Ordinanza 289/2011

Ordinanza 289/2011
Giudizio

Presidente QUARANTA - Redattore FRIGO

Camera di Consiglio del 05/10/2011 Decisione del 18/10/2011
Deposito del 04/11/2011 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 72 del codice di procedura penale; art. 150 del codice penale.
Massime:
Atti decisi: ord. 69/2011


ORDINANZA N. 289

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,



ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72 del codice di procedura penale e dell’art. 150 del codice penale promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di G.R., con ordinanza del 7 dicembre 2010, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 ottobre 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.



Ritenuto che, con ordinanza del 7 dicembre 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

a) dell’art. 72 del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non esclude l’applicabilità della disciplina ivi dettata nei casi «in cui sia stato accertato che lo stato mentale dell’imputato ne impedisce in modo permanente la cosciente partecipazione al procedimento»;

b) dell’art. 150 del codice penale, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che l’estinzione del reato consegua, oltre che alla morte del reo, «ad uno stato mentale dell’imputato in vita che ne impedisca in modo permanente ed irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento»;

che il giudice a quo – chiamato a svolgere l’udienza preliminare nei confronti di una persona imputata del reato di omicidio colposo, in cooperazione con altri soggetti – riferisce che, in esito a perizia disposta ai sensi dell’art. 70 cod. proc. pen., l’imputato era risultato permanentemente incapace di partecipare al procedimento in maniera cosciente e attiva, a causa degli esiti cronici di una patologia ischemica;

che – disposta la sospensione del processo, a norma dell’art. 71 cod. proc. pen. – si era successivamente proceduto, in ottemperanza all’art. 72 del medesimo codice, a due ulteriori accertamenti peritali sullo stato di mente dell’imputato, i quali avevano confermato la prognosi di irreversibilità della patologia riscontrata;

che il rimettente, all’esito dell’ultima perizia espletata, si troverebbe, dunque, a dover confermare il provvedimento di sospensione del processo;

che il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale del citato art. 72 cod. proc. pen., nella parte in cui non esclude che la disciplina da esso recata si applichi allorché sia stato accertato che lo stato mentale dell’imputato ne impedisce in modo permanente la cosciente partecipazione al procedimento;

che la norma censurata prevede, infatti, che – quando il procedimento è stato sospeso ai sensi dell’art. 71 cod. proc. pen. – il giudice deve disporre ulteriori accertamenti peritali sullo stato di mente dell’imputato allo scadere del sesto mese dalla pronuncia dell’ordinanza di sospensione (o anche prima, se ne ravvisi l’esigenza), e così a ogni successiva scadenza del termine semestrale, qualora il procedimento non abbia ripreso il suo corso;

che, ad avviso del giudice a quo, tale disciplina – del tutto ragionevole allorché l’incapacità dell’imputato appaia temporanea e reversibile – si rivelerebbe, al contrario, irrazionale – e, dunque, lesiva dell’art. 3 Cost. – quando ci si trovi di fronte a impedimenti a carattere permanente e irreversibile, connessi a patologie croniche;

che, in simili evenienze, la sospensione del procedimento – la quale, per sua natura, dovrebbe comportare una stasi solo temporanea delle attività processuali – sarebbe destinata, di fatto, a protrarsi «ad oltranza», per tutta la residua durata della vita dell’imputato, con conseguente compromissione anche del principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost.;

che il rimettente dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell’art. 150 cod. pen., nella parte in cui non prevede che l’estinzione del reato consegua – oltre che alla morte del reo, la quale, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, «fa venir meno la prosecuzione del rapporto processuale» – anche «ad uno stato mentale dell’imputato in vita che ne impedisca in modo permanente ed irreversibile la cosciente partecipazione al procedimento», producendo, così, il medesimo effetto di impedire in via definitiva la prosecuzione del rapporto processuale;

che la mancata considerazione di tale ipotesi – pienamente assimilabile, sotto il profilo dianzi evidenziato, a quella regolata dalla norma censurata – porrebbe, dunque, quest’ultima in contrasto con l’art. 3 Cost.;

che le questioni sarebbero, infine, rilevanti nel giudizio a quo, giacché il loro accoglimento consentirebbe di emettere immediatamente una sentenza di non doversi procedere nei confronti dell’imputato;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.

Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce solleva due questioni di legittimità costituzionale distinte, anche se fra loro correlate: una attinente alla norma processuale dell’art. 72 del codice di procedura penale, l’altra alla norma sostanziale dell’art. 150 del codice penale;

che, tra le due questioni, risulta peraltro pregiudiziale la seconda: quella intesa, cioè, a trasformare – tramite intervento additivo sull’art. 150 cod. pen. – l’incapacità irreversibile dell’imputato a partecipare in modo cosciente al procedimento in una causa di estinzione del reato;

che, ove tale questione fosse accolta, non vi sarebbe, infatti, alcuna necessità di incidere, nei sensi auspicati dal rimettente, anche sull’art. 72 cod. proc. pen.: la prognosi di irreversibilità dell’incapacità dell’imputato imporrebbe, infatti, di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei suoi confronti, ai sensi degli artt. 531 o 425, comma 1, cod. proc. pen.; circostanza che – alla luce dell’espresso disposto, rispettivamente, dell’art. 71, comma 1, ultima parte, e dell’art. 72, comma 2, cod. proc. pen. – renderebbe inoperante la disciplina della sospensione del procedimento, ovvero imporrebbe la revoca della sospensione già disposta, con conseguente venir meno anche del correlato obbligo di verifica periodica sullo stato di mente dell’imputato;

che, esaminando, dunque, per prima la questione avente ad oggetto l’art. 150 cod. pen., il giudice a quo assume che la norma censurata si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), nella parte in cui non configura come causa di estinzione del reato – in aggiunta alla «morte del reo, avvenuta prima della condanna» – anche l’incapacità permanente e irreversibile dell’imputato a partecipare in modo cosciente al procedimento;

che, ad avviso del rimettente, le due fattispecie risulterebbero pienamente assimilabili, producendo entrambe il medesimo effetto di impedire in via definitiva la prosecuzione del rapporto processuale;

che, a tale proposito, il giudice a quo richiama il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la morte dell’imputato, intervenuta prima del passaggio in giudicato della condanna, determina la cessazione del rapporto processuale penale (e, con esso, anche di quello civile inserito nel processo penale, impedendo con ciò la pronuncia sull’impugnazione proposta dalla parte civile: a tale ipotesi si riferisce, in specie, la pronuncia della Corte di cassazione – Cass., sez. VI, 25 settembre 1988-30 novembre 1989, n. 16812 – citata nell’ordinanza di rimessione);

che l’asserita esigenza costituzionale di omologare, nei termini indicati, il trattamento delle due fattispecie poste a confronto si rivela, peraltro, palesemente insussistente;

che – a prescindere pure dal rilievo che le cause di estinzione del reato costituiscono ius singulare, rientrante, quanto a casi e disciplina, nella discrezionalità legislativa, giacché le norme che le prevedono implicano una eccezione alle regole generali circa le conseguenze della commissione di fatti penalmente illeciti – occorre, in primo luogo, osservare che mentre nel caso di morte dell’imputato la cessazione del rapporto processuale deriva dalla natura stessa dell’evento, che implica il venir meno, sul piano fisico, di uno dei soggetti di quel rapporto; nell’ipotesi considerata dal giudice a quo la definitività dell’impedimento alla prosecuzione delle attività processuali si correla, invece, a una prognosi (quella di assenza di prospettive di guarigione o di significativa attenuazione dell’infermità mentale da cui l’imputato risulta affetto): prognosi che – in quanto basata sulle attuali cognizioni scientifiche, e tenuto conto anche dell’eventualità di comportamenti simulatori (al riguardo, ordinanze n. 33 del 2003 e n. 298 del 1991) – appare connotata da margini di possibile errore certamente superiori, in linea generale, a quelli propri dell’accertamento dell’avvenuto decesso dell’imputato;

che dirimente è, peraltro, la considerazione della diversità della ratio di tutela che viene in rilievo nei due frangenti;

che l’estinzione del reato per morte del reo costituisce, infatti, diretto riflesso del principio – di carattere sostanziale – di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), il quale impedisce che la potestà punitiva dello Stato si eserciti su soggetti diversi dall’autore del fatto criminoso;

che, di contro, la preclusione allo svolgimento del procedimento nei confronti della persona che, per il suo stato di mente, non è in grado di parteciparvi in modo cosciente ha un obiettivo di protezione di natura prettamente processuale, mirando alla salvaguardia del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto della difesa personale o autodifesa (sentenza n. 281 del 1995);

che l’eterogeneità delle situazioni poste a confronto impedisce, pertanto, di ravvisare la denunciata violazione del principio di eguaglianza;

che, alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va, dunque, dichiarata manifestamente infondata;

che quanto, poi, alla questione avente ad oggetto l’art. 72 cod. proc. pen. – censurato nella parte in cui impone di rinnovare gli accertamenti peritali anche di fronte a situazioni di incapacità irreversibile – occorre rilevare che, secondo quanto si riferisce nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo ha già proceduto alla verifica periodica (la seconda) sullo stato di mente dell’imputato tramite accertamento peritale e si trova, sulla base dei suoi esiti, a dover stabilire se l’ordinanza di sospensione del processo debba essere o meno revocata;

che la questione risulta, pertanto, manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, avendo il rimettente – nell’attuale fase del procedimento – già fatto applicazione della norma censurata; ciò, a prescindere dall’ulteriore rilievo che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale del solo art. 72 cod. proc. pen. non solo non eliminerebbe, ma rischierebbe addirittura di aggravare l’ipotizzato vulnus del principio di ragionevole durata del processo: essa avrebbe, infatti, come unico effetto, quello di escludere l’obbligo degli ulteriori controlli periodici sullo stato di mente dell’imputato, dopo che sia stata disposta la sospensione del procedimento ai sensi del precedente art. 71, col risultato di lasciare il procedimento stesso in una condizione di stasi a tempo indefinito, senza la previsione di alcuno strumento per riattivarne eventualmente il corso.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 150 del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 novembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI