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SENTENZA N. 206 ANNO 2020

Sentenza 206/2020 (ECLI:IT:COST:2020:206)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: MORELLI - Redattore:  BARBERA
Udienza Pubblica del 08/09/2020;    Decisione  del 08/09/2020
Deposito del 25/09/2020;   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:  Art. 23, c. 1°, lett. a), della legge della Regione Toscana 25/03/2015, n. 35.
Massime: 
Atti decisi: ord. 136/2019
  

Pronuncia

SENTENZA N. 206

ANNO 2020


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, lettera a), della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 104/1995, l.r. 65/1997, l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana nel procedimento vertente tra la Escavazione Marmi Lorano II srl e il Comune di Carrara, con ordinanza del 23 aprile 2019, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti l’atto di costituzione della Escavazione Marmi Lorano II srl, nonché l’atto di intervento della Regione Toscana;

udito nell’udienza pubblica dell’8 settembre 2020 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

uditi gli avvocati Giuseppe Morbidelli e Riccardo Diamanti per la Escavazione Marmi Lorano II srl e l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Toscana;

deliberato nella camera di consiglio dell’8 settembre 2020.


Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 23 aprile 2019 (r.o. n. 136 del 2019), il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, lettera a), della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 104/1995; l.r. 65/1997, l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014) in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

La disposizione censurata prevede che l’impresa autorizzata all’esercizio di attività estrattiva nelle cave debba richiedere una nuova autorizzazione a seguito di una variazione, rispetto all’originario progetto di coltivazione del sito, che comporti un «ampliamento delle volumetrie di scavo eccedenti il limite massimo di 1.000 metri cubi».

2.– Il giudizio principale è stato promosso da Escavazioni Marmi Lorano II srl, titolare di autorizzazione all’estrazione di materiale lapideo nel distretto delle Alpi Apuane.

Detta società aveva dapprima impugnato innanzi al TAR Toscana l’ordinanza del 27 luglio 2018, n. prot. 59205, con la quale il Comune di Carrara le aveva ordinato la sospensione dei lavori, contestandole di aver svolto attività di escavazione in difformità dall’autorizzazione rilasciata, in particolare ampliando le proprie volumetrie di scavo in misura eccedente il limite normativo di 1.000 metri cubi; quindi, poiché l’amministrazione aveva revocato tale atto – ritenuta l’applicabilità al caso di specie dell’art. 58-bis della legge reg. Toscana n. 35 del 2015, nel frattempo entrato in vigore – ed emesso il 27 novembre 2018 una nuova ordinanza di sospensione dei lavori (n. prot. 91001) del 27 novembre 2018, la citata società aveva impugnato quest’ultima con ricorso per motivi aggiunti.

3.– In ordine alla rilevanza della questione, il TAR Toscana ha osservato che il provvedimento impugnato si fonda sul superamento, da parte della ricorrente, del limite quantitativo di tolleranza negli scavi.

3.1.– Quanto, invece, alla non manifesta infondatezza, il rimettente ha sostenuto che la determinazione di un limite massimo di volumetria, entro cui considerare tollerabile il margine di aumento del volume delle escavazioni, a prescindere dalle dimensioni della cava in cui esso è realizzato, violerebbe il principio di uguaglianza, comportando l’identico trattamento di fattispecie diverse fra loro.

Infatti, dopo aver premesso in fatto che «il lavoro di escavazione del marmo non è esattamente programmabile a priori», il TAR Toscana ha rilevato che il margine stabilito dal legislatore «può essere sufficiente ad affrontare gli imprevisti in una cava di dimensioni modeste», ma in una di fronte particolarmente esteso il limite potrebbe essere superato «per fatti anche non addebitabili all’escavatore»; di qui la dedotta violazione, avuto vieppiù riguardo al fatto che al superamento del limite la stessa legge regionale ricollega la sanzione più grave della decadenza dall’autorizzazione.

3.2.– Più specificamente, il rimettente ha richiamato la giurisprudenza della Corte costituzionale, formatasi a partire dalla nota sentenza n. 53 del 1958, secondo la quale la parificazione di situazioni oggettivamente diverse costituisce violazione del principio di uguaglianza; mentre, per contro, siffatta violazione non esiste laddove una diversità di disciplina corrisponda ad una diversità di situazioni, fatto salvo il limite generale dei principi di proporzionalità e ragionevolezza (sentenze n. 79 del 2016 e n. 85 del 2013).

Da tanto il giudice a quo ha fatto conseguire una valutazione di irragionevolezza della norma, che – pur a fronte di cave diversamente dimensionate – prevede un limite generale di tolleranza nella difformità degli scavi espresso in termini quantitativi, «anziché in termini proporzionali alle dimensioni di ciascun sito estrattivo».

4.– Con atto depositato il 7 ottobre 2019 è intervenuta nel giudizio la Regione Toscana.

4.1.– In via preliminare, la Regione ha rilevato che successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione, la norma censurata è stata sostituita dall’art. 10, comma 1, della legge della Regione Toscana 5 agosto 2019, n. 56 (Nuove disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 35/2015 e alla l.r. 65/2014); per effetto di tale modifica, il nuovo testo dell’art. 23, comma 1, lettera a), della legge Reg. Toscana n. 35 del 2015 prescrive il rilascio di nuova autorizzazione per il caso in cui vengano realizzate «difformità volumetriche, entro il dimensionamento autorizzato, eccedenti il 4,5 per cento delle volumetrie autorizzate qualora tali difformità risultino pari o superiori a 1.000 metri cubi e fermo restando il limite massimo di 9.500 metri cubi».

Su tale base ha chiesto che gli atti vengano restituiti al giudice a quo per la rivalutazione dei presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione.

4.2.– Nel merito, la Regione ha in ogni caso dedotto l’infondatezza della questione di legittimità.

A tale riguardo, ha sostenuto che il rimettente avrebbe errato nell’interpretare la norma censurata come disposizione meramente indicativa di un “margine di tolleranza”, idoneo a consentire alle imprese di escavazione le variazioni in aumento delle volumetrie autorizzate, senza attendere i tempi di un nuovo procedimento amministrativo.

La norma andrebbe invece interpretata nel solco della regola affermata dall’art. 17 della legge reg. Toscana n. 35 del 2015, che sancisce il ruolo centrale del «progetto di coltivazione» consegnato al Comune per l’autorizzazione, e nel quale sono indicati i metodi adottati, le specifiche di dimensionamento spazio-temporale dei lavori di scavo, l’analisi di stabilità geologica ed ogni altro dato necessario a valutare la compatibilità dell’attività svolta con il territorio, in tutti i suoi molteplici aspetti (ambientale, paesaggistico, idrogeologico e di sicurezza dei luoghi).

In tal senso, la previsione censurata costituirebbe un’eccezione alla necessità di autorizzazione ex ante, perché riafferma l’inammissibilità di coltivazioni di cava in ambiti non previamente sottoposti alle valutazioni ed autorizzazioni prescritte, se non per ipotesi circoscritte di minore entità, fra le quali l’aumento del volume di scavo contenuto nel limite di 1.000 metri cubi.

Ciò posto, e ritenuta altresì la finalità deterrente della norma censurata, in quanto presupposto per l’applicazione del regime sanzionatorio in materia di attività estrattiva, la Regione ha concluso osservando che la stessa si sottrae ad ogni sindacato di legittimità costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza, poiché il perimetro della condotta punibile e la gravità della risposta sanzionatoria costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel perseguimento di un obiettivo di tutela dell’ambiente, in termini che prescindono dal dimensionamento del sito estrattivo.

5.– Con atto depositato l’8 ottobre 2019, si è costituita la ricorrente nel giudizio principale Escavazione Marmi Lorano II srl.

5.1.– Ricostruite le vicende processuali anteriori all’avvio del giudizio di legittimità, anche la società interveniente ha fatto cenno al mutamento del quadro normativo, dichiarandosi «soddisfatta della modifica legislativa intervenuta»; tuttavia, ritenuta l’irretroattività della nuova disciplina, ha dichiarato di rimettersi «al prudente apprezzamento della Corte, in merito alla valutazione sul superamento o meno della questione d’illegittimità costituzionale sollevata ad opera della citata novella legislativa».

5.2.– Quanto al merito della questione, la società ha poi aderito alla richiesta di declaratoria di illegittimità della norma censurata, evidenziando l’opportunità di estenderla all’art. 58-bis della legge reg. Toscana n. 35 del 2015, ove continua ad essere indicato un margine di tolleranza in misura fissa e non proporzionale alla dimensione complessiva del sito estrattivo.

5.3.– In pari data la stessa ricorrente nel giudizio principale ha depositato un atto denominato “memoria di costituzione con nomina di nuovi difensori in aggiunta a quelli già costituiti”, nel quale ha svolto considerazioni inerenti alla possibile contrarietà della norma censurata a parametri costituzionali diversi ed ulteriori rispetto a quello indicato nell’ordinanza di rimessione.

5.4.– Infine, il 17 agosto 2020 la medesima società ricorrente nel giudizio principale ha depositato memoria integrativa con la quale ha ribadito le proprie argomentazioni difensive.


Considerato in diritto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana dubita della legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, lettera a), della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 104/1995, l.r. 65/1997, l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014), in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

La norma censurata prevede che l’impresa autorizzata all’esercizio di attività estrattiva nelle cave debba richiedere una nuova autorizzazione a seguito di una variazione, rispetto all’originario progetto di coltivazione del sito, che comporti un «ampliamento delle volumetrie di scavo eccedenti il limite massimo di 1.000 metri cubi».

1.1.– Secondo il rimettente, la disposizione violerebbe il principio di uguaglianza, e sarebbe altresì intrinsecamente irragionevole, poiché, nel prevedere un limite di tolleranza nella difformità degli scavi espresso in termini quantitativi fissi, anziché proporzionati alle dimensioni di ciascun sito estrattivo, assoggetterebbe ad identica disciplina fattispecie diverse fra loro, anche in considerazione del fatto che la stessa legge regionale prevede che il superamento di tale margine comporti la sanzione più grave della decadenza dall’autorizzazione.

2.– Ai fini dello scrutinio richiesto a questa Corte è necessario richiamare, nei suoi tratti salienti, il quadro normativo di riferimento, insieme agli antecedenti di fatto nel giudizio principale.

2.1.– Nel disciplinare l’esercizio dell’attività estrattiva, la legge reg. Toscana n. 35 del 2015 prevede che lo stesso sia «subordinato ad autorizzazione del comune» (art. 16, comma 1) e che la relativa domanda sia corredata, fra l’altro, da un «progetto di coltivazione», che indichi anche le «tipologie ed i quantitativi dei materiali da estrarre» (art. 17, comma 1, lettera c, numero 3); il contenuto di tale progetto costituisce l’oggetto dell’autorizzazione (art. 18).

Per le ipotesi nelle quali il titolare intenda introdurre varianti al progetto autorizzato, l’art. 23 consente il ricorso a segnalazione certificata di inizio attività (comma 2), fatti salvi alcuni casi nei quali, per la rilevanza della variante, è richiesto il rilascio di una nuova autorizzazione (comma 1).

Rientra in tali casi la fattispecie prevista dalla norma censurata, che concerne la variazione in aumento del volume di scavo, prescrivendo – per l’appunto – che ove tale variazione superi il margine di 1.000 metri cubi sia necessario ottenere una nuova autorizzazione.

2.2.– Ai fini che qui vengono in rilievo, detta ultima previsione non può essere letta disgiuntamente da quella di cui all’art. 21 della legge reg. Toscana n. 35 del 2015, che – per il caso di «realizzazione di interventi in difformità dal progetto autorizzato che comportino varianti sostanziali di cui all’articolo 23, comma 1» (comma 1, lettera d) – dispone l’adozione, da parte del comune, del «provvedimento di sospensione dell’autorizzazione» (comma 1), da notificarsi al trasgressore con l’indicazione dei termini entro cui provvedere a presentare le eventuali controdeduzioni (comma 2); il successivo comma 3 prevede, infine, che, ove «non ritenga meritevoli di accoglimento le controdeduzioni o queste non siano state presentate entro il medesimo termine, il comune adotta il provvedimento di decadenza» dall’autorizzazione stessa.

2.3.– Il giudizio principale prende avvio in tale contesto normativo.

Riferisce infatti il rimettente che, all’esito dell’accertamento di lavorazioni quantitativamente difformi dal «progetto di coltivazione» autorizzato, in data 27 luglio 2018 il Comune di Carrara emise un’ordinanza con la quale sospendeva l’autorizzazione già rilasciata ad Escavazione Marmi Lorano II srl.

La società aveva impugnato detta ordinanza con ricorso davanti al TAR Toscana.

2.4.– L’ordinanza impugnata era stata tuttavia revocata dal citato Comune con provvedimento del 30 ottobre 2018, a seguito dell’intervenuta modifica della normativa applicabile.

L’art. 1, comma 1, della legge della Regione Toscana 2 ottobre 2018, n. 54, recante «Modifiche alla legge regionale 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 104/1995, l.r. 65/1997, l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014)», aveva infatti inserito, nella legge reg. Toscana n. 35 del 2015, l’art. 58-bis.

2.5.– Quest’ultima previsione era stata introdotta in quanto – come evincibile dal preambolo della legge di modifica – i controlli effettuati dai Carabinieri forestali della Toscana nelle cave del distretto apuo-versiliese avevano rilevato aumenti di scavo per quantitativi idonei a dar luogo alla decadenza dalle autorizzazioni rilasciate; tali condotte non erano però state contestate alle imprese da alcuni comuni del distretto, i quali, nel verificare se fosse stato o meno superato il margine di 1.000 metri cubi di cui all’art. 23, non tenevano conto degli scavi effettuati al di fuori del perimetro di cui al «progetto di coltivazione», ma che rimanevano comunque all’interno della più ampia area a disposizione del gestore.

Questa interpretazione aveva ingenerato l’affidamento degli operatori in ordine alla conformità volumetrica dell’attività di escavazione, rendendo perciò necessario un intervento normativo che, nel fornire espressamente una più rigorosa definizione del perimetro estrattivo in termini corrispondenti a quello del «progetto di coltivazione», prevedesse tuttavia anche un periodo transitorio di adeguamento, durante il quale veniva esclusa l’immediata applicazione della più grave misura sanzionatoria.

2.6.– A questo scopo, l’art. 58-bis della legge reg. Toscana n. 35 del 2015, rubricato «Disposizioni transitorie per il sanzionamento di difformità volumetriche sino all’approvazione dei piani attuativi dei bacini estrattivi delle Alpi Apuane» dispone, al comma 1, che «[F]ino all’approvazione dei piani attuativi previsti dall’articolo 113 della L.R. 65/2014 e comunque non oltre la data del 31 dicembre 2019, qualora il titolare di un’autorizzazione in corso di validità abbia realizzato una difformità volumetrica superiore ai 1000 metri cubi rispetto al progetto di coltivazione autorizzato, ma comunque all’interno dell’area in disponibilità a destinazione estrattiva, il comune ordina la cessazione immediata dell’attività nell’area oggetto della difformità e la presentazione di una perizia giurata», ove si attesti che le difformità sono state realizzate in epoca anteriore al 25 ottobre 2018, data di entrata in vigore della legge stessa.

Con il medesimo provvedimento, il Comune ordina «altresì la presentazione e realizzazione di un progetto di messa in sicurezza e risistemazione ambientale dell’area che tenga conto degli impatti complessivi derivanti dalle lavorazioni difformi».

Il comma successivo dispone che l’autorizzazione resti sospesa sino all’approvazione del progetto e al completamento delle opere di messa in sicurezza dell’area, ma che tali adempimenti, ove intervenuti nei termini prescritti, determinino l’applicazione di una sola sanzione pecuniaria; la più grave sanzione della decadenza dall’autorizzazione è infatti prevista, in base al comma 3, per la diversa ipotesi in cui «il titolare non ottemperi agli obblighi stabiliti con l’ordinanza», ovvero «nel caso in cui, a seguito di nuovo accertamento, venga rilevata una ulteriore difformità».

2.7.– In conformità a tali previsioni, in data 27 novembre 2018 il Comune di Carrara aveva dunque ordinato alla società ricorrente nel giudizio principale di sospendere le attività estrattive e di produrre, entro novanta giorni, la perizia giurata ed il progetto di messa in sicurezza e risistemazione ambientale dell’area previsti dal predetto art. 58-bis.

Quest’ultima ordinanza è stata oggetto di impugnazione con motivi aggiunti nel ricorso principale.

3.– Tale essendo il quadro normativo di riferimento nel contesto del giudizio principale, la questione sollevata dal TAR Toscana è inammissibile per errata individuazione della norma applicabile (aberratio ictus).

3.1.– Il rimettente, infatti, pur rilevando espressamente che la prima ordinanza del Comune di Carrara, fondata sulla violazione dell’art. 23 della legge reg. Toscana n. 35 del 2015, è stata revocata e sostituita da una nuova ordinanza, che trova fondamento nella distinta previsione di cui all’art. 58-bis della stessa legge, rivolge le sue censure unicamente nei confronti della prima norma.

3.2.– Secondo il costante orientamento di questa Corte, nei giudizi incidentali ricorre l’inammissibilità della questione per aberratio ictus ogni qual volta le doglianze del giudice rimettente investono una disposizione diversa da quella effettivamente applicabile nel giudizio a quo (fra le altre, sentenze n. 15 del 2020 e n. 109 del 2019): la questione, in tali casi, è irrilevante, poiché, quale che sia la pronunzia nel merito in relazione alle censure prospettate, il giudizio a quo resterebbe definito da norme contenute in disposizioni diverse.

3.3.– Nel caso di specie, la diversità fra la norma censurata e quella applicata nel giudizio principale si coglie anzitutto dalla disamina delle condotte che, nelle rispettive previsioni, impongono il rilascio di una nuova autorizzazione; l’art. 23, infatti, prende in considerazione tutti gli aumenti volumetrici di scavo effettuati dall’impresa autorizzata, mentre, come si è detto, l’art. 58-bis, pur richiamando lo stesso limite di volume, riguarda i soli aumenti realizzati mediante scavi esterni al perimetro del «progetto di coltivazione», ma compresi nell’area in disponibilità a destinazione estrattiva, ed entro il citato limite temporale del 25 ottobre 2018.

3.4.– Inoltre, e ciò che più conta, tale distinzione si riverbera nella diversità del procedimento amministrativo che prende avvio dall’applicazione dell’una norma piuttosto che dell’altra.

Come è stato illustrato nel punto 2.2, infatti, il superamento del margine di scavo di cui all’art. 23 comporta l’immediata sospensione dell’attività e l’avvio di un procedimento volto all’adozione della sanzione della decadenza, previo contraddittorio con l’impresa che viene invitata a presentare le proprie controdeduzioni.

Invece, il riscontro di una fattispecie riconducibile alla previsione di cui all’art. 58-bis, che nella prospettazione dell’ordinanza di rimessione scherma l’art. 23, comporta che l’impresa cessi provvisoriamente l’attività, provvedendo al contempo ad alcuni adempimenti che, ove tempestivi ed approvati, ne consentano la prosecuzione con l’applicazione della sola sanzione pecuniaria.

Ciò, del resto, chiarisce il motivo per il quale il Comune di Carrara si era determinato a revocare la prima ordinanza emanata nei confronti dell’impresa ricorrente.

Della norma su cui si fonda la seconda ordinanza del medesimo Comune, oggetto di ricorso per motivi aggiunti ed in relazione alla quale pende il contenzioso, non vi è traccia nell’ordinanza di rimessione, che, pertanto, non chiarisce il profilo della perdurante rilevanza dell’art. 23.

4.– Peraltro la norma censurata è stata modificata, successivamente all’ordinanza di rimessione, dalla legge della Regione Toscana 5 agosto 2019, n. 56 (Nuove disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 35/2015 e alla l.r. 65/2014), che, all’art. 10, comma 1, stabilisce un margine di tolleranza espresso in termini proporzionati alle dimensioni dell’area di scavo, nel senso prospettato dallo stesso rimettente.

Tuttavia, detta modifica non ha inciso sul contenuto dell’art. 58-bis (eccetto che per profili che qui non rilevano); essa, pertanto, non viene in considerazione in questa sede come possibile jus superveniens, poiché non riguarda la norma destinata a definire il giudizio principale.

5.– L’errata individuazione della disposizione applicabile al giudizio principale costituisce ragione decisiva di inammissibilità della questione proposta.


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, lettera a), della legge della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r. 104/1995, l.r. 65/1997, l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale Amministrativo Regionale per La Toscana con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 settembre 2020.

F.to:

Mario Rosario MORELLI, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 settembre 2020.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

SENTENZA N. 201 ANNO 2020

Sentenza 201/2020 (ECLI:IT:COST:2020:201)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: MORELLI - Redattore:  ANTONINI
Udienza Pubblica del 21/07/2020;    Decisione  del 21/07/2020
Deposito del 17/09/2020;   Pubblicazione in G. U. 23/09/2020  n. 39
Norme impugnate:  Art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica del 22/12/1986, n. 917.
Massime: 
Atti decisi: ordd. 148/2019 e 38/2020
  

Pronuncia

SENTENZA N. 201

ANNO 2020


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promossi dalla Commissione tributaria provinciale di Genova con due ordinanze del 22 gennaio 2019, iscritte, rispettivamente, al n. 148 del registro ordinanze 2019 e al n. 38 del registro ordinanze 2020 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2019 e n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti gli atti di costituzione di Marco Cuzzi, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 21 luglio 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato Fabrizio Gaetano Pacchiarotti per Marco Cuzzi e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 21 luglio 2020.


Ritenuto in fatto

1.– Con due ordinanze di analogo tenore del 22 gennaio 2019, iscritte, rispettivamente, al n. 148 del registro ordinanze 2019 e al n. 38 del registro ordinanze 2020, la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 (recte: 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma) della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito: TUIR), secondo cui «[i] redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili», limitatamente alla parte in cui prevede che l’imputazione dei redditi ai soci avviene «indipendentemente dalla percezione».

1.1.– Le questioni sono sorte nel corso di due giudizi promossi da un socio accomandante di una società in accomandita semplice (sas) avverso due avvisi di accertamento per maggiori imposte relative agli anni 2011 e 2012, emessi dall’Agenzia delle entrate nei confronti della società e dei soci ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e dell’imposta sul valore aggiunto (IVA).

La CTP adita, in entrambe le ordinanze, espone preliminarmente: a) di aver sospeso in via cautelare l’efficacia degli avvisi; b) di aver ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società e del socio accomandatario, ritenuti litisconsorti necessari originari, in base al principio giurisprudenziale di unitarietà dell’accertamento dei redditi delle società di persone e dei loro soci; c) di aver disatteso sia l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del socio accomandante, sia la richiesta di declaratoria di cessazione della materia del contendere formulate dalla resistente Agenzia delle entrate; d) di aver respinto l’eccezione di nullità degli impugnati avvisi, sollevata dal ricorrente per il difetto di sottoscrizione da parte del «capo dell’Ufficio impositore», nonché la doglianza basata sulla violazione del beneficium excussionis di cui all’art. 2304 del codice civile.

Quanto alle fattispecie sottoposte al suo esame, la CTP rimettente ritiene dimostrato che, a suo tempo, il contribuente non abbia ricevuto, dal socio accomandatario, informazioni circa l’andamento della gestione della società, e che lo stesso contribuente non abbia percepito alcun reddito derivante dalla partecipazione societaria, come sarebbe desumibile dall’ordinanza cautelare con la quale il Tribunale ordinario di Chiavari, accogliendo la domanda dell’accomandante, aveva ordinato all’accomandatario, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, di esibire «i libri contabili e la documentazione fiscale afferente suoi rapporti con gli istituti di credito».

1.2.– In punto di diritto, la CTP muove dalla premessa interpretativa, esposta dal ricorrente, che l’art. 1 del TUIR richiederebbe in generale, per l’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche, il possesso, inteso come «materiale disponibilità di fruirne» ovvero come «capacità di disporne», dei redditi «in danaro o in natura», laddove invece il successivo art. 5 dello stesso testo unico prevede, ai fini della medesima imposta, che i redditi prodotti in forma associata tramite società di persone residenti sono imputati a ciascun socio «indipendentemente dalla percezione» (cosiddetta “imputazione per trasparenza”), così configurando una «presunzione assoluta» di attribuzione a tali soci dei redditi societari, anche se non effettivamente percepiti.

I rimettenti dichiarano, pertanto, di prospettare il dubbio di costituzionalità, «impregiudicata ogni questione per l’irap e l’iva» e «limitatamente alle parole “indipendentemente dalla percezione”», per violazione:

a) dell’art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo si determinerebbe tra i soci delle società di persone che sono assoggettati all’IRPEF pur non avendo «conseguito» alcun reddito (quantomeno nell’«annualità di competenza»), da un lato, e «tutti gli «altri soggetti egualmente privi di reddito, che ne sono invece esclusi», dall’altro;

b) dell’art. 24, secondo comma, Cost., perché il socio delle società di persone non percettore di reddito da partecipazione, in quanto «impossibilitato a dimostrare di non aver conseguito alcun reddito», verrebbe leso nel proprio «diritto alla prova in giudizio», senza che tale lesione possa essere adeguatamente ristorata dalle eventuali successive vittoriose azioni giudiziarie da lui intraprese per conseguire tale reddito da partecipazione; ciò, infatti, «si tradurrebbe in un inammissibile solve et repete imponendo al socio di pagare sempre e comunque il tributo senza possibilità di proporre difese, per poi consentirgli di recuperare – forse e comunque poi – quanto versato», dato anche il rischio di decadenza dalla possibilità di ottenere la ripetizione delle imposte, in tal modo creando una «differenza di trattamento», nell’àmbito dei soci delle società di persone non percettori di reddito da partecipazione, tra i soci che siano economicamente in grado di pagare immediatamente l’intero tributo e che pertanto possano affrontare i tempi per ottenere giustizia attraverso «il rimborso delle somme versate» (mediante, come detto, una sorta di solve et repete) e i soci che, invece, non abbiano mezzi economici e credito sufficienti per effettuare il pagamento e ai quali pertanto non sia consentito ottenere tempestivamente e con certezza giustizia;

c) dell’art. 53, primo comma, Cost., perché il socio delle società di persone, ove non sia percettore di reddito da partecipazione, verrebbe ugualmente assoggettato all’IRPEF, in aperto contrasto con il principio di capacità contributiva;

d) dell’art. 113, secondo comma, Cost., perché risulterebbe esclusa la tutela giurisdizionale dei soci di società di persone non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di persone, laddove tale tutela non sarebbe, invece, esclusa per i soci di società di capitali non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di capitali.

1.3.– I giudici a quibus, infine, motivano la rilevanza delle questioni affermando che, in base alla indicata «presunzione assoluta» di attribuzione a ciascun socio dei redditi delle società di persone posta dalla norma censurata (non suscettibile di una interpretazione costituzionalmente orientata, «stante le inequivoche espressioni utilizzate dal legislatore» nella disposizione ad essa relativa), i ricorsi del contribuente dovrebbero essere rigettati, almeno per la parte avente a oggetto l’IRPEF.

2.– In entrambi i giudizi si è costituito il contribuente, chiedendo, con difese del medesimo tenore, che le questioni siano accolte.

La parte afferma preliminarmente che dal menzionato provvedimento cautelare del Tribunale di Chiavari sarebbe desumibile, come osservato dalla stessa CTP rimettente, la prova della «assenza del presupposto impositivo» in capo al socio accomandante, il quale, in conseguenza della «condotta inerziale costantemente tenuta dal socio accomandatario», «non ha – e mai ha avuto – il “possesso del reddito” accertato dall’Ufficio di Genova» in relazione alla sas per i sopra indicati periodi d’imposta.

Ad avviso del contribuente la contraddizione tra l’art. 1 del d.P.R. n. 917 del 1986 (il quale individua il presupposto dell’IRPEF nel «possesso» di redditi in denaro o in natura, da intendersi come «materiale disponibilità» di essi) e la norma censurata (che porrebbe, invece, una «presunzione assoluta» di percezione degli utili) condurrebbe, quindi, alla violazione del principio della capacità contributiva sancito all’art. 53 Cost., perché, in sostanza, «verrebbe assoggettato a imposizione un reddito inesistente».

3.– In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.

La difesa statale osserva che la cosiddetta tassazione “per trasparenza” disciplinata dall’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 trova fondamento nella «particolare situazione giuridica soggettiva del socio» rispetto al reddito prodotto dalla società: egli vanterebbe, infatti, un diritto, tutelabile in sede giudiziaria, alla integrale divisione degli utili a seguito dell’approvazione del rendiconto annuale. E da tale diritto «attuale e incondizionato» deriverebbe la sussistenza di una «effettiva relazione giuridica con la fonte di produzione» e, pertanto, della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

Ad avviso dell’Avvocatura, un siffatto sistema impositivo del reddito d’impresa prodotto in forma associata sarebbe del tutto coerente con la tassazione “per competenza” e non “per cassa” del reddito d’impresa dell’imprenditore individuale persona fisica.

D’altra parte, aggiunge, questa Corte – nel rigettare l’analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, sollevata per violazione degli artt. 3, 24 e 53 Cost. – ha già osservato che la norma censurata «è volta a realizzare, attraverso l’imputazione ai soci del reddito societario indipendentemente dalla sua effettiva percezione, la immedesimazione – nell’ambito delle società di persone, nei limiti della quota di partecipazione ed agli specifici fini tributari – fra società partecipata e socio»; e, conseguentemente, ha ritenuto prive di fondamento le doglianze mosse «sulla base della asserita fittizietà del reddito sottratto dagli amministratori», ferma restando, «ovviamente, […] la responsabilità degli amministratori [stessi] per il danno derivante ai soci dalla sottrazione del reddito societario» (è citata l’ordinanza n. 53 del 2001).

Né, ancora per la difesa statale, risulterebbe vulnerato il diritto di difesa del socio, dal momento che, come precisato da questa Corte, «al socio accomandante, privo di legittimazione processuale nel giudizio relativo all’accertamento del reddito societario ai fini dell’imposta ILOR, deve ritenersi sempre consentita, allorché gli sarà notificato l’accertamento del suo reddito personale, la possibilità di tutelare i suoi diritti, contestando anche nel merito l’accertamento del suo reddito di partecipazione nonostante l’intervenuta definitività dell’accertamento del reddito societario ai fini ILOR» (ordinanza n. 5 del 1998).

3.1.– Con specifico riferimento al giudizio relativo al n. 38 del registro ordinanze 2020, l’Avvocatura generale ha inoltre argomentato che i redditi prodotti dalle società di persone sono individuati – in base ad «una fictio iuris» – considerando il momento della loro produzione e, successivamente, sono imputati e tassati secondo criteri di riferibilità soggettiva e di imposizione personale relativi al singolo socio, in base ad «una presunzione assoluta di distribuzione dell’utile d’esercizio». Con il principio di trasparenza, pertanto, entrambe le figure soggettive (società e socio) parteciperebbero «alla realizzazione del presupposto di imposta, trattandosi di una fattispecie complessa».

Illustrati in raffronto i tratti distintivi della tassazione dei redditi delle società di capitale, la difesa erariale ritiene erroneo il presupposto interpretativo dei rimettenti secondo cui il meccanismo di tassazione “per trasparenza” si porrebbe in contrasto con l’art 53 Cost., poiché, in linea generale, l’imposizione dei soggetti collettivi «consente in astratto due opzioni: a) considerare una distinta autonoma manifestazione di attitudine alla contribuzione, prima in capo al soggetto collettivo quale risultato di esercizio, poi in capo ai singoli componenti della stessa sotto forma di utile distribuito; b) considerare come unico centro di imposizione il soggetto collettivo o le persone fisiche a questo partecipanti».

Ad avviso della difesa statale, le scelte del legislatore sarebbero, pertanto, coerenti con il principio di capacità contributiva e ciò troverebbe conferma da «un’analisi svolta in parallelo tra diritto tributario e diritto commerciale» sulle distinte caratteristiche delle società di capitali rispetto alle società di persone. In particolare, «[i]l diritto attuale e incondizionato del socio» della società di persone all’apprensione dei risultati reddituali della società rappresenterebbe «una effettiva relazione giuridica con la fonte di produzione, idonea a configurare quella capacità contributiva richiesta dall’art. 53 Cost.».

Precisa l’Avvocatura generale che la tassazione “per trasparenza” dovrebbe del resto considerarsi coerente con il principio della prevalenza della sostanza giuridica delle fattispecie economiche sulla forma apparente, in quanto, con riguardo alla tassazione dei redditi delle società di persone, la sostanza economica sarebbe costituita dalla «diretta partecipazione alla vita sociale da parte di tutti i soci». La disciplina censurata sarebbe del resto giustificata anche dalla finalità di evitare il rischio di evasioni per l’ipotesi di distribuzione occulta degli utili.

Per l’Avvocatura generale dello Stato, perciò, non vi sarebbe alcuna lesione del principio di capacità contributiva. Le altre questioni sarebbero, poi, manifestamente infondate, perché, «una volta assodata la ragionevolezza dell’opzione normativa per la trasparenza, alternativa a quella di attribuire rilevanza alla soggettività passiva della società con autonoma riferibilità all’ente della capacità contributiva (e successiva imposizione in capo ai soci al momento della distribuzione), non appaiono ravvisabili indici di contrasto con l’art. 3 Cost.».


Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze di analogo tenore del 22 gennaio 2019, iscritte, rispettivamente, al n. 148 del registro ordinanze 2019 e al n. 38 del registro ordinanze 2020, la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Genova dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 (recte: 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma) della Costituzione, e con riguardo all’IRPEF, della legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito: TUIR), secondo cui «[i] redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili».

I rimettenti dichiarano di prospettare il dubbio di costituzionalità, «impregiudicata ogni questione per l’irap e l’iva» e «limitatamente alle parole “indipendentemente dalla percezione”», per violazione:

a) dell’art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo si determinerebbe tra i soci delle società di persone che sono assoggettati all’IRPEF pur non avendo «conseguito» alcun reddito (quantomeno nell’«annualità di competenza»), da un lato, e tutti gli «altri soggetti egualmente privi di reddito che ne sono invece esclusi», dall’altro;

b) dell’art. 24, secondo comma, Cost., perché il socio delle società di persone non percettore di reddito da partecipazione, in quanto «impossibilitato a dimostrare di non aver conseguito alcun reddito», verrebbe leso nel proprio «diritto alla prova in giudizio», senza che tale lesione possa essere adeguatamente ristorata dalle eventuali successive vittoriose azioni giudiziarie da lui intraprese per conseguire tale reddito da partecipazione; ciò, infatti, «si tradurrebbe in un inammissibile solve et repete imponendo al socio di pagare sempre e comunque il tributo senza possibilità di proporre difese, per poi consentirgli di recuperare – forse e comunque poi – quanto versato», dato anche il rischio di decadenza dalla possibilità di ottenere la ripetizione delle imposte, in tal modo creando una «differenza di trattamento», nell’àmbito dei soci delle società di persone non percettori di reddito da partecipazione, tra i soci che siano economicamente in grado di pagare immediatamente l’intero tributo e che pertanto possano affrontare i tempi per ottenere giustizia attraverso «il rimborso delle somme versate» e i soci che, invece, non abbiano mezzi economici e credito sufficienti per effettuare il pagamento e ai quali pertanto non sia consentito ottenere tempestivamente e con certezza giustizia;

c) dell’art. 53, primo comma, Cost., perché il socio delle società di persone, ove non sia percettore di reddito da partecipazione, verrebbe ugualmente assoggettato all’IRPEF, in aperto contrasto con il principio di capacità contributiva;

d) dell’art. 113, secondo comma, Cost., perché risulterebbe esclusa la tutela giurisdizionale dei soci di società di persone non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di persone, laddove tale tutela non sarebbe, invece, esclusa per i soci di società di capitali non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di capitali.

2.– Preliminarmente, data l’evidente connessione oggettiva e soggettiva, i due giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi.

3.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

3.1.– I primi due commi dell’art. 5 del TUIR dispongono che «[i] redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili» (comma 1); «[l]e quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore dei conferimenti dei soci se non risultano determinate diversamente dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all’inizio del periodo d’imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali» (comma 2).

I commi successivi del medesimo art. 5 estendono l’applicazione di queste regole alle società di armamento, alle società di fatto, alle associazioni professionali senza personalità giuridica, all’impresa familiare (con alcune peculiarità) e al gruppo europeo di interesse economico (GEIE).

In questi termini le società di persone residenti e gli enti ad esse assimilati non costituiscono un autonomo soggetto passivo d’imposta, ma sono assunti alla stregua di centri di riferimento per la determinazione del reddito, che viene attribuito ai soci al termine dell’esercizio e in base alle rispettive quote di partecipazione agli utili.

Questa scelta legislativa trova giustificazione in relazione a diversi profili riconducibili all’interesse fiscale dello Stato alla percezione dei tributi, anch’esso tutelato, assieme all’interesse del contribuente a un’imposizione correlata alla propria capacità contributiva, dall’art. 53, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenza n. 181 del 2017).

Tale meccanismo impositivo infatti risulta, da un lato, rispondente a esigenze di cautela fiscale in presenza di una possibilità di elusione d’imposta nel contesto delle società considerate dall’art. 5 del TUIR, stante il loro minore livello di formalizzazione e quindi l’assenza dei più rigorosi obblighi di natura contabile e procedimentale previsti per le società di capitali, anche quanto all’individuazione degli utili non distribuiti. Dall’altro appare anche funzionale a esigenze di semplificazione, permettendo di evitare duplicazioni dell’imposizione (in capo alla società, sotto forma di utile, e in capo al socio, sotto forma di dividendo) con riguardo a soggetti, i soci delle suddette società, che esplicano i loro poteri in modo diretto e sono a queste legati da un particolare vincolo di natura personale.

3.2.– Tale metodo dell’attribuzione del reddito “per trasparenza” – che non è peculiare del nostro sistema impositivo, costituendo un modello per certi versi conosciuto anche negli ordinamenti di altri Paesi – comporta quindi la tassazione IRPEF direttamente in capo ai soci degli utili societari, con imputazione degli stessi per ciascun periodo d’imposta e indipendentemente dalla percezione: assume, così, rilievo il solo fatto della produzione del reddito (con conseguente irrilevanza fiscale della distribuzione degli utili negli esercizi successivi).

In base a tale scelta legislativa il presupposto di imposta si realizza, quindi, in capo ai soci e non alla società che, considerata “trasparente”, diventa uno “schermo” dietro il quale i primi esercitano collettivamente un’attività economica. Infatti, «in forza dell’imputazione al socio del reddito di partecipazione pro quota, indipendentemente dall’effettiva percezione, il socio medesimo diventa l’unico soggetto passivo dell’imposta personale, avendo in realtà dichiarato un reddito proprio ancorché il presupposto dell’imposizione si verifichi unitariamente presso l’ente collettivo che lo produce e lo dichiara. Questa diretta imputazione del reddito è la conseguenza logica immediata del principio accolto dal legislatore tributario di “immedesimazione” esistente tra società a base personale e singoli soci che la compongono, per cui non è configurabile una soggettività distinta, separata o disgiunta della società rispetto ai soci. Tale principio costituisce espressione della giuridica irrilevanza della soggettività delle società di persone in campo tributario, considerando il Fisco le società di persone come uno schermo dietro il quale operano i soci con i particolari poteri di direzione, di controllo e di gestione anche se non sono amministratori» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 2 marzo 1992, n. 2514, sostanzialmente confermata da Cassazione, sezioni unite, sentenza 8 gennaio 1993, n. 125).

3.3.– I suddetti soci, dunque, sul piano tributario, sono chiamati a contribuire alle pubbliche spese in relazione a un incremento patrimoniale realizzato per effetto dell’attività sociale, rispetto alla quale hanno un onere e un potere di controllo (artt. 2261 e 2320 del codice civile) che, da un lato, li pone giuridicamente in grado di avere piena conoscenza dell’indicato incremento patrimoniale e, dall’altro, rende irrilevante, a questi fini, la distinzione tra soci amministratori e non amministratori.

L’imputazione reddituale “per trasparenza” delle società di persone, anche avuto riguardo al caso di soci non amministratori (e, in particolare, anche nel caso dell’accomandante), si riconnette quindi alla disciplina civilistica che attribuisce ad essi puntuali poteri di controllo.

Tale aspetto concorre così a giustificare – dal punto di vista fiscale – la diretta imputazione del risultato economico prodotto dalla società al socio indipendentemente dalla sua percezione dell’utile.

Infatti, anche a prescindere dall’approvazione del rendiconto e dalla previsione statutaria di eventuali riserve di utili (o dalla decisione unanime dei soci in tal senso), il socio già si trova in una relazione con il reddito societario prodotto che appare idonea a integrare la peculiare nozione di «possesso», indicato quale presupposto dell’IRPEF dall’art. 1 del TUIR e che costituisce l’indice di capacità contributiva assunto dal legislatore.

D’altronde, a quest’ultimo spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità cui si ispira l’attività di imposizione fiscale, essendogli consentito, «sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza» (ex plurimis, sentenza n. 111 del 1997).

Sul suddetto assunto riposa inoltre il precedente specifico di questa Corte, relativo anch’esso a una società in accomandita semplice – ma con il quale la CTP rimettente non si è minimamente confrontata –, dove si è precisato che «la norma in questione [art. 5, comma 1, del TUIR] è volta a realizzare, attraverso l’imputazione ai soci del reddito societario indipendentemente dalla sua effettiva percezione, la immedesimazione – nell’ambito delle società di persone, nei limiti della quota di partecipazione ed agli specifici fini tributari – fra società partecipata e socio»; ritenendo conseguentemente prive di fondamento le doglianze mosse «sulla base della asserita fittizietà del reddito sottratto dagli amministratori», in quanto «tale reddito deve, invece, ritenersi effettivo, posto che la sua sottrazione, che è peraltro vicenda interna alla società e non incide sul momento genetico della sua produzione, ne presuppone logicamente la esistenza», ferma restando, «ovviamente, […] la responsabilità degli amministratori [stessi] per il danno derivante ai soci dalla sottrazione del reddito societario» (ordinanza n. 53 del 2001).

3.4.– Non è quindi fondata, innanzitutto, la questione riferita al principio di capacità contributiva ai sensi dell’art. 53, primo comma, Cost., formulata dalla CTP rimettente ritenendo che il contribuente non sia «percettore di reddito».

La CTP rimettente struttura infatti la censura sull’assunto interpretativo, esposto dal ricorrente, per cui la nozione di «possesso» del reddito, indicata dall’art. 1 del TUIR come presupposto dell’IRPEF, consisterebbe nella «materiale disponibilità di fruirne», ovvero nella «capacità di disporne», così che il meccanismo di imputazione del censurato art. 5 del TUIR, laddove prevede che la tassazione avviene «indipendentemente dalla percezione» degli utili, determinerebbe un’imposizione fiscale «in aperta violazione del principio di capacità contributiva».

3.5.– Tale presupposto interpretativo è errato.

Va in primo luogo rilevato che il reddito, quale sicuro indice di capacità contributiva, costituisce in realtà una entità conseguente alle regole di determinazione disposte dal legislatore tributario in ragione delle specifiche caratteristiche delle singole categorie di cui all’art. 6 del TUIR: redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa e redditi diversi.

In questo schema impositivo non solo alcuni redditi non coincidono con una res (il reddito d’impresa, ad esempio, in forza dell’art. 83 del TUIR è costituito da un dato contabile, tra l’altro regolato in base al principio di imputazione temporale della competenza e non a quello di cassa; i redditi fondiari possono rappresentare un dato solo figurativo), ma il termine stesso di possesso assume un significato differente nell’ambito delle singole categorie reddituali.

Infatti, «[i]l termine possesso impiegato dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 1 non ha il significato tecnico che ha nel codice civile, né ha un significato tecnico-tributario uniforme per tutte le categorie reddituali. Ma il significato minimo comune del termine senz’altro evoca, ai fini della tassabilità, la riferibilità ad un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui dei poteri di disposizione in relazione ad essi» (Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 10 gennaio 2013, n. 433)

Constatato quindi che il legislatore non ha adottato una nozione generale e unitaria di reddito (preferendo individuare fattispecie imponibili nell’ambito delle singole categorie) e ha volutamente utilizzato, con specifico riferimento all’imposta sul reddito, il termine «possesso» nell’art. 1 del TUIR in un senso atecnico, se ne deve concludere che quest’ultimo non coincide né con la nozione civilistica, né con quella della materiale disponibilità del reddito.

Del resto, in forza dei fini che la Costituzione assegna al diritto tributario con riguardo alla definizione di fattispecie idonee a esprimere la capacità contributiva di singole vicende economiche, non è sempre necessario, in presenza di adeguate ragioni giustificative, che tra questo e il diritto civile debba comunque esistere una assoluta corrispondenza di categorie concettuali e terminologiche.

Il possesso cui fa riferimento il legislatore tributario agli specifici fini dell’IRPEF deve essere inteso, pertanto, quale modo per identificare la relazione del soggetto con la peculiare manifestazione di capacità contributiva che è costituita appunto dal reddito, secondo le regole giuridiche delle singole categorie reddituali.

Questa Corte ha avuto peraltro modo di precisare che «attualmente, ai fini della nozione giuridica di reddito occorre far capo a ciò che viene, nei limiti della ragionevolezza, qualificato per tale dal legislatore. Ciò significa, pertanto, che per dichiarare tassabile un provento occorre accertare in quale delle ipotesi normative tipiche esso rientri» (sentenza n. 410 del 1995).

In questa prospettiva, il meccanismo di imputazione “per trasparenza” dei redditi prodotti dalle società di persone non costituisce una contraddizione rispetto alla nozione generale di presupposto d’imposta fissata nell’art. 1 del TUIR, bensì una particolare manifestazione di questo in riferimento a una specifica fattispecie.

In conclusione, nell’attuale sistema di imposizione sui redditi deve ritenersi che non arbitrariamente il legislatore tributario ha individuato come indice di capacità contributiva la relazione tra il presupposto e il soggetto passivo attraverso la diretta imputazione al socio (“per trasparenza”) del reddito prodotto in forma associata, indipendentemente dalla percezione.

4.– Nemmeno è fondata, di conseguenza, la censura riferita all’art. 3, primo comma, Cost., per disparità di trattamento tra i soci di società di persone (soggetti ad imposizione «pur non avendo conseguito alcun reddito») e «altri soggetti egualmente privi di reddito». Essa implica la non riferibilità al socio del reddito prodotto dalla società di persone, cosicché la sua posizione sarebbe analoga a quella di qualsiasi altro soggetto che, in quanto privo di reddito, si colloca invece al di fuori del presupposto dell’IRPEF.

In contrario vanno invece richiamate le già esposte le ragioni per le quali il socio non può considerarsi un soggetto “privo di reddito” in caso di imputazione “per trasparenza” del reddito prodotto in forma associata.

5.– Parimenti non fondata è la questione riferita al diritto di difesa ai sensi dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto la disciplina censurata provocherebbe, a danno del contribuente, un’ingiustificata limitazione della prova di non avere la capacità di disporre (o la disponibilità materiale) del reddito.

Tale censura si fonda sull’assunto dei rimettenti per cui l’art. 5, comma 1, del TUIR strutturerebbe una «presunzione assoluta» di attribuzione al socio di redditi societari, anche se da questo non percepiti.

Nemmeno tale assunto è condivisibile.

Infatti – mentre vere e proprie presunzioni sono previste dal comma 2 dell’art. 5 del TUIR in relazione alle quote di partecipazione e al valore dei conferimenti – la previsione del comma 1 del medesimo art. 5, nello stabilire che l’imputazione avviene «indipendentemente dalla percezione», individua un meccanismo d’imputazione di ciò che è stato assunto dal legislatore come reddito prodotto, senza, invece, “presumere” la distribuzione dello stesso. La norma censurata esclude la soggettività passiva tributaria della società di persone e, in tal modo, elimina lo schermo societario imputando direttamente ai soci il reddito prodotto dalla società. Si tratta di una connotazione strutturale dell’ente ai fini tributari e non di una “presunzione” di distribuzione degli utili.

La fattispecie in esame, in altre parole, è qualificabile semmai alla stregua di una tipizzazione legale, rispetto alla quale va ribadito che «non ha senso denunciare quale violazione del diritto di difesa l’esclusione della prova», in quanto «[t]ipizzazioni, qualificazioni, valutazioni legali come quelle suindicate possono bensì essere censurate sotto il profilo della mancanza di ragionevolezza, contestandosi che esse trovino rispondenza nella situazione socio-economica in riferimento alla quale sono formulate ai fini perseguiti dalla legge, o che esse, o le misure sulla base di esse adottate, siano congrue rispetto a tali fini» (sentenza n. 131 del 1991).

5.1.– L’esercizio del diritto di difesa potrà, peraltro, pienamente esplicarsi contestando nel merito l’accertamento del reddito societario (in questi termini, ordinanza n. 5 del 1998) o la propria qualità di socio, senza che ciò precluda l’accertamento, ad altri fini, della «responsabilità degli amministratori per il danno derivante ai soci» (ordinanza n. 53 del 2001).

Va inoltre sottolineato che proprio il meccanismo d’imputazione “per trasparenza” e la tassazione del socio «indipendentemente dalla percezione» del reddito hanno portato la giurisprudenza di legittimità ad affermare il litisconsorzio necessario tra società e soci al fine di consentire, con pienezza di contraddittorio, la verifica in concreto del presupposto impositivo, stante l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e dei soci delle stesse, cosicché il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci, salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali.

5.2.– Non sono, inoltre, pertinenti i rilievi della CTP rimettente – riferiti sempre alla lesione del diritto di difesa − circa l’«inammissibile solve et repete», che, determinando una «differenza di trattamento» tra i soci che sono economicamente in grado di pagare immediatamente l’intero tributo e quelli che non lo sono, imporrebbe al socio «di pagare sempre e comunque il tributo senza possibilità di proporre difese, per poi consentirgli di recuperare – forse e comunque poi – quanto versato».

A ben vedere, con il richiamo al solve et repete i rimettenti si limitano a riproporre, in forma involuta e solo apparentemente diversa, le censure sopra dichiarate non fondate.

Infatti, i rimettenti in primo luogo utilizzano una nozione di solve et repete impropriamente desunta dalla motivazione della sentenza n. 21 del 1961 di questa Corte, in quanto la successiva “ripetizione” non riguarda la medesima amministrazione finanziaria alla quale è stato pagato il tributo, ma soggetti terzi: la società o l’amministratore inadempiente ai suoi doveri, destinatari della successiva richiesta del socio di risarcimento dei danni e di corresponsione degli utili.

In secondo luogo di difficile comprensione è l’accenno, nella medesima censura, alla decadenza dalla possibilità di ottenere la ripetizione delle imposte versate: qualora i rimettenti avessero inteso affermare che solo con la percezione degli utili il socio avrebbe la piena conoscenza dell’andamento effettivo dell’attività sociale e quindi solo da allora sarebbe in grado di tutelare la sua posizione, sarebbe agevole tuttavia obiettare che il socio (anche accomandante) ha il potere e l’onere di controllare l’attività sociale (artt. 2261 e 2320 cod. civ.) e che, inoltre, deve vagliare la fondatezza delle prove offerte in giudizio dall’amministrazione finanziaria.

6.– Non fondata è, infine, la questione riferita all’art. 113, secondo comma, Cost.

Per la CTP rimettente, la norma censurata esclude la tutela giurisdizionale dei soci di società di persone che non hanno «conseguito alcun reddito di partecipazione», laddove tale tutela non è, invece, esclusa per i soci di società di capitali.

La censura, peraltro anch’essa formulata in modo non del tutto perspicuo (l’avviso di accertamento dei redditi da partecipazione in società di persone è, infatti, pacificamente impugnabile dal socio, tanto che gli stessi giudizi a quibus derivano dalle impugnazioni proposte da un socio di società di persone), è infondata per le stesse ragioni già esposte con riguardo alle questioni relative alla disparità di trattamento e alla lesione del diritto di difesa, delle quali costituisce mera riproposizione.


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 luglio 2020.

F.to:

Mario Rosario MORELLI, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 settembre 2020.

Il Cancelliere

F.to: Roberto MILANA