disciplina transitoria in questione, deve intendersi, tuttavia, come meramente relativa, rimanendo aperta la possibilità di dimostrare che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione – considerato nel suo complesso (sentenza n. 68 del 2017) – risulta in concreto più gravoso di quello previgente: ipotesi nella quale la disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione ai fatti pregressi verrebbe a porsi in contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 223 del 2018).

In quest’ottica, spetta peraltro al giudice a quo il compito di «accertare e adeguatamente motivare» (sentenza n. 68 del 2017), «caso per caso» (sentenza n. 223 del 2018), la sussistenza della condizione dianzi indicata: rimanendo, in difetto, la questione sollevata inammissibile (sentenza n. 68 del 2017).

5.6.– L’onere ora indicato non risulta convenientemente assolto dall’odierno rimettente.

Nel sostenere che la disciplina censurata avrebbe peggiorato il trattamento sanzionatorio della guida senza patente, malgrado il limite quantitativo posto dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, il Tribunale siciliano attribuisce decisivo rilievo alla circostanza che la vecchia pena dell’ammenda, diversamente dalla nuova sanzione amministrativa pecuniaria, poteva essere “neutralizzata” tramite una serie di istituti, atti a produrre l’estinzione del reato o della pena o la non punibilità dell’agente: quali, in specie, la sospensione del procedimento con messa alla prova, la sospensione condizionale, l’affidamento in prova al servizio sociale e l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.

Il giudice a quo non si premura, però, di verificare se gli istituti richiamati fossero concretamente applicabili nel caso di specie.

Non sembra potesse esserlo la sospensione del procedimento con messa alla prova (il cui esito positivo estingue il reato, a norma dell’art. 168-ter cod. pen.). Dall’ordinanza di rimessione non consta, infatti, che l’imputato abbia presentato alcuna istanza di messa alla prova nel termine prescritto (ossia prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, trattandosi di procedimento a citazione diretta: art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen.).

Eccentrico appare, per altro verso, il riferimento all’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (il cui esito positivo estingue la pena ai sensi dell’art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»), trattandosi di misura alternativa alla detenzione: dunque, di per sé inapplicabile in rapporto a un reato punito con la sola ammenda, quale quello di cui si discute.

Il giudice a quo non precisa, ancora, se nel caso di specie – concernente la guida senza patente di un motociclo da parte di una persona sottoposta, in quel momento, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale – vi fossero concreti elementi per ritenere il fatto non punibile in ragione della sua particolare tenuità, nei termini indicati dall’art. 131-bis cod. pen.

Neppure, infine, il rimettente specifica se l’imputato fosse concretamente in grado di fruire della sospensione condizionale della pena, avuto riguardo all’assenza di precedenti ostativi e alla possibilità di formulare una prognosi favorevole riguardo alla sua astensione dalla futura commissione di ulteriori reati.

A prescindere, quindi, da ogni altro possibile rilievo, sia riguardo all’effettiva validità della tesi del giudice a quo (secondo cui una sanzione amministrativa pecuniaria sarebbe, in ogni caso, deteriore rispetto a una pena pecuniaria di pari importo condizionalmente sospendibile o altrimenti neutralizzabile), sia in ordine alla coerenza con il suo percorso argomentativo del risultato che conseguirebbe alla richiesta ablazione, pura e semplice, delle norme censurate (la sottrazione a ogni sanzione degli autori dei fatti anteriori), il riscontrato difetto di motivazione sui punti considerati preclude lo scrutinio di merito delle questioni, rendendole inammissibili.


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 febbraio 2020.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2020.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA