Ordinanza 14/2014

Ordinanza  14/2014
Giudizio
Presidente MAZZELLA - Redattore NAPOLITANO
Camera di Consiglio del 04/12/2013    Decisione  del 28/01/2014
Deposito del 30/01/2014   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115.
Massime:
Atti decisi:ord. 165/2013

ORDINANZA N. 14
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Luigi MAZZELLA; Giudici : Sabino CASSESE, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso dal Giudice delegato ai fallimenti del Tribunale ordinario di Cosenza sull’istanza proposta dal Curatore del Fallimento della Srl “Fabbrica loggese Laterizi”, con ordinanza del 31 maggio 2010 iscritta al n. 165 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che, con ordinanza depositata in data 31 maggio 2010, il Giudice delegato ai fallimenti del Tribunale ordinario di Cosenza ha sollevato – con riferimento, quale parametro costituzionale asseritamente violato, al «canone della ragionevolezza» – questione di legittimità costituzionale dell’art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui esso non prevede che possano essere poste a carico dell’erario le spese necessarie alla curatela fallimentare per il compimento di atti di gestione e di manutenzione di beni appresi all’attivo della procedura, in particolare ove si tratti di interventi necessitati, se non imposti, da altre norme dell’ordinamento;
che il giudice a quo riferisce di aver nominato − nel corso di una procedura relativa ad un’impresa il cui stabilimento industriale è stato appreso al fallimento − un consulente tecnico con l’incarico di provvedere alla misurazione dei livelli di concentrazione di fibra di amianto all’interno della predetta area industriale ed alla individuazione degli interventi necessari per la rimozione del rischio di rilascio in essa di fibre di amianto e delle relative modalità operative anche al fine di contenere i conseguenti costi;
che il consulente tecnico ha determinato questi ultimi in oltre 250.000,00 euro;
che, con istanza del 25 maggio 2010, il curatore fallimentare, data la incapienza della procedura, ha chiesto l’adozione di un provvedimento ai sensi dell’art. 146 del d.P.R. n. 115 del 2002, il quale nel corso delle procedure fallimentari prevede la possibilità che, laddove non sia presente nell’attivo fallimentare alcuna somma di danaro, talune spese siano anticipate dall’erario;
che, osserva, a questo punto, il rimettente, fra le ipotesi per le quali è ammessa la anticipazione delle spese a carico dell’erario non è compresa quella relativa alla rimozione di situazioni di pericolo derivanti da beni fallimentari, e ciò neppure ove si tratti di interventi dalla legge posti a carico dell’organo gestorio della procedura;
che, aggiunge il giudice a quo, i beni del fallimento erano stati oggetto di un sequestro preventivo, disposto nel corso di procedimento penale per reati ambientali, a carico dello stesso curatore fallimentare;
che, impugnato il detto provvedimento cautelare dapprima di fonte al Tribunale del riesame, quindi di fronte alla Corte di cassazione, questa, con sentenza n. 37282 del 2008, aveva rigettato la impugnazione osservando, fra l’altro, che le censure aventi ad oggetto la inidoneità economica della curatela fallimentare ad intraprendere iniziative volte alla bonifica dei luoghi esulavano dai limiti del ricorso per cassazione avverso provvedimenti cautelari reali, essendo questo limitato alla sola denunzia delle violazioni di legge e non anche del vizio di motivazione;
che, ad avviso del rimettente, ci si trova di fronte ad una situazione di “stallo”, in quanto la curatela fallimentare non è in grado, stante la mancanza di fondi, di far eseguire le necessarie opere di bonifica, né è possibile che queste siano eseguite a spese dell’erario, non consentendolo il testo unico sulle spese di giustizia;
che, pertanto, il giudice delegato ai fallimenti del Tribunale ordinario di Cosenza, ritiene che l’art. 146 del d.P.R. n. 115 del 2002 sia, in modo non manifestamente infondato, in contrasto col principio di ragionevolezza, dato il rapporto di incoerenza, contraddittorietà ed illogicità con cui si pone con altre disposizioni dell’ordinamento nella parte in cui esso non prevede, nello svolgimento di procedure fallimentari, la possibilità di porre a carico dell’erario le spese necessarie per fare fronte ad interventi necessari, se non imposti, al fine di evitare l’integrazione di ipotesi di reato previste da altre norme dell’ordinamento;
che, quanto alla rilevanza della questione nel giudizio a quo, il rimettente osserva che la possibilità per il curatore fallimentare di procedere nel caso che interessa alla bonifica dei siti inquinati presuppone l’adozione di un provvedimento che disponga l’anticipazione delle relative spese da parte dell’erario;
che è intervenuto nel giudizio, con il patrocinio della Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente inammissibile o, comunque, infondata;
che la difesa pubblica, rilevato preliminarmente che nel caso di specie sarebbe stato nella facoltà del curatore del fallimento di rinunziare alla assunzione all’attivo fallimentare dei beni oggetto di bonifica, in tal modo liberandosi in radice dei doveri connessi alla loro dispendiosa gestione, osserva che, comunque, la fattispecie sostanziale trova la sua disciplina nell’art. 192 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in base al quale, laddove il soggetto obbligato non provveda alle operazioni di recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dei luoghi, queste sono eseguite dal Comune, con imputazione dei costi al soggetto obbligato;
che, aggiunge la difesa dello Stato, analoga disciplina è contenuta sia nell’art. 250 del d.lgs. n. 152 del 2006, sia nel successivo art. 252, con l’unica variante secondo la quale, ove si tratti di siti di interesse nazionale, la bonifica, sempre a spese dell’obbligato, è eseguita a cura del Ministero dell’ambiente;
che, d’altra parte, la facoltà di rivalsa in danno dell’obbligato è prevista anche in caso di fallimento, sia sotto la forma dell’obbligo del pagamento in prededuzione a carico della massa, sia nella forma della attivazione dell’onere reale gravante sul fondo contaminato;
che, pertanto, il richiamo alla norma impugnata è incongruo, in quanto essa avrebbe altro oggetto ed altra finalità e sarebbe, comunque, non applicabile nel giudizio a quo;
che la questione sarebbe, peraltro, «inammissibile per manifesta infondatezza», non essendo ravvisabile alcuna irragionevolezza nella disposizione censurata poiché, ove sia impossibile per il fallimento provvedere a quanto necessario, soccorrono le disposizioni prima citate, mentre sarebbe, viceversa, ingiustificata la pretesa di estendere la portata dell’art. 146 del d.lgs. n. 115 del 2002 alle ipotesi ora in esame, anche perché si otterrebbe l’effetto di distrarre fondi destinati alle spese di giustizia per la soddisfazione di interessi del tutto diversi la cui cura è affidata a soggetti non coinvolti nell’amministrazione della giurisdizione;
che, rileva in particolare l’Avvocatura, le ipotesi di anticipazione a carico dell’Erario previste dall’art. 146 del d.P.R. n. 115 del 2002 sono tutte direttamente riconducibili allo svolgimento di atti della procedura e sono frutto di una scelta discrezionale finalizzata al contenimento della spesa pubblica;
che un ulteriore profilo di inammissibilità della questione è riscontrato nel fatto che il rimettente non ha indicato quale fra le disposizioni della Costituzione sarebbe violata dalla norma censurata, non potendo ritenersi sufficiente il generico richiamo al principio di ragionevolezza.
Considerato che il Giudice delegato ai fallimenti del Tribunale ordinario di Cosenza dubita della legittimità costituzionale, ritenendolo in contrasto col «canone della ragionevolezza», dell’art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui non prevede che possano essere poste a carico dell’erario le spese necessarie alla curatela fallimentare per il compimento di atti di gestione e di manutenzione di beni appresi all’attivo della procedura, in particolare ove si tratti di interventi necessitati, se non imposti, da altre norme dell’ordinamento;
che occorre valutare, anzitutto, se sussistano profili di inammissibilità della questione come sollevata dal giudice rimettente;
che, a tal fine, è opportuno esaminare preliminarmente la eccezione di inammissibilità motivata dalla Avvocatura generale dello Stato sulla circostanza che nella ordinanza di rimessione non è espressamente indicato quale disposizione di rango costituzionale sia stata, asseritamente, violata;
che, in vero, il rimettente si esprime in termini non puntualmente rispondenti al dato normativo formale, riferendosi al rilevato contrasto col «canone della ragionevolezza»;
che, infatti, l’art. 23, comma 1, lettera b), della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), prescrive espressamente che, ove nel corso di un giudizio le parti vogliano eccepire la illegittimità costituzionale di un disposizione di legge o avente forza di legge, debbono, fra l’altro, indicare: «le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate» e la medesima indicazione è, altresì, prescritta, ai sensi del comma terzo del medesimo art. 23 della legge n. 87 del 1953, ove la questione sia sollevata di ufficio dal giudice;
che, però, siffatta previsione, in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale costituzionale, deve ritenersi, nondimeno, rispettata ogniqualvolta il rimettente, pur non indicando numericamente nell’articolato costituzionale la disposizione che ritiene violata, comunque indichi chiaramente il principio che assume in contrasto con la norma impugnata, tanto più ove questo, come nel caso di specie il «canone della ragionevolezza», abbia, anche per la sua centralità, da tempo trovato, sia nella elaborazione della giurisprudenza costituzionale che nell’analisi di essa condotta della dottrina scientifica, un sicuro, costante e univoco presidio normativo in uno degli articoli di cui si compone la Costituzione (a tal riguardo, a titolo esemplificativo, sentenze n. 71, n. 42 e n. 20 del 2013, che hanno esaminato la questione di legittimità costituzionale in cui era evocata la violazione del «principio della leale collaborazione»);
che non costituisce ragione d’inammissibilità neppure una qualche incertezza, desumibile dal testo della ordinanza di rimessione, del petitum di essa, in particolare in ordine al fatto se l’accollo da parte dello Stato delle spese ritenute necessarie per la gestione e manutenzione dei beni fallimentari sia definitivo ovvero temporaneo con diritto di rivalsa;
che, infatti, in alcuni punti dell’ordinanza il rimettente pare propendere per una richiesta in base alla quale, in caso di fallimento incapiente (o comunque non dotato di mezzi adeguati), le spese necessarie per gli interventi in questione gravino definitivamente sullo Stato (in tal senso, infatti, sembrano interpretabili le espressioni, contenute nel dispositivo dell’ordinanza, ove si legge «nella parte in cui non prevede […] la possibilità di porre a carico dell’erario le spese necessarie» ovvero quelle con cui si lamenta che la disposizione censurata «non consente di porre a carico dell’erario le spese della pur necessaria bonifica»), mentre in altri punti della ordinanza si accenna ad un «provvedimento giudiziale che disponga l’anticipazione delle spese da parte dell’erario» (il che fa pensare in termini di accollo temporaneo, con diritto di rivalsa in favore dell’erario);
che tale seconda opzione ermeneutica, pur nella descritta ambiguità della ordinanza, è certamente da preferirsi, in quanto unica coerente con il tenore letterale della disposizione censurata, che espressamente si riferisce a «spese prenotate a debito» ovvero a «spese anticipate dall’erario»;
che la questione, sebbene ammissibile, è, comunque, manifestamente infondata;
che il rimettente non tiene adeguatamente conto del fatto che la disposizione censurata ha la funzione di assicurare lo svolgimento, anche nel caso in cui non vi siano fondi finanziari a disposizione del fallimento, di taluni incombenti immediatamente funzionali all’espletamento della procedura volta alla soddisfazione concorsuale dei creditori ed al risanamento della impresa insolvente;
che, viceversa, le spese in ordine alla quali il rimettente vorrebbe fosse ampliata, tramite la addizione di nuove ipotesi a quelle elencate dall’art. 146 del d.P.R. n. 115 del 2002, la possibilità di ricorrere alla anticipazione erariale della relativa provvista finanziaria, lungi dall’essere necessarie ai fini della utile prosecuzione della procedura fallimentare in senso stretto, sono, invece, funzionali alla gestione dei beni fallimentari;
che la evidente diversità di ratio fra ciò che già è oggetto della norma impugnata e l’auspicato addendum rende palese la infondatezza della prospettata questione;
che, ad ogni modo, anche il dubbio prospettato dal rimettente, relativamente ad una intima contraddittorietà dell’ordinamento che, da un lato, in sostanza, impone determinati interventi finalizzati alla tutela ambientale, e, dall’altro, negando le risorse per gli stessi, li rende impraticabili, non ha fondamento, posto che è in altre diverse disposizioni che esso trova le opportune risposte;
che, infatti, il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norma in materia ambientale), appresta, agli artt. 191, 192, 250 e 252, forme di intervento pubblico volte alla rimozione di situazioni potenzialmente pericolose di contaminazione ambientale, esperibili, ai sensi dell’art. 247 d.P.R. n. 152 del 2006, anche nell’ipotesi in cui il sito ove i prodotti pericolosi si trovano sia oggetto di sequestro penale;
che, inoltre, lo stesso codice del rito penale, applicabile alla fattispecie stante la dichiarata situazione di sequestro preventivo cha caratterizza la fabbrica acquisita al compendio fallimentare, prevede all’art. 260 che, ove la custodia delle cose sequestrate risulti, fra l’altro, pericolosa per la salute, la autorità giudiziaria può procedere, con le opportune cautele, alla distruzione dei beni in sequestro, onde rimuovere la predetta situazione di rischio.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico della disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento al «canone della ragionevolezza», dal Giudice delegato ai fallimenti del Tribunale ordinario di Cosenza, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2014.
F.to:
Luigi MAZZELLA, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI