Ordinanza 260/2011

Ordinanza 260/2011
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente QUARANTA - Redattore CRISCUOLO

Camera di Consiglio del 06/07/2011 Decisione del 19/09/2011
Deposito del 30/09/2011 Pubblicazione in G. U. 05/10/2011
Norme impugnate: Art. 29, c. 5°, in relazione al c. 6°, della legge 25/03/1993, n. 81.
Massime:
Atti decisi: ord. 397/2010


ORDINANZA N. 260

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,



ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 5, e in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), promosso dal Tribunale di Catania nel procedimento penale a carico di N. G. ed altri, con ordinanza del 28 settembre 2010, iscritta al n. 397 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.



Ritenuto che il Tribunale di Catania in composizione monocratica, con ordinanza depositata il 28 settembre 2010, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale);

che il rimettente premette di essere chiamato a pronunciarsi in un processo penale a carico di N. G., N. F., S. R. e C. G., ai quali è stata contestata, in concorso, la fattispecie prevista dalla norma censurata, «per avere il primo, nella qualità di Direttore Generale dell’Azienda ospedaliera Garibaldi di Catania, organizzato due incontri di propaganda politico elettorale all’interno del predetto plesso ospedaliero nell’interesse degli altri imputati, candidati rispettivamente al Consiglio comunale, alla carica di Sindaco ed alla Presidenza della Provincia regionale di Catania»;

che, come il giudice a quo riferisce, in dibattimento il difensore di S. R. ha eccepito l’illegittimità costituzionale della norma recante il reato ascritto al proprio assistito per contrasto con l’art. 3 Cost., ponendo in evidenza l’irragionevolezza di una disposizione che mantiene «rilevanza penale alla violazione del divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni nell’ambito delle elezioni amministrative laddove la norma contenente la previsione di identico divieto in relazione all’elezione alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica ha perso vigenza per intervenuta abrogazione»;

che, a fondamento dell’istanza, è stato addotto:

che l’art. 29, comma 6, della legge n. 81 del 1993 così statuisce: «È fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa», divieto la cui violazione è sanzionata ai sensi del precedente comma 5 (secondo periodo), alla stregua del quale «Chiunque contravviene alle restanti norme di cui al presente articolo è punito con la multa da lire un milione a lire cinquanta milioni»;

che l’art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), sotto il titolo «Divieto di propaganda istituzionale», prevedeva quanto segue: «È fatto divieto a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere attività di propaganda di qualsiasi genere, ancorché inerente alla loro attività istituzionale, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per la durata della stessa. Non rientrano nel divieto del presente articolo le attività di comunicazione istituzionale indispensabili per l’efficace assolvimento delle funzioni proprie delle amministrazioni pubbliche»;

che tale articolo, il cui testo risulterebbe «sovrapponibile alla disposizione della cui legittimità si dubita», è stato abrogato dall’art. 13 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), onde «non appare ragionevole il mantenimento della sanzione penale per una condotta che, tutt’ora oggetto di incriminazione nell’ambito della disciplina delle elezioni amministrative, non subisce sanzione ove posta in essere in occasione della competizione elettorale nazionale»;

che, a sostegno della tesi così esposta, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 287 del 2001, la quale dichiarò l’illegittimità costituzionale dello stesso art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993, in questa sede censurato, nella parte in cui puniva il fatto previsto dal precedente comma 3 (obbligo d’indicare il nome del committente responsabile sulle pubblicazioni di propaganda elettorale in detta norma specificate) con la multa anziché con una sanzione amministrativa pecuniaria d’importo corrispondente;

che agli argomenti fin qui esposti il rimettente aggiunge l’osservazione secondo cui la legge n. 28 del 2000, con la quale è stata disposta l’abrogazione del citato art. 5 (della legge n. 515 del 1993), sarebbe diretta a disciplinare in modo uniforme l’accesso ai mezzi di informazione durante le campagne per l’elezione al Parlamento europeo, per le elezioni politiche, regionali e amministrative e per ogni referendum, quindi con valenza estesa a tutte le occasioni elettorali;

che, prosegue il giudice a quo, il dettato dell’art. 9 della stessa legge sembra segnalare l’intenzione del legislatore di disciplinare in modo diverso ed unitario il tema relativo alla condotta delle pubbliche amministrazioni in occasione delle competizioni elettorali, prevedendo per le dette amministrazioni (nelle circostanze contemplate dalla norma) il divieto di svolgere attività di comunicazione, eccetto quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’assolvimento delle funzioni, e stabilendo, in caso di violazione del divieto, interventi dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni;

che, infine, ad avviso del rimettente, la questione sarebbe rilevante nel giudizio in corso, nel quale andrebbe valutata «la responsabilità degli imputati in ordine alla fattispecie prevista dalla norma impugnata e ad altro reato aggravato dalla sussistenza di nesso teleologico con il primo»;

che, con atto depositato il 25 gennaio 2011, nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;

che, ad avviso della difesa statale, il divieto per tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di propaganda elettorale realizza un’ipotesi di applicazione concreta del principio d’imparzialità dell’azione amministrativa, stabilito dall’art. 97 Cost., la cui importanza è, in particolare, evidente nel periodo immediatamente precedente la competizione elettorale;

che, inoltre, il divieto è diretto ad impedire il consolidarsi di un vantaggio elettorale a favore dei politici uscenti nei confronti degli sfidanti, date le facilitazioni, in termini di comunicazione e di visibilità, di cui i primi dispongono in via esclusiva e gratuita;

che l’art. 9 della legge n. 28 del 2000, analogamente alla norma censurata, sancisce il divieto per tutte le amministrazioni pubbliche, durante il periodo compreso tra la data di convocazione dei comizi elettorali e la chiusura delle operazioni di voto, «di svolgere attività di comunicazione, ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace svolgimento delle proprie funzioni»;

che, in base al disposto del successivo art. 10 della legge n. 28 del 2000, «Le violazioni delle disposizioni di cui alla presente legge, nonché di quelle emanate dalla Commissione e dall’Autorità, sono perseguite d’ufficio da quest’ultima secondo le disposizioni del presente articolo» (il riferimento è alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni);

che, pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, la violazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, del divieto di comunicazione istituzionale durante la campagna elettorale risulterebbe sanzionata, ancorché in forme differenti, non soltanto con riferimento allo svolgimento delle elezioni amministrative ma anche con riguardo ad ogni altra competizione elettorale, e ciò escluderebbe la possibilità di affermare che l’art. 29, comma 5, della legge n. 81 del 1993 violi il principio dettato dall’art. 3 Cost.;

che la differenza di trattamento sanzionatorio prevista per la violazione del divieto di propaganda elettorale da parte delle pubbliche amministrazioni, a seconda che la stessa si verifichi in occasione delle elezioni amministrative (sanzione penale), ovvero in relazione alle elezioni politiche, europee e regionali (provvedimenti sanzionatori da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), non sarebbe costituzionalmente illegittima, alla luce della giurisprudenza di questa Corte;

che, infatti, essa, proprio con riferimento alla legislazione elettorale, avrebbe ritenuto ammissibile l’esistenza di sottosistemi come «espressione della discrezionalità (da riconoscere) al legislatore per quanto attiene alla sfera della punibilità» (sentenza n. 455 del 1998), nonché «ammissibile l’esistenza di regimi sanzionatori differenziati, frutto di scelte discrezionali del legislatore), a condizione che queste ultime non trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenze n. 394 del 2006, n. 144 del 2005, n. 364 del 2004 e n. 287 del 2001);

che, nella specie, la scelta del legislatore, diretta a sanzionare più severamente la violazione del divieto di propaganda elettorale, da parte delle pubbliche amministrazioni, quando essa si verifichi in occasione delle elezioni amministrative, non può ritenersi manifestamente irragionevole o arbitraria;

che, invero, l’esigenza di evitare che la comunicazione degli enti pubblici possa determinare interferenze e distorsioni, rispetto ad una libera consultazione elettorale, sarebbe più avvertita con riferimento alle consultazioni elettorali amministrative, aventi una dimensione locale rispetto alle altre riguardanti l’intero territorio nazionale (come nel caso delle elezioni politiche ed europee) o, comunque, l’ambito regionale.

Considerato che il Tribunale di Catania, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), che, nell’ambito delle elezioni amministrative, incrimina la violazione del divieto di svolgere attività di propaganda elettorale di qualsiasi genere, da parte delle pubbliche amministrazioni, nei trenta giorni antecedenti l’inizio della campagna elettorale e per tutta la durata della stessa;

che la norma censurata sarebbe in contrasto col principio di ragionevolezza, perché l’art. 5 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 (Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica), che prevedeva un identico divieto con riguardo all’elezione di tali organi, è stato abrogato dall’art. 13 della legge 22 febbraio 2000, n. 28 (Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica), onde non sarebbe giustificato, nel quadro del menzionato principio, «il mantenimento della sanzione penale per una condotta che, tutt’ora oggetto di incriminazione nell’ambito della disciplina delle elezioni amministrative, non subisce sanzione ove posta in essere in occasione della competizione elettorale nazionale»;

che la questione è manifestamente inammissibile, in ragione delle gravi carenze che inficiano la descrizione della fattispecie sottoposta all’esame del giudice a quo (ex plurimis: ordinanze nn. 146 e 85 del 2010; nn. 211 e 181 del 2009);

che, infatti, mentre per il primo dei quattro imputati si fa riferimento, per descrivere la condotta incriminata, all’organizzazione di due incontri di propaganda politico-elettorale all’interno di un complesso ospedaliero, del quale il prevenuto era direttore generale (peraltro, senza indicare le date degli incontri), per gli altri tre si afferma soltanto che l’organizzazione avrebbe avuto luogo nel loro “interesse”, ma manca qualsiasi descrizione della condotta ai medesimi ascritta, non sono chiariti i ruoli dei compartecipi e neppure è detto se essi abbiano o meno preso parte agli incontri stessi;

che tali dati, necessari per consentire a questa Corte la verifica della rilevanza della questione proposta in relazione alla fattispecie concreta, non possono essere desunti dall’esame degli atti processuali, non consentito in questa sede in ossequio al principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione;

che, sotto altro profilo, detta ordinanza presenta un petitum oscuro o, comunque, ambiguo, perché non spiega se ritiene che si debba pervenire ad una sentenza caducatoria della norma censurata, oppure se intenda ottenere una pronunzia che dichiari l’illegittimità costituzionale della norma stessa nella parte in cui punisce la condotta incriminata con la multa anziché con una sanzione amministrativa pecuniaria di corrispondente importo, come il richiamo alla sentenza n. 287 del 2001 lascerebbe intendere.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29, comma 5, in relazione al successivo comma 6, della legge 25 marzo 1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale di Catania con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 settembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI