SENTENZA N. 121 ANNO 2020

Sentenza 121/2020 (ECLI:IT:COST:2020:121)
Giudizio:  GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: CARTABIA - Redattore:  MORELLI
Camera di Consiglio del 20/05/2020;    Decisione  del 20/05/2020
Deposito del 23/06/2020;   Pubblicazione in G. U. 24/06/2020  n. 26
Norme impugnate:  Artt. 1 bis, c. 2°, 1 ter, c. 1°, e 2, c. 1°, della legge 24/03/2001, n. 89, come, rispettivamente, inseriti e sostituiti dall'art. 1, c. 777°, lett. a) della legge 28/12/2015, n. 208.
Massime: 
Atti decisi: ord. 226/2019
  

Pronuncia

SENTENZA N. 121

ANNO 2020


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come, rispettivamente, inseriti e sostituiti dall’art. 1, comma 777, lettera a), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», promosso dalla Corte d’appello di Napoli, nel procedimento vertente tra Andrea Giugliano e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 24 luglio 2019, iscritta al n. 226 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Udito il Giudice relatore Mario Rosario Morelli nella camera di consiglio del 20 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);

deliberato nella camera di consiglio del 20 maggio 2020.


Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un procedimento volto ad ottenere l’equa riparazione per l’eccessiva durata di un precedente giudizio civile ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), la Corte d’appello di Napoli ‒ adita in sede di opposizione avverso il decreto del giudice monocratico designato ai sensi dell’art. 4, comma 4, della legge n. 89 del 2001, che aveva respinto (recte: dichiarato inammissibile) la domanda, in ragione della mancata proposizione, nel giudizio presupposto, della «istanza di decisione» di cui agli artt. 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge stessa – ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata ed ha, perciò, sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Secondo la Corte rimettente, il rimedio preventivo sub art. 1-ter citato, esperibile nella fattispecie – costituito dalla «istanza di decisione a seguito di trattazione orale», da proporre «almeno sei mesi prima» che siano trascorsi i termini di ragionevole durata del giudizio – sarebbe privo di concreta effettività, rimanendo comunque rimesso alla discrezionalità del giudice l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti. Con la conseguenza che la proposizione della suddetta istanza si risolverebbe in un adempimento meramente formale, la cui violazione sarebbe, pertanto, irragionevolmente sanzionata con l’inammissibilità della domanda di indennizzo dal successivo art. 2, comma 1. E ciò al pari di quanto previsto, per «l’istanza di prelievo» nel processo amministrativo, dall’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133: disposizione, quest’ultima, per tal motivo già dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza di questa Corte n. 34 del 2019.


Considerato in diritto

1.– L’art. 1-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), cosiddetta “legge Pinto”, introdotto (come le successive disposizioni qui in esame) dall’art. 1, comma 777, lettera a), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», premette, al suo comma 1, che «[l]a parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa». Ed aggiunge, al comma 2: «[c]hi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all’articolo 1-ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione».

A sua volta, l’art. 1-ter, al comma 1, precisa che «1. Ai fini della presente legge, nei processi civili costituisce rimedio preventivo a norma dell’articolo 1-bis, comma 1, l’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile. Costituisce altresì rimedio preventivo formulare richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell’articolo 183-bis del codice di procedura civile, entro l’udienza di trattazione e comunque almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis. Nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, ivi comprese quelle in grado di appello, costituisce rimedio preventivo proporre istanza di decisione a seguito di trattazione orale a norma dell’articolo 281-sexies del codice di procedura civile, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’articolo 2, comma 2-bis. Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice istruttore quando ritiene che la causa può essere decisa a seguito di trattazione orale, a norma dell’articolo 281-sexies del codice di procedura civile, rimette la causa al collegio fissando l’udienza collegiale per la precisazione delle conclusioni e per la discussione orale». Ed aggiunge, al suo comma 7, che «[r]estano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti».

L’art. 2, comma 1, della legge stessa stabilisce, infine, che «[è] inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’art. 1-ter».

2.‒ La Corte d’appello di Napoli, nel procedimento di cui si è in narrativa detto, solleva questione di legittimità costituzionale dei riferiti artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, dopo aver precisato che nel giudizio presupposto, instaurato nelle forme del rito ordinario di cognizione, non poteva essere richiesto il rimedio preventivo rappresentato dalla formulazione della richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, poiché la disposizione che concede tale facoltà, ossia l’art. 183-bis cod. proc. civ., è stata inserita dall’art. 14, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162, con decorrenza dal 13 settembre 2014, norma pertanto non applicabile al detto giudizio presupposto, perché instaurato precedentemente a tale data. Si sarebbe potuto chiedere, invece, il rimedio preventivo rappresentato dalla proposizione dell’istanza di decisione a seguito di trattazione orale, a norma dell’art. 281-sexies cod. proc. civ., almeno sei mesi prima che fossero trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001. Tuttavia tale rimedio non era stato chiesto dal ricorrente. Ma – nel disporre la conseguente inammissibilità della domanda di equo indennizzo per l’eccessiva durata del processo presupposto – la normativa denunciata violerebbe, appunto, secondo la Corte rimettente, gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione (il primo solo superfluamente e, comunque, impropriamente richiamato, non venendo in rilievo limitazione alcuna alla sovranità nazionale), in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Ne risulterebbe, infatti, una disciplina «del tutto analoga a quella già scrutinata […] con la recente sentenza n. 34 del 2019», che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, che, a sua volta, prevedeva la “improponibilità” della domanda di equa riparazione se, nel giudizio amministrativo presupposto, non fosse stata presentata «l’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo».

Le argomentazioni poste a base di tale pronuncia sarebbero, sempre secondo la rimettente, puntualmente replicabili con riguardo all’istituto della «istanza di decisione» e condurrebbero all’identica conclusione di illegittimità costituzionale della sanzione di inammissibilità della domanda di equa riparazione per l’omessa presentazione in termini della suddetta istanza.

3.‒ La questione non è fondata.

3.1.‒ Nella sentenza n. 34 del 2019, richiamata dalla rimettente, questa Corte – premesso che «per la giurisprudenza europea il rimedio interno deve garantire la durata ragionevole del giudizio o l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale ed il rimedio preventivo è tale se efficacemente sollecitatorio» ‒ è pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale del citato comma 2 dell’art. 54 del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, per avere considerato che l’istanza di prelievo – quale da detta norma disciplinata, «prima della rimodulazione come rimedio preventivo operatane dalla legge n. 208 del 2015 [sub comma 3 del medesimo art. 1-ter, qui in esame]» – costituiva non un adempimento necessario, ma «una mera facoltà del ricorrente […] con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata».

Dal che il ravvisato vulnus all’art. 117, primo comma, Cost., e agli interposti parametri convenzionali, ritenuto assorbente di ogni altra censura.

3.2.‒ Sulla base di analoghe argomentazioni, la successiva sentenza n. 169 del 2019 ha dichiarato costituzionalmente illegittima la parallela disposizione di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della “legge Pinto” (poi implicitamente abrogata dall’art. 1, comma 777, lettera c, della legge n. 208 del 2015) – la quale, nel periodo di sua vigenza, stabiliva che «[n]on è riconosciuto alcuno indennizzo […] quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini [di sua ragionevole durata]».

Anche quella istanza di accelerazione (a sua volta come disciplinata prima della riformulazione operatane dal comma 2 del succitato art. 1-ter) è stata ritenuta priva, infatti, di concreta efficacia acceleratoria del processo, «[a]tteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente».

3.3.‒ Diversa dalle previgenti normative (facenti riferimento alle menzionate istanze di prelievo e di accelerazione) ‒ che hanno formato oggetto delle citate sentenze n. 34 e n. 169 del 2019 ‒ è, però, la normativa ora in esame. La quale subordina l’ammissibilità della domanda di equo indennizzo per durata non ragionevole del processo, non già alla proposizione di un’istanza con effetto dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” ‒ che si riduce ad un adempimento puramente formale ‒ bensì alla proposizione di possibili, e concreti, “modelli procedimentali alternativi”, volti ad accelerare il corso del processo, prima che il termine di durata massima sia maturato.

3.4.‒ Infatti, il rimedio preventivo prefigurato nel caso di specie, di cui la parte richiedente l’indennizzo non si è avvalsa, è costituito dalla proposizione di un’istanza di adesione al tipo decisionale della trattazione orale, come regolato dall’art. 281-sexies cod. proc. civ., il quale prevede che il giudice possa fissare, all’esito della precisazione delle conclusioni, la discussione orale – nella stessa udienza di precisazione delle conclusioni o, su istanza di parte, in un’udienza successiva – e possa, all’esito, decidere la causa al termine della discussione, mediante lettura a verbale che riporti la sintetica motivazione delle ragioni della decisione. La richiesta di adozione di un tale modello è, evidentemente, ben più di un atto formale, essendo piuttosto volta ad attivare un rimedio in forma specifica. E ciò perché, diversamente dalle istanze di prelievo nel processo amministrativo e di accelerazione nel processo penale, in questo caso non si tratta, appunto, di un mero invito al giudice volto ad accelerare lo svolgimento del processo, bensì del concreto suggerimento di modelli sub-procedimentali (rientranti nel quadro dei procedimenti decisori previsti dal regime processuale), teleologicamente funzionali al raggiungimento di tale scopo, con effettiva valenza sollecitatoria.

3.5.‒ Segnatamente, l’art. 1-ter, comma 1, della legge n. 89 del 2001 individua, tra i rimedi preventivi esperibili, uno strumento attinente alla trattazione del processo, ove sia proposta l’istanza di mutamento del rito da ordinario di cognizione in sommario di cognizione ai sensi dell’art. 183-bis cod. proc. civ. (norma non applicabile al caso di specie), ovvero uno strumento riguardante le forme di svolgimento della decisione, ove (almeno 6 mesi prima della scadenza del termine di ragionevole durata del giudizio) sia avanzata richiesta di definizione del contenzioso secondo lo schema più duttile e concentrato della pronuncia della sentenza semplificata immediatamente a seguito di discussione orale. L’adesione a siffatto modello decisionale consente di decidere la causa all’esito della discussione orale, con lettura a verbale della pronuncia, evitando così la concessione dei termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, rispettivamente nei termini di giorni 60 e 20 decorrenti dalla precisazione delle conclusioni, con deposito della sentenza nei 30 giorni successivi: sentenza che, anche in questo caso, deve comunque recare una motivazione che «consenta […] di ricostruire, sia pur sinteticamente, i fatti di causa, e offra alla fattispecie concretamente esaminata una soluzione corretta sul piano logico-giuridico» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 12 giugno 2015, n. 12203).

3.6.‒ L’effettività del mutamento dello schema decisorio non dipende direttamente, peraltro, dalla richiesta della parte, ma dalla valutazione della opportunità o meno di aderirvi, nel caso concreto, che «[r]ientra nell’ambito della discrezionalità del giudice del merito» (Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 4 settembre 2019, n. 22094).

Ciò che la normativa censurata richiede alla parte del processo in corso è solo, dunque, un comportamento collaborativo con il giudicante, al quale manifestare la propria disponibilità al passaggio al rito semplificato o al modello decisorio concentrato, in tempo potenzialmente utile ad evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo stesso: restando, per l’effetto, ammissibile il successivo esperimento dell’azione indennitaria per l’eccessiva durata del processo, che, nonostante la richiesta di attivazione del rimedio acceleratorio, si fosse poi comunque verificata.

L’eventuale limitato margine di compressione della tutela giurisdizionale, peraltro con riguardo alle sole modalità del suo esercizio e non alla qualità del relativo approfondimento, che possa derivare alla parte dal passaggio al rito semplificato, riflette una legittima opzione del legislatore nel quadro di un bilanciamento di valori di pari rilievo costituzionale: quali, da un lato, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e, dall’altro, il valore del giusto processo (art. 111 Cost.), per il profilo della ragionevole durata delle liti, che trova ostacolo nella già abnorme mole del contenzioso (sentenza n. 157 del 2014), innegabilmente aggravata dal flusso indiscriminato dei procedimenti per equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001 (sentenza n. 135 del 2018).

Diversamente da quanto sostenuto dalla Corte rimettente, non è pertanto, in questo caso, irragionevole o non proporzionata la sanzione di inammissibilità sub comma 1 dell’art. 2 della “legge Pinto”, che vale a richiamare la parte del processo all’osservanza dell’onere di diligenza presupposto dal comma 1 del precedente art. 1-ter.

3.7.‒ Conclusivamente, i rimedi introdotti, con riguardo al processo civile, dal combinato disposto delle disposizioni censurate, per l’effetto acceleratorio della decisione che può conseguirne, sono linearmente riconducibili alla categoria dei «rimedi preventivi volti ad evitare che la durata del processo diventi eccessivamente lunga». Rimedi, questi, che la giurisprudenza europea ritiene non solo ammissibili, ma «addirittura preferibili […] eventualmente in combinazione con quelli indennitari» (Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia). Secondo, infatti, la Corte di Strasburgo, quando un sistema giudiziario si rivela lacunoso rispetto all’esigenza derivante dall’art. 6 della CEDU, per quanto riguarda il termine ragionevole del processo, un rimedio che permetta di accelerarlo, allo scopo di impedirne una durata eccessiva, costituisce la soluzione più efficace. Tale rimedio presenta infatti un vantaggio innegabile rispetto ad un rimedio unicamente risarcitorio, in quanto permette di accelerare la decisione del giudice interessato, evita altresì di dover accertare l’avvicendarsi di violazioni dello stesso procedimento e non si limita ad agire a posteriori come nel caso del rimedio risarcitorio (Corte EDU, sentenza 25 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia).

3.8.‒ Da ciò, dunque, l’insussistenza del prospettato contrasto delle disposizioni denunciate con i parametri evocati.


Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1-bis, comma 2, 1-ter, comma 1, e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2020.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Mario Rosario MORELLI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2020.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA