Sentenza 257/2011

Sentenza 257/2011
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente QUARANTA - Redattore CRISCUOLO

Udienza Pubblica del 05/07/2011 Decisione del 19/09/2011
Deposito del 30/09/2011 Pubblicazione in G. U. 05/10/2011
Norme impugnate: Art. 2, c. 5°, della legge 23/12/2009, n. 191.
Massime:
Atti decisi: ord. 379/2010


SENTENZA N. 257

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,



ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), promosso dal Tribunale di Rossano nel procedimento vertente tra P. R. ed altra e l’INPS, con ordinanza del 12 aprile 2010, iscritta al n. 379 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

udito l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS.



Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Rossano in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), in riferimento agli articoli 3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione.

2. — Il rimettente premette che, con ricorsi di analogo contenuto, poi riuniti per ragioni di connessione, le signore R. P. e A. Z. hanno convenuto in giudizio l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del presidente pro tempore, esponendo: 1) che erano titolari di pensioni, categoria VO, dopo aver lavorato come operaie agricole a tempo determinato; 2) che l’INPS, nel determinare le pensioni, aveva applicato erroneamente l’art. 28 decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria), perché, nel calcolare la pensione dovuta alle istanti, aveva fatto riferimento al salario medio convenzionale, non già dell’anno in cui il lavoro era stato prestato, ma dell’anno antecedente.

Ciò posto, le attrici hanno chiesto che sia dichiarato il loro diritto ad ottenere la riliquidazione della pensione di vecchiaia in godimento sulla base del salario medio convenzionale vigente per l’anno in cui il lavoro era stato prestato, con condanna dell’INPS alla ricostruzione della pensione ed al pagamento delle differenze mensili.

Instauratosi il contraddittorio, l’ente previdenziale si è costituito nei giudizi principali, sostenendo la correttezza del proprio operato, in applicazione dell’art. 4 del decreto legislativo 16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 24, legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di previdenza agricola), e concludendo per il rigetto delle domande.

Nelle more delle cause è stato introdotto l’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, avente il seguente tenore: «Il terzo comma dell’articolo 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, si interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato è il medesimo di quello previsto al secondo comma dell’art. 3 della citata legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato». Quest’ultima norma, a sua volta, dispone che «Per i salariati fissi l’ammontare della retribuzione comprensiva del salario base, della contingenza, delle indennità in natura e fisse, è costituito dalla media della retribuzione prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente».

3. — Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, ora citato.

Il rimettente, in primo luogo, ritiene la questione rilevante, perché la norma censurata disciplina, con chiara efficacia sulle controversie al suo esame, il sistema di accredito contributivo e il calcolo consequenziale della pensione.

Osserva, poi, che la Corte di cassazione, con orientamento costante (e dal medesimo rimettente condiviso), ha affermato il principio secondo cui «La pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato deve essere determinata, ex art. 28 d.P.R. n. 488 del 1968 (“Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria”), sulla base delle retribuzioni medie vigenti per ciascun anno, (“in rapporto alle retribuzioni medie da determinarsi annualmente per provincia”), come peraltro confermato dall’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972 che espressamente statuisce che “per i giornalieri di campagna l’ammontare della retribuzione è costituito dalla media tra le retribuzioni vigenti al 30 ottobre di ogni anno” e non dell’anno precedente».

Il Tribunale prosegue rilevando che i decreti ministeriali di determinazione delle retribuzioni medie giornaliere, emanati annualmente e vincolanti per gli istituti previdenziali, hanno sempre fatto riferimento ai dati salariali relativi all’anno precedente alla loro emanazione per entrambe le categorie (dipendenti a tempo indeterminato e dipendenti a tempo determinato), adottando in sostanza come criterio unico di rilevazione quello previsto per gli operai a tempo indeterminato, verosimilmente allo scopo di assicurare un trattamento omogeneo a soggetti operanti nell’ambito dello stesso settore lavorativo e di realizzare una più semplice e rapida procedura di liquidazione, in via definitiva, dell’indennità di malattia. Tuttavia, tale prassi è stata sempre giudicata illegittima dalla Corte di cassazione, se non seguita da conguaglio per i salariati a tempo determinato.

Il giudicante ricorda che, di recente, la Corte di cassazione si è di nuovo pronunciata in subiecta materia (l’ordinanza di rimessione richiama la sentenza n. 2531 del 2009), ponendosi in consapevole contrasto col precedente orientamento e pervenendo, quindi, alla conclusione che, in tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968 e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno da decreti ministeriali sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell’anno precedente.

Il Tribunale di Rossano espone, quindi, le ragioni che, a suo avviso, non consentono di condividere il più recente orientamento della Corte di legittimità, ed osserva che la cosiddetta “legge interpretativa”, in questa sede censurata, avrebbe modificato la norma di riferimento con efficacia retroattiva, perciò applicabile alle controversie in esame, imponendo di far capo non all’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968, bensì all’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, come interpretato, il che comporterebbe il rigetto delle domande.

Secondo il rimettente, non vi sarebbe stato contrasto ermeneutico sul fatto che la norma interpretata (art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972) disciplinasse soltanto le prestazioni temporanee in agricoltura e non l’accredito contributivo e, per conseguenza, la misura della pensione. Tale lettura sarebbe stata comune ad entrambi gli orientamenti sopra richiamati. Pertanto, il legislatore avrebbe interpretato autenticamente una norma in relazione alla quale non sussisteva alcun contrasto ermeneutico circa la sua inapplicabilità al regime pensionistico contributivo.

In questo quadro, ad avviso del Tribunale, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., apparendo «irragionevole e in evidente contrasto con lo scopo manifestato».

Invero, il legislatore, con disposizione asseritamente interpretativa, avrebbe esteso la portata di una norma inapplicabile alla fattispecie, «al fine di non adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, così evitando la condanna in un contenzioso seriale». Lo scopo dell’intervento legislativo sarebbe ancora più evidente, qualora si consideri che esso avrebbe dovuto operare sull’unica disposizione disciplinante la materia, cioè sull’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968. In tal modo, però, il legislatore si sarebbe esposto a censura per violazione dell’art. 76 Cost., visti i limiti della delega sulla base della quale il citato d.P.R. è stato adottato (art. 39 legge 21 luglio 1965, n. 903).

L’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, quindi, secondo il rimettente doveva necessariamente operare sull’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, al fine di raggiungere lo scopo di evitare possibili condanne. Risulterebbe evidente, dunque, il sospetto d’irragionevolezza, ancor più grave ove si osservi che, in realtà, la disposizione de qua determinerebbe una discriminazione basata sulle condizioni sociali degli istanti. Sarebbe notorio, infatti, che i braccianti agricoli di solito provengono dalle categorie più deboli sotto il profilo sociale ed economico.

La norma censurata, inoltre, si porrebbe in contrasto con l’art. 117 Cost. per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha escluso la possibilità d’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influire sulla conclusione giudiziaria della causa, eccetto il caso di motivi imperativi d’interesse generale (nella specie insussistenti).

Inoltre, la norma censurata sarebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, perché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della posizione di parità delle parti, da ritenere leso da un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.

Il rimettente si dichiara consapevole dell’orientamento di questa Corte in ordine ai limiti dell’ingerenza del potere legislativo, con riguardo all’art. 24 Cost., «ma ritiene che non siano conferenti alla ratio della presente remissione», in quanto fondata anche sull’art. 117 Cost. in relazione alla portata precettiva della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Ancora, sussisterebbe contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’art. 14 CEDU, «che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della Convenzione».

Nel caso di specie sarebbe ravvisabile una doppia discriminazione: da un lato, i precari dell’agricoltura rispetto al resto del precariato, il quale vedrebbe la propria contribuzione correlata alla retribuzione reale, e, dall’altro, gli operai agricoli rispetto agli altri lavoratori dipendenti, che vedono le proprie contribuzioni correlate alla retribuzione reale e non a quella dell’anno antecedente.

Infine, sarebbero ravvisabili dubbi di legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento agli artt. 3, 38, secondo comma, e 53 Cost.

Invero, la sentenza conclusiva dei procedimenti per cui è causa sarebbe di condanna in quanto diretta ad accertare un credito già nel patrimonio giuridico degli istanti. La norma impugnata, dunque, verrebbe ad incidere su un rapporto di credito/debito, con l’effetto di determinare l’estinzione del credito del pensionato, relativo alle differenze dei ratei di pensione nel frattempo maturati. La norma de qua, quindi, priverebbe il pensionato/assistito di parte della pensione già maturata, con violazione degli artt. 3 e 38, secondo comma, Cost., poiché il legislatore avrebbe previsto l’elisione di un diritto già presente nel patrimonio degli istanti, in assenza di ogni apprezzabile giustificazione.

La Costituzione avrebbe previsto «poche e circoscritte ipotesi in cui una persona possa essere privata di diritti, ovvero obbligata a prestazioni e ciò sempre in favore dello Stato (art. 53, obbligo di concorrere alle spese pubbliche), ovvero anche di privati (artt. 42 e 43), ma sempre a fronte di specifici motivi d’interesse generale. Nel caso di specie invece, la disposizione in esame, per determinati soggetti, in condizioni deboli (pensionati con redditi minimi, trattandosi di pensioni agricole) ha previsto che questi siano privati di diritti già entrati nel loro patrimonio».

Si tratterebbe, dunque, di una norma priva di adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e contrastante con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, volta ad incidere in modo arbitrario su situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti.

4. — L’INPS si è costituito in giudizio con memoria depositata il 26 dicembre 2010, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

L’Istituto prende le mosse dal rilievo che il legislatore, nel rispetto della riserva prevista per la materia penale dall’art. 25 Cost., può emanare norme con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri diritti e interessi costituzionalmente protetti. Tale assunto trova applicazione sia in presenza di una norma interpretativa, sia di una norma innovativa.

Osserva, poi, che, in relazione alla portata retroattiva della norma d’interpretazione autentica e ai suoi limiti, questa Corte ha più volte affermato che il legislatore non soltanto avrebbe la facoltà di adottare disposizioni dirette a chiarire il significato di altri precetti legislativi, quando sussista una situazione di oggettiva incertezza nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma che tale possibilità sarebbe configurabile anche a fronte di un orientamento della Corte di cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le varie opzioni ermeneutiche cui il testo originario si presta (sono richiamate le sentenze n. 274 del 2006, n. 374 e n. 29 del 2002, n. 525 del 2000).

Nel caso in esame, la norma censurata contemplerebbe uno specifico parametro per il calcolo della retribuzione pensionabile, da sempre applicato dall’Istituto, «conferendo tale dinamica concretezza al dubbio ermeneutico che la citata disposizione ha definitivamente risolto».

Infatti, sul relativo contenzioso, si sarebbe formato un primo indirizzo del giudice di legittimità, in senso sfavorevole a quello seguito in sede amministrativa dall’INPS, all’atto della liquidazione delle pensioni.

Più recentemente, ma prima dell’entrata in vigore della disposizione denunciata, «la stessa Corte regolatrice aveva mutato il proprio orientamento addivenendo alla declaratoria di correttezza dell’operato dell’INPS».

Pertanto, si dovrebbe ritenere che la norma de qua «abbia di fatto avvalorato sul piano legislativo quanto già adottato in sede amministrativa ed avallato, in epoca più recente, in sede giurisdizionale».

Del resto, non si potrebbe negare l’oggettiva incertezza causata dal contrasto tra una prassi amministrativa costante ed un primo orientamento della giurisprudenza in ordine alla corretta individuazione dei criteri di calcolo per i trattamenti in questione. Tale incertezza, al di là del mutamento in senso favorevole alla tesi dell’Istituto operato dalla Corte di cassazione, avrebbe reso non soltanto ragionevole, ma molto opportuno l’intervento del legislatore.

Andrebbe, poi, ricordato che il vigente sistema previdenziale, fondato sul rapporto sinallagmatico tra il versamento dei contributi e l’erogazione delle prestazioni, anche nell’ambito del cosiddetto sistema retributivo, non terrebbe conto soltanto della retribuzione effettivamente riscossa, ma anche della relativa contribuzione. Non sarebbe configurabile, dunque, la discriminazione paventata dal rimettente, perché, da un lato, la norma interpretativa risulterebbe ragionevole, e perciò corretta sul piano costituzionale e, dall’altro, essa non comporterebbe una perdita economica così rilevante da tradursi nella suddetta discriminazione.

Al contrario, la norma avrebbe il merito di ricondurre ad uniformità il sistema previdenziale dei lavoratori agricoli a tempo determinato, individuando un unico parametro di riferimento – il salario medio convenzionale dell’anno precedente – da utilizzare per la liquidazione di ogni prestazione previdenziale, pensionistica e non, oltre che per il calcolo della contribuzione da versare, nel quadro di un percorso legislativo diretto a disegnare un sistema previdenziale nel complesso più coerente e funzionale per la detta categoria di lavoratori, sistema già anticipato dall’intervento attuato con il decreto legislativo 16 aprile 1997, n. 146 (Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 24, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di previdenza agricola).

Ad avviso del deducente, la censura formulata con richiamo all’art. 38 Cost. sarebbe generica e, comunque, non fondata, non risultando in alcun modo vulnerato il principio dell’adeguatezza del trattamento pensionistico, comunque da bilanciare con l’esigenza di rispettare il limite delle risorse disponibili, anche con riferimento all’art. 81 Cost., fermo restando che «in sede di manovra finanziaria di fine anno spetta al Governo e al Parlamento introdurre modifiche alla legislazione di spesa, ove ciò sia necessario a salvaguardare l’equilibrio del bilancio dello Stato e perseguire gli obiettivi della programmazione finanziaria».

Sarebbe innegabile, del resto, che al legislatore debba essere riconosciuto un margine di discrezionalità nella concretizzazione del precetto costituzionale relativo all’adeguatezza della prestazione previdenziale, tenendo conto della consistenza delle risorse economiche disponibili e considerando che, nel caso di specie, non sarebbe neppure in gioco la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 180 del 2001).

Quanto al dubbio sulla legittimità costituzionale della norma censurata, sollevato con riferimento agli artt. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 CEDU, la detta norma interpretativa sarebbe del tutto legittima, essendosi limitata a rendere esplicito un contenuto già insito nella disposizione di riferimento.

Invero, non sussisterebbero profili di contrasto con l’art. 111 Cost. sul giusto processo, perché scopo della norma in questione non sarebbe quello d’imporre una determinata soluzione ai giudizi pendenti, bensì quello di precisare l’opzione ermeneutica da adottare, indicando in modo espresso la volontà del legislatore sul punto.

Né, in linea generale, si potrebbe affermare che una norma d’interpretazione autentica sia di per sé contraria al principio del giusto processo, in quanto un intervento legislativo di tal genere dovrebbe ritenersi legittimo in presenza di obiettivi di pubblica utilità, nel cui novero certamente rientrerebbe l’esigenza di salvaguardare i principi informativi del sistema previdenziale pubblico e, in particolare, l’esigenza di garantire l’integrità del rapporto tra retribuzione pensionabile e provvista contributiva disponibile, calcolandole entrambe su un unico ed omogeneo parametro.

Del pari infondata sarebbe la censura mossa per pretesa violazione degli artt. 6 e 14 CEDU. Il rispetto dei principi della Convenzione non comporterebbe affatto che debbano essere disattese esigenze nazionali nascenti da inderogabili necessità pubbliche, quali sarebbero le esigenze di salvaguardare i principi che governano il sistema previdenziale pubblico.

Infine, non sarebbe ravvisabile violazione del canone di parità delle parti nel processo, perché esso «non consente di ingerirsi nell’esercizio del potere discrezionale e politico del legislatore, tanto più che il suddetto esercizio non rientra certo nelle prerogative di una delle due parti in causa – l’INPS – che non è depositario del detto potere».



Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Rossano, in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, dubita – in riferimento agli articoli 3, 38, secondo comma, 53, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010).

Il rimettente premette di essere chiamato a pronunziarsi su due ricorsi (poi riuniti per ragioni di connessione), proposti da due operaie agricole a tempo determinato, titolari di pensioni categoria VO, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale.

Le attrici hanno sostenuto che il detto Istituto, nel determinare la pensione, avrebbe erroneamente applicato l’art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria), in quanto, nel calcolare la pensione spettante alle lavoratrici, avrebbe assunto come base non già il salario medio convenzionale dell’anno in cui il lavoro è stato prestato, bensì quello dell’anno precedente. Pertanto, hanno chiesto che sia dichiarato il loro diritto ad ottenere la riliquidazione della pensione di vecchiaia in godimento sulla base del salario medio convenzionale in vigore nell’anno in cui il lavoro era stato prestato, con condanna dell’INPS alla ricostruzione della pensione e al pagamento delle differenze mensili.

Il Tribunale giudica la questione rilevante, perché la norma censurata «viene a disciplinare, con chiara efficacia sulla controversia in esame, il sistema di accredito contributivo ed il calcolo consequenziale della pensione». Osserva che la Corte di cassazione, con orientamento costante, si era espressa in senso favorevole alla tesi propugnata dalle attrici.

Rileva che, recentemente, la stessa Corte, con sentenza n. 2531 del 2009, è pervenuta a risolvere la questione in senso opposto, ma considera tale nuovo orientamento non condivisibile, alla stregua delle precedenti conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza. E afferma che la norma, della cui legittimità costituzionale dubita – stabilendo che il terzo comma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457 (Miglioramenti ai trattamenti previdenziali ed assistenziali nonché disposizioni per la integrazione del salario in favore dei lavoratori agricoli), si interpreta nel senso che il termine per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro, ai fini della determinazione della retribuzione media convenzionale da porre a base per le prestazioni pensionistiche e per il calcolo della contribuzione degli operai agricoli a tempo determinato, è quello previsto dal secondo comma dell’art. 3 della medesima legge per gli operai a tempo indeterminato – imporrebbe di ritenere applicabile non l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968, ma il citato terzo comma dell’art. 3 della legge n. 457 del 1972, come interpretato, alla stregua del quale si dovrebbe pervenire al rigetto delle domande.

In questo quadro, il rimettente ritiene le questioni di legittimità costituzionale non manifestamente infondate, con riferimento ai parametri invocati.

In particolare, la norma denunziata si porrebbe in contrasto: a) con l’art. 3 Cost., «apparendo la disposizione sospettata irragionevole ed in evidente contrasto con lo scopo manifestato», in quanto il legislatore avrebbe esteso la portata di una disposizione normativa, in precedenza inapplicabile alla fattispecie, mediante una norma autoqualificata come interpretativa, con lo scopo di non adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, evitando in tal modo la condanna in un contenzioso seriale. Inoltre, essa determinerebbe una discriminazione basata sulle condizioni sociali delle istanti, essendo notorio che i braccianti agricoli provengono da una categoria della società meno favorita sul piano sociale ed economico e soltanto per tale categoria si valuterebbe, al fine della determinazione della base pensionabile, il più basso salario dell’anno precedente. Infine, sarebbe violato il principio generale che consente al legislatore di emanare norme retroattive soltanto qualora esse trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, finendo in tal modo per incidere arbitrariamente su situazioni sostanziali disciplinate da leggi precedenti; b) con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, perché la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie; c) con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, all’art. 6 CEDU, in relazione al quale la Corte di Strasburgo ha sempre affermato che «se, in principio, al potere legislativo non è impedito regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni a portata retroattiva, i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della prevalenza del diritto e la nozione del processo equo sanciti dall’articolo 6 si oppongono, salvo che nel caso di motivi imperativi d’interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla conclusione giudiziaria della causa» (nel caso di specie non sarebbero ravvisabili “motivi imperativi d’interesse generale”); d) ancora con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, «che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della Convenzione» (la norma censurata interverrebbe contro una sola categoria di soggetti, appartenenti a settori deboli della società, trattandosi di lavoratori precari con contratti stagionali); e) con gli artt. 38, secondo comma, e 53 Cost., perché la norma censurata andrebbe ad incidere su un rapporto di credito-debito in via di accertamento, provocando l’estinzione del diritto di credito del pensionato per i ratei già maturati e, quindi, privando quest’ultimo di parte della pensione già maturata, con violazione dei citati parametri costituzionali, avendo il legislatore previsto l’elisione del menzionato diritto, «già presente nel patrimonio delle posizioni giuridiche degli istanti, in assenza di apprezzabile giustificazione, essendo quella esplicitata dalla disposizione in esame, ovvero l’interpretazione di disposizione normativa, inesistente». Si tratterebbe, quindi, di una disposizione in senso lato ablatoria, impositiva di un sacrificio ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell’INPS, adottata al di fuori delle ipotesi, tassativamente previste in Costituzione, nelle quali una persona può essere privata di diritti, ovvero obbligata a prestazioni, sempre a fronte di specifici motivi d’interesse generale.

2. — La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009, sollevata con riferimento all’art. 38, secondo comma, Cost., è inammissibile per il suo carattere generico.

Il parametro evocato stabilisce che «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi, adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». Il rimettente si limita a richiamare questo precetto, ma non chiarisce le ragioni per le quali esso sarebbe violato dalla norma censurata. In particolare, sarebbe stato quanto meno necessario esporre gli argomenti idonei a far ritenere che il sistema stabilito dalla norma de qua andrebbe ad incidere sull’adeguatezza della prestazione pensionistica, in guisa tale da vulnerare il dettato costituzionale.

In difetto di tale profilo, la questione risulta prospettata in termini generici, il che non consente di darle ingresso.

3. — Del pari inammissibile è la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 53 Cost.

Infatti, detta norma riguarda l’imposizione tributaria in senso proprio e non la materia previdenziale (sentenze n. 47 del 2008, n. 311 del 1995; ordinanze n. 202 del 2006, n. 22 del 2003), e il rimettente si limita ad una mera enunciazione del parametro senza spiegare le ragioni della sua pertinenza alla fattispecie.

4. — La questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.

L’art. 3, secondo comma, della legge n. 457 del 1972, in materia di lavoro agricolo, stabilisce che «Per i salariati fissi l’ammontare della retribuzione comprensiva del salario base, della contingenza, delle indennità in natura e fisse, è costituito dalla media della retribuzione prevista per ciascuna qualifica dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente».

L’art. 3, terzo comma, della legge citata prevede che «Per i giornalieri di campagna l’ammontare della retribuzione, comprensiva del salario base, contingenza, terzo elemento ed altre indennità fisse, è costituito dalla media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro vigenti al 30 ottobre di ogni anno. La media tra le retribuzioni delle diverse qualifiche è determinata dividendo per sei il totale costituito dalla somma del salario previsto per il lavoratore comune, del doppio del salario previsto per il lavoratore qualificato, nonché del triplo del salario previsto per il lavoratore specializzato».

Il detto comma formò già oggetto d’interpretazione autentica da parte dell’art. 45, comma 21, della legge 17 maggio 1999, n. 144 (Misure in materia d’investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali), alla stregua del quale «Il terzo comma dell’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, si interpreta nel senso che il termine ivi previsto del 30 ottobre per la rilevazione della media tra le retribuzioni per le diverse qualifiche previste dai contratti collettivi provinciali di lavoro ai fini della determinazione della retribuzione media da porre a base per la liquidazione delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato è il medesimo di quello previsto al secondo comma dell’articolo 3 della citata legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato».

Sia pur limitatamente alla liquidazione delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato, dunque, il legislatore già si era espresso equiparando, ai fini di cui alla norma medesima, la posizione degli operai agricoli a tempo determinato a quella degli operai a tempo indeterminato.

La norma in questa sede censurata (art. 2, comma 5, della legge n. 191 del 2009), trascritta in narrativa, ha, in sostanza, reiterato in via ermeneutica la norma già dettata per la liquidazione delle prestazioni temporanee per gli operai agricoli a tempo determinato, estendendola alla retribuzione delle prestazioni pensionistiche e al calcolo della contribuzione relative alla medesima categoria di lavoratori.

In questo quadro (nel quale, per completezza, va iscritto anche l’art. 28 del d.P.R. n. 488 del 1968), la giurisprudenza della Corte di cassazione in un primo momento aveva affermato che «In tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata, sia applicando l’art. 28 d.P.R. n. 488 del 1968, sia applicando l’art. 3, terzo comma, della legge n. 457 del 1972, nel testo risultante dalla norma d’interpretazione autentica del 1999 (art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999), sulla base delle retribuzioni medie annualmente vigenti, mentre nessuna disposizione appare idonea a giustificare il diverso sistema di calcolo improntato sulla media vigente nell’anno precedente, atteso che l’art. 28 del d.P.R. n. 488 citato rimette al d. m. la determinazione delle retribuzioni medie su cui calcolare la pensione, prescrivendo, però, senza alcun margine di discrezionalità, che la media sia quella vigente per ciascun anno e l’ente previdenziale è già tempestivamente a conoscenza della media delle retribuzioni su cui determinare la retribuzione pensionabile di ciascun anno. Detta interpretazione è coerente con il principio, proprio del sistema retributivo del calcolo pensionistico, secondo il quale la retribuzione pensionabile è ancorata per quanto possibile all’ultimo trattamento retributivo percepito, al fine di non alterare negativamente il regime di vita acquisito prestando attività lavorativa» (ex plurimis: sentenza n. 3212 del 14 febbraio 2007).

Successivamente la Corte di cassazione, avendo rimeditato il precedente orientamento, ha affermato che «In tema di pensione di vecchiaia degli operai agricoli a tempo determinato, la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando l’art. 28 del d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488 e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno da d. m. sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale nell’anno precedente, ciò trovando conferma – oltre che nella impossibilità di rinvenire un diverso e più funzionale sistema di calcolo che non pregiudichi l’equilibrio stesso della gestione previdenziale di settore – anche nella disposizione di cui all’art. 45, comma 21, della legge 17 maggio 1999, n. 144 che, nell’interpretare autenticamente l’art. 3 della legge 8 agosto 1972, n. 457, concernente le prestazioni temporanee in favore dei lavoratori agricoli, ha inteso estendere ai lavoratori agricoli a tempo determinato l’applicazione della media della retribuzione prevista dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente prevista per i salariati fissi, così da ricondurre l’intero sistema ad uniformità, facendo operare, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente» (ex plurimis: sentenza n. 2531 del 20 gennaio 2009).

Ciò posto, si deve premettere che, con riferimento ad altre leggi d’interpretazione autentica, questa Corte ha già affermato che non è decisivo verificare se la norma censurata abbia carattere effettivamente interpretativo (e sia perciò retroattiva), ovvero sia innovativa con efficacia retroattiva. Infatti, il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost. Pertanto, il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Sotto l’aspetto del controllo di ragionevolezza, dunque, rilevano la funzione di “interpretazione autentica”, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l’idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge dispone soltanto per l’avvenire. In particolare, la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 162 e n. 74 del 2008).

Inoltre, questa Corte ha anche chiarito, con riferimento ai rapporti di durata, che il legislatore, in materia di successione di leggi, dispone di ampia discrezionalità e può anche modificare in senso sfavorevole la disciplina di quei rapporti, ancorché l’oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, come si è innanzi precisato, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, secondo comma, Cost., e comunque a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenza n. 236 del 2009 e giurisprudenza in essa richiamata).

Con riguardo ai principi qui richiamati, si devono escludere le violazioni dell’art. 3 Cost., ipotizzate dal rimettente.

Infatti, la norma censurata non presenta alcun carattere irragionevole, ma s’inserisce in un orientamento legislativo già in precedenza espresso che, sia pure con riferimento alla liquidazione delle prestazioni temporanee, aveva previsto per gli operai agricoli a tempo determinato il medesimo criterio contemplato dall’art. 3, secondo comma, della legge n. 457 del 1972 per gli operai a tempo indeterminato (art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999). È vero che le prestazioni temporanee sono diverse da quelle pensionistico – contributive; non è esatto, però, che, come il rimettente sembra postulare, queste ultime riguardino tutt’altra materia rispetto alle prime, essendo palese che le une e le altre attengono al complessivo trattamento previdenziale della categoria dei lavoratori agricoli, sicché appare non irragionevole la finalità perseguita dal legislatore, diretta a ricondurre il sistema ad una disciplina uniforme, utilizzando, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente.

Del resto, la presunta irragionevolezza della norma censurata va esclusa anche sotto altro profilo. Invero, l’opzione ermeneutica prescelta dal legislatore non ha affatto introdotto nella disposizione interpretata un elemento ad essa del tutto estraneo, ma si è limitata ad assegnarle un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario. Il che è reso evidente dai contrastanti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, di cui la medesima ordinanza di rimessione dà conto e che sono anteriori alla norma censurata. Tali orientamenti rivelano una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo e dunque rendono non irragionevole il ricorso del legislatore alla interpretazione autentica (ordinanza n. 400 del 2007).

Pertanto l’assunto del rimettente, secondo cui l’intervento legislativo sarebbe stato ispirato dal «fine di non adeguare le pensioni degli operai agricoli a tempo determinato, così evitando la condanna in un contenzioso seriale», non può essere condiviso, perché non è sorretto da adeguata motivazione, idonea a superare gli argomenti ora esposti, ed anzi è smentito dai dati dianzi richiamati.

Né è ravvisabile «una discriminazione in sfavore di categorie deboli». A parte il carattere generico della censura, si deve osservare che la norma si limita ad equiparare, ai fini della individuazione del termine in essa contemplato, la categoria degli operai agricoli a tempo determinato a quella degli operai agricoli a tempo indeterminato, così uniformando il sistema ed adottando un criterio già presente nell’ordinamento.

Infine, l’argomento secondo cui la disposizione de qua avrebbe carattere in senso lato ablatorio, diretto ad imporre un sacrificio ad una sola categoria di soggetti deboli in favore dell’INPS, non è fondato. Esso muove dal presupposto che la norma censurata avrebbe l’effetto di «determinare l’estinzione del diritto di credito del pensionato anche alle differenze dei ratei di pensione infratemporalmente maturati». Si tratterebbe, dunque, di una «estinzione del debito in forza di disposizione legislativa», che andrebbe a colpire un diritto «già presente nel patrimonio delle posizioni giuridiche degli istanti». Il presupposto, però, è errato, perché la situazione giuridica vantata dalle parti private non poteva considerarsi acquisita o consolidata, proprio avuto riguardo alle oggettive incertezze del dato normativo, desumibili dai contrastanti orientamenti della giurisprudenza e superati dalla norma interpretativa.

5. — La questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., non è fondata.

Il rimettente ravvisa anche un contrasto con l’art. 117 (primo comma) Cost., per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Infatti, con riferimento al citato art. 6, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe sempre affermato che «se, in principio, al potere legislativo non è impedito regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni a portata retroattiva, i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio della prevalenza del diritto e la nozione del processo equo si oppongono, salvo che nel caso di motivi imperativi d’interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla conclusione giudiziaria della causa» (è richiamata, insieme con altre pronunzie, la sentenza della citata Corte 18 dicembre 2008, relativa al ricorso n. 20153 del 2004, UNEDIC c/ Francia).

Nel caso di specie, a giudizio del rimettente, non sussisterebbero motivi imperativi d’interesse generale.

Inoltre, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 111, primo e secondo comma, Cost., interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie.

Ancora, sussisterebbe violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della Convenzione. La norma censurata interverrebbe contro una sola categoria di soggetti, appartenenti a settori della società socialmente ed economicamente deboli. Nel caso di specie, la possibile discriminazione sarebbe duplice: «da un lato i precari della agricoltura rispetto al resto del precariato, che vede la propria contribuzione correlata alla retribuzione reale e, dall’altro, gli operai agricoli rispetto agli altri lavoratori dipendenti, che vedono le loro contribuzioni correlate alla retribuzione reale».

5.1. — In premessa, si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I principi illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla luce di essi si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007, citata).

Orbene, con riguardo all’art. 6 della CEDU, si deve osservare che la Corte di Strasburgo, pur censurando in numerose occasioni indebite ingerenze del potere legislativo degli Stati sull’amministrazione della giustizia (per una ricognizione dei casi trattati, sentenza di questa Corte n. 311 del 2009), non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari al menzionato art. 6 particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali (sentenza da ultimo citata, punto 8 del Considerato in diritto). La regola di diritto, affermata anche di recente con sentenza della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri c/ Italia, è che «Se, in linea di principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall’articolo 6 ostano, salvo che per ragioni imperative d’interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte».

Anche secondo la detta regola, dunque, sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d’influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione, priva di significato concreto.

Nel caso in esame, la norma censurata non è illegittima sulla base dei rilievi in precedenza svolti. In particolare, si deve qui ribadire che essa: a) ha affermato un principio già presente nell’ordinamento per gli operai agricoli a tempo determinato, sia pure limitatamente alla liquidazione delle prestazioni temporanee (art. 45, comma 21, della legge n. 144 del 1999); b) ha enucleato una delle possibili opzioni ermeneutiche dell’originario testo normativo; c) ha superato una situazione di oggettiva incertezza di tale testo, evidenziata dai diversi indirizzi interpretativi (di cui sopra si è dato conto); d) non ha inciso su situazioni giuridiche definitivamente acquisite, non ravvisabili in mancanza di una consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali.

Non è sostenibile, dunque, che la disposizione de qua abbia inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie. Essa, in realtà, ha fatto propria una soluzione già individuata dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nell’esercizio di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza. La finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore.

Pertanto, il denunciato contrasto tra la norma censurata e l’art. 6 CEDU, con violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., deve essere escluso.

Del pari, va esclusa l’asserita violazione dell’art. 111, primo e secondo comma, Cost. In particolare, non è violato il principio della parità delle parti nel processo. Infatti, come si è osservato, il legislatore ha individuato una delle possibili opzioni interpretative della norma, per garantire la certezza applicativa del sistema evitando ulteriori contenziosi, e non con lo scopo d’interferire su quelli in corso, peraltro già soggetti al nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità conforme alla disposizione interpretativa.

Infine, il rimettente prospetta una «possibile violazione» dell’art. 117, primo comma, Cost., «per violazione dell’art. 14 della CEDU che vieta discriminazioni per l’origine sociale e per la ricchezza nell’ambito di applicazione della convenzione». La norma censurata sarebbe intervenuta contro una sola categoria di soggetti appartenenti a settori deboli della società.

Tuttavia il Tribunale non chiarisce i motivi di una simile valutazione, ravvisa una discriminazione tra i precari dell’agricoltura e «il resto del precariato», senza farsi carico di individuare posizioni comparabili e almeno tendenzialmente omogenee e non spiega le ragioni sulla cui base ha ritenuto che la contribuzione degli operai agricoli non sia correlata al salario reale per l’equiparazione, operata dalla norma censurata, tra operai agricoli a tempo determinato e a tempo indeterminato. Questo profilo, dunque, per il suo carattere generico non può trovare ingresso.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 5, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2010), sollevate, in riferimento agli articoli 38, secondo comma, e 53 della Costituzione, dal Tribunale di Rossano, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

b) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della detta legge 23 dicembre 2009, n. 191, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 111, primo e secondo comma, 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di Rossano, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI