Ordinanza 284/2013

Ordinanza  284/2013
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore CRISCUOLO
Udienza Pubblica del 05/11/2013    Decisione  del 20/11/2013
Deposito del 29/11/2013   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Artt. 17, c. 3°, 19, c. 3°, 20, c. 2°, 22, c. 2° e 3°, 28, c. 1°, 30, c. 3°, e 32, c. 3°, della legge della Regione Umbria 12/11/2012, n. 18.
Massime:
Atti decisi:ric. 5/2013

ORDINANZA N. 284
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 17, comma 3; 19, comma 3; 20, comma 2; 22, commi 2 e 3; 28, comma 1; 30, comma 3, e 32, comma 3, della legge della Regione Umbria 12 novembre 2012, n. 18 (Ordinamento del servizio sanitario regionale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 14-16 gennaio 2013, depositato in cancelleria il 16 gennaio 2013 ed iscritto al n. 5 del registro ricorsi 2013.
Visto l’atto di costituzione della Regione Umbria;
udito nell’udienza pubblica del 5 novembre 2013 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
udito l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che con ricorso notificato a mezzo posta il 14-16 gennaio 2013 e depositato in cancelleria il 16 gennaio 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge della Regione Umbria 12 novembre 2012, n. 18 (Ordinamento del servizio sanitario regionale), pubblicata nel Bollettino Ufficiale Regione Umbria 15 novembre 2012, n. 50, edizione straordinaria;
che, in particolare, il ricorrente denuncia l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 3, di detta legge per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui disciplina l’elenco regionale dei candidati idonei alla nomina di direttore generale delle aziende sanitarie regionali, stabilendo che «La Giunta regionale ai fini della selezione dei candidati per l’inserimento nell’elenco degli idonei si avvale di una commissione costituita in prevalenza da esperti indicati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti dalla Regione medesima»;
che detta norma contrasterebbe con l’art. 3-bis, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), secondo il quale la commissione indicata dovrebbe essere costituita da esperti individuati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti, «di cui uno designato dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali»: nella parte in cui l’art. 17, comma 3, non prevede la partecipazione alla commissione dell’esperto designato dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali si configurerebbe un contrasto con la citata norma statale, da considerare quale principio fondamentale in materia di tutela della salute, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.;
che è poi dedotta l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 3, della legge reg. Umbria n. 18 del 2012, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui, in caso di revoca del direttore generale, affida alla Giunta regionale la competenza alla attribuzione di funzioni o alla nomina di un commissario straordinario;
che tale disposizione contrasterebbe con l’art. 3, comma 6, del d.lgs. n. 502 del 1992, secondo cui «In caso di vacanza dell’ufficio o nei casi di assenza o d’impedimento del direttore generale, le relative funzioni sono svolte dal direttore amministrativo o dal direttore sanitario su delega del direttore generale o, in mancanza di delega, dal direttore più anziano per età. Ove l’assenza o l’impedimento si protragga oltre sei mesi si procede alla sostituzione»;
che, infatti, la disposizione regionale, dettando una procedura difforme da quella statale in caso di vacanza dell’ufficio di direttore generale, si porrebbe contro i principi fondamentali della legislazione dello Stato in materia di tutela della salute;
che il ricorrente censura l’art. 20, comma 2, della legge reg. Umbria n. 18 del 2012, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui esclude le aziende ospedaliero-universitarie dall’applicazione delle norme sulla nomina e valutazione del direttore generale delle ASL, ponendosi in contrasto con la disciplina statale di cui agli artt. 3 e seguenti del d.lgs. n. 502 del 1992 e, quindi, con i principi fondamentali contenuti in tali norme;
che, in particolare, il contrasto sussisterebbe con l’art. 3-bis del menzionato decreto legislativo, come modificato dall’art. 4 del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 novembre 2012, n. 189, il quale dispone – per quanto concerne la nomina dei direttori generali delle aziende e degli enti del servizio sanitario regionale (e quindi anche delle aziende ospedaliero-universitarie) – che la Regione provveda «attingendo obbligatoriamente all’elenco regionale di idonei, ovvero agli analoghi elenchi delle altre regioni, costituiti previo avviso pubblico e selezione effettuata, secondo modalità e criteri individuati dalla regione, da parte di una commissione costituita dalla regione medesima in prevalenza tra esperti indicati da qualificate istituzioni scientifiche indipendenti, di cui uno designato dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»;
che la difesa statale denunzia, altresì, l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, commi 2 e 3, della legge regionale in questione, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., relativamente alla disciplina della composizione del collegio sindacale, rispettivamente, delle ASL e delle aziende ospedaliero-universitarie, composizione fissata in tre membri;
che tale previsione contrasterebbe con la normativa statale di riferimento, in quanto l’art. 3-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 e l’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517 (Disciplina dei rapporti tra servizio sanitario nazionale ed università, a norma dell’articolo 6 della legge 30 novembre 1998, n. 419), da considerare principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica, stabiliscono che i collegi sindacali dei suddetti organi sono costituiti da cinque membri, sicché le disposizioni censurate riducono sensibilmente il numero dei componenti statali nei collegi sindacali delle aziende sanitarie;
che, inoltre, i commi 2 e 3 dell’art. 22, prevedendo che uno dei tre componenti dei detti collegi sindacali sia «designato dallo Stato», senza specificare tuttavia che tale componente statale debba partecipare in rappresentanza del Ministero dell’economia e delle finanze, contrasterebbe con il principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica costituito dall’art. 16 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), che ha individuato come necessaria, negli organi collegiali di revisione contabile delle amministrazioni pubbliche, la presenza di un rappresentante del menzionato Ministero, al fine di dare attuazione alle prioritarie esigenze di controllo e di monitoraggio degli andamenti della finanza pubblica (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 122 del 2011, n. 370 del 2010 e n. 376 del 2003);
che è censurato, poi, l’art. 28, comma 1, della citata legge regionale, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui disciplina l’incarico di direttore di distretto, prevedendo che esso possa essere conferito dal direttore generale «ad un dirigente dell’azienda che abbia maturato una specifica esperienza nei servizi territoriali e un’adeguata formazione nella loro organizzazione»;
che tale disposizione contrasterebbe con l’art. 3-sexies, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, ai sensi del quale l’incarico in questione può essere attribuito ad «un medico convenzionato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, da almeno dieci anni, con contestuale congelamento di un corrispondente posto di organico della dirigenza sanitaria»;
che, ancora, è denunziato l’art. 30, comma 3 (recte: comma 4), della legge reg. Umbria n. 18 del 2012, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che al presidio ospedaliero sono preposti un dirigente medico e un dirigente amministrativo;
che detta disposizione contrasterebbe con l’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 1992, modificato dall’art. 15, comma 13, lettera f-bis), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, in forza del quale «nelle aziende ospedaliere, nelle aziende ospedaliero-universitarie di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 21 dicembre 1999, n. 517, e negli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici, costituiti da un unico presidio, le funzioni e i compiti del direttore sanitario […] e del dirigente medico di cui all’articolo 4, comma 9, del presidio ospedaliero sono svolti da un unico soggetto avente i requisiti di legge»;
che, pertanto, la disposizione regionale in esame, attribuendo al presidio ospedaliero due dirigenti in luogo dell’unico previsto dall’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 1992, verrebbe a porsi in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica;
che, infine, il Presidente del Consiglio dei ministri censura l’art. 32, comma 3, (recte: comma 1), della legge reg. Umbria n. 18 del 2012 per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui disciplina la figura del direttore del dipartimento di prevenzione;
che la norma denunziata prevede che detta figura professionale sia nominata dal direttore generale tra i “dirigenti” con almeno cinque anni di anzianità di funzione, così entrando in contrasto con l’art. 7-quater, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992, come modificato dal d.l. n. 158 del 2012, «secondo cui tale incarico può essere conferito non già ai meri dirigenti, bensì ai “direttori di struttura complessa del dipartimento”», con conseguente violazione del menzionato parametro costituzionale;
che, con memoria depositata il 19 febbraio 2013, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale la Regione Umbria, in persona della Presidente pro tempore della Giunta Regionale, dichiarando di voler resistere in giudizio «solo per quanto concerne la impugnativa dell’articolo 30, considerato che la direzione regionale competente ha manifestato l’intenzione di adeguarsi ai rilievi del Governo» in ordine all’impugnazione delle altre disposizioni normative;
che il ricorso avverso l’art. 30 della legge reg. Umbria n. 18 del 2012 sarebbe inammissibile ed infondato, perché detta norma sarebbe chiaramente riferita ai presidi ospedalieri non costituiti in azienda autonoma ed inseriti, quindi, nell’organizzazione delle Unità sanitarie locali dell’Umbria, sicché non sussisterebbe alcun contrasto tra la norma impugnata e l’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 502 del 2012.
Considerato che, con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale – in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione – degli artt. 17, comma 3; 19, comma 3; 20, comma 2; 22, commi 2 e 3; 28, comma 1; 30, comma 3 (recte: comma 4); 32, comma 3 (recte: comma 1), della legge della Regione Umbria 12 novembre 2012, n. 18 (Ordinamento del sistema sanitario regionale);
che la Regione, costituita nel giudizio di legittimità costituzionale soltanto per resistere all’impugnativa dell’art. 30 della legge reg. Umbria citata, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile o non fondato;
che, con atto depositato nella cancelleria di questa Corte il 10 ottobre 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri (previa delibera dello stesso Consiglio adottata nella riunione del 4 ottobre 2010) ha dichiarato formalmente «di rinunciare all’impugnazione della legge della Regione Umbria 12 novembre 2012, n. 18, pubblicata nel Regione Umbria n. 50 del 15 novembre 2012 e recante il titolo “Ordinamento del servizio sanitario regionale”»;
che il menzionato atto di rinunzia al ricorso risulta ritualmente notificato alla resistente che, con deliberazione della Giunta regionale n. 1150 del 21 ottobre 2013, ha accettato la detta rinunzia;
che la rinunzia del ricorrente al ricorso, cui faccia seguito l’accettazione della parte resistente, comporta l’estinzione del processo (art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara estinto il processo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Ordinanza 283/2013

Ordinanza  283/2013
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore NAPOLITANO
Camera di Consiglio del 23/10/2013    Decisione  del 20/11/2013
Deposito del 29/11/2013   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Art. 15 del decreto legislativo 15/01/2002, n. 9.
Massime:
Atti decisi:ordd. 111, 112 e 113/2013

ORDINANZA N. 283
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 15 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), promossi dal Giudice di pace di Albenga con tre ordinanze del 12 febbraio 2013, rispettivamente iscritte ai nn. 111, 112 e 113 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che con tre ordinanze di identico tenore, tutte del 12 febbraio 2013 (r.o. nn. 111, 112 e 113 del 2013), il Giudice di pace di Albenga ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), per violazione dell’art. 76 della Costituzione;
che i giudizi a quibus hanno ad oggetto opposizioni avverso ordinanze-ingiunzione dell’Ufficio territoriale del Governo di Savona (Prefettura di Savona) rese a seguito del rigetto di ricorsi al Prefetto di Savona;
che gli opponenti, con il ricorso introduttivo, hanno dedotto l’illegittimità costituzionale dell’art. 15 del d.lgs. n. 9 del 2002 in riferimento all’art. 76 Cost., in relazione all’art. 2, comma 1, lettera d), della legge 22 marzo 2001, n. 85 (Delega al Governo per la revisione del nuovo codice della strada), nella parte in cui non attribuisce il potere di decidere − riguardo ai ricorsi amministrativi in materia di violazione delle norme sulla circolazione stradale − al presidente della giunta regionale;
che le questioni, secondo il Giudice di pace di Albenga, sono rilevanti in quanto i giudizi di opposizione alle ordinanze-ingiunzione dei prefetti hanno ad oggetto non l’atto ma il rapporto, con cognizione piena del giudice, anche in relazione ai profili di competenza;
che il problema della sussistenza del potere di decidere il ricorso avverso il verbale di violazione di norme sulla circolazione stradale in capo al presidente della giunta regionale, anziché al prefetto, è materia rilevante nei giudizi a quibus, perché, qualora la norma denunciata si rivelasse in contrasto con il dettato costituzionale, l’opposizione dovrebbe essere accolta per vizio di incompetenza del provvedimento impugnato;
che il rimettente, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, richiama l’ordinanza n. 89 del 2009 della Corte costituzionale che ha ritenuto inammissibile un’analoga questione di costituzionalità sollevata dal Giudice di pace di Taranto;
che, in quell’occasione, la medesima censura era rivolta a disposizioni contenute nel decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 1° agosto 2003, n. 214, e la questione era stata dichiarata manifestamente inammissibile in quanto il rimettente aveva invocato, quale parametro costituzionale violato, l’art. 76 Cost., che riguarda esclusivamente i rapporti tra legge delegante e legge delegata, mentre nella specie era censurata una norma contenuta nella legge di conversione di un decreto-legge;
che l’odierno rimettente, per superare il motivo di inammissibilità di cui all’ordinanza n. 89 del 2009, ritiene di sollevare la questione di legittimità costituzionale avverso l’art. 15 del d.lgs. n. 9 del 2002, nella parte in cui non attribuisce il potere di decidere – riguardo ai ricorsi amministrativi in materia di violazione delle norme sulla circolazione stradale − al presidente della giunta regionale e nella parte in cui si limita a modificare l’art. 208 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e non modifica gli artt. 203 e 204 del codice della strada sostituendo la locuzione «prefetto» con quella «presidente della giunta regionale»;
che, secondo il rimettente, risulterebbe violato il criterio direttivo di cui all’art. 2, comma 1, lettera d), della legge delega n. 85 del 2001, in base al quale le funzioni ordinatorie demandate ai prefetti dovevano essere attribuite ai presidenti delle giunte regionali o delle province autonome, fatte salve le esigenze di ordine e sicurezza pubblica, cosicché la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 76 Cost.;
che l’art. 15 censurato è l’unica norma del d.lgs. n. 9 del 2002 contenente disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell’art. 1, comma 1, della legge n. 85 del 2001;
che, conclude il rimettente, il potere di decidere i ricorsi amministrativi avverso i provvedimenti di accertamento della violazione di norme sulla circolazione stradale non può essere ricondotto ad esigenze di ordine e sicurezza pubblica, le quali, secondo il criterio direttivo di cui all’art. 2, comma 1, lettera d), della legge delega n. 85 del 2001, costituivano l’unica eccezione al trasferimento ai presidenti delle giunte regionali o delle province autonome delle funzioni ordinatorie demandate ai prefetti;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata;
che l’Avvocatura dello Stato evidenzia come il richiamo all’art. 15 del d.lgs. n. 9 del 2002 sia del tutto inconferente in quanto la norma ha ad oggetto la modifica dell’art. 208 del codice della strada, in materia di criteri di distribuzione dei proventi derivanti dalle sanzioni amministrative irrogate a seguito di violazioni di norme sulla circolazione stradale;
che la disposizione richiamata non attiene in alcun modo alla questione delle funzioni ordinatorie del prefetto che, invece, sono disciplinate dagli artt. 203 e 204 del codice della strada;
che tali norme non sono state oggetto di modifica da parte dell’art. 15 del d.lgs. n. 9 del 2002, né da parte di altra norma del medesimo decreto e, pertanto, vi sarebbe un’erronea e/o incompleta individuazione della norma censurata;
che, inoltre, la questione sarebbe infondata, in quanto la figura dell’eccesso di delega implicherebbe il superamento dei limiti imposti dal legislatore delegante e dall’art. 76 Cost., mentre la questione sollevata dal remittente dovrebbe più correttamente essere ricondotta alle ipotesi di cosiddetto «eccesso di delega in minus», ossia a quei casi di parziale attuazione della delega da parte del Governo;
che, secondo la giurisprudenza costituzionale, «l’esercizio incompleto della delega non comporta di per sé violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione, salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione» (sentenza n. 149 del 2005);
che dovrebbero ritenersi infondate «le censure per l’attuazione soltanto parziale della delega, da tale circostanza potendo semmai derivare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, quando la delega abbia carattere imperativo, ma non anche la illegittimità costituzionale delle norme frattanto emanate, sempre che, per il loro contenuto, non siano tali da porsi in contrasto con i principi e i fini della legge di delegazione» (sentenza n. 41 del 1975; nello stesso senso: sentenze n. 23 del 2000, n. 323 del 1999 e n. 218 del 1987).
Considerato che il Giudice di pace di Albenga ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 15 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), – in riferimento all’art. 76 della Costituzione − nella parte in cui non attribuisce al presidente della giunta regionale il potere di decidere i ricorsi amministrativi in materia di violazione delle norme sulla circolazione stradale e nella parte in cui si limita a modificare l’art. 208 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e non modifica gli artt. 203 e 204 del codice della strada, sostituendo la locuzione «prefetto» con quella «presidente della giunta regionale»;
che, secondo il rimettente, la norma censurata, pur essendo di diretta attuazione della legge 22 marzo 2001, n. 85 (Delega al Governo per la revisione del nuovo codice della strada), si porrebbe in contrasto con il criterio direttivo indicato nell’art. 2, comma 1, lettera d), della medesima legge delega, concernente l’attribuzione al presidente della giunta regionale o delle province autonome delle funzioni ordinatorie demandate ai prefetti, fatte salve le esigenze di ordine e sicurezza pubblica;
che, a prescindere dai denunciati profili di inammissibilità in punto di corretta individuazione della norma censurata, la questione è manifestamente infondata;
che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, il mancato o incompleto esercizio della delega non comporta di per sé la violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione (sentenza n. 149 del 2005 e ordinanza n. 257 del 2005; in precedenza, sentenze n. 218 del 1987, n. 8 del 1977 e n. 41 del 1975);
che, nel caso in esame, non è riscontrabile alcuno stravolgimento della legge delega, dovendosi anzi ritenere che la norma censurata sia conforme al criterio direttivo invocato dal rimettente;
che, infatti, il potere del prefetto di decidere sui ricorsi avverso le sanzioni amministrative pecuniarie relative a violazioni delle norme del codice della strada non rientra tra le funzioni ordinatorie che la legge delega voleva fossero trasferite dal prefetto al presidente della giunta regionale;
che il ricorso al prefetto, invece, si colloca sistematicamente nell’ambito dei rimedi di giustizia amministrativa e, in particolare, presenta la natura di ricorso gerarchico improprio, in quanto rivolto ad un organo che non è posto in un rapporto di superiorità gerarchica immediata e diretta rispetto all’organo emanante il provvedimento oggetto del ricorso, ma, comunque, abilitato dalla legge a provvedere;
che, pertanto, si può escludere che la funzione «decisoria» sui ricorsi amministrativi avverso gli atti di accertamento delle contravvenzioni al codice della strada sia ricompresa nell’ambito delle «funzioni ordinatorie» cui si riferisce la disposizione della legge delega assunta come norma interposta;
che, inoltre, sussistono anche quelle esigenze di ordine pubblico e sicurezza che, in base allo stesso criterio direttivo indicato nell’art. 2, comma 1, lettera d), della legge delega n. 85 del 2001, consentivano al legislatore di derogare rispetto al trasferimento delle funzioni ordinatorie dai prefetti ai presidenti delle giunte regionali;
che, infatti, la prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale costituiscono, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del codice della strada, attività di polizia stradale ai cui «servizi», a norma del successivo comma 3, provvede il Ministero dell’interno, salve le attribuzioni dei Comuni per quanto concerne i centri abitati;
che, dunque, l’attività amministrativa diretta alla prevenzione e all’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale è certamente riconducibile ad esigenze di ordine pubblico e sicurezza;
che alle medesime esigenze deve essere ricondotta l’attività decisoria del prefetto in ordine ai ricorsi amministrativi avverso tali provvedimenti;
che, infine, i soggetti legittimati all’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale e all’applicazione delle relative sanzioni pecuniarie sono per lo più appartenenti all’amministrazione dello Stato;
che, infatti, ai sensi del successivo art. 12 del codice della strada, l’espletamento dei servizi di polizia stradale, tra i quali la prevenzione e l’accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, spetta in via principale: al settore di Polizia stradale della Polizia di Stato; alla stessa Polizia di Stato; all’Arma dei carabinieri; al Corpo della Guardia di finanza; ai Corpi e ai servizi di polizia provinciale, nell’ambito del territorio di competenza; ai Corpi e ai servizi di polizia municipale, nell’ambito del territorio di competenza; ai funzionari del Ministero dell’interno addetti al servizio di polizia stradale; al Corpo di Polizia penitenziaria e al Corpo forestale dello Stato, in relazione ai compiti di istituto;
che, dunque, l’attribuzione ai prefetti del potere di decisione in ordine ai ricorsi amministrativi avverso tali atti di accertamento non è irragionevole, risultando armonico al riparto delle competenze amministrative previsto dalla Costituzione, mentre non può ipotizzarsi, come auspicato dal rimettente, che tale potere «decisorio» di archiviazione o di riconferma rispetto a provvedimenti amministrativi sanzionatori emessi da soggetti appartenenti all’amministrazione dello Stato (quali la Polizia di Stato, i Carabinieri e la Guardia di finanza) sia trasferito ai presidenti delle giunte regionali.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), sollevate, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Giudice di pace di Albenga con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 novembre 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 282/2013

Sentenza  282/2013
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore LATTANZI
Udienza Pubblica del 22/10/2013    Decisione  del 20/11/2013
Deposito del 28/11/2013   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Art. 1 della legge della Regione Toscana 11/12/2012, n. 74.
Massime:
Atti decisi:ric. 22/2013

SENTENZA N. 282
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge della Regione Toscana 11 dicembre 2012, n. 74, recante «Modifiche alla legge regionale 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo) in attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 13-15 febbraio 2013, depositato in cancelleria il 18 febbraio 2013 ed iscritto al n. 22 del registro ricorsi 2013.
Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;
udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Toscana.

Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato con il mezzo della posta il 13-15 febbraio 2013 e depositato il successivo 18 febbraio (reg. ric. n. 22 del 2013), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge della Regione Toscana 11 dicembre 2012, n. 74, recante «Modifiche alla legge regionale 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo) in attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno», in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
La disposizione impugnata sostituisce l’art. 134 della legge della Regione Toscana 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo), con il quale si disciplinano le modalità di accesso alla professione di maestro di sci, da parte di professionisti di altre Regioni e Stati.
Il ricorso riguarda esclusivamente i commi 1 e 2 dell’art. 134 della legge regionale n. 42 del 2000, come sostituiti dalla norma impugnata, che si riferiscono all’iscrizione nell’albo professionale della Regione Toscana dei maestri già iscritti nell’albo di altre Regioni o delle Province autonome. A tal fine, l’art. 1, comma 1, della legge regionale n. 42 del 2000 stabilisce che questi devono richiedere l’iscrizione nell’albo regionale toscano, mentre il comma 2 aggiunge che il collegio regionale dei maestri di sci provvede all’iscrizione dopo aver verificato la permanenza dei requisiti di cui all’art. 131 della medesima legge. Tra questi ultimi, l’art. 131, comma 1, lettera d), annovera la frequenza dei corsi di qualificazione professionale indicati dal successivo art. 132 e il superamento dei relativi esami.
Il ricorrente parte dal presupposto interpretativo per il quale la norma impugnata imporrebbe ai maestri di sci già iscritti nell’albo di altre Regioni o Province autonome di frequentare il corso predisposto dalla Regione Toscana e di superarne l’esame conclusivo, quali condizioni per l’iscrizione nell’albo toscano.
In tal modo sarebbe stato introdotto «un ostacolo ingiustificato all’accesso ed all’esercizio di tale professione», in violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.).
La medesima competenza sarebbe violata dall’attribuzione al collegio regionale dei maestri di sci del compito di verificare i requisiti di iscrizione, in ragione dei «profili di possibile conflitto di interessi» dai quali i componenti dell’organo potrebbero venire investiti, allo scopo di restringere il numero dei concorrenti.
2.– La Regione Toscana si è costituita in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
La Regione premette che la modifica normativa apportata dalla disposizione impugnata non ha riguardato i commi 1 e 2 dell’art. 134 della legge regionale n. 42 del 2000, che sono stati formalmente sostituiti dall’art. 1 della legge regionale n. 74 del 2012 ma sono nella sostanza rimasti immutati.
Scopo dell’intervento del legislatore regionale è stato, infatti, quello di adeguare alla normativa dell’Unione europea la disciplina concernente l’esercizio della professione in via temporanea da parte di maestri di sci cittadini di altri Stati membri dell’Unione.
Tale parte della disposizione impugnata non è tuttavia oggetto di censura.
Ciò detto, la Regione rileva che il ricorso «è frutto di un’erronea lettura della norma regionale» impugnata.
Essa, infatti, si limiterebbe a demandare al collegio regionale dei maestri di sci la verifica della “permanenza” dei requisiti di iscrizione all’albo, con ciò dovendosi intendere la sufficienza, a tal fine, del superamento del corso professionale previsto da qualsiasi altra Regione, con conseguente iscrizione nell’albo.
Nessuna «duplicazione di esami abilitanti» sarebbe perciò imposta dalla norma impugnata.

Considerato in diritto
1.– Con ricorso notificato con il mezzo della posta il 13-15 febbraio 2013 e depositato il successivo 18 febbraio (reg. ric. n. 22 del 2013), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge della Regione Toscana 11 dicembre 2012, n. 74, recante «Modifiche alla legge regionale 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo) in attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno», in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
La disposizione impugnata sostituisce l’art. 134 della legge della Regione Toscana 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo), con il quale si disciplinano le modalità di accesso alla professione di maestro di sci da parte di professionisti di altre Regioni e Stati.
Il ricorso ha per oggetto i soli commi 1 e 2 dell’art. 134, nel testo introdotto dalla disposizione censurata, il cui contenuto è del tutto analogo alle previsioni originarie.
L’art. 134, comma 1, della legge regionale n. 42 del 2000 stabilisce che «I maestri di sci già iscritti negli albi professionali di altre regioni o province autonome che intendono esercitare stabilmente la professione di maestro di sci anche in Toscana devono richiedere l'iscrizione nell'albo professionale regionale della Toscana».
Il comma 2 aggiunge che «Il Collegio regionale dei maestri di sci provvede all'iscrizione dopo aver verificato la permanenza dei requisiti di cui all'articolo 131».
L’Avvocatura dello Stato interpreta tali norme nel senso che esse introdurrebbero l’onere, a carico del maestro di sci già abilitato in altre Regioni o nelle Province autonome, di sostenere nuovamente l’esame di abilitazione presso la Regione Toscana, dato che l’art. 131 della legge regionale n. 42 del 2000, cui rinvia il comma 2 dell’art. 134 della medesima legge, prevede, tra i requisiti per l’iscrizione all’albo professionale toscano, «la frequenza dei corsi di qualificazione professionale di cui all’articolo 132 ed il superamento dei relativi esami».
Il ricorrente, muovendo dal presupposto interpretativo appena enunciato, conclude che la norma impugnata ha così introdotto un ostacolo ingiustificato e sproporzionato alla libera prestazione del servizio da parte dei maestri di sci già abilitati in Italia, in violazione della competenza esclusiva dello Stato nella materia «tutela della concorrenza».
2.– La questione non è fondata perché il presupposto interpretativo da cui trae origine è erroneo.
L’onere di abilitarsi al fine di esercitare la professione di maestro di sci è stabilito dall’art. 6 della legge cornice 8 marzo 1991, n. 81 (Legge-quadro per la professione di maestro di sci e ulteriori disposizioni in materia di ordinamento della professione di guida alpina), che reca i principi fondamentali cui le Regioni a statuto ordinario debbono uniformarsi, anche in base al decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131).
L’art. 3 della legge n. 81 del 1991 precisa che l’albo professionale è regionale, ed è tenuto, sotto la vigilanza della Regione, dal collegio regionale dei maestri di sci e, in linea con tale previsione, l’art. 134, comma 1, della legge regionale toscana n. 42 del 2000 stabilisce che il maestro di sci abilitato presso altra Regione o Provincia autonoma, che intende esercitare stabilmente la professione in Toscana, deve richiedere l’iscrizione nell’albo toscano.
Ciò però non significa che la normativa impugnata esiga altresì, a titolo di condizione preliminare, la frequenza del corso professionale regionale e il superamento dell’esame conclusivo. Al contrario, la stessa formulazione letterale dell’art. 134, comma 2, della legge regionale n. 42 del 2000 esclude tale opzione interpretativa, posto che demanda al collegio regionale dei maestri di sci la verifica circa la “permanenza” dei requisiti indicati dal precedente art. 131.
Con tale inequivoca espressione, il legislatore toscano ha chiarito, ove ve ne fosse bisogno, che l’attività di accertamento del collegio si limita ad acclarare se il maestro di sci è già in possesso dei requisiti richiesti dalla legge e, in particolare, dell’abilitazione professionale. Difatti, in presenza di una domanda di iscrizione da parte di chi non abbia esercitato stabilmente fino ad allora la professione in Toscana, non si vede come possa dirsi che tale requisito deve permanere, se non riferendosi all’abilitazione conseguita in altra Regione o Provincia autonoma e risultante dall’iscrizione nel relativo albo professionale.
3.– Il ricorrente denuncia l’art. 134, comma 2, della legge regionale toscana n. 42 del 2000, nel testo sostituito dalla norma impugnata, anche nella parte in cui affida la verifica circa la permanenza dei requisiti di iscrizione all’albo proprio al collegio regionale dei maestri di sci, ovvero ad un organo in «possibile conflitto di interessi». Il collegio, in quanto composto da potenziali concorrenti dell’aspirante all’iscrizione, sarebbe nelle condizioni di «influenzare gli esiti del processo di selezione» in danno del candidato.
La questione non è fondata.
A tal fine, è sufficiente osservare che la competenza del collegio in tema di “iscrizioni” e di “tenuta” dell’albo professionale è sancita dalla normativa dello Stato, cui la legislazione regionale di dettaglio è tenuta a uniformarsi. In particolare, provvede in tal senso l’art. 13, comma 4, della legge n. 81 del 1991, e dunque il ricorrente non può contestare, sul piano del riparto costituzionale delle competenze legislative, il contenuto di una norma regionale introdotta in adempimento del rapporto di integrazione tra legge quadro e normativa regionale di attuazione, nelle materie indicate dall’art. 117, terzo comma, Cost. e, nello specifico, nella materia «professioni».
Si deve aggiungere che si rivela erronea l’affermazione del ricorrente secondo cui il collegio avrebbe spazi di discrezionalità impiegabili in danno del candidato all’iscrizione: per i maestri di sci abilitati presso altra Regione o Provincia autonoma la verifica preliminare all’iscrizione, infatti, come si è visto, è meramente ricognitiva.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge della Regione Toscana 11 dicembre 2012, n. 74, recante «Modifiche alla legge regionale 23 marzo 2000, n. 42 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo) in attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali e della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno», promossa, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 281/2013

Sentenza  281/2013
Giudizio
Presidente SILVESTRI - Redattore MORELLI
Camera di Consiglio del 06/11/2013    Decisione  del 20/11/2013
Deposito del 28/11/2013   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:Art. 120, c. 1° e 2°, del codice della strada (d.lgs. 30/4/1992, n. 285), sostituito dall'art. 3, c. 52°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94.
Massime:
Atti decisi:ord. 64/2013

SENTENZA N. 281
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, nel procedimento vertente tra F.F. e l’U.T.G. ed altri, con ordinanza del 19 settembre 2012, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.

Ritenuto in fatto
1.– Nel corso di un giudizio promosso per ottenere l’annullamento di un provvedimento di revoca della patente di guida – adottato nei confronti di un soggetto cui era stata applicata, per reati concernenti gli stupefacenti, una pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, con sentenza emessa anteriormente all’entrata in vigore del testo dell’art. 120 del decreto-legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – l’adito Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, premessane la rilevanza, ha sollevato due gradate questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 1 e 2 del predetto art. 120:
– la prima, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui «fa derivare automaticamente dalla condanna il divieto di conseguire la patente di guida e la consequenziale revoca di quella eventualmente posseduta»;
– la seconda, per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui «opera anche un riferimento alle condanne “patteggiate” antecedenti all’entrata in vigore della L. n. 94/2009 cit.».
2. – Nel giudizio innanzi a questa Corte non vi è stato intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto
1.– L’art. 120 del decreto-legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nei denunciati suoi commi 1 e 2, come sostituiti dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), testualmente dispone che:
«1. Non possono conseguire la patente di guida [….] le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 [Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza], fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi […].
2. […] se le condizioni soggettive indicate al primo periodo del comma 1 del presente articolo intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida […]».
2.− Con la prima delle due questioni di legittimità costituzionale della riferita normativa, sollevate con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale rimettente, in relazione ai parametri costituzionali che sospetta violati, rispettivamente, argomenta, quanto all’art. 3 Cost., che, se è pur vero che il diniego o la revoca trova ragione in una valutazione legislativa di disvalore sociale correlata alla natura della condanna, «è l’automatismo applicativo ad apparire non ragionevole»; e, quanto, all’art. 27, terzo comma, Cost., che, con la privazione della patente di guida, «si vanifica l’effetto rieducativo della pena giacché l’inibizione di un effettivo inserimento sociale e soprattutto lavorativo ricondurrebbe plausibilmente il reo sulla via del crimine». Aggiunge il Tribunale che, a suo avviso, il vulnus ai precetti richiamati potrebbe essere superato solo da una pronuncia «sostanzialmente additiva» di questa Corte, che, indipendentemente dai provvedimenti riabilitativi di competenza del giudice penale, consentisse all’autorità amministrativa di valutare, senza vincolo di automatismo, «la possibilità di superare per avvenuta emenda il giudizio morale negativo» che la norma denunciata riferisce all’autore dei reati in questione.
2.1.− In questi esatti (e testuali) termini la questione era già stata prospettata, in altro giudizio, dallo stesso Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, ed è stata dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza di questa Corte n. 169 del 2013.
Ad identico esito va incontro anche l’odierno reiterato quesito.
Come già, infatti, osservato nella richiamata ordinanza n. 169, a prescindere dalla non pertinenza del riferimento all’art. 27 Cost., che attiene esclusivamente alle sanzioni penali, è comunque, assorbente, in limine, in senso preclusivo all’esame della questione, la natura non obbligata dell’intervento additivo auspicato (da ultimo sentenze n. 134 del 2012, n. 117 e n. 6 del 2011, e n. 256 del 2010) ed il carattere, per di più, assolutamente indeterminato del petitum (sentenza n. 301 del 2012 per tutte).
E ciò in quanto – rispetto alle «condizioni per la riabilitazione» fissate dall’art. 179 del codice penale («prove effettive e costanti di buona condotta» per almeno un triennio dal giorno in cui è stata eseguita o si è estinta la pena principale, ed adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato) e, quindi, a valutazione che, nella logica dell’istituto della riabilitazione, competono alla giurisdizione penale – il rimettente neppure adombra quali, oggettivamente o (e in che misura) solo temporalmente diverse, siano, a suo avviso, le condizioni di quella «emenda» la cui valutazione vorrebbe affidare all’autorità amministrativa (ed al successivo controllo del giudice amministrativo) ai fini del rilascio, o dell’esclusione della revoca, del titolo abilitativo a soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti.
Il che, per altro verso, comporta anche il carattere meramente ipotetico e virtuale della rilevanza della questione sollevata nel giudizio a quo, considerato che il rimettente, anche in questo caso, non indica quale sia in concreto la condizione del ricorrente che potrebbe dar luogo, in tesi, alla prefigurata emenda, suscettibile di condurre all’annullamento dell’impugnato provvedimento di revoca della patente.
3.– La seconda questione attiene alla portata retroattiva della disciplina in esame.
Il rimettente ritiene, al riguardo, violato il precetto dell’art. 24 Cost., in termini di vulnus alla «tutela dell’affidamento dell’imputato». Ma ciò, coerentemente, in relazione al solo profilo della (non esclusa) operatività di detta normativa «anche con riferimento alle condanne “patteggiate” antecedenti alla entrata in vigore della L. n. 94/2009»; non dubitando, per il resto, della legittimità della scelta del legislatore del 2009 di rendere la misura del diniego o revoca della patente di guida immediatamente applicabile nei confronti di soggetti condannati, in via ordinaria, per reati in materia di stupefacenti, sulla base di sentenze anche anteriori alla entrata in vigore della legge stessa.
3.1.– Tale seconda questione – formulata in via subordinata, e non alternativa, e, per tal profilo, quindi, ammissibile (ordinanze n. 22 e n. 21 del 2008, n. 449 del 2007) – è, nei limiti della sua prospettazione, fondata.
Con riguardo alle sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (equiparate «a una pronuncia di condanna» dal successivo articolo 445, comma 1 bis, secondo periodo), questa Corte ha già avuto, infatti, occasione di precisare che «la componente negoziale propria dell’istituto del patteggiamento, resa evidente anche dalla facoltà concessa al giudice di verificare la volontarietà della richiesta o del consenso (articolo 446, comma 5, del codice di procedura penale), postula certezza e stabilità del quadro normativo che fa da sfondo alla scelta compiuta dall’imputato e preclude che successive modificazioni legislative vengano ad alterare in pejus effetti salienti dell’accordo suggellato con la sentenza di patteggiamento» (sentenza n. 394 del 2002).
Il nuovo testo dell’art. 120, commi 1 e 2, come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge n. 94 del 2009, con riguardo ai reati di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), ha innovato la disciplina che l’imputato aveva avuto presente nel ponderare l’opportunità di addivenire al patteggiamento, ed ha retroattivamente attribuito al consenso a suo tempo prestato l’ulteriore significato di una rinunzia alla patente di guida.
E ciò, appunto, ne comporta il denunciato contrasto con il diritto di difesa, sia per l’inadempimento, che ne consegue, rispetto al negozio (processuale) ex art. 444 cod. proc. pen., sia per il vulnus all’affidamento qualificato dell’imputato circa gli effetti delle proprie scelte.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale del predetto art. 120, commi 1 e 2, del nuovo codice della strada, nella parte in cui opera con riferimento a sentenze pronunziate ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., anche antecedenti all’entrata in vigore della legge 15 luglio 2009, n. 94.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui si applica anche con riferimento a sentenze pronunziate, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009;
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 285 del 1992, come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), n. 94 del 2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 novembre 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Ordinanza 280/2013

Ordinanza  280/2013
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SILVESTRI - Redattore CARTABIA
Camera di Consiglio del 06/11/2013    Decisione  del 18/11/2013
Deposito del 22/11/2013   Pubblicazione in G. U. 27/11/2013
Norme impugnate: Art. 42, c. 5°, del decreto legislativo 26/03/2001, n. 151.
Massime:
Atti decisi:ord. 163/2013

ORDINANZA N. 280
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale di Voghera nel procedimento vertente tra M.F. e il Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica con ordinanza del 7 marzo 2012, iscritta al n. 163 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di costituzione, fuori termine, di M.F.;
udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice relatore Marta Cartabia.

Ritenuto che, con ordinanza del 7 marzo 2013, il Tribunale di Voghera ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 32, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53);
che l’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nel testo vigente all’epoca dell’ordinanza del Tribunale di Voghera, contrasterebbe con i citati parametri costituzionali «nella parte in cui, non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il discendente di secondo grado convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona affetta da handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, legge 5 febbraio 1992, n. 104»;
che il giudizio principale ha ad oggetto il ricorso promosso da F.M., docente di lettere presso un liceo scientifico statale, titolare dei benefici di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) per l’assistenza alla nonna materna (vedova e senza figli viventi) con lui convivente, collocato in aspettativa non retribuita dal 20 settembre 2010 al 30 giugno 2011;
che la richiesta, presentata il 13 ottobre 2010, di sostituire l’aspettativa non retribuita con il congedo retribuito, ai sensi dell’art. 4 della legge 8 marzo 2000 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città) è stata rigettata dal dirigente scolastico perché la disciplina vigente non prevede tale diritto per il nipote che assiste la nonna convivente;
che, di conseguenza, in data 14 maggio 2011 l’interessato ha proposto ricorso al Tribunale di Voghera per l’accertamento del proprio diritto a fruire del congedo retribuito e per la condanna del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca al pagamento delle retribuzioni non corrisposte dal 14 ottobre 2010 al 30 giugno 2011;
che il Tribunale rimettente ha preso atto delle modifiche cui è andato incontro l’art. 42, comma 5, richiamando gli interventi additivi della Corte costituzionale, che hanno ampliato il novero dei soggetti beneficiari del congedo retribuito, e che sono stati recepiti dal legislatore, in particolare, con il decreto legislativo 18 luglio 2011, n. 119 (Attuazione dell’articolo 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi);
che il Tribunale ritiene sussistenti i presupposti per dubitare della legittimità costituzionale della norma in esame, sotto il profilo della mancata estensione del beneficio a favore del nipote, discendente di secondo grado, convivente con la persona affetta da invalidità grave;
che, quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo evidenzia che la pretesa azionata dal ricorrente deve essere esaminata necessariamente in riferimento alla disposizione censurata, la quale – così come formulata e stante l’impossibilità di attribuirle un significato diverso e più ampio – non consentirebbe di includere il nipote (discendente di secondo grado) nel novero dei lavoratori legittimati a fruire del congedo;
che il Tribunale ricorda, anche alla luce delle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale, che la materia dei congedi è attinente all’esigenza di assicurare continuità nell’assistenza e nelle cure del soggetto disabile, indipendentemente dal suo status di figlio, essendo diretta a tutelare le esigenze primarie e fondamentali del disabile grave, favorendo l’assistenza in ambito familiare;
che lo status di discendente è anche fonte d’obbligo alimentare in base all’art. 433 del codice civile, nell’ambito del quale il discendente, in mancanza di figli, è collocato in via prioritaria rispetto allo stesso genitore;
che, alla luce di tali premesse, il rimettente ritiene che l’esclusione del nipote convivente del disabile dal novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo previsto dall’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, in mancanza di altre persone idonee ad occuparsi del disabile stesso, contrasterebbe, innanzitutto, con l’art. 3, primo comma, Cost., in quanto la disparità di trattamento risulterebbe evidente, e priva di ragionevole giustificazione, se posta a confronto con la condizione dei fratelli o delle sorelle del soggetto affetto da handicap grave;
che la disposizione impugnata determinerebbe la violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost., poiché l’apporto dei familiari alla cura del congiunto gravemente disabile è da considerarsi funzionale al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della personalità umana;
che sarebbe violato altresì l’art. 2 Cost., in quanto verrebbe meno la possibilità di garantire al disabile assistenza continuativa all’interno del nucleo familiare, con evidenti riflessi pregiudizievoli sulla sfera della socializzazione e dell’integrazione della persona disabile;
che, infine, vi sarebbe violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., in quanto l’impossibilità di garantire la necessaria assistenza determinerebbe il concreto rischio di un deterioramento delle condizioni di salute psico-fisica della persona disabile;
che il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio;
che, con atto spedito il 16 settembre 2013, pervenuto alla Cancelleria della Corte il 25 settembre 2013 e perciò fuori termine, si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale il signor F.M., il quale ha chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma censurata, richiamando a tal fine la sentenza n. 203 del 2013 della Corte costituzionale, successiva alla ordinanza del Tribunale di Voghera.
Considerato che il Tribunale di Voghera ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il discendente di secondo grado convivente con persona affetta da handicap grave, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della stessa;
che, con sentenza n. 203 dell’anno 2013, successiva alla suddetta ordinanza, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato articolo 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e alle condizioni ivi stabilite, il parente o l’affine entro il terzo grado convivente con persona affetta da handicap grave, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla disposizione impugnata, idonei a prendersi cura della persona disabile;
che, di conseguenza, la questione di legittimità costituzionale oggi in esame è divenuta priva di oggetto e quindi va dichiarata manifestamente inammissibile (ex plurimis ordinanze nn. 156, 148 e 111 del 2013).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 32, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Voghera con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 novembre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Sentenza 279/2013

Sentenza  279/2013
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente SILVESTRI - Redattore LATTANZI
Camera di Consiglio del 09/10/2013    Decisione  del 09/10/2013
Deposito del 22/11/2013   Pubblicazione in G. U. 27/11/2013
Norme impugnate: Art. 147 del codice penale.
Massime:
Atti decisi:ordd. 67 e 82/2013

SENTENZA N. 279
ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza del 18 febbraio 2013 e dal Tribunale di sorveglianza di Milano con ordinanza del 18 marzo 2013, iscritte rispettivamente ai nn. 67 e 82 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 18, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di intervento dell’Unione delle Camere penali italiane, dell’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 18 febbraio 2013 (r.o. n. 67 del 2013), il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».
Il rimettente riferisce di essere investito dell’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena presentata da un detenuto e rigettata in via interinale dal magistrato di sorveglianza, che ne aveva quindi rimesso l’esame, ai sensi dell’articolo 684 del codice di procedura penale, al tribunale di sorveglianza. L’istanza era motivata non già con riferimento all’esistenza di una grave infermità fisica del detenuto, ma sulla base delle «condizioni di perenne sovraffollamento» in cui versava la Casa circondariale di Padova: si metteva in evidenza, infatti, una situazione che, per il numero dei detenuti ristretti in ciascuna cella (in media, da nove a undici), era tale da influire negativamente sulle condizioni psicofisiche, sottolineandosi come l’esecuzione della pena fosse «certamente contraria al senso di umanità e avversa al principio rieducativo della pena ed al rispetto della persona».
Riferisce ancora il Tribunale di sorveglianza di Venezia che, nelle more, il detenuto era stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella quale «permanevano e permangono le condizioni di sovraffollamento lamentate nell’istanza» risultanti dagli elementi acquisiti in via istruttoria, che segnalano la presenza di 889 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 369. Il detenuto istante, oltre ad essere «appellante» in un procedimento per violenza privata e violazione degli obblighi della sorveglianza speciale (nel cui ambito è sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari) e ad essere destinatario della misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di lavoro (da applicarsi, previo riesame da parte del magistrato di sorveglianza, all’esito dell’espiazione della pena), sta scontando una pena complessiva di due anni, otto mesi, sedici giorni di reclusione e sedici giorni di arresto per vari reati (furto, falsa attestazione sulla propria identità, guida in stato di ebbrezza, violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, evasione), con fine pena al 18 giugno 2015.
Per il titolo definitivo, riferisce ancora il Tribunale rimettente, il condannato è stato ristretto presso la Casa circondariale di Padova (dove dal 27 luglio 2012 al 13 agosto 2012 era stato detenuto in custodia cautelare) dal 19 settembre 2012 all’11 gennaio 2013, venendo ospitato, per la maggior parte del tempo, in una cella di mq. 24,58 e con un numero di detenuti mediamente pari a nove-dieci; successivamente è stato ristretto presso la Casa di reclusione di Padova in una cella, divisa con altri due detenuti, di mq. 9,09 e con bagno attiguo. La cella presenta le misure “standard” fissate dal Ministero della salute per le camere da letto di abitazione civile, misure adottate dall’Amministrazione penitenziaria quale parametro di riferimento delle camere di pernottamento benché, peraltro, «ivi si svolga l’intera vita del detenuto».
Osserva dunque il giudice a quo che lo spazio a disposizione dell’istante presso la casa circondariale è stato di mq. 2,43 (per 9 giorni) e di mq. 2,58 (per 122 giorni), mentre presso la casa di reclusione è stato di mq. 3,03 (per 33 giorni). I primi due dati risultano inferiori al limite minimo considerato “vitale” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic contro Italia; sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia), mentre il terzo risulta superiore di cmq. 3, ma si deve considerare la riduzione dello spazio effettivamente utilizzabile derivante dall’ingombro costituito dal mobilio, fattore incidente sullo spazio vitale secondo la Corte di Strasburgo: sottratta l’area occupata da tale ingombro, lo spazio a disposizione del detenuto presso la casa di reclusione si riduce a mq. 2,85, «nettamente al di sotto del limite “vitale” di 3 mq. come stabilito dalla Corte europea».
Sebbene, sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Venezia, il criterio indicato dal secondo Rapporto generale del 13 aprile 1991 del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti sia di almeno mq. 7, inteso come superficie minima “desiderabile” per una cella di detenzione, «la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il parametro dei 3 mq. debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe violazione “flagrante” dell’art. 3 della Convenzione e dunque, per ciò solo, “trattamento disumano e degradante”, e ciò indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva» (concernenti, in particolare, le ore d’aria disponibili o le ore di socialità, l’apertura delle porte della cella, la quantità di luce e aria dalle finestre, il regime trattamentale effettivamente praticato in istituto).
Non sarebbe dunque revocabile in dubbio che l’istante «stia subendo ed abbia subito per tutto il periodo della detenzione fino ad oggi un trattamento “disumano e degradante”», sicché verrebbe in rilievo la compatibilità della sua detenzione con i principi di non disumanità della pena e di rispetto della dignità della persona detenuta, principi sottesi all’applicazione proprio dell’istituto del differimento della pena che viene invocato dall’interessato.
La norma impugnata sarebbe inerente al giudizio a quo, in quanto «il richiedente invoca la sospensione della pena proprio per l’aspetto di una sua ineseguibilità a causa delle condizioni di intollerabile restrizione alla quale è sottoposto per il sovraffollamento dell’istituto», e la questione riguarderebbe l’ambito di applicazione della norma censurata, che avrebbe incidenza attuale, e non meramente eventuale, nel procedimento principale.
Sempre a proposito della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, il rimettente riferisce che all’istante non potrebbe essere applicata la misura dell’esecuzione presso il domicilio della pena detentiva a norma dell’art. 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199 (Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi), come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9, in quanto il residuo della pena sarebbe superiore a diciotto mesi e il condannato è stato dichiarato delinquente abituale. La preclusione, derivante dall’applicazione, nelle condanne in esecuzione, della recidiva reiterata, sarebbe inoltre ostativa alla concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e della semilibertà se non dopo l’espiazione di due terzi di pena (art. 50-bis dell’ordinamento penitenziario). Sarebbe, invece, astrattamente concedibile al condannato la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale (peraltro non richiesta dall’interessato), ma, sottolinea il rimettente, essa richiede «l’apprezzamento in fatto di un percorso rieducativo per il tramite di una congrua osservazione» ovvero, anche senza osservazione, «presuppone un’idoneità a prevenire il pericolo di commissione di reati, allorquando il comportamento serbato dopo la commissione del reato sia tale da consentire un giudizio favorevole». Analogamente preclusa dall’art. 30-quater, comma 1, lettera a), dell’ordinamento penitenziario sarebbe la concedibilità di permessi premio.
Pertanto, non resterebbe che ricorrere alla norma di chiusura, invocata dall’istante, costituita dal rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, non soggetto a preclusioni ex lege ed espressivo del principio costituzionale di non disumanità della pena. Tuttavia, osserva il Tribunale di sorveglianza di Venezia, tale istituto è riservato ai soli casi previsti, da ritenersi tassativi, in cui «più evidente appare il contrasto tra il carattere obbligatorio ed irrefragabile dell’esecuzione di una pena detentiva e il principio di legalità della stessa cui è speculare il divieto di trattamenti inumani» di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. Discenderebbe da tale principio l’esigenza che il soggetto non venga sottoposto ad una pena più grave di quella irrogata, esigenza che risulterebbe contraddetta se, per particolari condizioni fisiche individuate dalla legge, la carcerazione incidesse non solo sulla libertà, ma anche sull’integrità personale. Il Tribunale rimettente dovrebbe dare applicazione al principio di non disumanità della pena in un caso in cui, pur ricorrendo i parametri in fatto di un trattamento disumano e degradante, così come verificati in casi analoghi dalla costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sarebbe precluso il ricorso all’istituto di cui all’art. 147 cod. pen. poiché, non lamentando il detenuto una grave infermità fisica, tale ipotesi non sarebbe ricompresa tra quelle tassativamente previste dalla norma. Se integrato dalla pronuncia richiesta attraverso l’incidente di legittimità costituzionale, l’art. 147 cod. pen., anche in quanto “norma di chiusura” del sistema, costituirebbe «l’unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena a fronte di condizioni detentive che si risolvono in trattamenti disumani e degradanti».
Osserva inoltre il rimettente che, da un lato, il trattamento inumano non potrebbe tollerare una sua indebita protrazione e che, dall’altro, pur attribuendo alla magistratura di sorveglianza la funzione di tutela dei diritti dei detenuti in sede di reclamo giurisdizionale, il sistema sarebbe comunque privo di qualsiasi «meccanismo di esecuzione forzata, finendo dunque per generare quei fenomeni di ineffettività della tutela che sono la negazione del concetto stesso di giurisdizione». D’altra parte, anche ipotizzando che, in accoglimento del ricorso del condannato che invochi la tutela del proprio diritto all’esecuzione di una pena non disumana, il magistrato di sorveglianza ordini il trasferimento del ricorrente presso una stanza detentiva non sovraffollata, sarebbe evidente che «rendendo conforme al senso di umanità l’esecuzione penale nella cella ad quam, ciò avrebbe comportato la disumanità dell’esecuzione della pena nella cella a qua, nella quale subito l’Amministrazione avrebbe allocato altro detenuto per far posto al ricorrente vittorioso nella prima, e così via: poiché appartiene al fatto notorio la circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli istituti di pena italiani è di gran lunga inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze, tale strumento di tutela sarebbe comunque rimasto inefficace».
Prevedendo il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, l’art. 147 cod. pen. affiderebbe la decisione al prudente apprezzamento del tribunale di sorveglianza, che, per un verso, potrebbe negare il rinvio stesso qualora sussista un concreto pericolo di commissione di delitti e, per altro verso, potrebbe invece applicare la detenzione domiciliare “in surroga”, a norma dell’art. 47-ter, comma 1-ter, dell’ordinamento penitenziario: sarebbe perciò rimesso all’autorità giudiziaria il «congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena e dall’altro di difesa sociale», che, in casi di particolare pericolosità del condannato, potrebbe impedire il differimento dell’esecuzione.
Secondo il Tribunale di sorveglianza di Venezia, se la norma in questione consentisse il differimento della pena per ineseguibilità di quest’ultima a causa delle condizioni di intollerabile sovraffollamento, tali da comportare un trattamento «disumano e degradante», il differimento stesso non sarebbe precluso, nel caso di specie, dal divieto di cui al comma quarto dell’art. 147 cod. pen., non potendosi ritenere concreto il pericolo di commissione di delitti. L’applicazione della norma sarebbe, invece, impedita dalla mancata previsione di un’ipotesi di un «rinvio facoltativo, rimesso alla prudente valutazione dell’autorità giudiziaria, allorché ricorrano gli estremi di un trattamento disumano e degradante come definito dalla giurisprudenza europea sopra richiamata».
Ritiene dunque il rimettente non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen. «nella parte in cui non prevede, oltre alle ipotesi espressamente indicate, da ritenersi tassative, anche il caso di rinvio dell’esecuzione della pena quando quest’ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanità» sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost. e dall’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha individuato i parametri di «vivibilità minima» alla luce dei quali una detenzione può definirsi «trattamento inumano o degradante». Ad avviso del Tribunale di sorveglianza di Venezia l’attribuzione del pieno valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’adesione della stessa Unione alla CEDU determinerebbero un «vincolo diretto negli ordinamenti interni al rispetto della dignità e dei diritti delle persone», vincolo che consentirebbe ai giudici nazionali di invocare le norme sovranazionali come ulteriori parametri di riferimento quando si faccia questione di diritti fondamentali; le norme interposte diventerebbero, a loro volta, canone di valutazione, entrando a far parte di uno dei termini della questione di costituzionalità. Nella parte in cui non può essere applicato all’ipotesi presa in considerazione, l’art. 147 cod. pen. sarebbe in contrasto con il principio inviolabile della dignità della persona, che la Repubblica in ogni caso garantisce a norma dell’art. 2 Cost. e che a sua volta è presupposto dell’art. 27 Cost.
Il rimettente esclude la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme, in quanto la norma censurata prevederebbe casi tassativi di univoca interpretazione e non estensibili in via analogica. In particolare, la norma non sarebbe applicabile oltre l’ipotesi della «grave infermità fisica» prevista dall’art. 147, comma 1, numero 2), cod. pen., comunemente intesa come «una situazione di grave compromissione dell’organismo comportante o un serio pericolo per la vita del condannato ovvero la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose»; inoltre, sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Venezia, la serietà del quadro patologico sarebbe da intendere in senso particolarmente rigoroso alla luce del principio di indefettibilità della pena e del principio di uguaglianza, mentre ulteriore requisito sarebbe rappresentato dall’esigenza che la malattia necessiti di cure non facilmente attuabili nello stato detentivo. Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, eventuali disturbi di natura psichica, che non si traducano in concreto in grave infermità fisica, non sarebbero idonei a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena. Pertanto, non sarebbe possibile «né ampliare in via analogica le ipotesi di differimento della pena né estendere il concetto di “grave infermità fisica” fino al punto di ricomprendervi i casi di una compromissione dell’integrità psico-fisica della persona detenuta che sia conseguenza non di uno stato patologico ma di una condizione di detenzione “inumana” perché al di sotto dei parametri minimi di spazio disponibile indicati dalla Corte europea».
Osserva inoltre il rimettente che la pronuncia additiva richiesta sarebbe “a rime obbligate”, in quanto la soluzione prospettata (prevedere il rinvio della pena nei casi di trattamento inumano accertato secondo i parametri della CEDU) non sarebbe solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili: infatti, soltanto la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (eventualmente anche nelle forme della detenzione domiciliare “in surroga”), rimessa – come negli altri casi di rinvio facoltativo – alla decisione dell’autorità giudiziaria, sarebbe in grado di ristabilire una condizione di legalità dell’esecuzione della pena nel caso concreto, laddove «tale effetto non potrebbe direttamente avere, ad esempio, un qualsivoglia provvedimento a carattere indulgenziale o deflativo, questo sì riservato al legislatore, di portata generale e applicabile in una pluralità di casi».
Richiamata la sentenza della Corte di Strasburgo 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia e gli obblighi dalla stessa discendenti, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 27 Cost. sotto il duplice profilo del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e del finalismo rieducativo. Il primo profilo sarebbe comunque prevalente sul secondo, poiché la pena non può consistere in un trattamento contrario al senso di umanità, laddove essa, allo stesso tempo, deve tendere alla rieducazione del condannato: pertanto, mentre la finalità rieducativa rimarrebbe nell’ambito del «dover essere», e quindi su un piano esclusivamente finalistico, la non disumanità atterrebbe al suo essere medesimo, sicché la pena inumana sarebbe «non pena» e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi di esecuzione in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato. L’accertamento di tali condizioni dovrebbe essere svolto sulla base dell’art. 3 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che ritiene integrato il carattere disumano e degradante del trattamento penitenziario laddove alla persona detenuta sia riservato uno spazio nella camera di detenzione inferiore o pari a mq. 3, indipendentemente dalle condizioni di vita comunque garantite in istituto (numero delle ore d’aria e di apertura delle porte, attività scolastiche o lavorative, possibilità di svolgere attività di svago in locali comuni).
La norma censurata sarebbe anche in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, e con gli artt. 2 e 3 Cost., dovendosi intendere la dignità umana quale diritto inviolabile, «presupposto dello stesso articolo 27 Cost.».
La norma censurata sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 27 Cost. sotto il profilo della finalità rieducativa della pena, che non potrebbe mai dispiegarsi in condizioni di «inumanità», in quanto «la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona e quindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l’instaurazione di una normale vita di relazione».
Infine, dopo aver segnalato una pronuncia della Corte federale della California, confermata dalla Corte suprema degli Stati Uniti, e una della Corte costituzionale tedesca, il rimettente osserva, sotto il profilo della razionalità giuridica e della coerenza costituzionale, come «non siano mancati precedenti anche in altri ordinamenti – non sospettabili di insensibilità alle esigenze di sicurezza – in cui si sia fatta applicazione proprio dello strumento del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una situazione di legalità l’esecuzione della pena detentiva in situazioni di palese violazione del divieto di “pene crudeli”».
2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
Il differimento dell’esecuzione della pena sarebbe stato richiesto «per ragioni che nulla hanno di giuridico ma esclusivamente per una circostanza di fatto e transitoria, cioè un presunto temporaneo “sovraffollamento” della cella» nella quale il richiedente «era recluso al momento dell’istanza». Prive di riscontri oggettivi e certi, le circostanze esposte sarebbero suscettibili di «mutamento nel tempo e di elaborazioni meramente discrezionali da parte del soggetto interessato e dell’Organo giudicante», laddove le condizioni cui l’art. 147 cod. pen. ricollega il differimento facoltativo dell’esecuzione sarebbero, al contrario, «ben precise e connesse a fattori esattamente definiti ed apprezzabili dall’Organo giudicante con precisi riferimenti agli interessi da ponderare»: il rilievo impedirebbe «di fondare un giudizio di costituzionalità su una disposizione perfettamente in linea con i precetti costituzionali di riferimento». Gli inconvenienti lamentati dall’istante, peraltro, sarebbero superabili «con mezzi adeguati al sistema, cioè con una diversa disciplina amministrativa della organizzazione dell’istituto di pena, di competenza dell’Autorità prepostavi ed estranea alla potestà giurisdizionale del Tribunale di Sorveglianza».
La questione sarebbe comunque infondata, in quanto la mera circostanza del momentaneo collocamento nella cella di un numero di detenuti ritenuto eccessivo rispetto a quello ottimale non violerebbe né i parametri costituzionali posti a tutela della dignità, dell’uguaglianza e della libertà dei cittadini (dato che l’evenienza della carcerazione in seguito a condanna inflitta all’esito di un giusto processo non contrasterebbe con alcuno dei parametri evocati), né il principio della finalità rieducativa della pena (connesso ad altri fattori, quali il lavoro in carcere o, nei casi ammessi, all’esterno), né i valori di cui all’art. 3 CEDU (che avrebbero «una caratterizzazione di respiro generale» e non potrebbero dirsi automaticamente compromessi «dalla situazione contingente dell’istituto carcerario preso in considerazione dall’ordinanza di rimessione e, comunque, da problemi limitati al caso peculiare oggetto del giudizio a quo»).
L’Avvocatura dello Stato osserva infine che la questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia potrebbe essere risolta attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata. Il rimettente non avrebbe esaminato criticamente gli orientamenti giurisprudenziali che impedirebbero l’applicazione al caso di specie dell’art. 147 cod. pen.: una volta astratti dal singolo caso in giudizio, i principi generali indicati dalla giurisprudenza potrebbero orientare il giudicante verso un’interpretazione del combinato disposto degli artt. 147 e 148 cod. pen. tale da consentire il rispetto dei precetti della CEDU e della Costituzione, rendendo così non necessaria l’invocata pronuncia di illegittimità costituzionale.
Per l’ipotesi che l’intervento sollecitato dal rimettente fosse ritenuto ammissibile e sufficiente ad assicurare in via generale il rispetto dell’art. 3 della CEDU, l’Avvocatura dello Stato segnala la non definitività della sentenza della Corte di Strasburgo dell’8 gennaio 2013 e riferisce che sarebbe in stato di avanzata esecuzione il “piano carceri” varato dal Governo per adeguare e ammodernare gli istituti di pena.
3.– Ha proposto atto di intervento – depositato fuori termine il 17 settembre 2013 – l’Unione delle Camere penali italiane. Invocando a sostegno della tempestività dell’intervento l’art. 10 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e, quanto alla legittimazione soggettiva, la disciplina di cui all’art. 27 della legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale), l’Unione delle Camere penali italiane ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, richiamando, in tal senso, pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
4.– Con ordinanza depositata il 18 marzo 2013 (r.o. n. 82 del 2013), il Tribunale di sorveglianza di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 cod. pen. «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».
Il rimettente è stato investito dell’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena presentata da un detenuto, che lamentava lo svolgimento della sua reclusione con modalità disumane equiparabili a tortura; l’istanza era stata rigettata in via interinale dal magistrato di sorveglianza, che ne aveva quindi rimesso l’esame al tribunale di sorveglianza. Il detenuto sta scontando la pena di quindici anni di reclusione (di cui residua la pena di dodici anni, sette mesi e dieci giorni) irrogata a seguito di condanna per i delitti di associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, detenzione e porto abusivo di armi; lo spazio a sua disposizione nella cella, che divide con altri due reclusi, è pari a circa mq. 3,30, di poco superiore al limite minimo considerato “vitale” dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic contro Italia; sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia), dovendosi però considerare che tale spazio è in parte occupato da vario mobilio; pertanto, lo spazio disponibile per il detenuto è di gran lunga inferiore ai mq. 3. Ritiene, dunque, il Tribunale di sorveglianza di Milano che «il detenuto stia subendo un trattamento “disumano e degradante”», sicché si pone «una questione di compatibilità della sua detenzione con i princìpi di non disumanità della pena e di rispetto della dignità della persona detenuta sottesi all’applicazione proprio dell’istituto del differimento della pena che viene invocato dall’interessato».
Riferisce ancora il rimettente che, in considerazione dei reati commessi (ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario, della loro gravità e del lontano fine pena), al condannato non potrebbe, allo stato, essere concessa alcuna delle misure previste per esigenze meramente o prevalentemente deflattive (come, ad esempio, l’esecuzione presso il domicilio della pena detentiva ex art. 1 della legge n. 199 del 2010 e successive modificazioni) o per scopi di umanizzazione o rieducativi, che possano comportare la sottrazione del condannato a carcerazioni degradanti (ad esempio, i permessi premio a norma dell’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario), sicché non resterebbe che ricorrere al rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena invocato dall’istante.
Il Tribunale di sorveglianza di Milano propone poi, anche in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, argomentazioni analoghe a quelle svolte dall’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia n. 67 del 2013, sottolineando, con riferimento all’art. 3 della CEDU, come si tratti di «una norma di jus cogens, che non prevede alcun tipo di eccezione o deroga in quanto accorda al diritto di non essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti una protezione assoluta, non suscettibile di deroga, neppure in caso di guerra o qualora sussista un pericolo pubblico per la nazione o in caso di lotta al terrorismo o al crimine organizzato» (art. 15, comma 2, della CEDU).
Il rimettente, inoltre, richiama per un verso l’art. 32 Cost. e la definizione di “salute” delineata dall’Organizzazione mondiale della sanità e, per altro verso, la sentenza n. 113 del 2011, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Osserva, ancora, il rimettente che gli impedimenti all’effettiva espiazione della pena previsti dall’ordinamento sarebbero solo di carattere individuale, riguardando la persona del detenuto e non le condizioni in cui la pena stessa viene eseguita, laddove in altri ordinamenti si sarebbe fatta applicazione proprio dello strumento del differimento o della sospensione per ricondurre a una situazione di legalità l’esecuzione in palese violazione del divieto di pene crudeli: il sistema, ampiamente collaudato in Paesi del Nord Europa, «pone il principio inderogabile del limite massimo di capienza degli istituti penitenziari», essendo prevista «la possibilità, per i reati meno gravi e sulla base di una normativa molto stringente, di evitare la detenzione vera e propria fino a quando si crea un posto negli istituti penitenziari».
5.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte con riferimento all’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia n. 67 del 2013, che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.
6.– Ha proposto atto di intervento – depositato fuori termine il 29 luglio 2013 – l’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti, che, richiamando contributi dottrinali e pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Milano.

Considerato in diritto
1.– Con due ordinanze analoghe, il Tribunale di sorveglianza di Venezia e il Tribunale di sorveglianza di Milano hanno sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».
Escludendo in tale caso il differimento dell’esecuzione, la norma impugnata, secondo i giudici rimettenti, violerebbe l’art. 27, terzo comma, Cost. sotto due aspetti: in primo luogo con riferimento al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, trattamenti, quelli oggetto delle ordinanze di rimessione, così qualificabili in base all’art. 3 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene integrato il carattere disumano e degradante laddove alla persona detenuta sia riservato uno spazio nella camera di detenzione inferiore o pari a mq. 3, indipendentemente dalle condizioni di vita comunque garantite nell’istituto penitenziario; in secondo luogo con riferimento alla finalità rieducativa della pena, finalità compromessa qualora l’esecuzione carceraria si svolga in condizioni di “inumanità”, perché «la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona e quindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l’instaurazione di una normale vita di relazione».
La norma censurata, inoltre, sarebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha individuato i parametri di «vivibilità minima», al di sotto dei quali una detenzione può definirsi «trattamento inumano o degradante».
Infine, l’art. 147 cod. pen., per un verso, violerebbe gli artt. 2 e 3 Cost., dovendosi intendere la dignità umana quale diritto inviolabile, «presupposto dello stesso articolo 27 Cost.», e, per altro verso, anche alla luce dell’esperienza di altri ordinamenti, minerebbe la razionalità giuridica e la coerenza costituzionale del sistema a causa dell’assenza dello «strumento del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una situazione di legalità l’esecuzione della pena detentiva in situazioni di palese violazione del divieto di “pene crudeli”».
Entrambe le ordinanze, per motivare il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU, fanno riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, relativa ai ricorsi di sette detenuti che avevano lamentato di essere stati sottoposti a un trattamento inumano e degradante, per il sovraffollamento e per altre condizioni di degrado delle celle nelle quali erano stati costretti a vivere.
La Corte europea ha riscontrato che i ricorrenti, nel corso della detenzione, avevano avuto a disposizione nelle loro celle uno spazio vitale individuale di tre metri quadrati, ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio, e ha ritenuto che la carenza di spazio costituisse «di per sé» un trattamento contrario alla Convenzione, ulteriormente aggravato da altre situazioni ambientali denunciate, quali la mancanza di acqua calda e di un’illuminazione e una ventilazione sufficienti. Di qui la conclusione che vi era stata violazione dell’art. 3 della CEDU.
Nella sentenza la Corte di Strasburgo ha rilevato che «il sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda esclusivamente i casi dei ricorrenti» e che, come dimostrano i dati statistici, «la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone». Considerata questa situazione, pur consapevole della «necessità di sforzi conseguenti e sostenuti sul lungo periodo per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario», la Corte ha dichiarato che «stante l’inviolabilità del diritto tutelato dall’articolo 3 della Convenzione, lo Stato è tenuto ad organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata», e che, quando non è in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’art. 3 della CEDU, è tenuto ad agire «in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà (…) e una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere».
Ciò considerato, la Corte europea ha preso in considerazione le «vie di ricorso interne da adottare per far fronte al problema sistemico» emerso in seguito ai ricorsi, e ha affermato che, «in materia di condizioni detentive, i rimedi “preventivi” e quelli di natura “compensativa” devono coesistere in modo complementare». Perciò «quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione, la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti»; inoltre il ricorrente «deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita».
Posti tali principi, la Corte ha aggiunto che non risponde ai canoni convenzionali il reclamo al magistrato di sorveglianza ex artt. 35 e 69 dell’ordinamento penitenziario, perché si tratta di «un ricorso accessibile, ma non effettivo nella pratica, dato che non consente di porre fine rapidamente alla carcerazione in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione». Pertanto, ha concluso la Corte, entro un anno dalla data in cui la sentenza Torreggiani sarà diventata definitiva, «le autorità nazionali devono creare senza indugio un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario in Italia».
2.– In considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.
3.– Preliminarmente deve rilevarsi che gli atti di intervento dell’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti e dell’Unione delle Camere penali italiane sono stati depositati oltre il termine stabilito dall’art. 4, comma 4, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e ciò determina l’inammissibilità di tali interventi (ordinanza n. 150 del 2012). Né in senso contrario può invocarsi il termine di cui all’art. 10 delle norme integrative, richiamato dall’Unione delle Camere penali italiane, perché questo termine si riferisce al mero deposito di memorie illustrative.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha proposto due eccezioni di inammissibilità.
Con la prima si deduce, da un lato, che le circostanze esposte dai rimettenti sarebbero prive di riscontri oggettivi e suscettibili di «mutamento nel tempo e di elaborazioni meramente discrezionali da parte del soggetto interessato e dell’Organo giudicante», laddove le condizioni cui l’art. 147 cod. pen. ricollega il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena sarebbero «ben precise e connesse a fattori esattamente definiti ed apprezzabili dall’Organo giudicante con precisi riferimenti agli interessi da ponderare», il che impedirebbe «di fondare un giudizio di costituzionalità su una disposizione perfettamente in linea con i precetti costituzionali di riferimento»; dall’altro, che «gli inconvenienti lamentati dal detenuto istante [sarebbero] perseguibili con mezzi adeguati al sistema, cioè con una diversa disciplina amministrativa della organizzazione dell’istituto di pena, di competenza dell’Autorità prepostavi ed estranea alla potestà giurisdizionale del Tribunale di Sorveglianza».
L’eccezione non è fondata. Le circostanze di fatto riferite dai giudici rimettenti sono state accertate anche attraverso specifiche acquisizioni istruttorie; la descrizione di esse risponde all’esigenza di delineare compiutamente le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus e la loro riconducibilità al tipo di condizioni detentive che la Corte di Strasburgo considera lesive dell’art. 3 della CEDU. L’asserzione, poi, che tali circostanze sono suscettibili di mutamento nel tempo e che gli «inconvenienti» lamentati dagli istanti sono superabili con iniziative organizzative dell’Autorità competente non rileva ai fini dell’ammissibilità delle questioni, che sono finalizzate all’introduzione di un rimedio “preventivo” per i casi in cui l’Amministrazione penitenziaria non sia in grado di assicurare condizioni detentive compatibili con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.
L’Avvocatura dello Stato censura poi il mancato esame critico, da parte dei rimettenti, degli orientamenti giurisprudenziali che impedirebbero l’applicazione ai casi oggetto dei giudizi principali della disciplina di cui all’art. 147 cod. pen. Anche questa eccezione non è fondata, in quanto i tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano hanno escluso la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme sulla base di una ricostruzione della portata della norma censurata aderente al dato letterale e in linea con le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità.
5.– Le questioni, peraltro, sono per una diversa ragione inammissibili.
6.– La complessità della situazione sottostante alle questioni sollevate dai rimettenti impone di collocarle nel contesto della realtà carceraria italiana, caratterizzata da condizioni di sovraffollamento che, nel suo messaggio alle Camere dell’8 ottobre 2013, il Presidente della Repubblica ha definito intollerabili; i rimettenti muovono da questo contesto, sottolineando come appartenga al fatto notorio «la circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli istituti di pena italiani è di gran lunga inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze».
In termini analoghi si è espressa, come si è visto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che, con la sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, ha rimarcato come il sovraffollamento carcerario in Italia abbia un «carattere strutturale e sistemico».
Queste valutazioni sono senz’altro condivisibili alla luce dei dati statistici, dai quali emerge un fenomeno che, pur con intensità diverse, sta investendo da tempo il sistema penitenziario italiano e ha determinato una situazione che non può protrarsi, data l’attitudine del sovraffollamento carcerario a pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e ad incidere, comprimendolo, sul “residuo” irriducibile della libertà personale del detenuto, gli uni e l’altro espressione del principio personalistico posto a fondamento della Costituzione repubblicana (sentenza n. 1 del 1969).
Il sovraffollamento però non può essere contrastato con lo strumento indicato dai rimettenti, che, se pure potesse riuscire a determinare una sensibile diminuzione del numero delle persone recluse in carcere, giungerebbe a questo risultato in modo casuale, determinando disparità di trattamento tra i detenuti, i quali si vedrebbero o no differire l’esecuzione della pena in mancanza di un criterio idoneo a selezionare chi debba ottenere il rinvio dell’esecuzione fino al raggiungimento del numero dei reclusi compatibile con lo stato delle strutture carcerarie. L’obbiettivo dei rimettenti del resto non è quello di introdurre nel sistema uno strumento capace di porre termine al sovraffollamento carcerario, ma quello di apprestare una tutela per la persona che si trovi a subire un trattamento penale non conforme ai principi fissati dall’art. 27, terzo comma, Cost.
Fermo rimanendo che non spetta a questa Corte individuare gli indirizzi di politica criminale idonei a superare il problema strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario, non ci si può esimere dal ricordare le indicazioni offerte al riguardo dalla citata sentenza Torreggiani, laddove richiama le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che invitano al più ampio ricorso possibile alle misure alternative alla detenzione e al riorientamento della politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione, oltre che a una forte riduzione della custodia cautelare in carcere. È da considerare però che un intervento combinato sui sistemi penale, processuale e dell’ordinamento penitenziario richiede del tempo mentre l’attuale situazione non può protrarsi ulteriormente e fa apparire necessaria la sollecita introduzione di misure specificamente mirate a farla cessare.
7.– Ciò premesso per quanto riguarda, nei suoi aspetti generali, la situazione di sovraffollamento carcerario, va considerato che il suo carattere strutturale e sistemico ha indotto la Corte di Strasburgo a statuire, con la procedura della sentenza pilota, che, entro il termine di un anno dalla data in cui la decisione è divenuta definitiva, le autorità nazionali devono creare un ricorso o una combinazione di ricorsi individuali che abbiano effetti “preventivi” (nel senso che devono determinare «la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti») e “compensativi”, e garantiscano una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU risultanti dal sovraffollamento.
La necessità di introdurre un rimedio “preventivo” a tutela del detenuto che subisce condizioni di detenzione contrarie al senso di umanità sta anche alla base delle questioni sollevate dai tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano, rispetto alle quali il più generale problema del sovraffollamento carcerario rimane sullo sfondo.
I giudici rimettenti muovono dalla esigenza di «dare applicazione al principio di non disumanità della pena», cui sarebbe in grado di far fronte la “norma di chiusura” sul rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, da introdurre attraverso la pronuncia additiva richiesta a questa Corte. Tale norma costituirebbe «l’unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena», in presenza di condizioni detentive che si risolvano in trattamenti disumani e degradanti.
È da aggiungere che, come correttamente rilevano i giudici rimettenti, il divieto di adottare misure concretanti un trattamento contrario al senso di umanità non può essere disgiunto, nella ricostruzione della sua ratio e della sua portata applicativa, dal riferimento alla finalità rieducativa (sentenza n. 376 del 1997): al riguardo, questa Corte ha messo in luce il contesto «unitario, non dissociabile», nel quale vanno collocati i princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto logicamente in funzione l’uno dell’altro, posto che, in particolare, «un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato» (sentenza n. 12 del 1966).
7.1.– Lo statuto costituzionale e quello convenzionale del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità confermano l’esigenza che l’ordinamento appresti i necessari rimedi di tipo “preventivo” a tutela del detenuto. Questi rimedi possono essere innanzi tutto “interni” al sistema penitenziario, e quindi tali da comportare, in casi come quelli oggetto delle ordinanze di rimessione, non già la sospensione dell’esecuzione carceraria della pena, ma, ad esempio, più semplicemente, lo spostamento del detenuto in un’altra camera di detenzione o il suo trasferimento in un altro istituto penitenziario.
Esiste dunque, in primo luogo, uno spazio per interventi dell’amministrazione penitenziaria che devono essere indirizzati alla salvaguardia, congiuntamente, del diritto a non subire trattamenti disumani e della finalità rieducativa della pena, perché il contesto «non dissociabile» nel quale vanno collocati i due princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost. esclude l’ammissibilità di interventi che, allo scopo di porre rimedio a una lesione del primo, determinino una compromissione della seconda.
È inoltre necessario che, a garanzia della preminenza dei principi costituzionali ai quali deve conformarsi l’esecuzione della pena, gli interventi dell’amministrazione penitenziaria si trovino inseriti in un contesto di effettiva tutela giurisdizionale.
Vengono in considerazione al riguardo le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela dei diritti del detenuto: per un verso, infatti, alle disposizioni impartite, nel corso del trattamento, dal magistrato di sorveglianza, a norma dell’art. 69, comma 5, dell’ordinamento penitenziario, è stata riconosciuta natura di «prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante per l'amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue» (sentenza n. 266 del 2009); per altro verso, si è più di recente affermato che «le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo la procedura contenziosa di cui all’art. 14-ter ord. pen., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria o di altre autorità» (sentenza n. 135 del 2013).
Sono perciò superate le incertezze espresse, sia dalla Corte di Strasburgo, sia dai rimettenti, sull’effettività di tali decisioni, e dunque sulla loro capacità di porre fine a condizioni detentive intollerabili; tuttavia, anche per dare compiuta attuazione alle prescrizioni della sentenza Torreggiani, il legislatore, per porre termine a residue ambiguità dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe completare il sistema apprestando idonei strumenti esecutivi in modo da rendere certa l’ottemperanza dell’amministrazione alle decisioni della magistratura di sorveglianza.
7.2.– Chiarito l’ambito entro il quale situazioni lesive del principio di umanità della pena possono e devono essere affrontate attraverso i rimedi “interni”, occorre stabilire se questi possano essere sufficienti o se invece sia necessaria una norma di chiusura per il caso in cui, a causa del sovraffollamento, questi rimedi non siano in grado di operare efficacemente, e se tale norma, come prospettano i rimettenti, debba necessariamente prevedere un rinvio dell’esecuzione della pena, da rendere possibile per il giudice attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen.
Come ha rilevato fondatamente la sentenza Torreggiani, considerate le dimensioni strutturali del sovraffollamento carcerario in Italia è facile immaginare che le autorità penitenziarie non siano sempre in grado di dare esecuzione alle decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai reclusi condizioni detentive conformi alla CEDU. Perciò deve riconoscersi che il sovraffollamento carcerario può nella realtà assumere dimensioni e caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità e da rendere al tempo stesso impraticabili i rimedi “interni” di cui si è parlato. In questi casi occorre un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie.
8.– Riconosciute, dunque, nei limiti indicati, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dai rimettenti e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità, le questioni sollevate dai tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano risultano, tuttavia, inammissibili per la pluralità di soluzioni normative che potrebbero essere adottate; pluralità che fa escludere l’asserito carattere “a rime obbligate” dell’intervento additivo sull’art. 147 cod. pen. Oltre al mero rinvio dell’esecuzione della pena, sono, infatti, ipotizzabili altri tipi di rimedi “preventivi”, come, ad esempio, quelli modellati sulle misure previste dagli artt. 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, ad alcune delle quali si è fatto riferimento nel dibattito seguito alla sentenza Torreggiani; misure che per ovviare alla situazione di invivibilità derivante dal sovraffollamento carcerario potrebbero essere adottate dal giudice anche in mancanza delle condizioni oggi tipicamente previste. In particolare potrebbe ipotizzarsi un ampio ricorso alla detenzione domiciliare, sempre che le condizioni personali lo consentano, o anche ad altre misure di carattere sanzionatorio e di controllo diverse da quelle attualmente previste, da considerare forme alternative di esecuzione della pena. È da ritenere infatti che lo stesso condannato potrebbe preferire misure del genere e non avere interesse a un rinvio come quello prospettato dai rimettenti, che potrebbe lasciare a lungo aperta la sua vicenda esecutiva.
D’altra parte, anche a seguire l’impostazione dei giudici rimettenti, potrebbe essere necessaria la definizione di criteri in base ai quali individuare il detenuto o i detenuti nei cui confronti il rinvio può essere disposto, in modo da tenere anche conto delle esigenze di “difesa sociale”, richiamate nelle ordinanze di rimessione.
Da vari punti di vista, dunque, risulta la pluralità di possibili configurazioni dello strumento normativo occorrente per impedire che si protragga un trattamento detentivo contrario al senso di umanità, in violazione degli artt. 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 3 della CEDU, e a fronte di tale pluralità, il «rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013) comporta una dichiarazione di inammissibilità delle questioni.
Nel dichiarare l’inammissibilità «questa Corte deve tuttavia affermare come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia» (sentenza n. 23 del 2013).

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti e dell’Unione delle Camere penali italiane;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, sollevate, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di sorveglianza di Venezia e dal Tribunale di sorveglianza di Milano, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2013.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI