Ordinanza 324/2011

Ordinanza 324/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore MAZZELLA

Camera di Consiglio del 21/09/2011 Decisione del 21/11/2011
Deposito del 25/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Sentenza n. 234/2011 del 19-22 luglio 2011
Massime:
Atti decisi: ord. 375/2010


ORDINANZA N. 324

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,



ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per la correzione di errore materiale contenuto nella sentenza n. 234 del 19-22 luglio 2011.

Udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella.



Considerato che, nella motivazione della sentenza, nella parte relativa al Ritenuto in fatto, per mero errore materiale a pagina 4, primo capoverso, paragrafo 3, la data di deposito della memoria del Presidente del Consiglio dei ministri, è stata individuata nel 23 dicembre 2011, anziché nel 28 dicembre 2010; e che, sempre per mero errore materiale, a pagina 5, secondo capoverso, paragrafo 5, la data di deposito della memoria della parte privata è stata individuata nel 14 giugno 2001, anziché nel 14 giugno 2011;

ravvisata la necessità di correggere gli errori materiali suddetti.

Visto l’art. 21 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dispone che nella sentenza n. 234 del 2011 sia corretto il seguente errore materiale: a pagina 4, primo capoverso, paragrafo 3, del Ritenuto in fatto, la data di deposito della memoria del Presidente del Consiglio dei ministri, in luogo della data, ivi indicata, del 23 dicembre 2011, debba intendersi e leggersi 28 dicembre 2010; inoltre, a pagina 5, secondo capoverso, paragrafo 5, in luogo della data, ivi indicata, del 14 giugno 2001, debba intendersi e leggersi 14 giugno 2011.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Ordinanza 324/2011

Ordinanza 324/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore MAZZELLA

Camera di Consiglio del 21/09/2011 Decisione del 21/11/2011
Deposito del 25/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Sentenza n. 234/2011 del 19-22 luglio 2011
Massime:
Atti decisi: ord. 375/2010


ORDINANZA N. 324

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,



ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per la correzione di errore materiale contenuto nella sentenza n. 234 del 19-22 luglio 2011.

Udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella.



Considerato che, nella motivazione della sentenza, nella parte relativa al Ritenuto in fatto, per mero errore materiale a pagina 4, primo capoverso, paragrafo 3, la data di deposito della memoria del Presidente del Consiglio dei ministri, è stata individuata nel 23 dicembre 2011, anziché nel 28 dicembre 2010; e che, sempre per mero errore materiale, a pagina 5, secondo capoverso, paragrafo 5, la data di deposito della memoria della parte privata è stata individuata nel 14 giugno 2001, anziché nel 14 giugno 2011;

ravvisata la necessità di correggere gli errori materiali suddetti.

Visto l’art. 21 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dispone che nella sentenza n. 234 del 2011 sia corretto il seguente errore materiale: a pagina 4, primo capoverso, paragrafo 3, del Ritenuto in fatto, la data di deposito della memoria del Presidente del Consiglio dei ministri, in luogo della data, ivi indicata, del 23 dicembre 2011, debba intendersi e leggersi 28 dicembre 2010; inoltre, a pagina 5, secondo capoverso, paragrafo 5, in luogo della data, ivi indicata, del 14 giugno 2001, debba intendersi e leggersi 14 giugno 2011.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Sentenza 323/2011

Sentenza 323/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore GALLO

Udienza Pubblica del 08/11/2011 Decisione del 21/11/2011
Deposito del 25/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 27, c. 4°, della legge della Provincia autonoma di Trento 27/12/2010, n. 27.
Massime:
Atti decisi: ric. 18/2011


SENTENZA N. 323

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 4, della legge della Provincia autonoma di Trento 27 dicembre 2010, n. 27 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2011 e pluriennale 2011-2013 della Provincia autonoma di Trento – legge finanziaria provinciale 2011), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 febbraio - 4 marzo 2011, depositato in cancelleria l’8 marzo 2011 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2011.

Visto l’atto di costituzione della Provincia autonoma di Trento;

udito nell’udienza pubblica dell’8 novembre 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento.



Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato tramite il servizio postale, spedito il 28 febbraio 2011 e depositato il successivo 8 marzo 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 4, della legge della Provincia autonoma di Trento 27 dicembre 2010, n. 27 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2011 e pluriennale 2011-2013 della Provincia autonoma di Trento − legge finanziaria provinciale 2011), per violazione degli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) e 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

La disposizione censurata stabilisce che: «Per il periodo di imposta in corso al 1° gennaio 2011 e per i due successivi, nei confronti dei soggetti passivi che versano contributi agli enti bilaterali che erogano prestazioni di sostegno al reddito sulla base di criteri definiti dalla Giunta provinciale, è riconosciuta una detrazione dell’IRAP dovuta alla Provincia pari al 90 per cento dell’importo del contributo versato nel corrispondente periodo di imposta ai predetti enti bilaterali. La predetta detrazione non può in ogni caso comportare, se cumulata con altre agevolazioni d’aliquota IRAP spettanti nel periodo d’imposta, un’agevolazione IRAP complessiva superiore a 0,92 punti percentuali del valore della produzione netta realizzata nel territorio provinciale. Con provvedimento della Giunta provinciale sono inoltre individuati gli enti bilaterali che erogano prestazioni di sostegno al reddito che danno diritto alla detrazione d’imposta disciplinata da questo comma».

Il ricorrente afferma che tale normativa regionale si pone in contrasto con l’art. 16, comma 3, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), il quale (nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 23, comma 5, lettera b, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111) consente alle Regioni – e, quindi, alle Province autonome della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol – di variare l’aliquota dell’IRAP, ma non di introdurre detrazioni d’imposta («A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del presente decreto, le regioni hanno facoltà di variare l’aliquota di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale. La variazione può essere differenziata per settori di attività e per categorie di soggetti passivi»).

Sempre secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la previsione di detrazioni d’imposta non è consentita alla Provincia autonoma neppure dal comma 1-bis dell’art. 73 del d.P.R. n. 670 del 1972 (aggiunto dall’art. 2, comma 107, lettera c, numero 2, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2010»), secondo il quale: «Le province, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, possono in ogni caso modificare aliquote e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale». Infatti, detta disposizione statutaria consentirebbe alle Province autonome del Trentino-Alto Adige di introdurre detrazioni relativamente a un tributo erariale solo se la legge statale che disciplina quello specifico tributo preveda espressamente tale facoltà; facoltà che nella specie, però, il citato art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997, non prevedrebbe in relazione all’IRAP.

Né, sostiene ancora il ricorrente, il comma 3 dell’art. 16 del d.lgs. n. 446 del 1997 potrebbe essere interpretato nel senso di permettere alle Regioni «una qualsiasi rimodulazione del tributo» (compresa, quindi, l’introduzione di detrazioni) purché all’interno del «limite globale quantitativo» costituito dal massimo della variazione percentuale dell’aliquota IRAP consentita da tale comma (un punto). Secondo il ricorrente, infatti, il comma 3 dell’art. 16 del d.lgs. n. 446 del 1997 esclude «in radice» qualsiasi intervento sui meccanismi di applicazione del tributo diversi dalla variazione dell’aliquota e, quindi, la facoltà delle Regioni di prevedere detrazioni, «indipendentemente dall’effetto economico» delle stesse. Tale “radicale” esclusione risponderebbe anche ad esigenze di semplificazione del sistema tributario, atteso che, mentre la previsione di aliquote differenziate nelle varie Regioni darebbe luogo a «problemi relativi di applicazione […] ben altre complicazioni deriverebbero dalla possibilità che ciascuna regione intervenga con specifiche detrazioni, esenzioni o altro». Ne consegue che il fatto che la disposizione impugnata preveda che la detrazione da essa introdotta «non può in ogni caso comportare, se cumulata con altre agevolazioni d’aliquota IRAP spettanti nel periodo d’imposta, un’agevolazione IRAP complessiva superiore a 0,92 punti percentuali del valore della produzione netta realizzata nel territorio provinciale» non è idoneo a fare ritenere consentita, ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997, la previsione di detta detrazione da parte della Provincia autonoma.

Sulla base di queste considerazioni, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma conclusivamente che la disposizione denunciata «eccede la competenza statutaria provinciale di cui agli articoli 8 e 9 dello Statuto di autonomia e si pone in contrasto sia con l’art. 73 comma 1 bis dello stesso Statuto che con l’articolo 16 comma 3 del D.Lgs. n. 446/97 e conseguentemente viola l’articolo 117, comma 2, lett. e), della Costituzione in materia di sistema tributario». La difesa dello Stato chiede, perciò, che l’art. 27, comma 4, della legge provinciale n. 27 del 2010 sia dichiarato costituzionalmente illegittimo «nelle parti e per i motivi illustrati».

2. – Si è costituita in giudizio la Provincia autonoma di Trento, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

La resistente Provincia sottolinea anzitutto che la legislazione statale in materia di IRAP prevede che le Regioni possano: a) variare l’aliquota (art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 446 del 1997); b) introdurre riduzioni o esenzioni nei confronti di determinati soggetti, quali le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) e le aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP) (art. 21, comma 1, del d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, recante «Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale», a norma del quale: «I comuni, le province, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono deliberare nei confronti delle ONLUS la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti»; art. 1, comma 299, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2006», a norma del quale: «Le regioni che si sono avvalse della facoltà di cui all’articolo 21 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, possono estendere il regime agevolato, deliberato nei confronti delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, in materia di riduzione o esenzione dell’imposta di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, anche alle Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP)»); c) «modificare l’aliquota, le detrazioni e le deduzioni, nonché introdurre speciali agevolazioni» (comma 43 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2008», secondo cui, a decorrere dal 1° gennaio 2009, l’IRAP «assume la natura di tributo proprio della regione»), nei «limiti stabiliti dalle leggi statali», secondo quanto stabilito per le Regioni a statuto ordinario dall’art. 1, comma 43, terzo periodo, della legge n. 244 del 2007, e nei «limiti richiesti dai rispettivi Statuti», secondo quanto stabilito per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome dall’art. 3, comma 159, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), richiamato dall’art. 1, comma 43, quarto periodo, della legge n. 244 del 2007.

Il riconoscimento alle Regioni, ad opera delle leggi statali, della possibilità di introdurre riduzioni o esenzioni dall’IRAP (sia pure nei confronti di determinati soggetti) e l’espressa menzione, nelle stesse leggi, delle detrazioni (con rinvio ai limiti richiesti dagli statuti speciali), comporta, secondo la difesa provinciale, che la detrazione stabilita dalla disposizione impugnata deve ritenersi consentita dall’art. 73, comma 1-bis, dello statuto di autonomia. Detto comma 1-bis del d.P.R. n. 670 del 1972, infatti, anche se assunto nell’«interpretazione restrittiva» fatta propria dall’Avvocatura dello Stato, deve essere inteso nel senso che, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato prevede la possibilità di riduzioni e detrazioni («ne prevede la possibilità») – come appunto avviene, ai sensi delle norme sopra indicate, per l’IRAP – le Province del Trentino-Alto Adige possono liberamente («in ogni caso») introdurle, anche con riferimento a soggetti diversi da quelli espressamente menzionati dalle leggi dello Stato (in particolare, dall’art. 21 del d.lgs. n. 460 del 1997 e dall’art. 1, comma 299, della legge n. 266 del 2005), purché nei limiti delle «aliquote superiori» dalle stesse fissate. Tale conclusione sarebbe confermata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 357 del 2010 che, proprio in base di detta disposizione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, ha affermato la possibilità, per la Provincia di Trento, di ridurre le aliquote speciali dell’IRAP nonostante che la legge statale consenta alle Regioni di modificare solo l’aliquota base di tale imposta.

Né questa conclusione sarebbe smentita dal fatto che l’art. 18 della legge della Provincia autonoma di Trento 12 settembre 2008, n. 16 (Disposizioni per la formazione dell’assestamento del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 e per la formazione del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento − legge finanziaria provinciale 2009), istitutiva dell’imposta provinciale sulle attività produttive (IPAP), quale tributo proprio della Provincia autonoma di Trento, assoggetta detta IPAP «alla disciplina statale e provinciale sull’IRAP». Tale rinvio, infatti, dovrebbe «essere letto in collegamento sistematico con l’art. 73, co. 1-bis, dello Statuto speciale», con la conseguenza che la disciplina statale deve considerarsi vincolante solo nei limiti previsti da tale norma statutaria.

Tale interpretazione dell’art. 73, comma 1-bis, dello statuto speciale sarebbe, del resto, coerente con la devoluzione alle Regioni del gettito dell’IRAP e con l’attribuzione a tale imposta della qualificazione di tributo proprio della Regione (art. 1, comma 43, della legge n. 244 del 2007) e non sarebbe messa in dubbio dall’affermazione del ricorrente secondo la quale l’introduzione di detrazioni comporterebbe «ben altre complicazioni» rispetto alla variazione delle aliquote, tenuto conto che lo stesso ricorrente non ha chiarito in cosa tali complicazioni consisterebbero.

3. – In prossimità della pubblica udienza la Provincia autonoma di Trento ha depositato una memoria nella quale ribadisce le argomentazioni e le conclusioni contenute nel proprio atto di costituzione in giudizio.

4. – Nell’imminenza dell’udienza anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale deduce che: a) anche dopo la “regionalizzazione” dell’IRAP stabilita dall’art. 1, comma 43, della legge n. 244 del 2007, tale imposta «resta un tributo disciplinato dalla legge statale in alcuni suoi elementi strutturali e, quindi, in questo senso “erariale”» (come affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 357 del 2010); b) la disposizione di cui al comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige «non può essere invocata dalla Provincia come “copertura” statutaria all’esercizio del suo potere in materia di IRAP» perché, essendo stata aggiunta al d.P.R. n. 670 del 1975 (recte: 1972) dalla legge n. 191 del 2009 – cioè da una legge ordinaria −, essa non ha «rango costituzionale». La difesa dello Stato ribadisce, quindi, la richiesta alla Corte costituzionale di dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata.



Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) e all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 4, della legge della Provincia autonoma di Trento 27 dicembre 2010, n. 27 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2011 e pluriennale 2011-2013 della Provincia autonoma di Trento − legge finanziaria provinciale 2011).

La disposizione impugnata stabilisce che: «Per il periodo di imposta in corso al 1° gennaio 2011 e per i due successivi, nei confronti dei soggetti passivi che versano contributi agli enti bilaterali che erogano prestazioni di sostegno al reddito sulla base di criteri definiti dalla Giunta provinciale, è riconosciuta una detrazione dell’IRAP dovuta alla Provincia pari al 90 per cento dell’importo del contributo versato nel corrispondente periodo di imposta ai predetti enti bilaterali. La predetta detrazione non può in ogni caso comportare, se cumulata con altre agevolazioni d’aliquota IRAP spettanti nel periodo d’imposta, un’agevolazione IRAP complessiva superiore a 0,92 punti percentuali del valore della produzione netta realizzata nel territorio provinciale. Con provvedimento della Giunta provinciale sono inoltre individuati gli enti bilaterali che erogano prestazioni di sostegno al reddito che danno diritto alla detrazione d’imposta disciplinata da questo comma».

Secondo il ricorrente, tale comma è illegittimo perché si pone in contrasto con l’art. 16, comma 3, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), il quale − nello stabilire, nel testo vigente al momento della proposizione del ricorso, che, «A decorrere dal terzo anno successivo a quello di emanazione del presente decreto, le regioni hanno facoltà di variare l’aliquota di cui al comma 1 fino ad un massimo di un punto percentuale» e che «La variazione può essere differenziata per settori di attività e per categorie di soggetti passivi» − attribuisce alle Regioni la facoltà di variare soltanto l’aliquota base dell’IRAP e non anche quella di stabilire detrazioni di imposta, come invece fa la disposizione impugnata. L’indicato contrasto con la normativa statale comporta, ad avviso del ricorrente, che la denunciata normativa provinciale: a) eccede le competenze legislative della Provincia stabilite dagli artt. 8 e 9 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; b) víola sia l’art. 73, comma 1-bis, del medesimo statuto di autonomia − che consente alle Province autonome del Trentino-Alto Adige di modificare aliquote e di prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni soltanto relativamente ai tributi erariali «per i quali lo Stato ne prevede la possibilità» − sia, conseguentemente, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva allo Stato la disciplina dei tributi erariali, salvi, appunto, gli interventi consentiti alla Provincia dallo stesso comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto.

2. – La questione non è fondata, perché la detrazione dell’IRAP prevista dalla disposizione provinciale impugnata è consentita dal comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige.

2.1. – Il suddetto comma – aggiunto, a far data dal 1° gennaio 2010, dall’art. 2, comma 107, lettera c), numero 2), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato−legge finanziaria 2010) – stabilisce che: «Le province, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne prevede la possibilità, possono in ogni caso modificare aliquote e prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale». Tale disposizione statutaria va interpretata – come evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 357 del 2010 – nel senso che, nell’ipotesi in cui il gettito di un tributo erariale sia interamente devoluto alle Province, queste, ove la legge statale consenta loro una qualche manovra sulle aliquote, sulle esenzioni, sulle detrazioni o sulle deduzioni («ne prevede la possibilità»), possono liberamente («in ogni caso») compiere una qualsiasi di tali manovre, purché essa non abbia l’effetto economico di superare il limite delle «aliquote superiori» fissate dalla legge statale.

Non può essere condivisa, pertanto, la tesi del ricorrente secondo cui, in base allo statuto di autonomia, le Province potrebbero adottare solo la specifica modifica del tributo erariale espressamente consentita dalla legge statale. Il suddetto parametro statutario, attribuendo alle Province ampia libertà di manovra, le autorizza, infatti, ad introdurre modifiche anche diverse da quelle indicate dalla legge dello Stato e, quindi, ad influire sul gettito del tributo erariale ad esse destinato, alla sola condizione che le modifiche apportate non determinino una pressione tributaria maggiore di quella derivante dall’applicazione dell’aliquota massima consentita. Ne consegue che, entro tali limiti, le Province potranno prevedere esenzioni o detrazioni anche nell’ipotesi in cui la legge statale consenta solo la variazione dell’aliquota.

2.2. − Nella specie, il denunciato art. 27, comma 4, della legge della Provincia autonoma di Trento n. 27 del 2010 rispetta tutte le condizioni ed i limiti previsti dal citato art. 73, comma 1-bis – come sopra interpretato in base alla richiamata giurisprudenza di questa Corte – affinché le Province possano modificare la disciplina del tributo erariale. Esso, infatti, nell’introdurre una detrazione dell’IRAP: a) ha ad oggetto un tributo erariale il cui gettito, salve le disposizioni transitorie di cui all’art. 26 del d.lgs. n. 446 del 1997, è interamente devoluto alle Province autonome, ai sensi degli artt. 15 e 24, comma 2, del medesimo decreto legislativo; b) trae fondamento da norme statali (commi 1 e 3 dell’art. 16 del d.lgs. n. 446 del 1997), le quali consentono a dette Province di variare sia l’aliquota base, sia – per effetto delle modifiche apportate dall’art. 23, comma 5, lettera b, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 – le aliquote speciali previste dal comma 1-bis dello stesso art. 16; c) comporta necessariamente una diminuzione del gettito del tributo e, quindi, rispetta i «limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale».

La detrazione dell’IRAP prevista dalla disposizione censurata, pur non essendo espressamente autorizzata dal d.lgs. n. 446 del 1997, è, perciò, consentita dal richiamato parametro statutario dell’art. 73, comma 1-bis, del d.P.R. n. 670 del 1972.

2.3. – È appena il caso di osservare che è privo di fondamento il rilievo del ricorrente circa la carenza di «rango costituzionale» del predetto comma 1-bis dell’art. 73. Egli fonda tale affermazione – peraltro contrastante con l’evocazione di detto comma a parametro della sollevata questione – sul fatto che tale norma è stata aggiunta allo statuto speciale da una disposizione di legge ordinaria e, cioè, dall’art. 2, comma 107, lettera c), numero 2), della legge n. 191 del 2009.

Così argomentando, il ricorrente omette, però, di considerare che: a) detto comma 107 rientra tra le disposizioni che, come precisato dal comma 106 dello stesso art. 2, sono state «approvate ai sensi e per gli effetti dell’articolo 104» dello statuto di autonomia; b) il primo comma di quest’ultimo articolo prevede che le norme del Titolo VI dello statuto stesso – titolo in cui è ricompreso anche l’art. 73 del d.P.R. n. 672 del 1970 – «possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato su concorde richiesta del Governo e, per quanto di rispettiva competenza, della regione e delle due province»; c) per costante giurisprudenza di questa Corte, le norme dello statuto di autonomia adottate con tale speciale procedimento «possono essere utilizzate come parametro del giudizio di costituzionalità» (sentenza n. 263 del 2005; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 287 del 2005 e n. 520 del 2000).

Ne deriva che anche al comma 1-bis dell’art. 73 dello statuto, ancorché introdotto con una legge ordinaria dello Stato, va riconosciuta attitudine a fungere da parametro nel giudizio di legittimità costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 4, della legge della Provincia autonoma di Trento 27 dicembre 2010, n. 27 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2011 e pluriennale 2011-2013 della Provincia autonoma di Trento − legge finanziaria provinciale 2011), promossa, in riferimento agli artt. 8, 9 e 73, comma 1-bis, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) e all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Sentenza 322/2011

Sentenza 322/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore GROSSI

Camera di Consiglio del 09/11/2011 Decisione del 21/11/2011
Deposito del 25/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 245 del codice civile.
Massime:
Atti decisi: ord. 154/2011


SENTENZA N. 322

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Catania nel procedimento vertente tra P.O. e P.M.A. ed altra con ordinanza del 5 aprile 2011, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi.



Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio civile – instaurato, con atto di citazione notificato il 29 aprile 2009, da un soggetto interdetto (in persona del tutore pro-tempore), per ottenere il disconoscimento della paternità del figlio, minore d’età al momento della domanda – il Tribunale ordinario di Catania, con ordinanza emessa il 5 aprile 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine annuale di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità sia sospeso, non solo quando la parte interessata si trovi in stato di interdizione per infermità mentale, ma anche quando questa si trovi in stato di incapacità naturale.

1.1 – Il rimettente premette, in fatto, che (precedentemente alla proposizione del giudizio a quo) il medesimo Tribunale aveva dichiarato l’interdizione dell’attore, con sentenza del 30 gennaio 2004, e, quindi, con sentenza del 6 luglio 2007, la nullità per infermità mentale del matrimonio, contratto in data 15 dicembre 1990 con la convenuta, dal quale il 19 febbraio 1992 era nato il figlio minore.

Il Tribunale rappresenta, quindi, che – a fronte della affermazione, posta a fondamento della domanda, secondo cui il convenuto non poteva essere figlio dell’interdetto, per mancata coabitazione dei coniugi nel periodo compreso tra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita, per impotenza del marito durante il tempo suddetto e per esistenza di una relazione extraconiugale della moglie – parte convenuta ha eccepito pregiudizialmente l’intervenuta decadenza dall’azione di disconoscimento ai sensi dell’art. 244 cod. civ. atteso che, fino alla pronuncia della sentenza di interdizione, l’attore era pienamente capace di agire giuridicamente.

Il rimettente – osservato che, dagli accertamenti effettuati e dalle conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici nel corso dei due giudizi di interdizione e di nullità del matrimonio, emerge («senza che nessuna effettiva contestazione» sia stata mossa dalle parti convenute sull’esistenza di tale incapacità) che l’attore è «soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravità da renderlo incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma altresì di esprimere giudizi […] possedere capacità di critica tali da autodeterminarsi [...] e, dunque formarsi una autonoma volontà e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo della capacità di intendere e di volere» – rileva che la norma censurata (insuscettibile di applicazione analogica) fa specifico richiamo allo «stato di interdizione per infermità di mente» e si riferisce unicamente alle ipotesi in cui il soggetto interessato sia giuridicamente incapace per effetto della conclusione del procedimento di interdizione; e pertanto pone l’incapace naturale nella medesima condizione del soggetto pienamente capace di intendere e di volere e di acquisire conseguentemente piena consapevolezza dei fatti che fondano l’azione (a differenza di quanto avviene per il compimento di atti e negozi giuridici, ex art. 428 cod. civ.).

1.2 – Affermata la rilevanza della questione nel giudizio a quo (giacché, non operando nella specie la sospensione di cui alla norma censurata, non potrebbe che dichiararsi l’attore decaduto dall’azione), il rimettente ne deduce, in primo luogo il contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto essa irragionevolmente sottopone alla medesima disciplina due soggetti (quello pienamente capace di intendere e di volere e quello incapace naturalmente al momento in cui è sorto lo status) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa.

In secondo luogo, il Tribunale ritiene che la norma, alla luce della evoluzione della giurisprudenza costituzionale riferita alla individuazione del momento di decorrenza del termine in esame nelle ipotesi in cui a promuovere l’azione sia il padre, contrasti con l’art. 24 Cost., avendo questa Corte sottolineato che il diritto di azione e i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti vengono irrimediabilmente lesi «quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso» (sentenza n. 170 del 1999, richiamata insieme alla sentenza n. 134 del 1985).

Il rimettente rileva dunque che la disposizione impugnata di fatto impedisce al soggetto titolare di un’azione personalissima, che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione, di poterla validamente esperire, senza che tale sostanziale privazione del diritto di agire possa essere giustificata da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis; laddove anzi la verità biologica della procreazione è stata ritenuta (nelle sentenze n. 216 e n. 112 del 1997) una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, essendo stata riconosciuta espressamente l’esigenza di garantire al figlio il diritto alla propria identità e precisamente all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico rispetto al quale può recedere l’intangibilità dello status, allorché esso risulti privato del fondamento della presunta corrispondenza alla verità biologica e quando risulti tempestivamente azionato il diritto.

Né varrebbe obiettare, per il giudice a quo, che l’estensione della sospensione di cui all’art. 245 cod. civ. comporterebbe, di fatto, l’inoperatività del termine, poiché tale effetto è possibile pur nell’ipotesi di soggetto che si trovi in stato di interdizione, atteso che il tutore può, e non deve, promuovere l’azione di disconoscimento dopo che sia intervenuta la sua nomina.



Considerato in diritto

1. – Il Tribunale ordinario di Catania censura l’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine annuale di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità sia sospeso, non solo quando la parte interessata si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, ma anche quando questa si trovi in stato di incapacità naturale.

Il rimettente – premesso che (precedentemente alla proposizione del giudizio a quo) l’attore era stato dichiarato interdetto con sentenza del 30 gennaio 2004, e che, con successiva sentenza del 6 luglio 2007, era stata altresì dichiarata la nullità, per infermità mentale, del matrimonio contratto con la convenuta in data 15 dicembre 1990, da cui, il 19 febbraio 1992, era nato il figlio – osserva che, dagli accertamenti effettuati e dalle conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici nel corso di predetti giudizi, l’attore è «soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravità da renderlo incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma altresì di esprimere giudizi […] possedere capacità di critica tali da autodeterminarsi [...] e, dunque formarsi una autonoma volontà e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo della capacità di intendere e di volere».

Il Tribunale denuncia, quindi, il contrasto della norma, in primo luogo, con l’art. 3 della Costituzione, in quanto sottopone irragionevolmente alla medesima disciplina due soggetti (quello pienamente capace di intendere e di volere e quello incapace naturalmente al momento in cui è sorto lo status) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa. E, in secondo luogo, con l’art. 24 Cost., poiché – avendo questa Corte sottolineato (nelle sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985) che il diritto di azione e i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti vengono irrimediabilmente lesi «quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso» – impedisce al soggetto titolare di un’azione personalissima che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione, di poterla validamente esperire, senza che tale sostanziale privazione del diritto di agire possa essere giustificata da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis.

2. – La questione è fondata.

2.1. – L’art. 245 cod. civ. stabilisce che «Se la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente, la decorrenza del termine indicato nell’articolo precedente è sospesa, nei suoi confronti, sino a che dura lo stato di interdizione. L’azione può tuttavia essere promossa dal tutore».

La disposizione si colloca nel contesto del sistema che regolamenta i termini di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità del figlio concepito durante il matrimonio ex art. 244 cod. civ., nei casi indicati dal primo comma del precedente art. 235. In particolare, essa predispone una peculiare garanzia di conservazione del diritto di azione in capo a colui il quale sia stato dichiarato interdetto per infermità di mente, in ragione del fatto che il soggetto si trova nella impossibilità, per la accertata incapacità di provvedere ai propri interessi, di proporre consapevolmente (conoscendone i presupposti e rappresentandosene coscientemente gli effetti) la propria domanda giudiziale che trae origine dalla scelta di far valere un diritto personalissimo.

2.2. – Il rimedio della sospensione dei termini previsto dalla norma censurata riposa, d’altronde, sulla medesima ratio che ha condotto questa Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 244, secondo comma, cod. civ., dapprima, «nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dal numero 3 dell’art. 235 dello stesso codice, che il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie» (sentenza n. 134 del 1985), e, successivamente, «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal numero 2) dell’art. 235 cod. civ. decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare» (sentenza n. 170 del 1999); nonché, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, del primo comma dello stesso art. 244 cod. civ. «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare di cui al numero 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per la moglie dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito» (sentenza n. 170 del 1999, cit.).

Tali pronunce si fondano sulla duplice affermazione della irragionevolezza della previsione di una preclusione dell’esercizio dell’azione di disconoscimento al soggetto che non sia a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima; e della irrimediabile lesione del diritto di azione che si verifica allorquando si consenta che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso.

2.3. – Orbene, risulta palese come una identica esigenza di dare effettività a tale garanzia (affermata da questa Corte con riguardo ai termini di cui all’art. 244 cod. civ.) sia teleologicamente sottesa anche alla scelta legislativa, tradotta nella disposizione oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità, di sospendere sine die la decorrenza del termine di proposizione dell’azione de qua nel caso in cui la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, e quindi nella situazione di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e di poterla validamente esperire. Ma ciò porta ad affermare che la tutela approntata dalla norma censurata dipende, non già dalla formale perdita della capacità di agire del soggetto quale conseguenza della dichiarazione di interdizione, bensì dall’accertamento della sussistenza in concreto di una gravemente menomata condizione intellettiva e volitiva del medesimo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 414 cod. civ.

Poiché, però, la inequivoca previsione di cui all’art. 245 cod. civ. non consente di estenderne interpretativamente la operatività anche rispetto ad un soggetto formalmente capace, l’esclusione della praticabilità della omologa garanzia nei confronti di chi, sebbene non interdetto, si trovi (come nella specie) in eguali condizioni di abituale infermità di mente che lo rende incapace di provvedere ai propri interessi, determina la lesione di entrambi gli evocati parametri (artt. 3 e 24 Cost.). Ciò, a causa sia della irragionevole equiparazione del soggetto capace a quello di fatto incapace, ovvero (specularmente) dell’irragionevole diversità di trattamento riservata a soggetti che versino in un’identica situazione di abituale grave infermità di mente, che preclude in entrambi i casi la conoscenza dei fatti costitutivi dell’azione in esame; sia della contestuale lesione del diritto di azione – e del correlato principio di tendenziale corrispondenza, in materia di status, tra certezza formale e verità naturale (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997) – impedito al titolare di un’azione personalissima che si trovi nella condizione di non avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e quindi nella impossibilità di esperirla validamente e tempestivamente.

Pertanto, l’art. 245 cod. civ. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri lo stato di incapacità naturale.

2.4. – Ovviamente, rispetto alla esigenza di individuare se, quando e per quanto tempo il soggetto non abbia avuto coscienza dei fatti in presenza dei quali sorge il suo potere di agire, va precisato che – seppure la previsione di cui alla norma in esame è connotata, sul piano probatorio, da una presunzione ex lege di mancata conoscenza (da intendersi quale assenza di consapevolezza dei relativi presupposti e cause, nonché di rappresentazione cosciente delle conseguenze) dei presupposti costitutivi dell’azione in esame da parte dei soggetti che siano stati dichiarati interdetti e finché dura lo stato di interdizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429 e 431 cod. civ. – l’estensione della garanzia della sospensione varrà evidentemente solo per quegli incapaci naturali rispetto ai quali (non già sulla base di una presunzione, bensì in ragione delle prove offerte, acquisite e valutate dal giudice) sia stato accertato che versino in uno stato di grave abituale infermità mentale, ossia che sussistano quei medesimi presupposti richiesti dall’art. 414 cod. civ. per la dichiarazione di interdizione, e fino a quando sia stato ugualmente provato (ove nel frattempo non si sia pervenuti autonomamente ad una dichiarazione di interdizione) il venir meno dello stato di incapacità. La qual cosa comporta che, come d’altronde previsto per l’interdetto, anche per l’incapace naturale – che non può, ovviamente, avvalersi dell’azione del tutore – varrà la medesima regola della corrispondenza della durata della sospensione della decorrenza del termine alla situazione di effettiva incapacità del soggetto che ne beneficia.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri tale stato di incapacità naturale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Sentenza 321/2011

Sentenza 321/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore SILVESTRI

Camera di Consiglio del 09/11/2011 Decisione del 21/11/2011
Deposito del 25/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Artt. 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 06/09/1999, n. 27.
Massime:
Atti decisi: ord. 164/2011


SENTENZA N. 321

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del dipartimento delle dipendenze patologiche delle aziende U.S.L.), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, nel procedimento vertente tra T.F. e l’Azienda USL Lecce/1, con ordinanza del 24 marzo 2011, iscritta al n. 164 del registro ordinanze 2011, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2011 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.



Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 24 marzo 2011, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del dipartimento delle dipendenze patologiche delle aziende U.S.L.), nel testo antecedente alle modifiche apportate con l’art. 14 della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e di servizi sociali).

La normativa regionale è censurata nella parte in cui riserva la direzione dei SerT (Servizi per le Tossicodipendenze) al solo personale medico, con esclusione di quello appartenente al profilo professionale di psicologo, in asserito contrasto con la disciplina statale del conferimento dei relativi incarichi dirigenziali, come prevista dall’art. 2, comma 1, della legge 18 febbraio 1999, n. 45 (Disposizioni per il Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga e in materia di personale dei Servizi per le tossicodipendenze). Si assume inoltre che la stessa normativa discriminerebbe senza giustificazione gli appartenenti al profilo professionale di psicologo, posto che, rispetto alle finalità ed ai compiti istituzionali dei SerT, le prestazioni di carattere psicologico e socio-riabilitativo assumono rilievo non inferiore a quelle di carattere medico-farmacologico.

1.1. – Il rimettente riferisce di essere investito del ricorso proposto da un dirigente psicologo di I livello (in servizio dal 1989 presso il SerT di Copertino e dal 1995 con l’incarico di responsabile) per ottenere l’annullamento della deliberazione del 5 ottobre 1999 del direttore generale dell’Azienda USL LE/1 di Lecce e di ogni altro atto connesso. L’impugnata deliberazione ha definito la pianta organica del Dipartimento delle dipendenze patologiche, istituendo tre sezioni dipartimentali, e ha disposto, in particolare, che le stesse siano dirette da un dirigente medico di II livello.

Tra gli atti connessi alla indicata deliberazione, il rimettente segnala «le deliberazioni della AUSL LE/1 di Lecce con cui viene indetta pubblica selezione […] per il conferimento degli incarichi di dirigente medico di II livello sui predetti tre posti, ovvero vengono banditi i concorsi interni riservati per soli titoli di cui all’art. 2 della legge n. 45 del 1999».

Il giudice a quo precisa che, a sostegno del ricorso, è prospettata l’illegittimità costituzionale degli artt. 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia n. 27 del 1999, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost.

Il rimettente dà atto che nel giudizio principale si è costituita l’Azienda USL LE/1 di Lecce, concludendo per l’inammissibilità o improponibilità del ricorso, e, in ogni caso, per il rigetto dello stesso.

1.2. – Riferisce ancora il Tribunale rimettente di avere già sollevato, con ordinanza del 7 luglio 2008, analoghe questioni di legittimità costituzionale delle norme regionali poste alla base dell’impugnata deliberazione.

La Corte costituzionale, con ordinanza n. 308 del 2010, ha disposto la restituzione degli atti per un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni, alla luce della sopravvenuta modifica del quadro normativo. Nelle more del giudizio incidentale, infatti, è entrata in vigore la legge reg. Puglia n. 4 del 2010, il cui art. 14, comma 1, ha modificato gli artt. 5, 11 e 13 della legge reg. n. 27 del 1999 nel senso auspicato dal rimettente.

2. – Il medesimo rimettente espone, a questo punto, le ragioni a sostegno della riproposizione delle questioni.

In primo luogo, il ricorso sarebbe «tutt’ora procedibile», in quanto la parte ricorrente può conseguire un risultato utile dall’annullamento della impugnata deliberazione del 5 ottobre 1999, pur a fronte della successiva deliberazione n. 3073 del 27 ottobre 2006, rimasta inoppugnata, con cui la stessa Azienda sanitaria ha «rideterminato gli ambiti territoriali e individuato le sedi delle istituite tre sezioni del Dipartimento delle dipendenze patologiche, prevedendo tre posti di dirigente medico di II livello», ai quali è affidata la direzione delle stesse sezioni. Tale ultimo atto risulterebbe, a parere del giudice a quo, meramente confermativo della decisione di «macro-organizzazione» assunta con la deliberazione del 1999, con la conseguenza che sarebbe anch’esso oggetto di annullamento in caso di accoglimento del ricorso.

Nemmeno sarebbe dirimente l’intervenuta adozione, da parte della stessa Azienda sanitaria, della deliberazione n. 753 del 2010, con cui è stato «indetto un avviso pubblico per il conferimento dell’incarico di Direttore di Struttura Complessa presso il SerT – Sezione Dipartimentale n. 2 di Copertino», aperto alla partecipazione del personale dirigenziale non medico, in attuazione della nuova disciplina introdotta con la legge reg. Puglia n. 4 del 2010.

Tale deliberazione risulta infatti impugnata dal ricorrente del giudizio principale dinanzi al giudice ordinario, sul rilievo che l’AUSL LE/1 di Lecce non avrebbe dovuto indire un avviso pubblico ai fini del conferimento dell’incarico sopra indicato, bensì un avviso interno per soli titoli, in attuazione del disposto dell’art. 2, comma 1, della legge n. 45 del 1999.

In ogni caso, poi, il giudice a quo sottolinea il carattere immediatamente lesivo della impugnata deliberazione n. 6003 del 1999, anche a prescindere dalla contestazione degli atti con i quali siano state indette le relative procedure concorsuali.

2.1. – Ciò posto, la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto gli artt. 5, 11 e 13 della legge reg. Puglia n. 27 del 1999 nel testo originario, discenderebbe dalla considerazione per cui «solo la invocata declaratoria di illegittimità costituzionale […] potrebbe evitare la reiezione del ricorso».

Le norme regionali censurate, secondo il rimettente, oltre ad essere alla base del provvedimento impugnato, «costituiscono inequivocabilmente una preclusione circa la possibilità per il ricorrente […] di accedere agli istituiti posti di dirigente di II livello, che l’AUSL LE/1 di Lecce ha stabilito di riservare al solo personale medico».

Ciò risulterebbe vero anche dopo che la legge reg. Puglia n. 4 del 2010 ha modificato le norme censurate nel senso auspicato, giacché il principio tempus regit actum imporrebbe l’applicazione, nel giudizio principale, di quelle stesse norme nella formulazione vigente al momento in cui è stato adottato il provvedimento amministrativo oggetto della domanda di annullamento.

2.2. – Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo ritiene che l’ambito materiale inciso dalle disposizioni oggetto di censura sia, prevalentemente, quello della disciplina dello stato giuridico del personale addetto al servizio sanitario nazionale.

La predetta materia, afferma il rimettente, «esorbita […] sia dalla competenza legislativa concorrente attribuita alle Regioni in materia di tutela della salute, sia dalla competenza legislativa residuale regionale prevista dal quarto comma dell’art. 117 Cost., rientrando invece nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., comprensiva della disciplina del lavoro pubblico “privatizzato”».

È richiamato in proposito l’art. 2, comma 1, della legge n. 45 del 1999, con il quale il legislatore statale avrebbe inteso «sanare» la situazione creatasi per la prolungata assenza di una normativa sul conferimento degli incarichi di direzione dei SerT La disposizione indicata ha infatti previsto il conferimento della direzione degli stessi Servizi, entro il 31 dicembre 1999, mediante concorsi interni per titoli, riservati al personale sanitario di ruolo che eserciti tali funzioni alla data di entrata in vigore della legge n. 45 del 1999, ovvero le abbia esercitate a partire dal 1° gennaio 1990 e fino alla data di entrata in vigore della medesima legge, anche in assenza di incarico formale. Occorre, inoltre, che il personale in questione sia in possesso dei requisiti per il conseguimento della qualifica apicale nel profilo professionale di appartenenza, ed abbia prestato servizio presso i SerT o strutture equipollenti per almeno sei anni, con rapporto di impiego o con contratto di prestazione d’opera professionale, per almeno ventiquattro ore settimanali.

A fronte della predetta disciplina statale, che avrebbe tra l’altro creato legittime aspettative nel personale appartenente a profili professionali diversi da quello medico, la normativa regionale censurata riserva al solo personale medico la direzione delle sezioni operative e gestionali del dipartimento delle dipendenze patologiche, e ciò sia a regime (artt. 5 e 11), sia nella fase di prima applicazione (art. 13), vale a dire con riferimento ai concorsi interni indetti (o da indire) ai sensi del citato art. 2, comma 1, della legge n. 45 del 1999.

Le richiamate disposizioni regionali risulterebbero, a parere del rimettente, «in evidente contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla vigente disciplina statale (dettata in materia di stato giuridico del personale addetto al SSN)».

2.3. – La normativa censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto l’esclusione del personale sanitario che riveste il profilo professionale di psicologo dalla direzione dei SerT sarebbe priva di giustificazione, alla luce delle peculiarità che connotano i Servizi per la cura delle tossicodipendenze.

Come agevolmente desumibile dalla normativa di settore, ed in particolare dal decreto del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro degli affari sociali, 30 novembre 1990, n. 444 (Regolamento concernente la determinazione dell’organico e delle caratteristiche organizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipendenze da istituire presso le unità sanitarie locali), nell’ambito dell’assistenza sanitaria le prestazioni di carattere psicologico e socio-riabilitativo non presentano minore rilievo rispetto a quelle di tipo prettamente medico-farmacologico. I compiti istituzionali dei SerT – sempre a parere del rimettente – non si limitano alla diagnosi e alla cura farmacologica delle dipendenze, investendo più globalmente l’analisi del comportamento della persona, con finalità di recupero sociale della stessa.



Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, dubita, in riferimento agli articoli 3 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del dipartimento delle dipendenze patologiche delle aziende U.S.L.), nel testo antecedente alle modifiche apportate con l’art. 14, comma 1, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e di servizi sociali).

La normativa regionale è censurata nella parte in cui riserva la direzione dei SerT (Servizi per le Tossicodipendenze) al solo personale medico, con esclusione di quello appartenente al profilo professionale di psicologo, e ciò sia a regime (commi 5 e 11), sia nella fase di prima applicazione (art. 13), da attuarsi quest’ultima secondo le procedure previste dall’art. 2, comma 1, della legge 18 febbraio 1999, n. 45 (Disposizioni per il Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga e in materia di personale dei Servizi per le tossicodipendenze).

2. – Secondo il giudice a quo le norme regionali oggetto di censura violerebbero innanzitutto il riparto di competenze Stato-Regioni, in quanto, intervenendo sulla disciplina dello stato giuridico del personale addetto al Servizio sanitario nazionale, riservata alla competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere l), Cost., dispongono in difformità da quanto previsto dal citato art. 2, comma 1, della legge n. 45 del 1999 in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali dei SerT

Inoltre, la preclusione del conferimento della direzione dei SerT ad appartenenti al profilo professionale di psicologo risulterebbe irragionevole, alla luce delle finalità e dei compiti istituzionali degli stessi Servizi per la cura delle tossicodipendenze, rispetto ai quali le prestazioni di carattere psicologico e socio-riabilitativo assumono rilievo non inferiore a quelle di carattere medico-farmacologico.

3. – Preliminarmente, occorre rilevare che il rimettente motiva non implausibilmente sulla perdurante rilevanza delle questioni, già definite da questa Corte con l’ordinanza n. 308 del 2010, di restituzione degli atti, per la sopravvenuta modifica delle norme censurate nel senso auspicato.

Il giudizio principale ha per oggetto l’annullamento della deliberazione 5 ottobre 1999 del direttore generale dell’Azienda USL LE/1 di Lecce e di ogni altro atto connesso, la cui legittimità non può che essere accertata in riferimento alla normativa all’epoca vigente, con la conseguenza che risultano ininfluenti le modifiche apportate con l’art. 14, comma 1, della legge reg. Puglia n. 4 del 2010.

4. – La questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.

4.1. – L’art. 118 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), riproduttivo dell’art. 27 della legge 26 giugno 1990, n. 162 (Aggiornamento, modifiche e integrazioni della legge 22 dicembre 1975 n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nel regolamentare l’organizzazione dei servizi per le tossicodipendenze presso le unità sanitarie locali pone su un piano di parità, considerandoli complementari ai fini della composizione dell’organico, i profili professionali di medico e psicologo.

Il decreto del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro degli affari sociali, 30 novembre 1990, n. 444 (Regolamento concernente la determinazione dell’organico e delle caratteristiche organizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipendenze da istituire presso le unità sanitarie locali), attuativo delle norme legislative prima citate, ha ugualmente posto sullo stesso piano le due figure professionali in considerazione. In particolare, l’art. 6, comma 3, dispone: «per i profili professionali di medico e di psicologo deve essere attribuito maggior peso, nella valutazione del curriculum formativo, ai titoli conseguiti, per i medici, nelle discipline di farmacologia medica, tossicologia, psichiatria e medicina generale e per gli psicologi nelle discipline di psicologia clinica, psicologia sociale e psicoterapia».

L’equiparazione emergente dalla citata disciplina legislativa e regolamentare è stata esplicitamente riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa, con l’affermazione che detta normativa «pone sullo stesso piano medici e psicologi […] e non conferisce alcuna prevalenza ai trattamenti medico-farmacologici rispetto a quelli di carattere psicologico e socio-riabilitativo» (Consiglio di Stato, sezione V, decisione del 20 ottobre 2005, n. 5885; in conformità, decisione del 19 giugno 2009, n. 4041).

4.2. – La stessa legge regionale censurata nel presente giudizio richiama esplicitamente il d.m. n. 444 del 1990, ai fini della determinazione della pianta organica (art. 11, comma 1), e le procedure previste dall’art. 2, comma 1, della legge 18 febbraio 1999, n. 45 (Disposizioni per il Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga e in materia di personale dei Servizi per le tossicodipendenze), per il conferimento della direzione delle Sezioni dipartimentali (art. 13). Anche quest’ultima legge statale fa riferimento al d.m. n. 444 del 1990, in tema di composizione dell’organico dei SerT, nel quale, come si è già visto, i profili professionali di medico e di psicologo sono posti sullo stesso piano.

Peraltro, la Regione Puglia ha posto fine alla differenziazione, riguardo all’accesso alla dirigenza, tra medici e psicologi, e conseguentemente alla esclusione di quest’ultimo profilo professionale, mediante l’art. 14 della legge reg. Puglia n. 4 del 2010.

5. – Dal complesso della normativa statale e regionale prima elencata si evince un costante e univoco orientamento del legislatore, statale e regionale, a ritenere equiordinati i profili professionali di medico e di psicologo, ai fini dell’ottimale esercizio dei delicati ed importanti compiti dei SerT, istituiti per erogare le terapie idonee sia alla disintossicazione e alla riabilitazione psico-fisica dei soggetti dediti al consumo di sostanze stupefacenti, sia, del pari, alla loro riabilitazione psicologica, funzionale ad un pieno reinserimento sociale.

Se entrambe le finalità presiedono in modo uguale allo svolgimento delle funzioni tipiche dei SerT, l’esclusione della categoria degli psicologi dalle procedure selettive per l’accesso alla direzione delle Sezioni dipartimentali si pone in contrasto con la natura e le finalità di tali centri, quale emerge non soltanto dalla normativa statale di principio, ma anche dalla stessa legislazione regionale, che alla prima fa esplicito rinvio, nonché dalla disciplina successiva della Regione Puglia.

Sulla base della precedente considerazione, si deve rilevare l’intrinseca irragionevolezza, che si traduce nella discriminazione della categoria degli psicologi, di una isolata normativa, la quale, ponendosi in contraddizione con la ratio dell’intera disciplina, statale e regionale, sulla formazione delle piante organiche dei SerT, restringe ai soli medici la possibilità di accedere alle selezioni per il conferimento di funzioni apicali. Non si ravvisa infatti alcun motivo per cui il profilo professionale del medico sarebbe più adatto di quello dello psicologo per dirigere una struttura basata sulla convergenza delle due diverse professionalità – senza che sia possibile trarre argomenti, dal quadro normativo statale e regionale, in favore della prevalenza dell’una sull’altra – ai fini del pieno recupero delle persone tossicodipendenti.

Dalla rilevata irragionevolezza delle norme censurate discende la loro illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost.

6. – Rimane assorbita la censura formulata dal giudice rimettente in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del dipartimento delle dipendenze patologiche delle aziende U.S.L.), nel testo antecedente alle modifiche apportate con l’art. 14, comma 1, della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e di servizi sociali), nella parte in cui riservano la direzione dei SerT (Servizi per le Tossicodipendenze) al solo personale sanitario appartenente al profilo professionale medico.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI


Sentenza 320/2011

Sentenza 320/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore GALLO

Udienza Pubblica del 18/10/2011 Decisione del 21/11/2011
Deposito del 25/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 1, c. 1°, lett. t), della legge della Regione Lombardia 27/12/2010, n. 21.
Massime:
Atti decisi: ric. 12/2011


SENTENZA N. 320

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), in attuazione dell’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 febbraio-2 marzo 2011, depositato in cancelleria il 1° marzo 2011 ed iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2011.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia;

udito nell’udienza pubblica del 18 ottobre 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia.



Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 25 febbraio 2011 e depositato il successivo 1° marzo (r. ric. n. 12 del 2011), il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1, comma 1, lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), in attuazione dell’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191», per la parte in cui introduce nell’art. 49 della legge regionale n. 26 del 2003 i commi 2, 4 e 6, lettera c). La disposizione è impugnata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m), s), della Costituzione, nonché, limitatamente all’introduzione del comma 2 nell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, in riferimento anche all’art. 117, primo comma, Cost.

Il citato comma 2 stabilisce che «Gli enti locali possono costituire una società patrimoniale d’ambito ai sensi dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs. 267/2000, a condizione che questa sia unica per ciascun ATO [ambito territoriale ottimale] e vi partecipino direttamente o indirettamente mediante conferimento della proprietà delle reti, degli impianti, delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato e, in caso di partecipazione indiretta, del relativo ramo d’azienda, i comuni rappresentativi di almeno i due terzi del numero dei comuni dell’ambito». Il comma 4 del medesimo articolo della legge regionale prevede che la società patrimoniale d’ambito «In ogni caso […] pone a disposizione del gestore incaricato della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali» e che «L’ente responsabile dell’ATO può assegnare alla società il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio, le attività di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse». Il successivo comma 6, lettera c), dispone che, al fine di ottemperare nei termini all’obbligo di affidamento del servizio al gestore unico, l’ente responsabile dell’ambito territoriale ottimale, tramite l’Ufficio d’ambito di cui all’art. 48 della stessa legge reg. n. 26 del 2003, effettua «la definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti».

2. – Con riguardo all’art. 1, comma 1, lettera t), per la parte in cui introduce il comma 2 nell’art. 49 della legge della Regione Lombardia n. 26 del 2003, il ricorrente afferma che tale disposizione, nell’autorizzare «ai sensi dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs. 267/2000», il conferimento in proprietà delle infrastrutture idriche a società patrimoniali d’ambito a capitale interamente pubblico, non cedibile, víola: a) l’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m), s), Cost.; b) l’art. 117, primo comma, Cost.

Quanto alla violazione del secondo comma dell’art. 117 Cost., il ricorrente si duole che la disposizione impugnata contrasta con la seguente normativa statale, adottata nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, ordinamento civile, determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali, tutela dell’ambiente (articolo 117, secondo comma, lettere e, l, m, s): a) i commi 5 e 11 dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133; b) l’art. 143, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), il quale, in combinato disposto con gli artt. 822, 823 e 824 del codice civile, qualifica le infrastrutture idriche come beni demaniali e ne dispone l’inalienabilità «se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge».

Secondo la difesa dello Stato, il conferimento in proprietà previsto dall’impugnato comma 2 dell’art. 49 non può trovare fondamento nell’espresso richiamo che tale comma opera alla disciplina statale di cui al comma 13 dell’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), in seguito indicato come TUEL. La disposizione da ultimo citata, infatti, sarebbe stata implicitamente abrogata dai commi 5 e 11 dall’art. 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008. Dal comma 5, che, affermando il principio della proprietà pubblica delle reti, ne vieta la cessione a soggetti privati quali sono le società patrimoniali d’àmbito, nonostante il loro capitale totalmente pubblico; dal comma 11, che dispone l’abrogazione dell’art. 113 del TUEL nelle parti incompatibili con il menzionato art. 23-bis. Con tale abrogazione sarebbe venuta meno la norma statale dalla quale il comma 2 impugnato traeva l’autorizzazione a intervenire in una materia riservata alla legislazione esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lettere l) e s).

In subordine, la difesa erariale deduce il contrasto dell’impugnato comma 2 con la normativa statale vincolante in tema di servizio idrico integrato di cui all’art. 143, comma 1, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale). Quest’ultimo stabilisce che «Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio ai sensi dell’art. 822 e ss. del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». Da tale articolo, nella sua connessione sistematica con gli artt. 822, 823 e 824 del cod. civ., si evince, secondo il ricorrente, che gli acquedotti provinciali e comunali sono soggetti al regime del demanio pubblico. Di qui l’illegittimità costituzionale del denunciato comma 2, in quanto autorizza il trasferimento della proprietà degli impianti a società di diritto privato che si trovano in posizione di autonomia soggettiva rispetto agli enti pubblici che ne sono soci.

Quanto alla violazione del primo comma dell’art. 117 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta che la disposizione impugnata disattende un vincolo derivante dall’ordinamento comunitario e reso operante attraverso l’art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, il quale prevede che «tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche».

2.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 1, comma 1, lettera t), per la parte in cui introduce il comma 4 nell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003. Tale comma è censurato in quanto, prevedendo la possibilità di assegnare alla società patrimoniale d’àmbito il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio, si porrebbe in contrasto con l’art. 150, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 e con l’art. 12, comma 1, lettera b), del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). La suddetta normativa statale prevede, infatti, che spetti all’Autorità d’ambito aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato. La riserva alla legge statale del potere di attribuire a diversi organi ed enti le funzioni già di competenza degli ATO è confermata, secondo la difesa erariale, dall’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), il quale, nel prevedere la soppressione delle AATO, ammette soltanto la loro attribuzione in blocco ad altro, unico soggetto, non anche, come previsto dalla disposizione regionale, lo scorporo di singole attribuzioni da devolvere a soggetti diversi.

2.2. – L’art. 1, comma 1, lettera t), della legge reg. Lombardia n. 21 del 2010 è impugnato, infine, per la parte in cui introduce nell’art. 49 della citata legge della Regione Lombardia n. 26 del 2003 il comma 6, lettera c), il quale attribuisce all’ente responsabile dell’ATO la competenza a definire i criteri per il trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti. La norma, secondo l’Avvocatura dello Stato, si collega all’impugnato comma 2 del medesimo art. 49, perché presuppone il trasferimento di proprietà da questa autorizzato. Siffatto trasferimento – secondo la già illustrata doglianza del ricorrente – è, tuttavia, vietato dalla legge statale. Ne consegue, secondo la difesa dello Stato, che al comma 6, lettera c), del citato art. 49 sono riferibili le medesime censure formulate rispetto al comma 2 dell’art. 49 nel precedente punto 2.

3. – Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, che ha chiesto di dichiarare la questione non fondata e, limitatamente all’impugnazione del richiamato comma 6, lettera c), inammissibile per genericità della censura.

3.1. – In merito all’impugnazione del comma 2 dell’art. 49, la difesa regionale nega che il comma 13 dell’art. 113 del TUEL sia stato implicitamente abrogato dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008. Si osserva in proposito che l’art. 23-bis prevede – nel comma 11 – l’abrogazione delle disposizioni previgenti incompatibili, ma demanda pure – nel comma 10, lettera m) – ad un regolamento di delegificazione l’espressa individuazione delle norme da abrogare. E l’art. 12, comma 1, lettera a), di tale regolamento (d.P.R. n. 168 del 2010) indica quali norme abrogate – a decorrere dall’entrata in vigore dell’atto regolamentare di cui è parte – i commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9, escluso il primo periodo, 14, 15-bis, 15-ter e 15-quater del menzionato art. 113 del TUEL, senza fare menzione del comma 13. Di qui la conclusione che il comma 13 dell’art. 113 del TUEL, al quale – come visto – l’impugnato comma 2 dell’art. 49 si richiama quale suo fondamento, deve considerarsi pienamente vigente.

Inoltre, prosegue la resistente, non sussisterebbe alcuna incompatibilità fra il predetto art. 23-bis e il comma 13 dell’art. 113 del TUEL. Quest’ultimo, argomenta la difesa regionale, autorizzando il conferimento della «proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali a società a capitale interamente pubblico» e sancendone l’incedibilità, non contraddice il comma 5 dell’art. 23-bis, il quale stabilisce che la proprietà delle reti è pubblica. Alle società patrimoniali, infatti, dovrebbero essere attribuite «le funzioni che normalmente competono ai soggetti proprietari, senza che ciò metta in discussione lo status pubblicistico di tali funzioni e dei relativi beni infrastrutturali». Il modello della separazione fra gestione delle reti ed erogazione del servizio sarebbe stato abbandonato proprio a seguito della sentenza di questa Corte n. 307 del 2009, e ciò, secondo la difesa regionale, renderebbe possibile l’affidamento del servizio idrico integrato a un gestore unico di natura privatistica.

Ugualmente insussistente, secondo la difesa regionale, sarebbe il contrasto dell’impugnato comma 2 dell’art. 49 con il comma 1 dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 – il quale assoggetta le reti e le infrastrutture idriche al regime del demanio pubblico – nonché con la disciplina dei beni demaniali cui tale comma fa rinvio (artt. 822 e seguenti del codice civile). Infatti, la società patrimoniale d’àmbito, al di là della veste formale di diritto privato, «costituisce chiaramente un’articolazione funzionale degli enti locali», come emerge dalla circostanza che detta società deve possedere un capitale interamente pubblico di cui è espressamente sancita l’incedibilità. Il modello gestionale prescelto dal legislatore regionale, prosegue la Regione Lombardia, è stato del resto applicato ai beni del demanio pubblico. L’art. 7 del decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63 (Disposizioni finanziarie e fiscali urgenti in materia di riscossione, razionalizzazione del sistema di formazione del costo dei prodotti farmaceutici, adempimenti ed adeguamenti comunitari, cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 giugno 2002, n. 112 ha, difatti, istituito la «Patrimonio dello Stato S.p.A.», una società per azioni il cui capitale è interamente detenuto dal Ministero dell’economia e delle finanze, prevedendo, nel comma 10, che alla menzionata società possano essere trasferiti «diritti pieni o parziali (…) su beni immobili facenti parte del demanio dello Stato», senza che il trasferimento modifichi il regime giuridico dei beni demaniali trasferiti. Anche la giurisprudenza costituzionale relativa al principio di pubblicità delle acque confermerebbe, a detta della Regione resistente, la legittimità del conferimento in proprietà di infrastrutture idriche operato dall’impugnato comma 2 dell’art. 49. Dalla sentenza di questa Corte n. 259 del 1996, in particolare, emergerebbe che il principio di pubblicità delle acque deve essere interpretato in una prospettiva teleologica, nel senso che esso va inteso come strumentale alla garanzia del massimo godimento possibile dei beni idrici, indipendentemente dal regime di proprietà che li conforma.

3.2. – Quanto al comma 4 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, impugnato perché, consentendo di «sottrarre all’ATO la competenza ad aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato», violerebbe l’art. 150, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, la difesa regionale deduce che la censura statale muove da una ricostruzione inesatta del quadro normativo. Si afferma, al riguardo, che il potere di riallocazione delle funzioni precedentemente svolte dalle soppresse Autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO) – che lo Stato contesta alla Regione di essersi arbitrariamente assegnato – è stato in realtà attribuito alle Regioni dal legislatore statale, dal comma 186-bis dell’art. 2, della legge n. 191 del 2009. Questo comma ha stabilito la soppressione delle Autorità d’ambito operanti nei settori del servizio idrico integrato e dei rifiuti a decorrere dal 1° gennaio 2011 e ha inoltre previsto che le Regioni, entro il 31 dicembre 2010, debbano attribuire con legge le funzioni prima esercitate dalle Autorità d’ambito, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. In conformità con il predetto comma 186-bis – che ha trasferito alle Regioni la potestà di distribuire funzioni per l’innanzi riconducibili ad ambiti di legislazione statale esclusiva – la legge regionale n. 21 del 2010, cui appartiene il denunciato comma 4, ha stabilito che le funzioni spettanti alle soppresse AATO in materia di servizio idrico integrato, a decorrere dal 1° gennaio 2011, siano conferite alle Province e, limitatamente alla città di Milano, al Comune di Milano. In questa cornice normativa, il denunciato comma 4 si pone, secondo la difesa regionale, come adempimento necessario della legislazione statale e non viola, perciò, l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006. Inoltre, prosegue la Regione resistente, le funzioni delle soppresse AATO non devono essere assegnate “in blocco” ad un unico soggetto, come sostiene la difesa erariale, poiché nessuna indicazione in tal senso si trae dal richiamato comma 186-bis. Al contrario, la scelta di assegnare alle società patrimoniali la possibilità di espletare le gare per l’affidamento del servizio e le altre attività connesse alla progettazione e al collaudo delle infrastrutture è, a giudizio della difesa regionale, l’unica opzione capace di garantire l’efficienza complessiva del sistema del servizio idrico integrato una volta soppressa una struttura intermedia quale l’Autorità d’ambito.

4. – In prossimità dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha presentato ulteriori memorie nelle quali rileva che, per effetto del referendum popolare svoltosi il 12 e 13 giugno 2011, il piú volte richiamato art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 è stato abrogato, ma che permane l’interesse alla decisione della causa, poiché il tema della proprietà delle reti non è stato inciso in alcun modo dall’esito referendario. La difesa erariale ribadisce che il predetto art. 23-bis ha determinato l’abrogazione per incompatibilità del comma 13 dell’art. 113 del TUEL e osserva che l’intervenuta abrogazione in via referendaria dello stesso art. 23-bis non fa rivivere automaticamente il comma 13, come del resto avrebbe chiarito la sentenza di questa Corte n. 24 del 2011. Secondo l’Avvocatura dello Stato, nel quadro normativo risultante dall’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis verrebbe in rilievo la direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali. Tale direttiva, prosegue la difesa erariale, nulla prescrive in merito al regime giuridico delle infrastrutture, e anzi, nel considerando n. 10, prevede che «sia lasciato impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri», in ciò conformandosi all’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (in seguito indicato come TFUE) che pone la medesima norma quale principio generale del diritto dell’Unione. In conclusione, la natura pubblica della proprietà delle reti sarebbe tuttora prevista, dovendosi ancora considerare applicabile il comma 1 dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006; e con il regime pubblico della proprietà contrasterebbe la norma regionale impugnata, la quale, conferendo in proprietà le reti idriche, le trasformerebbe in patrimonio aziendale privato e le renderebbe pertanto soggette a trasferimento in favore di un terzo o ad azioni esecutive, con violazione degli artt. 822, 823 e 824 del codice civile. Ne resterebbe confermata l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003.

4.1. – Quanto al comma 4 dell’art. 49 della legge reg. n. 21 del 2010, come introdotto dall’impugnato art. 1, comma 1, lettera t), la difesa erariale osserva che esso era stato denunciato, nel ricorso, per il contrasto con il comma 2 dell’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 e con il comma 1, lettera b), dell’art. 12 del d.P.R. n. 168 del 2010. La richiamata abrogazione referendaria del citato art. 23-bis del decreto-legge n. 133 del 2008 ha fatto venire meno il fondamento normativo del d.P.R. da ultimo citato, ma non ha toccato il richiamato art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 se non nelle parti – non rilevanti per la questione – che erano state modificate proprio dal menzionato d.P.R. n. 168 del 2010. Di qui la permanenza del denunciato contrasto con l’art. 150, nella parte in cui esso attribuisce all’ATO (e comunque, in seguito alla soppressione di questo organismo intermedio, agli enti cui le Regioni hanno trasferito le relative funzioni) la competenza ad aggiudicare la gestione del servizio idrico integrato «mediante gara disciplinata dai princípi e dalle disposizioni comunitarie».

5. – Anche la Regione Lombardia ha presentato ulteriori memorie difensive in prossimità dell’udienza. La Regione contesta anzitutto l’assunto della difesa statale secondo il quale l’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 avrebbe abrogato il comma 13 dell’art. 113 del TUEL. Si osserva, in proposito, che l’art. 23-bis prevede l’abrogazione delle disposizioni con esso incompatibili e che tali disposizioni sono state puntualmente ed espressamente elencate nel menzionato d.P.R. n. 168 del 2010 e in particolare nell’art. 12 comma 1, lettera a), il quale non menziona il comma 13, che per questo deve ritenersi tuttora vigente.

Dell’abrogazione, si prosegue nelle memorie, mancherebbe il presupposto sostanziale, non ravvisandosi alcuna incompatibilità fra il predetto art. 23-bis e il comma 13 dell’art. 113 TUEL. Il comma 5 dell’art. 23-bis, là dove stabilisce «ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati», dovrebbe essere interpretato, secondo la resistente, nel senso che «gli enti locali non possono cedere la proprietà delle infrastrutture, ma possono conferire la proprietà delle stesse a società patrimoniali a capitale interamente pubblico incedibile, perpetuandosi, cosí, per tale via, il regime di proprietà pubblica degli asset». In seguito all’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis, inoltre, sarebbe divenuta immediatamente applicabile la normativa comunitaria, che è meno restrittiva. Il diritto europeo, infatti, non impone obblighi di privatizzazione per le imprese pubbliche o incaricate della gestione di servizi pubblici, in quanto nell’art. 345 del TFUE enuncia il principio di neutralità rispetto al regime pubblico o privato della proprietà e nell’art. 106 del TFUE, enuncia i principi di libertà di definizione e di proporzionalità, stabilendo che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del TFUE, e in particolare alle regole di concorrenza «nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata». Secondo la Regione Lombardia, la stessa direttiva 2004/17/CE, che disciplina, fra l’altro, le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua, evidenzierebbe la necessità di tutelare le infrastrutture, anche al fine di assicurarne un utilizzo capace di garantire il migliore svolgimento del servizio pubblico alle comunità di riferimento. Dalla ricostruzione del quadro normativo di diritto europeo rilevante in materia risulterebbe confermata l’infondatezza della denunciata violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario da parte dell’impugnato comma 2 dell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003.

Il medesimo comma, secondo la Regione, sarebbe inoltre conforme all’art. 143, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale dispone l’appartenenza al demanio delle infrastrutture idriche di proprietà pubblica. Tale disciplina statale, infatti, non sancisce l’inalienabilità assoluta dei predetti beni, ma la consente «nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge». E non potrebbe certo dirsi derogatoria di siffatto regime di inalienabilità la previsione, nella disposizione regionale impugnata, che la proprietà delle infrastrutture idriche possa essere conferita a società patrimoniali a capitale interamente pubblico incedibile.

5.1. – In replica alle censure formulate avverso il comma 4 dell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003, come sostituito dall’impugnato art. 1, comma 1, lettera t), la Regione osserva che il primo periodo di tale comma, ove si prevede che «in ogni caso la società patrimoniale pone a disposizione del gestore incaricato della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali», riprende un criterio enunciato nella normativa statale di settore, e precisamente nell’art. 153 del citato d.lgs. n. 152 del 2006. Quanto alla seconda parte del medesimo comma – impugnata perché consentirebbe alle società patrimoniali di espletare le gare per l’affidamento del servizio – la difesa regionale rileva che l’ente locale cui sono affidate le funzioni delle soppresse AATO conserva la responsabilità relativa all’affidamento del servizio, mentre alle società patrimoniali d’àmbito sarebbe assegnato solo il compito di espletare le gare, non anche quello di aggiudicare.

5.2. – Venendo alla censura concernente il comma 6, lettera c), dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, come sostituito dal denunciato art. 1, comma 1, lettera t), la resistente chiede di dichiararla inammissibile per la sua genericità, lacunosità e incompiutezza. La disposizione impugnata, si argomenta, si riferisce alle aziende che attualmente effettuano il servizio di gestione in alcune parti del territorio regionale in assenza di un titolo di affidamento coerente con le disposizioni legislative in materia. Il comma impugnato si limiterebbe a prescrivere agli enti responsabili degli ATO la verifica propedeutica all’individuazione di un gestore d’ambito, e farebbe riferimento ai dipendenti delle aziende allo stato operanti e ai beni strumentali i cui costi sono stati coperti dalle tariffe introitate dal servizio. Secondo la difesa regionale, in conclusione, la norma denunciata disciplina oggetti su cui nulla si dice né nel ricorso, né nelle memorie depositate in vista della trattazione in udienza pubblica, che omettono del tutto di richiamare questa doglianza. Di qui l’inammissibilità, in parte qua, del ricorso statale.



Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1, comma 1, lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), in attuazione dell’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191», per la parte in cui introduce nell’art. 49 della legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26, i commi 2, 4 e 6, lettera c). La disposizione è impugnata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m), s), della Costituzione, nonché, limitatamente all’introduzione del comma 2 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, in riferimento anche all’art. 117, primo comma, Cost.

Tale comma 2 dell’art. 49 stabilisce che «Gli enti locali possono costituire una società patrimoniale d’ambito ai sensi dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs. 267/2000, a condizione che questa sia unica per ciascun ATO e vi partecipino direttamente o indirettamente mediante conferimento della proprietà delle reti, degli impianti, delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato e, in caso di partecipazione indiretta, del relativo ramo d’azienda, i comuni rappresentativi di almeno i due terzi del numero dei comuni dell’ambito». Il comma 4 del medesimo articolo della legge regionale prevede che la società patrimoniale d’àmbito «In ogni caso […] pone a disposizione del gestore incaricato della gestione del servizio le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali» e che «L’ente responsabile dell’ATO può assegnare alla società il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio, le attività di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico e le attività di collaudo delle stesse». Il successivo comma 6, lettera c), dispone che, al fine di ottemperare nei termini all’obbligo di affidamento del servizio al gestore unico, l’ente responsabile dell’àmbito territoriale ottimale [ATO], tramite l’Ufficio d’àmbito di cui all’art. 48 della stessa legge reg. n. 26 del 2003, effettua «la definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti».

2. – Con riguardo al comma 2 dell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003, il ricorrente afferma che tale comma, nell’autorizzare, «ai sensi dell’articolo 113, comma 13, del d.lgs. 267/2000», il conferimento in proprietà delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato a società patrimoniali d’àmbito a capitale interamente pubblico, non cedibile, víola: a) l’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m), s), Cost.; b) l’art. 117, primo comma, Cost.

Quanto alla violazione del secondo comma dell’art. 117 Cost., la difesa dello Stato deduce che la denunciata disposizione si pone in contrasto con la seguente normativa emessa dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva nelle materie tutela della concorrenza (lettera e), ordinamento civile (lettera l), determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali (lettera m), tutela dell’ambiente (lettera s): a) i commi 5 e «10» [recte: 11] dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i quali, rispettivamente, affermano il principio di pubblicità delle reti dei servizi pubblici locali di rilevanza economica ed abrogano l’art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) – in séguito indicato come TUEL –, nelle parti incompatibili con lo stesso art. 23-bis e, quindi, anche nelle parti incompatibili con tale principio di pubblicità; b) comunque, l’art. 143, comma 1, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), il quale, «in lettura combinata» con gli artt. 822, 823 e 824 del codice civile, assoggetta le infrastrutture idriche al regime del demanio pubblico e ne dispone l’inalienabilità, salvi i casi e i modi stabiliti dalla legge.

Quanto alla violazione del primo comma dell’art. 117 Cost., la difesa dello Stato deduce che la denunciata disposizione si pone in contrasto con «un vincolo derivante dall’ordinamento comunitario in ossequio al quale l’art. 15, comma 1-ter del decreto-legge n. 135 del 2009 ha previsto […] che tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche».

2.1. – Con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 117, secondo comma, Cost., la questione è fondata nei limiti qui di séguito precisati.

2.1.1. – Al momento dell’emanazione della legge regionale recante la disposizione impugnata, era già vigente il principio generale stabilito – per tutti i servizi pubblici locali (SPL) di rilevanza economica (salvo quelli afferenti ad alcuni specifici settori, tassativamente indicati dalla legge statale) – dalla prima parte del comma 2 dell’articolo 113 del citato TUEL, secondo cui «Gli enti locali non possono cedere la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici», salva la possibilità, prevista dal successivo comma 13, di «conferire la proprietà» dei beni medesimi «a società a capitale interamente pubblico, che è incedibile», purché tale conferimento «non sia vietato dalle normative di settore». Sempre al momento dell’emanazione della stessa legge regionale vigeva anche il comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 il quale, con riguardo in genere ai SPL di rilevanza economica, stabiliva – in parziale contrasto con detto comma 13 dell’art. 113 del TUEL – che, «Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati».

La disposizione regionale censurata prevede, sia pure con riferimento alle sole infrastrutture idriche, un caso di cessione ad un soggetto di diritto privato – la società patrimoniale d’àmbito a capitale pubblico incedibile – di beni demaniali e, perciò, incide sul regime giuridico della proprietà pubblica. Essa va, pertanto, ascritta alla materia ordinamento civile, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Ne segue che la Regione resistente è legittimata a disporre in tale materia solo ove la legge regionale costituisca attuazione di una specifica normativa statale.

2.1.2. – Nella specie, una siffatta normativa statale manca, non potendo essa essere individuata nel citato comma 13 dell’art. 113 del TUEL, nonostante che la stessa disposizione regionale impugnata lo richiami quale norma statale da attuare. Detto comma 13, infatti, non poteva costituire il fondamento della competenza legislativa regionale in tema di regime proprietario delle infrastrutture idriche, perché doveva ritenersi già tacitamente abrogato, per incompatibilità, dal comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale – come si è visto – aveva stabilito il principio secondo cui le reti sono di «proprietà pubblica»; principio evidentemente in contrasto con il richiamato comma 13, che consentiva, invece, il conferimento delle reti in proprietà a società di diritto privato a capitale interamente pubblico. Al riguardo, va osservato che la proprietà pubblica delle reti implica, indubbiamente, l’assoggettamento di queste – e, dunque, anche delle reti idriche – al regime giuridico del demanio accidentale pubblico, con conseguente divieto di cessione e di mutamento della destinazione pubblica. In particolare le reti, intese in senso ampio, vanno ricomprese, in quanto appartenenti ad enti pubblici territoriali, tra i beni demaniali, ai sensi del combinato disposto del secondo comma dell’art. 822 e del primo comma dell’art. 824 cod. civ. Il comma 1 dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 (anch’esso anteriore alla disposizione regionale impugnata) conferma la natura demaniale delle infrastrutture idriche, dettando una specifica normativa di settore. Esso dispone, infatti, che: «Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica, fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge».

È, perciò, evidente l’incompatibilità del regime demaniale stabilito dal comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 e dal comma l dell’art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006 con il conferimento in proprietà previsto dal comma 13 dell’art. 113 del TUEL.

2.1.3. – La difesa della Regione resistente obietta che la disposizione impugnata, nel prevedere espressamente l’incedibilità del capitale della società a totale partecipazione pubblica e nel richiamare il comma 13 dell’art. 113 del TUEL, garantisce il mantenimento del regime giuridico proprio dei beni demaniali conferiti in proprietà alla società patrimoniale d’àmbito.

L’obiezione non è fondata.

È noto che il patrimonio sociale costituisce una nozione diversa da quella di capitale sociale: il primo è rappresentato dal complesso dei rapporti giuridici, attivi e passivi, che fanno capo alla società; il secondo è l’espressione numerica del valore in denaro di quella frazione ideale del patrimonio sociale netto (dedotte, cioè, le passività) che è fissata dall’atto costitutivo e non è distribuibile tra i soci. Ne deriva che l’incedibilità delle quote od azioni del capitale sociale – sia essa frutto di una pattuizione fra i soci (art. 2341-bis cod. civ.) o, come nel caso di specie, di una previsione legislativa – non comporta anche l’incedibilità dei beni che costituiscono il patrimonio della società; beni, perciò, che possono liberamente circolare e che integrano la garanzia generica dei creditori (art. 2740 cod. civ.), limitabile solo nei casi stabiliti dalla legge dello Stato nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di ordinamento civile. La sola partecipazione pubblica, ancorché totalitaria, in società di capitali non vale, dunque, a mutare la disciplina della circolazione giuridica dei beni che formano il patrimonio sociale e la loro qualificazione.

A sostegno dell’incedibilità dei beni conferiti in proprietà nella società patrimoniale d’àmbito non può invocarsi – come fa la difesa regionale – neppure il disposto dell’art. 7 del decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63 (Disposizioni finanziarie e fiscali urgenti in materia di riscossione, razionalizzazione del sistema di formazione del costo dei prodotti farmaceutici, adempimenti ed adeguamenti comunitari, cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 giugno 2002, n. 112, secondo cui il conferimento in proprietà di beni demaniali dello Stato alla «Patrimonio dello Stato S.p.A.», anch’essa società a capitale interamente pubblico, non comporta la modificazione del regime giuridico di tali beni, quale stabilito dagli articoli 823 e 829, primo comma, cod. civ. Tale normativa statale, infatti, non riguarda i beni demaniali degli enti pubblici territoriali considerati dalla disposizione impugnata, perché ha introdotto una speciale disciplina del regime proprietario dei soli beni demaniali dello Stato, insuscettibile di applicazione estensiva o analogica.

2.1.4. – Non può opporsi all’indicata abrogazione tacita del comma 13 dell’art. 113 del TUEL il fatto che tale comma non è stato inserito dall’art. 12, comma 1, lettera a), del regolamento di delegificazione di cui al d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), tra le disposizioni del medesimo art. 113 abrogate ai sensi dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008.

Va precisato in proposito che l’art. 23-bis ha previsto due diverse modalità di abrogazione delle norme previgenti: a) nella lettera m) del comma 10 ha affidato al Governo il potere di «individuare espressamente», con regolamento, le disposizioni abrogate ai sensi dello stesso art. 23-bis; b) nel successivo comma 11, con riferimento al solo art. 113 del TUEL, ne ha disposto l’abrogazione «nelle parti incompatibili con le disposizioni» del medesimo art. 23-bis. Nel primo caso, l’effetto abrogativo è stato differito – conformemente all’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) – al momento dell’entrata in vigore del regolamento di delegificazione; nel secondo caso, invece, tale effetto è conseguito immediatamente dalla vigenza dell’art. 23-bis ed è accertato direttamente dall’interprete. La speciale disciplina dell’abrogazione per incompatibilità prevista per l’art. 113 del TUEL ha, dunque, lo specifico significato di far discendere l’effetto abrogativo di tale articolo unicamente dal comma 11 dell’art. 23-bis e, di conseguenza, di rendere non operante il disposto della lettera m) del precedente comma 10, che, perciò, si riferisce soltanto alle norme previgenti diverse dall’art. 113 del TUEL. Ciò trova indiretta conferma nell’alinea del comma 1 dell’art. 12 del citato regolamento di delegificazione, il quale – riferendosi cumulativamente alle disposizioni abrogate sia dell’art. 113 del TUEL (indicate nella lettera a), sia del d.lgs. n. 152 del 2006 (indicate nelle lettere b e c) – precisa che tali disposizioni «sono o restano abrogate». Con tale espressione, evidentemente, il Governo ha inteso distinguere le disposizioni di cui all’art. 113 del TUEL (lettera a), che «restano» abrogate perché l’effetto abrogativo si era già perfezionato all’atto della entrata in vigore dell’art. 23-bis, dalle altre disposizioni (lettere b e c), che «sono abrogate» a séguito dell’entrata in vigore del regolamento e, cioè, nel momento al quale la legge delegificante differisce l’effetto abrogativo.

In altri termini, il fatto che il menzionato regolamento di delegificazione non abbia ricompreso il comma 13 dell’art. 113 del TUEL tra le disposizioni abrogate non esclude che l’effetto abrogativo si sia già verificato a far data dalla promulgazione della lex posterior (art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008). E ciò indipendentemente dalla circostanza che il ricordato regolamento – adottato, come si è visto, sulla base del comma 10, lettera m), dell’art. 23-bis – è stato ormai privato del suo fondamento normativo dall’art. 1, comma 1, del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113 (Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica), il quale ha dichiarato l’intervenuta abrogazione dell’intero art. 23-bis per effetto dell’esito del referendum popolare indetto con d.P.R. 23 marzo 2011.

2.1.5. – È necessario, infine, avvertire che il piú volte menzionato comma 13 dell’art. 113 del TUEL non ha ripreso vigore a séguito della dichiarazione – ad opera del citato art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 113 del 2011 – dell’avvenuta abrogazione dell’intero art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (in questo senso, specificamente, sentenza n. 24 del 2011).

Questo quadro normativo non è stato modificato neppure dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell’art. 1 della legge 14 settembre 2011, n. 148. Il comma 28 dell’art. 4 di tale decreto, nel riprodurre letteralmente il contenuto del comma 5 dell’art. 23-bis del d.lgs. n. 112 del 2008 – abrogato, come si è visto, in seguito a referendum popolare –, ha ripristinato il principio (dettato in generale per i SPL di rilevanza economica) secondo cui, «Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati». Con riferimento al regime della proprietà delle reti, tale principio non solo è incompatibile – per le ragioni già esposte al punto 2.1.2. – con il comma 13 dell’art. 113 del TUEL, ma è espressamente dichiarato non applicabile al settore idrico dal comma 34 dello stesso art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011 («Sono esclusi dall’applicazione del presente articolo il servizio idrico integrato […]»). Ne deriva che questo settore continua ad essere disciplinato dalla sopra evidenziata normativa e, in particolare, dal citato art. 143 del d.lgs. n. 152 del 2006, che, come visto, prevede la proprietà demaniale delle infrastrutture idriche e, quindi, la loro «inalienabilità se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge».

2.2. – In conclusione, la rilevata abrogazione tacita del comma 13 dell’art. 113 del TUEL, per incompatibilità con il comma 5 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, preclude alla Regione resistente di disciplinare, in attuazione del medesimo comma 13, il regime della proprietà di beni del demanio accidentale degli enti pubblici territoriali, trattandosi di materia ascrivibile all’ordinamento civile, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Da ciò consegue la violazione, da parte della Regione Lombardia, di tale sfera di competenza statale e, quindi, l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, quale introdotto dalla disposizione impugnata.

Restano assorbiti gli altri profili di censura prospettati dal ricorrente in relazione al medesimo comma dell’art. 49.

3.– Con riguardo al comma 4 dell’art. 49 della legge reg. n. 26 del 2003, il ricorrente afferma che tale disposizione, nella parte in cui stabilisce che «l’ente responsabile dell’ATO può assegnare alla società il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio […]», si pone in contrasto con la seguente normativa emessa dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva, ad esso riservata dalle lettere e), l), m) e s) del secondo comma dell’art. 117 Cost.: a) l’art. 150, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, come modificato dall’art. 12, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 168 del 2010, secondo cui «l’Autorità d’ambito aggiudica la gestione del servizio idrico integrato»; b) l’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), il quale, prescrivendo che «le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dall’Autorità […]», avrebbe previsto l’attribuzione di tali funzioni «in blocco ad altro, unico soggetto anziché […] l’enucleazione di una singola attribuzione da devolvere a soggetto formalmente privato isolatamente dalle rimanenti competenze».

Questa Corte deve preliminarmente rilevare che la disposizione denunciata, prevedendo la possibilità di assegnare il compito di espletare le gare per l’affidamento del servizio idrico alla società patrimoniale d’àmbito di cui al precedente comma 2 dello stesso art. 49, fa riferimento ad un soggetto la cui costituzione è prevista da una disposizione della quale è stata accertata, al punto 2, l’illegittimità costituzionale. Da tale illegittimità consegue quindi, necessariamente, anche quella del denunciato comma 4, senza che debba procedersi allo scrutinio di tale comma in base ai parametri evocati.

4. – Con riguardo al comma 6, lettera c), dell’art. 49 della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003, secondo cui l’ente responsabile dell’ATO effettua «la definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti», il ricorrente afferma che tale disposizione víola le lettere e), l), m) e s) del secondo comma dell’art. 117 Cost., perché sussistono «le medesime illegittimità» già prospettate con riferimento al «collegato» comma 2 dello stesso articolo 49.

La questione non è fondata.

Il ricorrente, muovendo dalla premessa interpretativa che il denunciato comma 6, lettera c), sia «collegato» al precedente comma 2, ripropone le medesime censure prospettate in relazione a quest’ultimo comma. Detta premessa è, però, erronea, perché il comma 2 riguarda, come visto, il conferimento in proprietà delle infrastrutture idriche alla società patrimoniale d’àmbito, mentre l’impugnato comma 6, lettera c), concerne solo la definizione dei criteri per il trasferimento dei beni e del personale delle gestioni esistenti al gestore unico del servizio idrico integrato, gestore che è soggetto diverso dalla società patrimoniale d’àmbito. Risulta, quindi, evidente che non sussiste il dedotto collegamento tra il comma 2 e il comma 6, lettera c), dell’art. 49 e che, di conseguenza, le censure prospettate dal ricorrente nei riguardi della prima disposizione non possono valere con riferimento al contenuto normativo della seconda.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dei commi 2 e 4 dell’art. 49 della legge della Regione Lombardia 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera t), della legge della Regione Lombardia 27 dicembre 2010, n. 21, recante «Modifiche alla legge regionale 12 dicembre 2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche), in attuazione dell’articolo 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191»;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della lettera c) del comma 6 dell’art. 49, della legge reg. Lombardia n. 26 del 2003, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera t), della legge reg. Lombardia n. 21 del 2010, proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e), l), m) e s), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI