Sentenza 22/2014

Sentenza  22/2014
GiudizioGIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA PRINCIPALE
Presidente SILVESTRI - Redattore MORELLI
Udienza Pubblica del 03/12/2013    Decisione  del 10/02/2014
Deposito del 11/02/2014   Pubblicazione in G. U. 19/02/2014
Norme impugnate: Art. 19 del decreto legge 06/07/2012, n. 95, convertito con modificazioni dall'art. 1, c. 1°, della legge 07/08/2012, n. 135.
Massime:
Atti decisi:ric. 145, 151, 153, 160 e 172/2012

SENTENZA N. 22
ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, promossi dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania, dalla Regione autonoma Sardegna e dalla Regione Puglia con ricorsi notificati il 12-17, il 12, il 13-17, il 12 e il 15-18 ottobre 2012, depositati in cancelleria il 16, il 17, il 18, il 19 e il 24 ottobre 2012 e rispettivamente iscritti ai nn. 145, 151, 153, 160 e 172 del registro ricorsi 2012.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 dicembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Marcello Cecchetti per la Regione Puglia, Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Luigi Manzi, Daniela Palumbo e Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Campania, Massimo Luciani per la Regione autonoma Sardegna e l’avvocato dello Stato Raffaele Tamiozzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1.– Le Regioni Lazio, Veneto, Campania e Puglia, e la Regione autonoma Sardegna, con i ricorsi in epigrafe, hanno proposto questioni di legittimità costituzionale di varie disposizioni del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dell’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, e, tra queste, dell’art. 19.
In particolare, le disposizioni censurate sono quelle di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), ed ai commi da 2 a 6, con la precisazione, però, che le questioni relative ai commi 2, 5 e 6 sono state riservate a separata trattazione nella stessa udienza pubblica del 3 dicembre 2013.
In estrema sintesi, l’art. 19, per quanto forma in questa sede oggetto di impugnazione, rispettivamente:
– al comma 1, lettera a) – che reca il nuovo testo del comma 27 dell’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122 – ridefinisce le funzioni fondamentali dei Comuni ai sensi della lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost.
– al comma 1, lettera b) − che sostituisce il comma 28 dell’art. 14 anzidetto − dispone, con riferimento ai Comuni con popolazione fino ai 5.000 abitanti, l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unione di Comuni o convenzioni di durata triennale;
– al comma 1, lettera c) – che aggiunge il comma 28-bis al citato art. 14 – prevede che alle unioni di Comuni di cui al riscritto precedente comma 28 si applichi la disciplina di cui all’art. 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e successive modificazioni; e che ai Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti si applichi quanto previsto al comma 17, lettera a), dell’art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, a norma del quale il Consiglio comunale è composto dal sindaco e da sei consiglieri;
– al comma 1, lettera d) – che sostituisce il comma 30 dello stesso art. 14 − dispone che le Regioni, nelle materie di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., individuano le dimensioni territoriali ottimali per l’esercizio delle funzioni in forma obbligatoriamente associata, mediante unioni e convenzioni;
– al comma 1, lettera e) – che sostituisce il comma 31 del medesimo art. 14 − individua il limite demografico minimo delle unioni di Comuni in 10.000 abitanti, salva diversa determinazione da parte della Regione;
– al comma 3 − che sostituisce l’art. 32 del citato d.lgs. n. 267 del 2000 − pone una disciplina articolata delle unioni di Comuni, con differenti profili, attinenti alle procedure di istituzione ed alla struttura organizzativa delle unioni, nonché alla disciplina delle funzioni che queste ultime sono destinate a svolgere;
– al comma 4 prevede, per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, una facoltà di scelta tra i modelli organizzativi di cui ai precedenti commi 1 e 2.
2.– La Regione Lazio deduce che la disciplina recata dall’art. 19 denunciato – e, secondo il tenore della prospettazione, in particolar modo quella di cui al comma 1, lettere da a) a d) – violerebbe il combinato disposto degli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, Cost., ledendo le attribuzioni costituzionali regionali, dovendo essere ricondotta nell’alveo di siffatte attribuzioni «la regolazione delle associazioni degli enti locali», là dove lo Stato dovrebbe «limitarsi a stabilire la disciplina in tema di “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”, restando evidentemente esclusi da tale “voce” tutti gli aspetti riguardanti l’associazionismo di tali enti».
In questi termini – sottolinea la ricorrente – si sarebbe orientata la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 456 del 2005, n. 244 del 2005 e n. 229 del 2001), mettendo in luce il carattere «puntuale» della «tassativa» elencazione «degli enti, e degli aspetti della loro disciplina, contenuta nell’art. 117, comma secondo, lettera p)».
E tali conclusioni la medesima ricorrente ha ribadito con memoria depositata in prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013 (cui è stata rinviata, a seguito di ordinanza n. 227 del 2012, la trattazione delle questioni), nella quale aggiunge che, sulla scorta dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 27 del 2010), l’esercizio associato di funzioni da parte degli enti locali è da ascriversi alla potestà legislativa residuale delle Regioni, salva l’eventualità di un intervento di contenimento della spesa pubblica in base ai principi di coordinamento della finanza pubblica, che però, nel caso di specie, non sarebbe ravvisabile, posto che la normativa denunciata risulta dettagliata e non transitoria.
3.– Anche la Regione Veneto assume che il denunciato art. 19, con le sue plurime disposizioni (e, in particolare, i commi 1, lettere da b ad e, e 3) – le quali, là dove attengono specificamente ai Comuni, sono suscettibili di essere impugnate dalla Regione, giacché i profili di illegittimità che le riguardano «si traducono in altrettante violazioni dell’autonomia regionale costituzionalmente garantita» – violerebbe, in primo luogo, l’art. 117, quarto comma, Cost., dal quale, letto in combinato disposto con il secondo e il terzo comma dello stesso art. 117, si ricaverebbe che la materia «forme associative tra gli enti locali» rientra nella potestà legislativa regionale residuale. Il che sarebbe, del resto, confermato dalla stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 27 del 2010, n. 237 del 2009, n. 456 e n. 244 del 2005), che ha escluso, in riferimento alle comunità montane (e lo stesso varrebbe per le unioni di Comuni alle quali ha riguardo la norma denunciata), l’intervento della competenza statale di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., ascrivendo la relativa disciplina alla competenza residuale delle Regioni.
Invero, nonostante le disposizioni di cui all’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, siano qualificate come norme di «coordinamento della finanza pubblica», esse sarebbero ben lungi dal costituire principi fondamentali di siffatta materia, posto che, per un verso, non si limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, «intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente»; e, per altro verso, prevedono «in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».
Inoltre, sarebbe violato anche l’art. 118, primo comma, Cost., il quale non fa riferimento alle unioni di Comuni o alle convenzioni tra Comuni, che, pertanto, «dovrebbero essere, soprattutto nel rispetto del fondamentale art. 114 Cost., libere forme associative cui il Comune può (non deve) ricorrere».
Infine, la Regione Veneto sostiene che il «complesso di censure avanzate nei confronti dell’art. 19» condurrebbe a ritenere sussistente anche la violazione dell’art. 119 Cost., «peraltro anche con riguardo all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa dei Comuni», nonché degli artt. 3 e 97 Cost., «specialmente per il fatto che i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti sono obbligati tout court (e quindi in violazione del principio costituzionale di differenziazione) all’esercizio mediante unione di Comuni o convenzione delle loro funzioni fondamentali».
3.1.− In prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013, la Regione Veneto ha depositato memoria con la quale insiste per l’illegittimità costituzionale delle denunciate disposizioni dell’art. 19.
4.– La Regione Campania ritiene, a sua volta, illegittimo il comma 1, lettera a) dell’art. 19, «nella parte in cui, nel modificare la disciplina delle funzioni fondamentali dei comuni precedentemente recata dall’art. 14, comma 27, decreto-legge n. 78/2010, riconosce in materia alle Regioni le sole funzioni di programmazione e di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., nonché quelle esercitate ai sensi dell’art. 118 Cost.».
La ricorrente osserva al riguardo che la norma denunciata, nel circoscrivere il ruolo delle Regioni a quello dell’esclusivo svolgimento dei compiti di programmazione e coordinamento, di fatto sottrarrebbe agli stessi enti «tutte le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost.».
Invero, si evincerebbe dall’art. 118 Cost. che la Regione è titolare «di un ampio novero di funzioni che potrà delegare ai comuni o alle province o alle città metropolitane» e che tale attribuzione in concreto necessita di una legge di conferimento, come pure ribadito dall’art. 7 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Sicché, il legislatore (statale e regionale) ha il compito di conferire ai Comuni le funzioni amministrative precedentemente esercitate, con contestuale trasferimento delle risorse necessarie, potendo però «provvedere all’allocazione delle funzioni medesime ad un livello diverso da quello comunale, laddove ciò permetta il loro migliore esercizio». Ciò, tuttavia, non escluderebbe che, «nella propria opera di concreta destinazione delle funzioni amministrative rientranti nelle materie di propria competenza» (ai sensi dell’art. 117, commi terzo e quarto, Cost.), la Regione possa anche riservarsi «l’esercizio di compiti diversi ed ulteriori rispetto a quelli di programmazione e coordinamento».
La norma denunciata limiterebbe, invece, il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di compiti di programmazione e controllo, ridimensionando in modo illegittimo il potere della Regione «di optare per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative»; ciò determinando un vulnus agli artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 Cost.
Ove, poi, non si intendesse riconoscere la lesione dell’art. 117, quarto comma, Cost., sussisterebbe in ogni caso quella del combinato disposto degli artt. 117 e 118 Cost. sul riparto costituzionale di competenze legislative di Stato e Regioni in materia di disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative da parte degli enti locali, «nella misura in cui la norma statale disciplina l’esercizio in forma associata, da parte dei comuni interessati, di tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente».
Difatti, non potendo revocarsi in dubbio che la competenza regionale in materia di disciplina dell’esercizio delle funzioni amministrative sussista «ogni qualvolta le funzioni stesse interessino ambiti materiali di diretta pertinenza regionale (esclusiva o concorrente)», il censurato art. 19, mancando di distinguere le funzioni amministrative attualmente esercitate dai Comuni interessati, ha «sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in ambiti materiali regionali, violando in tal modo le attribuzioni costituzionalmente garantite alla regione».
4.1.– Peraltro, l’art. 19 prevede ulteriori disposizioni in materia di esercizio associato delle funzioni in ambito comunale, quali quelle di cui alle lettere da b) a d) del comma 1, che modificano integralmente la disciplina posta in materia dai commi 28 e seguenti dell’art. 14 del citato d.l. n. 78 del 2010. Tali disposizioni stabiliscono l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, mediante unione o convenzione, da parte dei Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se in comunità montane), là dove il ruolo della Regione viene limitato, in relazione alle materie di cui al terzo e quarto comma dell’art. 117 Cost., «alla mera individuazione, previa concertazione con gli enti locali interessati nell’ambito del C.A.L., della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento associato delle funzioni suddette». Inoltre, il comma 3 dell’art. 19 innova l’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, in ordine alla disciplina delle unioni di Comuni.
Secondo la ricorrente, anche tali disposizioni sarebbero, all’evidenza, in contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost., in ragione delle considerazioni in precedenza svolte circa la competenza regionale riferita alla disciplina degli strumenti e delle modalità a disposizione dei Comuni per l’esercizio congiunto delle funzioni loro spettanti.
4.2.– Con successive memorie depositate in prossimità sia dell’udienza pubblica del 19 giugno 2013 che di quella del 3 dicembre 2013, la Regione Campania ha reiterato e ulteriormente argomentato le conclusioni già rassegnate.
In particolare ha evidenziato che, in sede di esame del progetto di legge in itinere (AC 1542), tramite il quale si intenderebbe intervenire nuovamente sulla disciplina dell’unione dei Comuni, la Corte dei conti, nell’audizione del 6 novembre 2013, avrebbe espresso dubbi sulla reale incidenza delle nuove istituzioni sul risparmio di spesa nel lungo periodo, adducendo che «la potenziale dinamica virtuosa che connota, tendenzialmente, l’esercizio associato di funzioni e servizi è frenata dai fattori di rigidità della spesa corrente». Con ciò sarebbero smentite le enunciazioni del legislatore in ordine alla riconducibilità delle disposizioni di cui all’art. 19 denunciato al «coordinamento della finanza pubblica», trattandosi, in ogni caso, di disposizioni analitiche e di dettaglio, che non terrebbero conto, nel disegno di complessivo riordino cui mirano, dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, tanto da non essere neppure in grado di assicurare «le attese riduzioni di spesa».
5.– Anche la Regione autonoma Sardegna ha impugnato l’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, il quale, «nel novellare l’art. 16 del decreto-legge n. 138 del 2011 e nel dettare ulteriori disposizioni in tema di unioni di comuni, ha ulteriormente modificato in profondità l’organizzazione politico-amministrativa dei comuni minori della Sardegna, attraverso una disciplina di estremo dettaglio e particolarmente stringente».
Le disposizioni del denunciato art. 19 – nell’istituire obbligatoriamente unioni di Comuni, nel ridurre contestualmente i consigli comunali a puri organi di partecipazione e il sindaco a semplice ufficiale di Governo – provocherebbero, di fatto, secondo la ricorrente «la soppressione dei comuni che partecipano a questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di ente territoriale», con conseguente contrasto con le norme che garantiscono alla Regione Sardegna una sfera di autonomia legislativa esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» di cui all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto particolarmente ampia, tanto da consentire l’istituzione di nuove Province.
Sarebbe, altresì violato l’art. 117, quarto comma, Cost., posto che la competenza esclusiva dello Stato di cui alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., così come non può riguardare − per essere tassativamente riferita a Comuni, Province e Città metropolitane (sentenze n. 456 e n. 244 del 2005) − le comunità montane (la cui disciplina rientra in quella residuale regionale, siccome garantita, per il tramite dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», anche alla Regione Sardegna) − del pari non potrebbe attenere alle unioni di Comuni.
Peraltro, non potrebbe far venir meno la lesività delle censurate disposizioni la clausola di salvaguardia delle competenze delle Regioni ad autonomia differenziata recata dal comma 29 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, posta, in primo luogo, la già evidenziata competenza legislativa esclusiva della Regione Sardegna nella materia «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», nonché, ulteriormente, il fatto che l’art. 19 censurato «non introduce una normativa di carattere generale o limitata ai principi di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti non necessari, bensì un’autoritativa e unilaterale determinazione delle forme e delle modalità di attuazione della c.d. intercomunalità, cui segue una regolamentazione di estremo dettaglio, della quale la Regione, anche attivando le procedure necessarie per il rispetto del proprio Statuto, e pur applicandosi quanto previsto dall’art. 27 della legge n. 42 del 2009, non potrebbe che prendere atto e recepire in via automatica». Sicché, sarebbe anche da escludere che la disciplina denunciata possa integrare una fondamentale riforma economico-sociale della Repubblica, ovvero esercizio della potestà legislativa di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
5.1.– Con successiva memoria, la ricorrente, nel ribadire le ragioni dell’impugnativa, osserva, segnatamente, che la disciplina censurata, dettata in violazione della competenza esclusiva regionale in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), dello statuto, non solo non prevederebbe alcun principio fondamentale in ordine «alle esigenze di semplificazione, accorpamento di funzioni e riduzione degli enti non necessari», ma verrebbe a stabilire «un’autoritativa e unilaterale determinazione del livello demografico della c.d. intercomunalità, cui segue una regolamentazione di estremo dettaglio», che la Regione non potrebbe che recepire automaticamente, senza adattamenti in base alle procedure statutarie, come previsto dalla clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis dello stesso d.l. n. 95 del 2012.
La ricorrente esclude, inoltre, che la disposizione denunciata possa trovare titolo di legittimazione nello stesso art. 3 dello statuto, ove si prevede che la competenza legislativa regionale debba esercitarsi in armonia con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e nel rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica stessa, non potendo i primi desumersi da una singola norma o da un singolo intervento normativo e le seconde essere ricondotte al profilo istituzionale degli enti locali anziché ai rapporti economico-sociali tra cittadini o tra cittadini e istituzioni. Ed ancora non potrebbe la norma denunciata essere giustificata come esercizio della potestà legislativa di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., giacché questa regola soltanto il riparto di competenze tra Stato e Regioni ordinarie, là dove è l’art. 3 dello statuto «a definire gli ambiti di attribuzione dello Stato e della Regione Sardegna».
La difesa regionale contesta, poi, che l’intervento normativo oggetto di censura possa ricondursi alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», osservando che, oltre ad essere di dettaglio, non sortirebbe alcun «effetto virtuoso sui saldi di finanza pubblica», come sarebbe dimostrato dal fatto che nella “relazione tecnica” di accompagnamento al d.d.l. di conversione in legge del d.l. n. 95 del 2012 si afferma che in base alla previsione di cui all’art. 19 non deriveranno ulteriori spese, ma non già «utilità dal punto di vista dei risparmi finanziari».
6.– La Regione Puglia analogamente sostiene che il comma 1, lettera a), dell’art. 19 denunciato violerebbe gli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118 Cost., «nella parte in cui include tra le funzioni fondamentali dei Comuni anche funzioni amministrative ricadenti in materie di competenza legislativa concorrente o residuale regionale».
A tal riguardo, la difesa regionale osserva che la potestà legislativa statale di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., è «per sua natura, limitata», non potendo lo Stato giungere a «qualificare liberamente» qualsiasi funzione amministrativa come «funzione fondamentale» dei Comuni o delle Province, così da poterne disporre l’integrale disciplina. Ciò in quanto, diversamente opinando, si priverebbe di qualunque «contenuto precettivo gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., i quali prescrivono che sia la legge regionale ad allocare e disciplinare le funzioni amministrative nelle materie diverse da quelle di competenza legislativa statale».
Ad avviso della ricorrente, il carattere «limitato» della richiamata potestà legislativa statale in materia di «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane» sarebbe stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale, sebbene in essa non si rinvenga una chiara individuazione di siffatti limiti. Invero, secondo la Regione Puglia, dette «funzioni fondamentali» dovrebbero in non altro consistere che nella potestà statutaria, nella potestà regolamentare e nella potestà amministrativa «a carattere “ordinamentale” concernente le funzioni essenziali che attengono alla vita stessa e al governo degli enti locali territoriali ivi espressamente contemplati». Con esclusione, quindi, delle funzioni «amministrativo-gestionali» in senso proprio, e, a maggior ragione, di «alcune di quelle individuate dalla norma legislativa qui censurata».
In tal senso deporrebbe una serie di convergenti argomenti. In primo luogo, quello «topografico» e cioè l’aver l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. inserito le «funzioni fondamentali» nell’ambito dello stesso testo normativo che contempla gli «organi di governo» e la «legislazione elettorale». In secondo luogo, il rilievo che assumono i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, primo comma, Cost. nell’allocazione (sia da parte della legge statale, che della legge regionale) delle funzioni amministrative, sicché, essendo «la ratio della attribuzione allo Stato di una competenza legislativa […] da rintracciare in una esigenza unitaria di livello nazionale, risulterebbe del tutto incomprensibile individuare una tale esigenza unitaria nell’ipotesi in cui tra le funzioni fondamentali menzionate alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., fossero annoverabili anche funzioni amministrative consistenti nella concreta cura di interessi». Peraltro, ciò non pregiudicherebbe la necessità di garantire standard di uniformità di certe funzioni rilevanti per le collettività locali, che, in quanto tali, si volessero includere tra le funzioni fondamentali, potendo lo Stato attivare la propria competenza in materia di «livelli essenziali delle prestazioni» o, comunque, lo strumento del potere sostitutivo straordinario di cui all’art. 120, secondo comma, Cost.
Diversamente, la qualificazione in termini di «fondamentali» delle funzioni amministrative rientranti in materie di potestà legislativa regionale equivarrebbe ad espropriare le Regioni «della possibilità di disciplinare e allocare importanti funzioni amministrative ricadenti negli ambiti materiali che la Costituzione assegna alla loro competenza legislativa». In tale lesiva direzione si sarebbe mossa la norma denunciata, comprendendo tra le funzioni fondamentali «settori di primissima importanza». Tra questi, la «organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compresi i servizi di trasporto pubblico comunale», che inerisce alla materia dei «servizi pubblici locali», da collocarsi nell’ambito dell’art. 117, quarto comma, Cost. Ed ancora, la «pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale», riferibile al «governo del territorio»; la «progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione della relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’articolo 118, quarto comma, della Costituzione», ascrivibile alla competenza residuale regionale, in materia di «servizi sociali» (come si evincerebbe dalle sentenze n. 61 e n. 40 del 2011, n. 10 del 2010 e n. 50 del 2008, di questa Corte). Inoltre, le funzioni in tema di «edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province», nonché in tema di «organizzazione e gestione dei servizi scolastici», posto che lo Stato, in materia di istruzione, dispone unicamente della competenza sulle «norme generali sull’istruzione» di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., ed i «principi fondamentali» in materia di «istruzione» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Così come le «attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi», rientranti nella competenza regionale in materia di «protezione civile», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.; e, infine, le funzioni in materia di «polizia municipale e polizia amministrativa locale», espressamente escluse, dall’art. 117, secondo comma, Cost., dalla competenza esclusiva statale e da ricondursi, invece, alla potestà legislativa regionale residuale.
La difesa regionale sostiene, poi, che dalla stessa giurisprudenza costituzionale si trarrebbe la convinzione che «importanti servizi pubblici locali non possano senz’altro essere “avocati” alla competenza legislativa dello Stato mediante la utilizzazione, da parte di quest’ultimo, della qualificazione dei medesimi come “funzioni fondamentali”». Ciò si evincerebbe, anzitutto, dalla sentenza n. 274 del 2004, che ha «escluso che le norme in tema di servizi pubblici locali possano rientrare» nella anzidetta competenza statale, in quanto la «gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale». Inoltre, con la sentenza n. 325 del 2010 si è affermato chiaramente che il servizio idrico integrato «non costituisce funzione fondamentale dell’ente locale».
Donde, la considerazione che dette funzioni fondamentali non possano identificarsi con quelle aventi la «cura concreta di interessi», la cui allocazione ad un livello di governo diverso da quello ritenuto inadeguato deve avvenire per legge in forza del principio di sussidiarietà e, posto che la legge potrebbe attribuirle ad un livello «ultracomunale» (si veda, ad es., l’art. 3-bis del d.l. n. 138 del 2011), «appare chiaro che nessuna funzione di cura concreta di interessi è ontologicamente propria e indefettibile per i comuni», essendo quest’ultime solo quelle «ordinamentali».
In ogni caso, le sentenze sopra citate avrebbero escluso che lo Stato possa ascrivere ad libitum la qualifica di «fondamentale» a qualsiasi funzione delle Province, Comuni e Città metropolitane ed hanno ritenuto che detta qualificazione non possa riguardare i servizi pubblici locali e, segnatamente, il servizio pubblico integrato.
Né potrebbe valere a contrario – soggiunge la difesa regionale – quanto deciso dalla più recente sentenza n. 148 del 2012, che ha dichiarato non fondata «analoga censura» mossa proprio dalla Regione Puglia avverso l’art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010, posto che in quell’occasione la Corte ha ritenuto che la qualificazione di «funzioni fondamentali» fosse caratterizzata dalla «transitorietà» ed orientata a «limitati fini», mentre la norma attualmente denunciata detta una disciplina generale e «a regime».
6.1.– È censurata poi, dalla medesima ricorrente, la lettera d) del comma 1 dell’art. 19, che affida alla Regione l’individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata da parte dei Comuni delle funzioni fondamentali; la norma impugnata contrasterebbe, anzitutto, con gli artt. 117, quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., «nella parte in cui si rivolge anche a funzioni amministrative ricadenti in ambiti materiali affidati, ex art. 117, quarto comma, Cost., alla potestà legislativa regionale residuale».
Sul presupposto che le funzioni fondamentali possano essere solo quelle «ordinamentali» e, dunque, quelle essenziali attinenti «alla vita stessa e al governo degli enti locali», la Regione Puglia sostiene che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. non potrebbe legittimare lo Stato a dettare disposizioni che disciplinino l’allocazione e l’esercizio di funzioni amministrative soltanto in ragione del fatto che queste ultime siano qualificate «fondamentali» dalla stessa legge statale. Invero, lo Stato è legittimato a dettare principi di allocazione delle funzioni amministrative, che dovranno, poi, essere svolti dalla legislazione regionale ed in tal senso si declina la disciplina oggetto di censura, la quale «pone alcuni principi fondamentali sulla allocazione di funzioni amministrative». Tuttavia, detta legittimazione dovrà essere circoscritta alle materie di competenza esclusiva ovvero a quelle di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma. Cost., ma non già investire le materie di competenza residuale delle Regioni, di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.
L’art. 19, comma 1, lettera d), del d.l. n. 95 del 2012 si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 123, primo e ultimo comma, Cost., «nella parte in cui impone alla Regione di attivare una “concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali”».
Siffatta previsione invaderebbe, infatti, la riserva di potestà statutaria regionale in materia di organizzazione e di funzionamento della Regione, stabilita dal primo comma dell’art. 123 Cost., nonché sulla disciplina del Consiglio delle autonomie locali e delle sue funzioni «quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali», riconosciuta dal quarto comma dello stesso art. 123. Né, peraltro, sussisterebbe qualche titolo di legittimazione statale ad intervenire sul Consiglio delle autonomie locali, «che la Costituzione espressamente qualifica quale organo regionale necessario e indefettibile». Del resto, la normativa statale con la quale si è individuato l’organo regionale titolare di determinate funzioni è stata già oggetto di pronunce di incostituzionalità, per lesione dell’autonomia regionale quanto alla sua organizzazione interna, con le sentenze n. 22 del 2012, n. 201 del 2008 e n. 387 del 2007.
6.2.– L’esaminata impugnativa coinvolge anche la disposizione di cui alla lettera e) del comma 1 dello stesso art. 19, che individua il limite demografico minimo delle unioni di Comuni in 10.000 abitanti, salva diversa determinazione da parte della Regione «entro i tre mesi antecedenti il primo termine di esercizio associato obbligatorio delle funzioni fondamentali, ai sensi del comma 31-ter».
Detta norma, secondo la ricorrente, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., «in quanto il legislatore statale ordinario non dispone di un titolo di legittimazione a regolare l’istituzione e l’organizzazione delle unioni di comuni, poiché, in materia di ordinamento degli enti locali, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, gode soltanto della competenza a stabilire norme in tema di legislazione elettorale, funzioni fondamentali e organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane».
Infatti dopo la riforma costituzionale del 2001, lo Stato non avrebbe più un titolo di legittimazione generale per disciplinare «l’ordinamento degli enti locali», che ora spetta, in linea generale-residuale, alle Regioni, mentre lo Stato medesimo «può intervenire soltanto per disciplinare le funzioni fondamentali, la legislazione elettorale, e gli organi di governo dei soli enti locali costituzionalmente necessari, ovverosia Comuni, Province e Città metropolitane», mantenendo, poi, per talune materie (ad es. il coordinamento della finanza pubblica), una competenza trasversale.
Sarebbe questa, ad avviso della Regione Puglia, una impostazione seguita anche dalla giurisprudenza costituzionale, come dimostrerebbe la ritenuta non pertinenza della lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost. al caso delle «comunità montane», quali anch’esse «unione di Comuni» (sentenza n. 244 del 2005), al pari di quelle contemplate dalla norma denunciata. Sulla stessa scia si porrebbero le sentenze n. 173 del 2012, n. 327 del 2009, n. 326 del 2008, n. 397 del 2006 e n. 456 del 2005, concernente il «“sub settore” della “organizzazione degli uffici regionali e degli enti locali” e, all’interno di quest’ultima, dell’“organizzazione delle società dipendenti, esercenti l’industria o i servizi”».
6.3.– Quanto al comma 3 dell’art. 19 – che pone una disciplina articolata delle unioni di Comuni con differenti profili – ed al connesso successivo comma 4, sostiene la ricorrente che anche tali disposizioni sarebbero in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost.
Lo Stato – come già evidenziato in precedenza – non potrebbe, infatti, esibire una competenza legislativa diversa da quella inerente alla legislazione elettorale, alle funzioni fondamentali e agli organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane, per cui non avrebbe titolo alcuno «per disciplinare l’istituzione e l’organizzazione di enti locali differenti da quelli appena menzionati, quali le unioni di comuni, tanto più e a maggior ragione se la suddetta disciplina pretende di assumere – come nel caso di specie – natura vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della Regione e dei comuni interessati», così da incidere su un ambito affidato alla potestà regionale residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.
6.3.1.– La Regione Puglia, come detto, censura infine il comma 7 dell’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, come sostituito dal comma 3, dello stesso art. 19, il quale stabilisce in via generale che «Alle unioni competono gli introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi sui servizi ad esse affidati».
La disposizione richiamata, a suo avviso, contrasterebbe, infatti, con i commi primo, secondo e sesto dell’art. 119 Cost., «i quali, nel riconoscere esclusivamente agli enti autonomi costitutivi della Repubblica l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, il potere di stabilire ed applicare “tributi ed entrate propri” (in armonia con la Costituzione e secondo “i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”), nonché la disponibilità di un proprio patrimonio, impediscono che la legge statale possa sottrarre autonomia impositiva e di entrata nonché risorse patrimoniali ai suddetti enti, attribuendole in titolarità a nuovi e diversi enti territoriali» e cioè alle unioni di Comuni.
Peraltro, in tal modo la norma censurata violerebbe anche i limiti che l’art. 117, terzo comma, Cost. impone alla potestà legislativa dello Stato in materia di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», «fuoriuscendo dall’ambito dei “principi fondamentali” e invadendo perciò gli spazi costituzionalmente affidati alla potestà legislativa regionale sia dal terzo che dal quarto comma dell’art. 117 Cost.».
6.4.– In prossimità dell’udienza del 3 dicembre 2013 la Regione Puglia ha depositato memoria, con la quale ulteriormente argomenta l’illegittimità costituzionale delle denunciate disposizioni, osservando quanto segue.
In relazione alla censura che investe la lettera a) del comma 1 dell’art. 19 (denunciato giacché «concerne funzioni amministrative diverse da quelle propriamente ordinamentali, comprendendo anche funzioni amministrativo-gestionali e, in ogni caso, perché qualifica come “fondamentali” funzioni che non possono in alcun caso essere ritenute tra quelle “indefettibili” dei Comuni»), la ricorrente esclude che lo Stato possa, esso stesso, «definire ed individuare il “carattere fondamentale” delle funzioni» di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., essendo queste solo quelle «proprie e indefettibili degli enti locali» e cioè quelle che l’ente «deve svolgere necessariamente e immancabilmente, in modo tale che sarebbe impensabile l’esistenza di un ente locale che non le svolgesse». Tali sarebbero le funzioni «coessenziali alla vita dell’ente» e cioè le funzioni “ordinamentali” (tra cui, quella statutaria, regolamentare, di autorganizzazione, di bilancio) e non già quelle di «gestione e cura di concreti interessi», le quali devono, invece, essere distribuite in base all’art. 118 Cost. dai legislatori di volta in volta competenti. In tal senso, del resto, parrebbe orientarsi anche la difesa erariale, allorché distingue tra funzioni attinenti alla vita dell’ente e quelle amministrative in senso stretto.
Quanto alla censura che investe la lettera d) del comma 1 dell’art. 19 (denunciato in quanto, «trattandosi di una disciplina di principio circa l’allocazione delle funzioni amministrative, il legislatore statale avrebbe potuto legittimamente intervenire solo ed esclusivamente nell’ambito delle materie per le quali sia titolare della potestà esclusiva o – al più − concorrente»), la Regione esclude che possa valere, a sostegno dell’infondatezza della questione, l’argomento della ascrivibilità della disciplina impugnata alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», posto che il suo oggetto principale è «il riordino delle funzioni e la loro redistribuzione alla luce della individuazione degli ambiti ottimali», mentre il fine della riduzione della spesa non sarebbe neppure “accessorio”.
Né, secondo la ricorrente, potrebbe al riguardo invocarsi il titolo legittimante della competenza esclusiva statale di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., che, in ogni caso, seppure autorizzasse lo Stato stesso alla “individuazione delle funzioni fondamentali”, non potrebbe comunque consentirgli di dettare una disciplina «di dettaglio del contenuto di quelle stesse funzioni», ove pertinenti a materie di competenza regionale.
7.– In tutti i riferiti giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, formulando – e ribadendo in successive memorie – conclusioni di inammissibilità o comunque di non fondatezza delle questioni sollevate dalle Regioni.
La difesa erariale osserva che la definizione delle funzioni fondamentali rientra nella competenza esclusiva statale e l’elenco dettato dalla norma denunciata non esorbita da siffatta competenza, ma vi include «funzioni di organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria, contabile e di controllo, che attengono alla vita ed al governo dell’ente» e che vanno distinte dalle funzioni amministrative in senso stretto. Sostiene, infatti, che le funzioni fondamentali dei Comuni di cui alla lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost. «coincidono con le funzioni proprie di cui all’art. 118, secondo comma, Cost., sì che l’unica distinzione munita di un significato è quella tra funzioni proprie e funzioni conferite», ed il citato art. 117, secondo comma, lettera p), «integra, dunque, una competenza trasversale, in grado di consentire allo Stato l’individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane anche nelle materie riconducibili alla competenza legislativa regionale, residuale e concorrente».
Tale impostazione sarebbe confermata dall’art. 2, comma 4, lettera b), della legge n. 131 del 2003, il quale fa coincidere la nozione di funzioni fondamentali con quella di funzioni proprie, che spetta allo Stato individuare ed allocare ad un livello di governo piuttosto che ad un altro, nel rispetto del primo comma dell’art. 118 Cost., senza però incontrare il limite del riparto delle competenze legislative, «cosicché tale operazione ben può essere svolta su ogni sorta di funzione amministrativa, quale che sia l’ente cui spetta la competenza legislativa sulla materia». Il limite dell’art. 117 Cost. opererebbe, invece, per la disciplina delle funzioni fondamentali, posto che l’art. 117, sesto comma, Cost., «attribuisce a comuni, province e città metropolitane la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Peraltro, ove le funzioni fondamentali siano riconducibili a materie di competenza regionale (concorrente o residuale), «spetta allo Stato individuare esclusivamente il livello di governo al quale imputare la funzione fondamentale, residuando in capo alla Regione il compito di dettare la disciplina della relativa funzione»; e tale principio risulta rispettato dalla norma denunciata.
Sarebbe altresì destituita di fondamento la censura della lettera d) del comma 1 dell’art. 19 per asserito contrasto con l’art. 123 Cost., giacché la norma denunciata non detta la disciplina sul funzionamento del Consiglio delle autonomie locali, ma prevede soltanto che la Regione individui la dimensione territoriale ottimale, previa concertazione con i Comuni interessati, da svolgersi nell’ambito di detto Consiglio.
La difesa erariale sostiene altresì l’infondatezza delle ulteriori doglianze riguardanti l’art. 19, e qui scrutinate, giacché le disposizioni denunciate perseguono l’obiettivo di contenimento della spesa corrente per il funzionamento degli enti locali tramite un disciplina uniforme, che viene a coordinare la disciplina di settore; si tratterebbe, dunque, di normativa di principio riconducibile alla materia del coordinamento della finanza pubblica.

Considerato in diritto
1.– Sono state proposte dalle Regioni Lazio, Veneto, Campania e Puglia, e dalla Regione autonoma Sardegna varie questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135.
Segnatamente, le disposizioni denunciate – seppure in misura diversa da parte di ciascuna Regione – sono quelle di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), ed ai commi da 2 a 6.
2.– In questa sede si avrà riguardo alle questioni che attengono ai commi 1, 3 e 4, essendo state riservate a separata trattazione, nella stessa udienza del 3 dicembre 2013, quelle relative ai commi 2, 5 e 6.
2.1.– L’art. 19, comma 1, lettera a), è specificamente censurato dalla Regione Campania «nella parte in cui, nel modificare la disciplina delle funzioni fondamentali dei comuni precedentemente recata» dall’art. 14, comma 27, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, «riconosce in materia alle Regioni le sole funzioni di programmazione e di coordinamento, spettanti nelle materie di cui all’art. 117, commi terzo e quarto, Cost., nonché quelle esercitate ai sensi dell’art. 118 Cost.».
Detta norma, ad avviso della ricorrente, violerebbe gli artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 Cost., giacché, nel circoscrivere il ruolo delle Regioni a quello dell’esclusivo svolgimento dei compiti di programmazione e coordinamento, di fatto sottrarrebbe agli stessi enti «tutte le funzioni non espressamente richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente [loro] spettanti ai sensi del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost.», così da ridimensionare in modo illegittimo il potere della Regione «di optare per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative».
La stessa disposizione è denunciata dalla Regione Puglia nella parte in cui include tra le «funzioni fondamentali» dei Comuni anche funzioni amministrative ricadenti in materie di competenza legislativa concorrente o residuale regionale. Donde, la prospettata lesione degli art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., essendo la potestà legislativa statale di cui alla citata lettera p) «per sua natura, limitata», non potendo lo Stato giungere a «qualificare liberamente» qualsiasi funzione amministrativa come «funzione fondamentale» dei Comuni o delle Province, così da poterne disporre l’integrale disciplina, tanto da privare di «contenuto precettivo gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., i quali prescrivono che sia la legge regionale ad allocare e disciplinare le funzioni amministrative nelle materie diverse da quelle di competenza legislativa statale»; con l’ulteriore conseguenza che dette funzioni fondamentali non possano identificarsi con quelle aventi la «cura concreta di interessi».
2.2.– Le disposizioni di cui alle lettere da b) a d) del comma 1 dell’art. 19, là dove stabiliscono l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali, mediante unione o convenzione, da parte dei Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (3.000 se in comunità montane), sono accomunate in un’unica censura dalla Regione Campania, la quale si duole di un vulnus agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., giacché il ruolo della Regione verrebbe limitato «alla mera individuazione, previa concertazione con gli enti locali interessati nell’ambito del C.A.L. [Consiglio delle autonomie locali], della dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento associato delle funzioni suddette».
2.3.– La disposizione di cui alla lettera d) del citato comma 1 dell’art. 19 è impugnata anche dalla Regione Puglia, sia nella parte in cui si rivolge a funzioni amministrative ricadenti in ambiti materiali affidati, ex art. 117, quarto comma, Cost., alla potestà legislativa regionale residuale, sia nella parte in cui impone alla Regione di attivare una «concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali».
Ad avviso della ricorrente sussisterebbe, quanto al primo profilo di censura, una lesione degli artt. 117, quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., giacché, potendo le funzioni fondamentali essere solo quelle «ordinamentali» e, dunque, quelle essenziali attinenti «alla vita stessa e al governo degli enti locali», lo Stato non potrebbe che disciplinare funzioni amministrative «fondamentali» in materie di competenza esclusiva ovvero di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma. Cost., ma non già investire le materie di competenza residuale delle Regioni.
In riferimento al secondo aspetto della doglianza, verrebbe poi in rilievo il contrasto con l’art. 123, primo e ultimo comma, Cost., che pone una riserva di potestà statutaria regionale in materia di organizzazione e di funzionamento della Regione, nonché sulla disciplina del Consiglio delle autonomie locali e delle sue funzioni «quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali».
La Regione Puglia denuncia, altresì, la lettera e) dello stesso comma 1 dell’art. 19, asserendo che violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., «in quanto il legislatore statale ordinario non dispone di un titolo di legittimazione a regolare l’istituzione e l’organizzazione delle unioni di comuni, poiché, in materia di ordinamento degli enti locali, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, gode soltanto della competenza a stabilire norme in tema di legislazione elettorale, funzioni fondamentali e organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane».
2.4.– Le disposizioni di cui alle lettere da a) a d) del comma 1 dell’art. 19 sono unitariamente censurate dalla Regione Lazio, che adduce, a sua volta, un vulnus all’art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, Cost., in combinato disposto tra loro, per lesione delle attribuzioni costituzionali regionali, nell’ambito delle quali andrebbe ricondotta «la regolazione delle associazioni degli enti locali», dovendo lo Stato «limitarsi a stabilire la disciplina in tema di “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”, restando evidentemente esclusi da tale “voce” tutti gli aspetti riguardanti l’associazionismo di tali enti».
2.5.– Le disposizioni di cui alle lettere da b) ad e) dello stesso comma 1 dell’art. 19 sono denunciate anche dalla Regione Veneto
Pure ad avviso di detta ricorrente, il citato art. 19 violerebbe, in parte qua, l’art. 117, quarto comma, Cost., essendo riservata alla potestà legislativa regionale la materia «forme associative tra gli enti locali»; nonché l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto le censurate disposizioni, ancorché qualificate come norme di «coordinamento della finanza pubblica», sarebbero ben lungi dal costituire principi fondamentali di siffatta materia, posto che, per un verso, non si limitano a porre obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, «intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente», e, per altro verso, prevedono «in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi».
Sussisterebbe, altresì, una lesione dell’art. 118, primo comma, Cost., il quale non fa riferimento alle unioni di Comuni o alle convenzioni tra Comuni, che, pertanto, «dovrebbero essere, soprattutto nel rispetto del fondamentale art. 114 Cost., libere forme associative cui il Comune può (non deve) ricorrere»; così come sarebbero vulnerati gli artt. 3 e 97 Cost., essendo i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti «obbligati tout court (e quindi in violazione del principio costituzionale di differenziazione) all’esercizio mediante unione di Comuni o convenzione delle loro funzioni fondamentali».
2.6.– Il comma 3, ed il connesso comma 4, dell’art. 19 sono impugnati da tutte le ricorrenti Regioni a statuto ordinario, che convergono nel prospettare la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., posto che dette censurate disposizioni inciderebbero sulla competenza regionale riferita alla disciplina degli strumenti e delle modalità a disposizione dei Comuni per l’esercizio congiunto delle funzioni loro spettanti.
In particolare la Regione Puglia argomenta la dedotta illegittimità del comma 3 dell’art. 19 con distinto riferimento alle parti in cui esso sostituisce sia i commi 1, 2, 3 e 4, sia per altro verso il comma 7 dell’art. 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
Sotto il primo profilo di censura, la norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, Cost., giacché lo Stato non potrebbe far valere una competenza legislativa diversa da quella inerente alla legislazione elettorale, alle funzioni fondamentali e agli organi di governo di Province, Comuni e Città metropolitane, per cui non avrebbe titolo alcuno «per disciplinare l’istituzione e l’organizzazione di enti locali differenti da quelli appena menzionati, quali le unioni di comuni, tanto più e a maggior ragione se la suddetta disciplina pretende di assumere − come nel caso di specie − natura vincolante e conformativa delle potestà normative e amministrative della Regione e dei comuni interessati», così da incidere su un ambito affidato alla potestà regionale residuale.
In relazione all’altro profilo della doglianza, sussisterebbe un contrasto sia con l’art. 119, primo, secondo e sesto comma, Cost., che impedisce che la legge statale possa sottrarre autonomia impositiva e di entrata, nonché risorse patrimoniali ai suddetti enti autonomi costitutivi della Repubblica, attribuendole in titolarità a nuovi e diversi enti territoriali e cioè alle unioni di Comuni; sia con l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., esorbitando dai principi fondamentali in materia di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» e invadendo perciò gli spazi costituzionalmente affidati alla potestà legislativa regionale concorrente e residuale.
2.7.– La Regione autonoma Sardegna – nell’impugnare, in forza di censure sostanzialmente indistinte, l’intero art. 19 – ha, con più specifica attinenza al suo comma 3, prospettato, anzitutto, la violazione dell’art. 3, primo comma, lettera b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), sul rilievo che la normativa denunciata, nell’istituire obbligatoriamente unioni di Comuni, e nel ridurre contestualmente i consigli comunali a puri organi di partecipazione e il sindaco a semplice ufficiale di Governo, provocherebbe, di fatto, «la soppressione dei comuni che partecipano a questa forma associativa e la loro sostituzione con un nuovo tipo di ente territoriale», con conseguente contrasto con le norme che garantiscono alla Regione Sardegna una sfera di autonomia legislativa esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni».
Sarebbe leso, altresì, secondo la ricorrente, anche l’art. 117, quarto comma, Cost., posto che la competenza esclusiva dello Stato di cui alla lettera p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., così come non può riguardare le comunità montane (la cui disciplina rientra in quella residuale regionale, siccome garantita, per il tramite dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», anche alla Regione autonoma Sardegna), così del pari non potrebbe attenere alle unioni di Comuni.
3.– Possono essere scrutinate preliminarmente le questioni proposte dalla Regione autonoma Sardegna, giacché queste, rispetto alle altre impugnazioni, presentano un profilo peculiare, derivante dalla connotazione di ente ad autonomia speciale della ricorrente.
Va, infatti, evidenziato che il d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, ha previsto all’art. 24-bis, la seguente “Clausola di salvaguardia”: «Fermo restando il contributo delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano all’azione di risanamento così come determinata dagli articoli 15 e 16, comma 3, le disposizioni del presente decreto si applicano alle predette regioni e province autonome secondo le procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con riferimento agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le funzioni in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali dei predetti enti territoriali e agli altri enti o organismi ad ordinamento regionale o provinciale».
Su tale clausola di salvaguardia questa Corte si è già pronunciata (sentenze n. 236, n. 225 e n. 215 del 2013), ponendo in rilievo che essa «ha la precisa funzione di rendere applicabili le disposizioni del decreto agli enti ad autonomia differenziata solo a condizione che, in ultima analisi, ciò avvenga nel “rispetto” degli statuti speciali» (segnatamente, sent. n. 236 del 2013), derivandone la non fondatezza della questione sollevata sulla norma del d.l. n. 95 del 2012 anche là dove questa sia in contrasto con la normativa statutaria.
Sicché, interferendo le disposizioni censurate con la potestà esclusiva in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», di cui all’art. 3 dello statuto per la Sardegna, viene, nella specie, appunto, ad operare la clausola di salvaguardia di cui all’art. 24-bis del d.l. n. 95 del 2012, con conseguente declaratoria di non fondatezza della questione sollevata dalla Regione Sardegna.
4.– Vengono ora in esame le impugnative delle altre Regioni ricorrenti, con distinto riferimento alle varie disposizioni oggetto di censura.
4.1.– Le questioni che investono la lettera a) del comma 1 dell’art. 19 non sono fondate.
4.1.1.– Per meglio cogliere la portata delle censure, giova premettere una sintetica ricognizione del quadro normativo entro il quale si colloca il thema decidendum, rammentando anzitutto che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. riserva allo Stato la potestà legislativa in materia di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».
Quanto alle «funzioni fondamentali di Comuni» – che interessano in questa sede – l’art. 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), modificato dall’art. 1 della legge 28 maggio 2004, n. 140 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80, recante disposizioni urgenti in materia di enti locali. Proroga di termini di deleghe legislative) e, successivamente, dall’art. 5 della legge 27 dicembre 2004, n. 306 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 novembre 2004, n. 266, recante proroga o differimento di termini previsti da disposizioni legislative. Disposizioni di proroga di termini per l’esercizio di deleghe legislative), assegnava al Governo la delega, da esercitare entro il 31 dicembre 2005, per la «individuazione delle funzioni fondamentali, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento».
Tra i principi e criteri direttivi della delega, oltre al rispetto delle competenze legislative e costituzionali ai sensi degli artt. 114, 117 e 118 Cost., era annoverata (comma 4, lettera b) l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane «in modo da prevedere, anche al fine della tenuta e della coesione dell’ordinamento della Repubblica, per ciascun livello di governo locale, la titolarità di funzioni connaturate alle caratteristiche proprie di ciascun tipo di ente, essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento, tenuto conto, in via prioritaria, per Comuni e Province, delle funzioni storicamente svolte».
Peraltro, si prevedeva, anche una valorizzazione dei «principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione nella allocazione delle funzioni fondamentali in modo da assicurarne l’esercizio da parte del livello di ente locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale gestione anche mediante l’indicazione dei criteri per la gestione associata tra i Comuni» (comma 4, lettera c); la previsione di «strumenti che garantiscano il rispetto del principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo locale nello svolgimento delle funzioni fondamentali che richiedono per il loro esercizio la partecipazione di più enti, allo scopo individuando specifiche forme di consultazione e di raccordo tra enti locali, Regioni e Stato» (comma 4, lettera d); nonché la valorizzazione delle «forme associative anche per la gestione dei servizi di competenza statale affidati ai comuni» (comma 4, lettera n).
La delega anzidetta non è stata esercitata, sicché la prima, provvisoria, individuazione delle funzioni fondamentali si è avuta, nell’ambito del processo di attuazione del cosiddetto “federalismo fiscale”, con l’art. 21 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), orientata, in particolare, secondo il comma 2, alla «determinazione dell’entità e del riparto dei fondi perequativi degli enti locali in base al fabbisogno standard o alla capacità fiscale» di Comuni e Province.
In attesa dell’emanazione della legislazione delegata, il comma 3 dello stesso art. 21 ha «provvisoriamente» individuato per i Comuni le seguenti funzioni: «a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento delle spese come certificate dall’ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata in vigore della presente legge; b) funzioni di polizia locale; c) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l’edilizia scolastica; d) funzioni nel campo della viabilità e dei trasporti; e) funzioni riguardanti la gestione del territorio e dell’ambiente, fatta eccezione per il servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani di edilizia nonché per il servizio idrico integrato; f) funzioni del settore sociale».
Nell’esercizio della anzidetta delega è poi intervenuto l’art. 3 del decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216 (Disposizioni in materia di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province), che, per i fini specifici dello stesso decreto legislativo, ha ribadito l’individuazione «in via provvisoria» delle funzioni fondamentali di cui all’art. 21 delle legge n. 42 del 2009, precisando anch’esso che ciò avveniva «fino alla data di entrata in vigore della legge statale di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Città metropolitane e Province».
Un richiamo espresso all’art. 21 della legge n. 42 del 2009 si rinveniva nell’art. 14, comma 27 del d.l. n. 78 del 2010; disposizione che è stata poi sostituita da quella denunciata e sottoposta all’attuale esame. Anche in questo caso, il rinvio era per i fini «dei commi da 25 a 31» (cioè per l’esercizio associato delle funzioni fondamentali tramite convenzioni o unioni di Comuni) e, segnatamente, «fino alla data di entrata in vigore della legge con cui sono individuate le funzioni fondamentali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione».
È, dunque, con la censurata disposizione della lettera a) del comma 1 dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135 del 2012, che, nel riscrivere il comma 27 dell’art. 14 citato, vengono individuate, non più in via dichiaratamente provvisoria, né con espressa limitazione od orientamento verso specifici fini, le funzioni fondamentali dei Comuni, tramite una elencazione più ampia di quella che recavano i citati artt. 21 della legge n. 42 del 2009 e 3 del d.lgs. n. 216 del 2010.
La nuova disposizione appare ispirata da quanto previsto dall’art. 2 del d.d.l. n. 2259 (attualmente all’esame del Senato), noto come “Carta delle autonomie”, sebbene quest’ultimo rechi un numero ancor più ampio di funzioni fondamentali dei Comuni.
4.1.2.– Questa Corte ha ritenuto, in linea più generale, che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. «indica le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali» (sentenza n. 220 del 2013).
Peraltro, al di là di quale possa essere la configurazione del rapporto tra le «funzioni fondamentali» degli enti locali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera p), e le «funzioni proprie» di cui all’art. 118, secondo comma, Cost., in ogni caso «sarà sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni, in conformità alla generale attribuzione costituzionale ai Comuni o in deroga ad essa per esigenze di “esercizio unitario”, a livello sovracomunale, delle funzioni medesime» (sentenza n. 43 del 2004). Sicché, in tale prospettiva, si è escluso (sentenze n. 325 del 2010 e n. 272 del 2004) che la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica possa ascriversi all’àmbito delle «funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e Città metropolitane», perché «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale».
Tale assunto è stato fatto proprio anche dalla sentenza n. 307 del 2009, la quale però ha ritenuto, con specifico riferimento al servizio idrico integrato, che la non separabilità tra la gestione della rete e la gestione di detto servizio costituisca principio riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato in materia di funzioni fondamentali dei Comuni, posto che «le competenze comunali in ordine al servizio idrico sia per ragioni storico-normative sia per l’evidente essenzialità di questo alla vita associata delle comunità stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali», restando la competenza regionale nella materia di servizi pubblici locali «in un certo senso limitata dalla competenza statale suddetta», potendo «continuare ad essere esercitata negli altri settori, nonché in quello dei servizi fondamentali, purché non sia in contrasto con quanto stabilito dalle leggi statali». Diversamente si è invece opinato quanto, per l’appunto, alle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, per cui non può essere evocata la lettera p) del secondo comma dell’art. 117 Cost., giacché «la regolamentazione di tali modalità non riguarda un dato strutturale del servizio né profili funzionali degli enti locali ad esso interessati (come, invece, la precedente questione relativa alla separabilità tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico), bensì concerne l’assetto competitivo da dare al mercato di riferimento».
Sin d’ora giova inoltre rammentare che la competenza legislativa esclusiva statale di cui alla citata lettera p) non è invocabile in riferimento alle “comunità montane”, atteso che il richiamo limitato a Comuni, Province e Città metropolitane, ivi presente, «deve ritenersi tassativo» (sentenze n. 237 del 2009, n. 397 del 2006, n. 456 del 2005 e n. 244 del 2005).
Specifico e peculiare rilievo assume, inoltre, la sentenza n. 148 del 2012 di questa Corte, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010, su cui è intervenuta la norma denunciata.
Si trattava, invero, di censure mosse dalla Regione Puglia in forza di argomentazioni che, in parte, sono riproposte in questa sede. La Regione allora sosteneva, infatti, che il richiamo all’art. 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009 avrebbe consentito di estendere la qualifica di “funzioni fondamentali dei Comuni” – con conseguente attribuzione allo Stato della relativa competenza legislativa esclusiva – «anche a funzioni “amministrativo-gestionali”, o comunque, più in generale, a funzioni volte alla cura concreta di interessi». Sicché, la norma impugnata sarebbe stata in contrasto con «i limiti che caratterizzano la potestà legislativa attribuita allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ledendo gravemente l’autonomia legislativa della Regione, riconosciuta dai commi terzo e quarto dell’art. 117 Cost. e richiamata dal comma secondo dell’art. 118 Cost., in riferimento alla disciplina ed alla allocazione delle funzioni amministrative dei Comuni».
La Corte ha ritenuto, invece, che le questioni muovessero «da un erroneo presupposto interpretativo, in quanto il richiamo operato dalla norma impugnata alla generica elencazione di cui all’art. 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009 non è, di per sé, lesivo di competenze legislative e amministrative delle Regioni», rispondendo esso «all’esigenza di sopperire, sia pure transitoriamente ed ai limitati fini indicati nella stessa norma impugnata, alla mancata attuazione della delega contenuta nell’art. 2 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3)».
4.1.3.– Superata, con la norma denunciata, la provvisorietà e la settorialità degli interventi normativi precedenti in materia, ne deve, quindi, conseguire che allo Stato spetta l’individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che vengono a comporre l’intelaiatura essenziale dell’ente locale, cui, però, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi pubblici locali; sicché l’elencazione di cui alla norma denunciata non si discosta da siffatto criterio elettivo.
La disciplina di dette funzioni è, invece, nella potestà di chi – Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce.
In definitiva, la legge statale è soltanto attributiva di funzioni fondamentali, dalla stessa individuate, mentre l’organizzazione della funzione rimane attratta alla rispettiva competenza materiale dell’ente che ne può disporre in via regolativa.
La competenza regionale, nelle materie – di carattere concorrente o residuale – ad essa riservate, non viene, dunque, incisa dalla disposizione in esame, per cui perdono di consistenza tutte le censure proposte.
4.2.– Le questioni relative all’art. 19, comma 1, lettere b), c), d) ed e), non sono fondate.
4.2.1.– Le doglianze attengono, in via generale, alla disciplina sulla gestione associata delle funzioni fondamentali.
Il comma 1, lettera b), dell’art. 19, sostituendo il previgente comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, ha previsto che tutti i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esercitino obbligatoriamente in forma associata, mediante unioni di Comuni (art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000) o convenzione (art. 30 dello stesso d.lgs. n. 267 del 2000), la quasi totalità delle funzioni fondamentali, con esclusione della tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali e statistici, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale.
Rispetto alle previgente disciplina, non sussiste più la divisione tra Comuni sopra e sotto i 1000 abitanti.
La disposizione in esame ricomprende, infatti, anche i Comuni sotto i 1.000 abitanti, ai quali, tuttavia, il comma 2 dello stesso art. 19 riserva la facoltà di accedere ad un modello di unione derogatorio, regolato dall’art. 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, come sostituito dal citato comma 2 dell’art. 19, e non già quella dell’art. 32 del d.lgs n. 267 del 2000, inciso dal comma 3 del medesimo art. 19, che invece, a mente della denunciata lettera c) del comma 1, si applica alle unioni di cui al comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, come modificato dalla lettera b) citata.
Le lettere d) ed e) del comma 1 introducono modifiche ai commi 30 e 31 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, concernenti sia il termine entro il quale la Regione può determinare un limite demografico minimo dell’unione dei Comuni diverso da quello pari a 10.000, sia i termini (già prorogati dal decreto-legge 29 dicembre 2011, n. 216 «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 febbraio 2012, n. 14) entro i quali i Comuni attuano le novellate disposizioni in tema di obbligo di esercizio associato di funzioni.
In particolare:
– il limite demografico minimo delle unioni è confermato in 10.000 abitanti, salvo diverso limite determinato dalla Regione entro il 1° ottobre 2012 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali ed entro il 1° ottobre 2013 per le altre. Le Regioni, infatti, nelle materie di competenza concorrente e residuale, potranno individuare, previa concertazione con i Comuni da svolgersi nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali (CAL), limiti diversi;
– la durata minima delle convenzioni per l’esercizio obbligatorio delle funzioni in forma associata è fissata in tre anni. Al termine di tale periodo, qualora non si dimostri l’efficacia e l’efficienza nella gestione, i Comuni sono obbligati ad esercitare le funzioni mediante unione;
– sono stati ridefiniti i termini per dare attuazione alla gestione associata tra piccoli Comuni secondo un procedimento articolato in due fasi:
a) entro il 1° gennaio 2013 i Comuni interessati devono svolgere in forma associata almeno tre delle funzioni fondamentali;
b) entro il 1° gennaio 2014 l’obbligo di esercizio associato coinvolge anche le altre sette funzioni.
Rispetto ai termini di attuazione stabiliti, la nuova disciplina prevede che, qualora i Comuni non ottemperino, il prefetto assegna loro un termine perentorio, decorso il quale si attiva il potere sostitutivo del Governo ai sensi dell’art. 8 della legge n. 131 del 2003.
4.2.2.– La giurisprudenza di questa Corte in tema di forme associative di enti locali ha riguardato, segnatamente, le comunità montane, che rappresentano «un caso speciale di unioni di Comuni, create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo più adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, “funzioni proprie”, “funzioni conferite” e funzioni comunali» (così la citata sentenza n. 244 del 2005).
Si è già detto, peraltro, come la competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. sia, in tale ambito, inconferente, giacché l’ordinamento delle comunità montane è riservato alla competenza legislativa residuale delle Regioni, di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost., pur in presenza della qualificazione di dette comunità come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, in quanto le stesse non sono contemplate dall’art. 114 Cost. (oltre che, come detto, dalla citata lettera p).
La Corte, ha, quindi, ritenuto (sentenze n. 237 del 2009 e n. 456 del 2005) che non possono venire in rilievo neppure i principi fondamentali desumibili dal Testo unico sugli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000) e, dunque, non può trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 117, terzo comma, ultima parte, Cost., «la quale presuppone, invece, che si verta nelle materie di legislazione concorrente».
Tuttavia, si è pure affermato (sentenze n. 151 del 2012, n. 91 del 2011, n. 326 del 2010, n. 27 del 2010 e n. 237 del 2009) che un titolo di legittimazione statale per intervenire nell’ambito anzidetto comunque si rinviene nei principi fondamentali di «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., ove la disciplina dettata, nell’esercizio di siffatta potestà legislativa concorrente, sia indirizzata ad obiettivi di contenimento della spesa pubblica.
A questi fini, come messo in rilievo in molteplici occasioni da questa Corte (tra le tante, sentenze n. 236 del 2013, n. 193 del 2012, n. 151 del 2012, n. 182 del 2011, n. 207 del 2010, n. 297 del 2009), il legislatore statale può, con una disciplina di principio, legittimamente imporre alle Regioni e agli enti locali, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali. Vincoli che possono considerarsi rispettosi dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscano un «limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa»; e siano rispettosi del canone generale della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
4.2.3.– Nel caso in esame, le norme denunciate risultano, appunto, decisamente orientate ad un contenimento della spesa pubblica, creando un sistema tendenzialmente virtuoso di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni, che mira ad un risparmio di spesa sia sul piano dell’organizzazione “amministrativa”, sia su quello dell’organizzazione “politica”, lasciando comunque alle Regioni l’esercizio contiguo della competenza materiale ad esse costituzionalmente garantita, senza, peraltro, incidere in alcun modo sulla riserva del comma quarto dell’art. 123 Cost. In definitiva, si tratta di un legittimo esercizio della potestà statale concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica», ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost.
4.3.– Le questioni che investono i commi 3 e 4 dell’art. 19 non sono fondate.
4.3.1.– Le doglianze riguardano l’istituzione e disciplina delle «Unioni di comuni», di cui all’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, come modificato dal comma 3, e si estendono, di riflesso e senza specifica motivazione, al comma 4, del predetto art. 19. La disciplina impugnata prevede, anzitutto, un’unione di Comuni costituita in prevalenza da Comuni montani, che è detta «unione di comuni montani» e può esercitare anche le specifiche competenze di tutela e di promozione della montagna (ex art. 44, secondo comma, Cost.) e delle leggi in favore dei territori montani.
Stabilisce poi che ogni Comune può partecipare ad una sola unione ed è previsto che le unioni di Comuni possono stipulare apposite convenzioni tra loro o con singoli Comuni.
Individua, inoltre, nel dettaglio gli organi dell’unione e le modalità della loro costituzione. Stabilisce che lo statuto individui le funzioni svolte dall’unione e le corrispondenti risorse e non più la disciplina degli organi dell’unione; riconosce in via generale la potestà regolamentare e statutaria.
All’unione sono conferite dai Comuni le risorse umane e strumentali necessarie all’esercizio delle funzioni ad essa attribuite e vengono, quindi, introdotti nuovi vincoli in materia di spesa di personale: infatti, fermi restando i vincoli previsti dalla normativa vigente, la spesa sostenuta per il personale dell’unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli Comuni partecipanti; inoltre, si dispone che, attraverso specifiche misure di razionalizzazione organizzativa e una rigorosa programmazione dei fabbisogni, devono essere assicurati progressivi risparmi di spesa in materia di personale.
È, inoltre, confermato che all’unione competono gli introiti derivanti da tasse, tariffe e dai contributi sui servizi ad essa affidati.
4.3.2.– Le argomentazioni che sono state già sviluppate in precedenza (segnatamente, punti 4.2.2. e 4.2.3.) sono riferibili anche al denunciato comma 3, e si riflettono sul connesso comma 4, considerato che tale disposizione è orientata finalisticamente al contenimento della spesa pubblica, siccome posta da un provvedimento di riesame delle condizioni di spesa e con contenuti armonici rispetto all’impianto complessivo della rimodulazione delle «unioni di comuni».
Dunque, opera anche in questo caso il titolo legittimante della competenza in materia di «coordinamento della finanza pubblica», di cui al comma terzo dell’art. 117 Cost., esercitata dallo Stato attraverso previsioni che si configurano come principi fondamentali e non si esauriscono in una disciplina di mero dettaglio.
Né può ravvisarsi la dedotta violazione dell’art. 119 Cost., giacché non solo è legittimo incidere con una manovra finanziaria sulle risorse degli enti territoriali, purché non siano tali da determinare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa e pregiudizievole per l’esercizio delle funzioni ad essi riservate (sentenze n. 298 del 2009, n. 381 del 2004 e n. 437 del 2001), ma rileva anche il fatto che l’attribuzione alle unioni di Comuni di «introiti derivanti dalle tasse, dalle tariffe e dai contributi» riguarda i «servizi ad esse affidati», sicché non verrebbero sottratte risorse per l’esercizio di funzioni da parte di enti che non fanno parte dell’unione stessa.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto altre disposizioni del decreto-legge oggetto di impugnazione;
riuniti i giudizi;
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, promossa, in riferimento agli artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 della Costituzione, dalla Regione Campania con il ricorso in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettera a), promossa in riferimento agli art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 118, secondo comma, Cost., dalla Regione Puglia con il ricorso in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere da a) a d), del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, Cost., dalla Regione Lazio con il ricorso in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere da b) a d), del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Campania con il ricorso in epigrafe;
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere d) ed e), del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 123, primo e quarto comma, Cost., dalla Regione Puglia con il ricorso in epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 1, lettere da b) ad e), e 3, del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118, primo comma, Cost., dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe;
7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 3 e 4, del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento agli artt. 117, e 118 Cost., dalle Regioni Lazio, Veneto e Campania con i ricorsi in epigrafe;
8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 3, del d.l. n. 95 del 2012, promossa, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera p), terzo e quarto comma, e 119, primo, secondo e sesto comma Cost., dalla Regione Puglia con il ricorso in epigrafe;
9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, promosse, in riferimento all’art. 3, primo comma, lettera b), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) ed all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione autonoma Sardegna con il ricorso in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI