Ordinanza 159/2011

Ordinanza 159/2011
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente MADDALENA - Redattore FRIGO

Camera di Consiglio del 06/04/2011 Decisione del 20/04/2011
Deposito del 28/04/2011 Pubblicazione in G. U. 04/05/2011
Norme impugnate: Art. 4, c. 6° e 10°, della legge 27/12/1956, n. 1423; artt. 2 ter, c. 1° e 3°, e 3 ter, c. 2°, della legge 31/05/1965, n. 575.
Massime: 35638
Atti decisi: ord. 331/2010


ORDINANZA N. 159

ANNO 2011



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo MADDALENA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,



ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, sesto e decimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e degli artt. 2-ter, primo e terzo comma, e 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 ( Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), promosso dalla Corte di appello di Firenze nel procedimento penale a carico di H.A. ed altro, con ordinanza del 19 febbraio 2010, iscritta al n. 331 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.



Ritenuto che, con ordinanza del 19 febbraio 2010, la Corte di appello di Firenze ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, sesto e decimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e degli artt. 2-ter, primo e terzo comma, e 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui prevedono che i procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali, si svolgono in camera di consiglio, precludendone così la trattazione in udienza pubblica anche in presenza di una richiesta in tal senso degli intervenienti;

che la Corte rimettente riferisce di essere investita degli appelli avverso due distinti decreti del Tribunale di Pisa, con i quali erano state disposte, nei confronti degli appellanti, rispettivamente, la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale per la durata di tre anni e la misura di prevenzione patrimoniale della confisca di alcuni immobili;

che, nel corso del giudizio di impugnazione avverso il decreto di confisca, i difensori, richiamando due decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (la sentenza 13 novembre 2007, emessa nella causa Bocellari e Rizza contro Italia, e la sentenza 8 luglio 2008, emessa nella causa Perre e altri contro Italia), avevano chiesto che il procedimento fosse trattato in forma pubblica, sulla base di un’interpretazione adeguatrice delle norme interne, ovvero, in subordine, che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, per violazione degli artt. 24 e 117, primo comma, Cost.;

che – riuniti i procedimenti di appello relativi alla misura personale e a quella patrimoniale, stante la loro evidente connessione, e ritenuto valevole per entrambi il motivo di gravame concernente il rito da seguire – il collegio ha sollevato la questione di costituzionalità, con riferimento al solo art. 117, primo comma, Cost.;

che, a tale riguardo, il rimettente evidenzia che il decimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 prevede, con riguardo al giudizio di appello – al pari del precedente sesto comma, relativamente al giudizio di primo grado – che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione debba svolgersi «in camera di consiglio» e, dunque, secondo il modulo delineato dall’art. 127 del codice di procedura penale, il quale, pur garantendo il contraddittorio e il diritto di difesa, esclude la presenza del pubblico all’udienza (comma 6 dell’art. 127 cod. proc. pen.);

che, a sua volta, l’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nel disciplinare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, opera un espresso riferimento al procedimento previsto dalla legge n. 1423 del 1956; mentre il successivo art. 3-ter, secondo comma, estende alle impugnazioni contro i decreti di confisca le disposizioni dell’art. 4 della medesima legge n. 1423 del 1956;

che le citate disposizioni, per la loro «rigidità e tassatività», non consentirebbero, dunque, di accogliere la richiesta degli appellanti di trattazione del gravame in udienza pubblica;

che, ciò premesso, il giudice a quo rileva che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, tanto nelle pronunce richiamate dalla difesa che nella successiva la sentenza 5 gennaio 2010, emessa nella causa Bongiorno contro Italia, che la procedura di applicazione delle misure di prevenzione prevista dall’ordinamento italiano si pone in contrasto, sotto il profilo considerato, con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848;

che la Corte di Strasburgo ha nell’occasione ribadito che la pubblicità delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma della Convenzione (secondo cui «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata […] pubblicamente»), tutela le persone soggette a una giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così alla realizzazione dell’«equo processo»;

che la medesima Corte ha, altresì, evidenziato che, se pure la Convenzione non preclude la possibilità di derogare in determinati casi al principio di pubblicità delle udienze, a diversa conclusione deve pervenirsi allorché una procedura si svolga a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, come avviene nell’ordinamento italiano per i procedimenti relativi alle misure di prevenzione;

che non è consentito, d’altra parte, trascurare la «posta in gioco» in detti procedimenti e i loro potenziali effetti sulle persone coinvolte, i quali fanno sì che il controllo del pubblico rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato;

che, di conseguenza, la Corte europea ha giudicato «essenziale», ai fini del rispetto del citato art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, che i soggetti coinvolti nelle procedure di prevenzione «si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello»;

che dalle affermazioni ora ricordate si dovrebbe necessariamente dedurre – ad avviso del rimettente – che le norme censurate violino l’art. 117, primo comma, Cost., che, nel nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: parametro rispetto al quale – secondo quanto chiarito dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 di questa Corte – le disposizioni della CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, assumono il ruolo di «norme interposte»;

che il giudice comune, d’altronde – sempre alla luce delle citate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – non è abilitato a disapplicare la disciplina interna contrastante con quella convenzionale: onde non resterebbe altra via, per rimuovere il rilevato contrasto, che sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme denunciate, nella parte in cui, imponendo la trattazione in camera di consiglio dei procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione, non ne consentono lo svolgimento in «pubblico dibattimento» neppure di fronte a una richiesta degli interessati;

che – a parere del giudice a quo – la rilevanza della questione risulterebbe indubbia, giacché i difensori hanno espressamente chiesto che il procedimento prosegua in pubblica udienza;

che il rimettente ritiene, inoltre, che la questione – seppure prospettata dai difensori nel solo giudizio relativo alla misura patrimoniale – vada sollevata anche con riferimento al giudizio per l’applicazione delle misure personali: infatti, sia il dettato dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione che l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo avrebbero una «portata generale», con conseguente loro estensibilità alle misure personali, «identica essendo la ratio additata da quei giudici a tutela della trasparenza e ostensibilità dell’attività giurisdizionale e stante lo stretto legame normalmente (e in particolare nel caso di specie) esistente tra le due diverse tipologie di misure di prevenzione»;

che la questione dovrebbe avere, infine, ad oggetto non soltanto il decimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, relativo al giudizio di appello, ma anche il precedente sesto comma, concernente il giudizio di primo grado;

che, infatti, essendosi nella specie proceduto con rito camerale davanti al Tribunale, l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale non potrebbe non riguardare pure il giudizio di prima istanza, nel quale, anzi, formandosi la prova sui presupposti per l’adozione delle misure di prevenzione, maggiore appare l’esigenza di pubblicità delle udienze;

che detta declaratoria di incostituzionalità estenderebbe, d’altra parte, i propri effetti anche ai decreti adottati dal primo giudice: decreti che, in quanto assoggettati ad impugnazione, non potrebbero essere considerati quali atti processuali «esauriti», sottratti, in quanto tali, all’efficacia retroattiva propria delle pronunce di illegittimità costituzionale sui procedimenti pendenti.

Considerato che la Corte di appello di Firenze dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dell’art. 4, sesto e decimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e degli artt. 2-ter, primo e terzo comma, e 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui prevedono che i procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali, debbano svolgersi – tanto in primo grado che in appello – con rito camerale, non consentendone così la trattazione in udienza pubblica in presenza di una richiesta degli interessati;

che il giudice a quo pone a base delle proprie censure l’affermazione della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale, ai fini del rispetto del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, le persone coinvolte nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione debbono vedersi «almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia; in senso conforme, sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Buongiorno contro Italia);

che la Corte rimettente evidenzia, altresì, come le norme denunciate siano, per converso, inequivoche nello stabilire, senza eccezioni, che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione debba essere celebrato, nei gradi di merito, in camera di consiglio (e, dunque, senza la presenza del pubblico);

che sarebbe, dunque, inevitabile la conclusione che le norme denunciate, nella parte in cui non accordano all’interessato la garanzia «minimale» richiesta dalla Corte europea, violino l’art. 117, primo comma, Cost.;

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 93 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per violazione del medesimo parametro evocato dall’odierno rimettente, l’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e l’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica»;

che tale dichiarazione di illegittimità costituzionale si riferisce ai procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione tanto personali che patrimoniali;

che, pertanto, al di là del più ampio complesso di disposizioni oggi coinvolte nello scrutinio (il quale abbraccia anche l’art. 3-ter, secondo comma, della legge n. 575 del 1965: disposizione, peraltro, di semplice rinvio, nella parte che interessa, al decimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, attinto dalla ricordata dichiarazione di illegittimità costituzionale), la norma contro cui si rivolgono le censure del giudice a quo – vale a dire, quella che non consente agli interessati di chiedere che, davanti ai tribunali e alle corti d’appello, il procedimento di prevenzione si svolga in forma pubblica – è già stata rimossa dall’ordinamento con efficacia ex tunc;

che, di conseguenza, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile per sopravvenuta mancanza di oggetto (ex plurimis, ordinanze n. 306 e n. 78 del 2010; con riguardo a questione analoga a quella oggi in esame, sentenza n. 80 del 2011);

che tale profilo di manifesta inammissibilità è assorbente rispetto a quello, pur riconoscibile, che deriva dal difetto di rilevanza, nel giudizio a quo, della questione concernente il giudizio di primo grado, non risultando dall’ordinanza di rimessione che sia stata formulata nel precedente grado di giudizio alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento (al riguardo, sentenza n. 80 del 2011).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.



per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, sesto e decimo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e degli artt. 2-ter, primo e terzo comma, e 3-ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2011.

F.to:

Paolo MADDALENA, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 aprile 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI