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SENTENZA N. 40  
ANNO 2012  
 
REPUBBLICA ITALIANA  
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO  
LA CORTE COSTITUZIONALE  
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio 
FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, 
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, 
Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, 
 
ha pronunciato la seguente  
SENTENZA  
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto 
a seguito delle note del Presidente del Consiglio dei ministri del 3 dicembre 
2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n. 
52285/181.6/2/07.IX.I, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del 
Tribunale di Perugia con ricorso notificato il 14-19 gennaio 2011, depositato in 
cancelleria il 2 febbraio 2011 ed iscritto al n. 7 del registro conflitti tra 
poteri dello Stato 2010, fase di merito.  
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; 
 
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore 
Giuseppe Tesauro, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice 
Giuseppe Frigo;  
uditi l’avvocato Federico Sorrentino per il Giudice dell’udienza 
preliminare del Tribunale di Perugia e gli avvocati dello Stato Aldo Linguiti e 
Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.  
 
Ritenuto in fatto  
1.– Con ricorso (qualificato come «ordinanza/ricorso») depositato il 15 
giugno 2010, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia – 
nell’ambito di un processo penale affidatogli – ha sollevato conflitto di 
attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio 
dei ministri, in relazione alle note del 3 dicembre 2009, n. 
50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n. 52285/181.6/2/07.IX.I, aventi 
ad oggetto la conferma del segreto di Stato opposto in sede di conclusione delle 
indagini da due persone, poi imputate in detto processo.  
1.1.– Riferisce il ricorrente di doversi pronunciare sulla richiesta di 
rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero nei confronti del generale 
Nicolò Pollari, già direttore del Servizio per le informazioni e la sicurezza 
militare (SISMI) dal 15 ottobre 2001, e di Pio Pompa, consulente dal novembre 
2001 e quindi dipendente del medesimo Servizio dal dicembre 2004 al dicembre 
2006, quale direttore di sezione addetto all’ufficio del direttore.  
Agli imputati è contestato, in primo luogo, il delitto di peculato 
aggravato continuato in concorso (artt. 314, 81, secondo comma, 61, numero 2, e 
110 del codice penale). Secondo l’ipotesi accusatoria, tra il 2001 e il luglio 
2006, il Pompa – su richiesta o, comunque, con l’approvazione del Pollari, suo 
superiore gerarchico – avrebbe svolto attività dirette alla raccolta e 
all’elaborazione di informazioni sulle opinioni politiche, i contatti e le 
iniziative di magistrati, funzionari dello Stato, giornalisti e parlamentari, 
nonché sulle attività di associazioni di magistrati, anche europei, e di 
movimenti sindacali, ritenuti «di parte politica avversa», al fine di commettere 
o di far commettere a terzi diffamazioni, calunnie e abusi di ufficio in loro 
danno. Con ciò, gli imputati si sarebbero appropriati di somme e di risorse 
umane e materiali del SISMI, utilizzandoli per scopi palesemente estranei a 
quelli istituzionali del Servizio, oltre che in violazione delle disposizioni in 
materia di trattamento dei dati personali, di cui all’art. 58, in riferimento 
agli artt. 2 e 11 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in 
materia di protezione dei dati personali).  
Agli imputati è contestato, inoltre, il delitto di violazione di 
corrispondenza aggravata continuata in concorso (artt. 616, primo comma, 81, 
secondo comma, 61, numero 9, e 110 cod. pen.), per avere, con abuso delle 
rispettive funzioni pubbliche, preso cognizione della «corrispondenza 
elettronica» circolante all’interno della lista chiusa dei destinatari delle 
comunicazioni dell’associazione MEDEL (Magistrats européens pour la démocratie 
et les libertés), ledendo, con ciò, la riservatezza del dibattito interno 
all’associazione (fatto accertato il 5 luglio 2006).  
Al solo Pompa è addebitato, infine, il delitto di possesso 
ingiustificato di mezzi di spionaggio (art. 260, primo comma, numero 3, cod. 
pen.), per essere stato colto, il 26 giugno 2007, in possesso di supporti 
informatici atti a fornire notizie che, nell’interesse della sicurezza dello 
Stato, dovevano rimanere segrete, «in quanto in parte protocollate agli atti del 
Servizio, inoltrate ad articolazioni competenti di esso e comunque relative, tra 
l’altro, a vicende militari in materia di terrorismo internazionale».  
Ricevuta la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini 
preliminari – prosegue il ricorrente – tanto il Pollari che il Pompa avevano 
chiesto al pubblico ministero di essere sottoposti a interrogatorio, ai sensi 
dell’art. 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale e in occasione di 
tale atto avevano poi rappresentato con memorie come, per difendersi 
compiutamente dalle accuse loro mosse, essi avrebbero dovuto rivelare notizie 
coperte da segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna corporis» del 
SISMI: quali, in specie, le direttive e gli ordini impartiti dalle competenti 
Autorità di Governo e dal direttore del Servizio agli appartenenti 
all’organismo, la posizione del Pompa all’interno di questo, i suoi rapporti con 
gli altri operatori del Servizio, le risorse utilizzate per la sua attività, 
l’attinenza o meno della documentazione richiamata nei capi d’accusa alla 
sicurezza dello Stato e la sua rilevanza per l’attività istituzionale del SISMI. 
Di conseguenza, gli indagati opponevano il segreto di Stato su tutti i fatti 
descritti nei capi di imputazione.  
A fronte di ciò, il pubblico ministero, con note del 27 ottobre e del 
16 novembre 2009, chiedeva al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi 
dell’art. 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la 
sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), di confermare 
l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro circostanze, la cui 
conoscenza era ritenuta essenziale per la definizione del procedimento, e cioè: 
a) se il SISMI, durante il periodo in cui era stato diretto dal generale 
Pollari, avesse «finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che 
indirettamente, la sede di Roma, via Nazionale, gestita da Pio Pompa»; b) se 
avesse «retribuito economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o 
indirettamente, il citato Pio Pompa o Jennj Tontodimamma»; c) se avesse 
«impartito ordini e direttive ai […] menzionati Pompa e Tontodimamma»; d) se, 
infine, avesse «impartito ordini e direttive ai […] menzionati Pompa e 
Tontodimamma di raccolta di informazioni su magistrati italiani o stranieri». 
 
Con note del 3 e del 22 dicembre 2009, oggetto dell’odierna 
impugnativa, il Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento ai primi 
due punti della richiesta, dichiarava di confermare il segreto di Stato tanto in 
ordine a «modi e forme dirette e indirette di finanziamento per la gestione da 
parte di Pio Pompa della sede del SISMI di via Nazionale, allorché il Servizio 
era diretto da Nicolò Pollari»; quanto in relazione a «modi e forme di 
retribuzione, diretta o indiretta, di Pio Pompa e Jennj Tontodimamma, 
collaboratori prima e dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò Pollari». 
Richiamando la sentenza n. 106 del 2009 di questa Corte, il Presidente del 
Consiglio rilevava come la conferma del segreto si imponesse per l’«esigenza di 
tutela degli interna corporis dell’allora SISMI con riferimento al disvelamento 
di dinamiche interne all’attività del Servizio».  
Il Presidente del Consiglio confermava l’esistenza del segreto anche 
sulle altre due circostanze oggetto della richiesta, osservando che – alla luce 
di quanto precisato nella citata sentenza n. 106 del 2009 – «anche le direttive 
e gli ordini impartiti all’interno del servizio possono costituire interna 
corporis da tutelare, se dalla loro divulgazione vengono in evidenza, come nel 
caso in esame, profili attinenti alle modalità organizzative e a quelle 
tecnico-operative che è opportuno non disvelare»; profili che la vigente 
normativa sul segreto di Stato, e in particolare il decreto del Presidente del 
Consiglio dei ministri 8 aprile 2008 (Criteri per l’individuazione delle 
notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti, delle attività, delle 
cose e dei luoghi suscettibili di essere oggetto di segreto di Stato), 
considererebbero, d’altra parte, «tutelabili al massimo livello».  
Il Presidente del Consiglio dichiarava, quindi, conclusivamente, di 
dover confermare il segreto di Stato su tutte le circostanze dianzi indicate 
«allo scopo di evitare danni gravi agli interessi individuati dal comma 1 
dell’art. 39 della legge n. 124 [del] 2007».  
Il successivo 29 dicembre 2009, il pubblico ministero chiedeva il 
rinvio a giudizio del Pollari e del Pompa, ritenendo che gli elementi raccolti 
nel corso delle indagini preliminari – costituiti da dati non coperti da segreto 
di Stato, acquisiti essenzialmente a seguito della perquisizione e del 
conseguente sequestro operati il 5 luglio 2006 presso la sede del SISMI di via 
Nazionale in Roma – fossero comunque idonei a sostenere l’accusa in giudizio. 
 
Nell’udienza preliminare, il pubblico ministero sosteneva – con 
l’adesione dei difensori delle parti civili – che l’opposizione e la conferma 
del segreto di Stato non potessero assumere rilievo nell’attuale fase 
processuale, ma, semmai, solo nella successiva fase dibattimentale: ciò, in 
quanto gli imputati non avevano contestato la legittimità dell’ingresso nel 
fascicolo processuale di elementi già acquisiti, ma si erano limitati a dedurre 
l’impossibilità di produrre atti – peraltro, non indicati – in tesi necessari 
per la loro difesa, perché costituenti oggetto di segreto di Stato.  
La validità dell’assunto era contestata dai difensori degli imputati, 
secondo i quali l’avvenuta conferma del segreto – concernente notizie essenziali 
per l’accertamento dei fatti e per l’esercizio della difesa – avrebbe imposto, 
al contrario, l’immediata declaratoria di non doversi procedere nei confronti 
degli imputati per l’esistenza del segreto di Stato, secondo quanto previsto 
dall’art. 41, comma 3, della legge n. 124 del 2007.  
1.2.– Disattendendo la tesi del pubblico ministero e delle parti 
civili, il giudice ricorrente ritiene che la questione relativa alla sussistenza 
del segreto di Stato rilevi, in effetti, già nella fase processuale in corso, 
finalizzata ad una prima verifica della fondatezza delle accuse e dell’eventuale 
esistenza di cause di non punibilità o di situazioni ostative al seguito 
dell’azione penale. Nella specie, verrebbe segnatamente in considerazione 
l’impedimento all’esercizio del diritto di difesa degli imputati, derivante 
dall’impossibilità di contrastare le accuse loro mosse adducendo cause di 
giustificazione basate su atti coperti, in assunto, da segreto di Stato.  
Al fine di rendere rilevante tale impedimento, non sarebbe, d’altro 
canto, necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 41 
(e, eventualmente, degli artt. 39 e 40) della legge n. 124 del 2007, così come 
sostenuto dal pubblico ministero e dalle parti civili. Nella sentenza n. 106 del 
2009, questa Corte avrebbe, infatti, già implicitamente riconosciuto la 
conformità a Costituzione delle anzidette norme, omettendo di sollevare avanti a 
sé tale questione di legittimità costituzionale in un caso nel quale uno degli 
imputati aveva parimenti opposto il segreto di Stato, quale ostacolo al compiuto 
esercizio delle sue facoltà difensive.  
1.3.– Tanto premesso, il ricorrente pone in dubbio, tuttavia, la 
legittimità degli atti di conferma del segreto, reputandoli lesivi delle proprie 
attribuzioni riconosciute dalla Costituzione.  
In via preliminare, il ricorrente osserva come la legittimità degli 
atti impugnati debba essere appropriatamente verificata sulla base delle 
previsioni della legge n. 124 del 2007, vigente nel momento in cui il segreto di 
Stato è stato opposto e confermato, e non già di quelle della legge 24 ottobre 
1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le informazioni e la 
sicurezza e disciplina del segreto di Stato), in vigore all’epoca di commissione 
dei fatti di reato contestati agli imputati. Al di là della «portata 
definitoria» di talune disposizioni, la disciplina del segreto di Stato avrebbe, 
infatti, carattere processuale, rimanendo, perciò, soggetta al principio tempus 
regit actum, il quale comporta che, nel caso di successione di leggi nel tempo, 
la nuova disciplina si applichi anche ai procedimenti in corso, quanto alle 
attività non completamente «esaurite» nella vigenza della precedente normativa. 
 
Del resto, la legge del 2007, benché foriera nel suo complesso di 
rilevanti innovazioni, parrebbe in una linea di sostanziale continuità con la 
disciplina previgente, quanto alla delimitazione dell’area degli interessi 
tutelabili a mezzo del segreto di Stato. L’art. 39, comma 1, di detta legge – 
richiamato negli atti impugnati – stabilisce, infatti, sulla falsariga dell’art. 
12 della legge n. 801 del 1977, che «sono coperti dal segreto di Stato gli atti, 
i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia 
idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad 
accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a 
suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle 
relazioni con essi, alla preparazione e difesa militare dello Stato». La 
disposizione recepirebbe, d’altra parte, le indicazioni di questa Corte, che – 
già prima della sentenza n. 106 del 2009 – aveva posto in evidenza come la 
disciplina del segreto di Stato involgesse il supremo interesse della sicurezza 
dello Stato nella sua personalità internazionale – riconosciuto dall’art. 52, in 
correlazione agli artt. 1 e 5 Cost. – vale a dire l’interesse dello 
Stato-comunità alla propria integrità territoriale e alla propria indipendenza, 
coincidente, al limite, con la sopravvivenza dello Stato stesso. Ciò, in quanto 
«un principio di segretezza che possa resistere anche dinanzi ad altri valori 
costituzionali, quali quelli tutelati dal potere giurisdizionale, deve […], a 
sua volta, trovare fondamento e giustificazione in esigenze anch’esse fatte 
proprie e garantite dalla Costituzione e che possano essere poste su un piano 
superiore» (sentenza n. 86 del 1977).  
Ad avviso del ricorrente, l’oggetto del processo penale in corso non 
evocherebbe sotto alcun profilo i supremi interessi dianzi richiamati. 
Risulterebbe, al contrario, evidente – alla luce del complesso delle 
acquisizioni di indagine, recepite nei capi di imputazione – come tutta 
l’attività che, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe stata indebitamente 
finanziata dal SISMI con risorse pubbliche si ponga al di fuori degli scopi 
istituzionali del Servizio.  
A fronte di ciò, resterebbe inconferente il richiamo, parimenti operato 
dagli atti impugnati, al d.P.C.m. 8 aprile 2008, che, a integrazione del citato 
art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007, stabilisce i criteri per 
l’individuazione delle notizie suscettibili di tutela a mezzo del segreto di 
Stato, recando, in allegato, un elenco esemplificativo di materie cui le notizie 
stesse possono attenere (art. 5 del decreto). Se è ben vero, infatti, che 
nell’ambito di tale elenco si rinvengono dei riferimenti (peraltro, gli unici) 
agli «interna corporis» dei servizi informativi (punti 6, 7 e 8), in nessuna 
parte di esso risulta, tuttavia, prevista la possibilità di opporre il segreto 
di Stato in relazione alla concessione di finanziamenti o all’emanazione di 
ordini e direttive per lo svolgimento di attività estranee alle finalità 
istituzionali del Servizio.  
La circostanza risulterebbe tanto più significativa alla luce della 
disposizione dell’art. 26, comma 1, della stessa legge n. 124 del 2007, in forza 
della quale la raccolta e il trattamento delle notizie, da parte del Sistema di 
informazione per la sicurezza, debbono essere finalizzati esclusivamente al 
perseguimento dei suoi scopi istituzionali: precetto che il successivo comma 3 
munisce di energico presidio sanzionatorio, punendo con la reclusione da tre a 
dieci anni (salvo che il fatto costituisca più grave reato) il personale dei 
servizi che istituisca, in qualsiasi forma, «schedari informativi» in violazione 
di esso.  
Rimarchevole sarebbe, altresì, il fatto che l’art. 17 della legge n. 
124 del 2007, nell’introdurre una speciale causa di giustificazione a favore del 
personale dei servizi che ponga in essere condotte previste dalla legge come 
reato, ne subordini espressamente l’operatività alla condizione che si tratti di 
condotte indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi stessi, oltre 
che al rigoroso rispetto dei limiti stabiliti (commi 1 e 6, lettera a).  
1.4.– Sotto diverso profilo, e con particolare riguardo al primo dei 
reati contestati agli imputati (quello di peculato), occorrerebbe anche tenere 
conto – secondo il ricorrente – della rilevanza costituzionale propria della 
materia della spesa pubblica, alla luce dei precetti espressi dagli artt. 3, 81, 
97, 100 e 103 Cost.: precetti dai quali si desumerebbe l’esistenza di un 
generale obbligo dei soggetti pubblici di giustificare l’impiego delle risorse 
di cui dispongono, in conformità alle rispettive finalità istituzionali, e, al 
tempo stesso, l’esigenza che la gestione di dette risorse sia sempre soggetta a 
controllo, anche giurisdizionale.  
A tali principi non si sottrarrebbe il settore dei servizi di 
informazione, relativamente ai quali l’art. 29 della legge n. 124 del 2007 
dispone l’istituzione di una apposita unità previsionale di base nello stato di 
previsione della spesa del Ministero dell’economia e delle finanze, stabilendo, 
altresì, che il relativo regolamento di contabilità venga adottato anche in 
deroga alle norme di contabilità generale dello Stato, ma comunque nel rispetto 
dei principi fondamentali da esse enunciati, nonché di ulteriori specifiche 
disposizioni, che prefigurano forme di controllo preventivo e di rendiconto 
(comma 3, lettere d ed e).  
1.5.– Alla stregua delle considerazioni esposte, sarebbe, dunque, 
contraddittorio riconoscere che determinate condotte, tenute dal personale dei 
servizi al di fuori delle proprie attribuzioni istituzionali, siano sanzionate 
penalmente, e, nello stesso tempo, ammettere che il loro accertamento da parte 
dell’autorità giudiziaria possa venire inibito mediante l’opposizione 
indiscriminata del segreto di Stato sugli «interna corporis». Del pari sarebbe 
contraddittorio richiedere anche ai servizi di informazione il rispetto dei 
principi costituzionali in tema di impiego delle risorse pubbliche e, 
contemporaneamente, consentire che venga precluso l’accesso a qualunque notizia 
relativa alla concreta destinazione di tali risorse.  
Non gioverebbe, in senso contrario, il richiamo operato dalle note 
impugnate alla sentenza n. 106 del 2009 di questa Corte, nella quale pure si 
riconosce che gli «interna corporis» del SISMI sono tutelabili mediante 
l’opposizione del segreto di Stato, al fine di proteggere il Servizio stesso e 
le sue modalità operative e organizzative da ogni indebita pubblicità. Tale 
principio sarebbe stato enunciato, infatti, con riguardo a una situazione 
fattuale sostanzialmente diversa da quella odierna, nella quale venivano in 
rilievo i rapporti tra l’intelligence italiana e quella di altri Stati e la 
connessa esigenza di preservare la «credibilità» internazionale della prima. 
 
Rispetto all’ipotesi di peculato di cui al presente si discute, la 
conferma del segreto di Stato opposto dagli imputati verrebbe, per converso, a 
precludere al giudice penale – prima ancora dell’accertamento dell’esistenza di 
eventuali cause di giustificazione – la verifica del fatto in tutti i suoi 
elementi costitutivi, fornendo agli imputati stessi «una sorta di esimente “in 
bianco”, da spendere a piacimento», senza alcuna possibilità di riscontro da 
parte dell’autorità giudiziaria.  
1.6.– Sotto questo profilo, la non opponibilità del segreto di Stato, 
nei termini di cui alle note impugnate, si desumerebbe dagli stessi principi 
tradizionalmente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, letti alla luce 
della successiva evoluzione della disciplina legislativa della materia, la quale 
si sarebbe mossa nella direzione di un sempre maggiore contemperamento tra gli 
interessi alla cui tutela il segreto di Stato è preordinato e gli altri 
interessi protetti dalla Costituzione.  
Già nella sentenza n. 110 del 1998, questa Corte avrebbe, infatti, 
evidenziato con chiarezza l’impossibilità di configurare una «immunità 
sostanziale» collegata all’attività dei servizi segreti. In aderenza a tale 
indicazione, il legislatore del 2007 – nell’introdurre la scriminante speciale a 
favore del personale dei servizi in precedenza ricordata – avrebbe quindi 
stabilito, proprio per non trasformare la scriminante in una immunità, che non 
possono costituire oggetto di segreto atti, notizie e documenti concernenti le 
condotte tenute da appartenenti ai servizi di informazione in violazione della 
disciplina relativa alla causa di giustificazione considerata (comma 1-bis 
dell’art. 204 cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 40, comma 3, della legge n. 
124 del 2007).  
Alla luce del quadro normativo di riferimento e del «principio di 
proporzionalità», già enucleato dalla precedente sentenza di questa Corte n. 86 
del 1977, le esigenze di riserbo riguardo alle modalità organizzative e 
operative del Servizio – evocate dalla sentenza n. 106 del 2009 – non potrebbero 
costituire, dunque, oggetto di tutela indiscriminata, specie quando vengano in 
considerazione condotte di appartenenti al Servizio aventi carattere criminoso. 
La configurabilità del segreto di Stato rimarrebbe subordinata, di contro, alla 
concreta preminenza degli interessi che esso mira a salvaguardare rispetto agli 
altri beni costituzionalmente protetti, tra cui quello della corretta 
amministrazione della giustizia.  
In questa prospettiva, l’atto con il quale il Presidente del Consiglio 
dei ministri confermi il segreto di Stato opposto dell’ambito di un procedimento 
penale non potrebbe, dunque, prescindere da una congrua motivazione, la quale 
dia conto delle ragioni della prevalenza della tutela degli «interna corporis» 
su ogni altro interesse salvaguardato da norme costituzionali. Lo stesso art. 
41, comma 5, della legge n. 124 del 2007 è, del resto, esplicito nel richiedere 
che la conferma abbia luogo con «atto motivato».  
A fronte di tale disposizione e di quella del comma 8 dello stesso art. 
41, per cui in nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte 
costituzionale, non potrebbe essere considerato, quindi, ancora attuale, nella 
sua assolutezza, il principio enunciato dalla sentenza n. 86 del 1977, secondo 
il quale la decisione del Presidente del Consiglio dei ministri – stante il 
carattere squisitamente «politico» – non sarebbe soggetta ad alcun sindacato 
giurisdizionale, ma esclusivamente al controllo del Parlamento.  
La circostanza che l’atto di conferma del segreto costituisca 
espressione di discrezionalità politica potrebbe valere, bensì, a sottrarlo al 
sindacato dell’autorità giudiziaria ordinaria, ma non anche a quello della Corte 
costituzionale, essendo la Corte chiamata a svolgere funzioni di controllo su 
atti tipicamente politici, come le leggi, nonché a decidere i conflitti di 
attribuzione tra i poteri dello Stato, inclusi quelli titolari di poteri 
politici. Diversamente opinando, d’altro canto, si assisterebbe a un 
inaccettabile abbassamento del livello delle garanzie poste a tutela di funzioni 
anch’esse essenziali dello Stato e di diritti individuali, e si priverebbe, al 
tempo stesso, di ogni concreto significato lo specifico riferimento alla 
possibile proposizione del conflitto di attribuzione contro l’atto di conferma 
del segreto, pure contenuto nell’art. 41, commi 7 e 8, della legge n. 124 del 
2007.  
1.7.– Il ricorrente chiede, pertanto, a questa Corte di dichiarare che 
non spettava al Presidente del Consiglio dei ministri adottare gli atti di 
conferma del segreto di Stato impugnati e, per l’effetto, di annullarli.  
2.– Il ricorso è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 376 del 
2010, «impregiudicata ogni ulteriore e diversa determinazione anche 
relativamente ai profili attinenti alla stessa ammissibilità del ricorso».  
3.– Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, 
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il 
ricorso venga dichiarato in parte inammissibile e, per il resto, infondato.  
3.1.– Svolte alcune considerazioni di carattere generale in ordine alla 
giurisprudenza di questa Corte e alla vigente disciplina legislativa in materia 
di segreto di Stato, l’Avvocatura dello Stato rileva come – contrariamente a 
quanto sostenuto dal giudice ricorrente – le notizie oggetto degli atti 
impugnati rientrino senz’altro nel novero di quelle tutelabili a mezzo del 
segreto di Stato ai sensi del d.P.C.m. 8 aprile 2008. Dette notizie 
risulterebbero, infatti, ricomprese nell’ampia previsione dell’art. 3 del 
decreto, che fa riferimento alle informazioni la cui diffusione sia idonea ad 
arrecare un danno grave ai supremi interessi dello Stato, indicati nel medesimo 
articolo in termini omologhi a quelli dell’art. 39, comma 1, della legge n. 124 
del 2007. Le medesime notizie sarebbero, d’altra parte, agevolmente inquadrabili 
fra quelle inerenti alle attribuzioni, alla programmazione, alla pianificazione, 
all’impiego e alle strutture dei servizi informativi, specificamente menzionate 
nel punto 6 dell’elenco allegato al citato d.P.C.m.: elenco che ha, peraltro, 
carattere meramente esemplificativo. Risulterebbe evidente, in particolare, che 
la divulgazione dei dati relativi all’esistenza e alle modalità dei 
finanziamenti di una sede operativa del Servizio consentirebbe di conoscere i 
modi di ottenimento delle informazioni e i luoghi di svolgimento delle 
operazioni di intelligence, investendo i relativi assetti organizzativi e 
operativi.  
Né varrebbe fare leva, in senso contrario, sulla disciplina penalistica 
contenuta nella legge n. 124 del 2007, in base alla quale la speciale 
scriminante prevista dall’art. 17 non opera rispetto alle attività estranee ai 
compiti istituzionali dei servizi. Nel confermare l’esistenza del segreto di 
Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe certamente inteso 
segretare le attività illegali contestate agli imputati, ma si sarebbe limitato 
a individuare delle notizie destinate a rimanere segrete, sulla base di una 
valutazione, squisitamente politica, dell’idoneità della loro rivelazione a 
nuocere alla sicurezza dello Stato.  
3.2.– Parimenti non condivisibile risulterebbe l’ulteriore argomento 
del ricorrente, stando al quale non si potrebbe, senza cadere in contraddizione, 
considerare punibili le condotte poste in essere dal personale dei servizi per 
fini estranei a quelli istituzionali e, al tempo stesso, lasciare che ne venga 
impedito l’accertamento, mediante l’opposizione – in assunto indiscriminata – 
del segreto di Stato.  
Alla luce di quanto stabilito, in conformità alle indicazioni della 
giurisprudenza di questa Corte, dall’art. 202 cod. proc. pen., come sostituito 
dall’art. 40 della legge n. 124 del 2007, la conferma del segreto di Stato da 
parte del Presidente del Consiglio dei ministri non impedisce al pubblico 
ministero di indagare sui fatti di reato cui si riferisce la notitia criminis in 
suo possesso, e di esercitare, se del caso, l’azione penale, ma inibisce 
all’autorità giudiziaria soltanto l’acquisizione e l’utilizzazione, anche 
indiretta, degli elementi di conoscenza coperti dal segreto.  
L’apposizione del segreto su una o più fonti di prova non è, dunque, 
incompatibile, in linea di principio, con la possibilità di procedere 
all’accertamento del fatto di reato sulla base di elementi autonomi. È solo la 
mancanza di questi ultimi, unitamente all’essenzialità delle fonti di prova 
sottoposte a segreto, a imporre al giudice la dichiarazione di non doversi 
procedere per l’esistenza del segreto di Stato, ai sensi dell’art. 202, comma 3, 
cod. proc. pen.  
In questa prospettiva, l’eventualità che l’opposizione e la conferma 
del segreto vengano, in linea di fatto, a precludere al giudice l’accertamento 
di taluno dei reati sottoposti alla sua cognizione, lungi dal giustificare la 
doglianza di lesione della sfera di attribuzioni riservata al potere 
giudiziario, costituirebbe una evenienza assolutamente fisiologica, come attesta 
proprio la previsione legislativa della declaratoria di non doversi procedere 
ora ricordata.  
3.3.– Privo di fondamento risulterebbe anche l’assunto del ricorrente 
secondo il quale la segretazione dell’esistenza e delle modalità dei 
finanziamenti relativi alla sede di via Nazionale, precludendo l’accesso alle 
informazioni relative alla destinazione dei fondi gestiti dal Servizio, 
contrasterebbe con la necessità che anche i servizi di sicurezza rispettino i 
principi costituzionali in materia di impiego delle risorse pubbliche.  
Il Giudice perugino non avrebbe tenuto adeguato conto, infatti, della 
speciale disciplina dettata dall’art. 29 della legge n. 124 del 2007 – pure da 
lui richiamato – riguardo al controllo sulla gestione dei fondi assegnati ai 
servizi, in correlazione all’assoluta peculiarità delle funzioni che essi sono 
chiamati a svolgere. Detto controllo sarebbe congegnato in modo da non 
precludere la verifica della rispondenza della gestione alle finalità 
istituzionali, articolandosi in un controllo successivo sulla legittimità e 
regolarità della gestione stessa, mediante l’esame del bilancio consuntivo da 
parte di un ufficio della Corte dei conti distaccato presso il Dipartimento 
delle informazioni per la sicurezza (DIS), e in un controllo preventivo sugli 
atti di gestione delle spese ordinarie, da parte di un ufficio – parimenti 
distaccato presso il DIS – facente capo all’Ufficio bilancio e ragioneria della 
Presidenza del Consiglio dei ministri (art. 29, comma 3, lettere c e d, della 
legge n. 124 del 2007). Il riserbo sulle relative informazioni risulterebbe 
assicurato dal vincolo del segreto, cui i componenti dei predetti uffici 
distaccati sono espressamente tenuti (art. 29, comma 3, lettera e).  
La lettera f) del citato art. 29 attribuisce, inoltre, in via esclusiva 
ai responsabili dei servizi la competenza ad adottare gli atti di gestione delle 
spese riservate, con obbligo di rendiconto trimestrale e di relazione finale 
annuale al Presidente del Consiglio dei ministri, prefigurando, così, un 
controllo di tipo esclusivamente politico su dette spese; mentre la lettera g) 
impone la trasmissione al Comitato parlamentare per la sicurezza della 
Repubblica (COPASIR) del consuntivo della gestione finanziaria delle spese 
ordinarie, nonché la presentazione a tale organo parlamentare di un’informativa 
semestrale sulle singole linee essenziali della gestione finanziaria delle spese 
riservate.  
In tale quadro, non sarebbe, dunque, affatto anomala la segretazione 
dell’esistenza e delle modalità dei finanziamenti di una singola struttura del 
Servizio.  
3.4.– Non significativa sarebbe, per altro verso, la circostanza – su 
cui il ricorrente pone l’accento – che, nel caso di specie, gli interna corporis 
del SISMI non vengano in considerazione con riferimento ai rapporti tra 
l’intelligence italiana e quella di altri Stati, diversamente che nella 
fattispecie esaminata dalla sentenza n. 106 del 2009.  
La conferma del segreto di Stato, ritenuta legittima da tale sentenza, 
è stata, infatti, giustificata non soltanto con la necessità di preservare la 
credibilità del Servizio italiano nell’ambito dei rapporti internazionali, ma 
anche, e più in generale, con l’esigenza – intrinseca alla qualità stessa del 
Servizio – di porre le proprie modalità organizzative e operative al riparo 
dagli ovvi ed esiziali rischi di una indistinta conoscibilità.  
3.5.– Destinato all’insuccesso sarebbe, altresì, il tentativo del 
ricorrente di far emergere una discontinuità tra la giurisprudenza di questa 
Corte antecedente alla legge n. 124 del 2007 e la sentenza n. 106 del 2009, con 
riguardo ai limiti di sindacabilità degli atti di conferma del segreto di Stato. 
 
Detta sentenza avrebbe ribadito, in realtà, senza riserve il 
consolidato principio per cui le modalità di esercizio del potere di 
individuazione delle notizie destinate a rimanere segrete nel supremo interesse 
alla sicurezza dello Stato, spettante al Presidente del Consiglio dei ministri, 
sono soggette a un sindacato esclusivamente parlamentare, stante la natura 
eminentemente politica delle sottostanti valutazioni e la spettanza al solo 
Parlamento del controllo nel merito delle più alte e gravi decisioni 
dell’Esecutivo. Tale principio – in precedenza riflesso nella disciplina dettata 
dall’art. 16 della legge n. 801 del 1977 – sarebbe stato, d’altra parte, 
pienamente confermato dalla legge n. 124 del 2007, nel regolare in modo più 
articolato il controllo esercitato dal COPASIR sulla politica informativa per la 
sicurezza dello Stato (art. 31).  
3.6.– Neppure potrebbe accedersi, infine, alla tesi del Giudice 
perugino, secondo la quale l’atto di conferma del segreto resterebbe comunque 
sindacabile, sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione, dalla Corte 
costituzionale in sede di conflitto di attribuzione, quanto meno al fine di 
verificare «il rispetto dei limiti che inquadrano in un ambito 
costituzionalmente definito ed accettabile l’avvenuta opposizione/conferma del 
segreto».  
Tale motivo di ricorso sarebbe inammissibile per genericità, stante la 
«palese […] inconsistenza» del parametro costituzionale alla cui stregua la 
Corte dovrebbe esercitare il suo ipotetico sindacato.  
La tesi del ricorrente risulterebbe, in ogni caso, manifestamente 
infondata. L’art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione 
e sul funzionamento della Corte costituzionale), con disposizione di chiara 
valenza sistematica, impone infatti alla Corte, nei giudizi di legittimità 
costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, di astenersi da 
ogni valutazione di tipo politico e da ogni sindacato sull’uso del potere 
discrezionale del Parlamento. La natura politica del potere di conferma del 
segreto di Stato renderebbe la posizione del Presidente del Consiglio dei 
ministri assimilabile, per questo verso, a quella del Parlamento: con la 
conseguenza che, anche in sede di risoluzione dei conflitti tra poteri dello 
Stato insorti in tale materia, la Corte non potrebbe decidere sulla base di 
valutazioni di tipo politico, ma solo sulla scorta di considerazioni di stretto 
diritto positivo.  
3.7.– In conclusione – secondo il resistente – gli atti impugnati 
risulterebbero pienamente legittimi, in quanto sorretti da motivazione non 
arbitraria o irrazionale, che si concreta nel riferimento alla riconducibilità 
delle notizie in essi indicate alle ipotesi normativamente previste di 
opposizione e conferma del segreto di Stato. Ciò che manca – né potrebbe essere 
altrimenti, a meno di vanificare le stesse ragioni dell’apposizione del segreto 
– è solo «la specifica indicazione delle ragioni di opportunità e soprattutto 
della valutazione di pertinenza delle circostanze prese in considerazione con le 
ipotesi normativamente ora previste nell’allegato al d.P.C.m. 8 aprile 2008». 
 
4.– In prossimità dell’udienza pubblica, il giudice ricorrente ha 
depositato una memoria illustrativa, insistendo per l’accoglimento del ricorso. 
 
4.1.– In essa egli rammenta come il procedimento penale da cui il 
conflitto trae origine abbia preso avvio a seguito del sequestro eseguito il 5 
luglio 2006 dalla Procura della Repubblica di Milano, nell’ambito di altro 
procedimento, presso la sede del SISMI di via Nazionale in Roma, gestita da Pio 
Pompa. Nell’occasione, era stato rinvenuto un archivio contenente un gran numero 
di dossier sulla vita, sull’attività e sugli orientamenti politici di funzionari 
dello Stato, giornalisti, parlamentari e magistrati e sulle attività di 
movimenti sindacali e associazioni di magistrati. Alla luce dei documenti 
sequestrati, la raccolta di informazioni sarebbe dovuta servire di base per 
iniziative volte a «delegittimare», tramite diffamazioni e calunnie, i soggetti 
«monitorati», in quanto «vicini a una determinata parte politica», avversa alla 
maggioranza di Governo del momento.  
Si tratterebbe di materiale «inquietante», al punto da aver indotto il 
Parlamento a introdurre, con la legge n. 124 del 2007 – proprio a fronte dello 
scandalo seguito al sequestro di via Nazionale – il reato (severamente punito) 
di istituzione e utilizzazione di schedari informativi per finalità estranee 
agli scopi istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza, 
unitamente all’espresso divieto di istituzione, da parte del Dipartimento delle 
informazioni per la sicurezza (DIS), dell’Agenzia informazioni e sicurezza 
esterna (AISE) e dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI), di 
archivi diversi da quelli la cui esistenza sia stata ufficialmente comunicata al 
COPASIR (art. 26).  
Sarebbe evidente, d’altro canto, come la formazione di dossier su 
magistrati, funzionari e giornalisti, ove giustificata solo dalle loro (reali o 
presunte) idee politiche e finalizzata a screditarli, non risponda alle finalità 
istituzionali dei servizi, ma costituisca, al contrario, una «attività deviata», 
«ai confini con l’eversione costituzionale». In nessun caso essa potrebbe 
ritenersi, quindi, coperta da segreto di Stato: secondo il costante orientamento 
della Corte costituzionale e alla luce di quanto stabilito dapprima dall’art. 12 
della legge n. 801 del 1977 e, oggi, dall’art. 39 della legge n. 124 del 2007, 
possono essere, infatti, oggetto di segreto di Stato le sole notizie la cui 
diffusione esponga a pericolo un ristretto catalogo di interessi “superiori” 
(integrità dello Stato anche in relazione ad accordi internazionali, difesa 
delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, indipendenza dello 
Stato rispetto agli altri Stati, relazioni internazionali, preparazione e difesa 
militare dello Stato). L’accertamento delle responsabilità penali per la 
formazione dei dossier rinvenuti in via Nazionale non solo non porrebbe affatto 
in pericolo i predetti interessi, ma, al contrario, sarebbe esso stesso 
necessario per la difesa di una istituzione posta dalla Costituzione a suo 
fondamento, vale a dire la magistratura.  
4.2.– Tanto puntualizzato, il Giudice ricorrente rileva, altresì, come 
il Pollari e il Pompa, nelle memorie, rispettivamente, del 27 luglio e del 12 
novembre 2009, si fossero entrambi difesi dal primo dei reati loro contestati 
(quello di peculato) sostenendo che i documenti sequestrati sarebbero stati 
raccolti, per la quasi totalità, dal Pompa anteriormente alla sua assunzione 
alle dipendenze del SISMI, e, in parte, anche prima dell’inizio della sua 
collaborazione esterna con il Servizio, avvalendosi di mezzi e risorse 
personali. Detta documentazione sarebbe stata, inoltre, formata sulla base di 
notizie tratte da organi di informazione e da internet.  
Gli indagati avevano, tuttavia, contemporaneamente dedotto che, «per 
fornire ulteriori e decisivi elementi idonei a dimostrare in modo inconfutabile 
la totale insussistenza dei fatti ascritti», essi avrebbero dovuto riferire 
notizie coperte da segreto di Stato, concernenti gli «interna corporis» del 
Servizio. Entrambi avevano, quindi, opposto il segreto di Stato «su tutti i 
fatti descritti nell’ipotesi accusatoria».  
Ad avviso del ricorrente, vi sarebbe una evidente contraddizione logica 
tra la tesi difensiva “principale” e l’opposizione del segreto. Se fosse vero, 
infatti, che il Pompa ha formato i dossier a proprie spese, si tratterebbe di 
un’attività del tutto estranea agli interna corporis del SISMI. Soprattutto, 
però, non si comprenderebbe come le notizie che entrambi gli indagati hanno 
sostenuto essere coperte da segreto di Stato possano valere a scagionare, al 
tempo stesso, sia l’uno che l’altro. Affermando di non poter dimostrare la 
propria innocenza se non svelando gli interna corporis del Servizio, il Pompa 
avrebbe, infatti, implicitamente sostenuto di aver agito in esecuzione di ordini 
e direttive di un suo superiore (con conseguente operatività della scriminante 
di cui all’art. 51 cod. pen.). Opponendo nei medesimi termini il segreto, il 
Pollari avrebbe lasciato intuire l’esatto contrario, ossia che esisterebbero 
prove del fatto che il Pompa abbia agito senza che egli, all’epoca direttore del 
Servizio, ne sapesse alcunché. In un simile contesto, non potrebbe quindi non 
sorgere il sospetto che almeno uno degli indagati abbia opposto il segreto, non 
già a tutela della salus rei publicae, quanto piuttosto per sottrarsi 
all’accertamento della sua responsabilità penale.  
Considerazioni similari varrebbero anche in rapporto alla linea 
difensiva degli indagati relativa al secondo capo di imputazione (violazione di 
corrispondenza). Entrambi gli indagati avevano sostenuto, infatti, da un lato, 
che la corrispondenza interna all’associazione MEDEL sarebbe stata scaricata da 
siti internet liberamente accessibili, e, dall’altro, di trovarsi, tuttavia, 
nell’impossibilità di dimostrare in modo inconfutabile l’insussistenza del 
fatto, per «l’esistenza del segreto di Stato su circostanze fondamentali per la 
propria difesa»: segreto che avevano, quindi, nuovamente opposto «su tutti i 
fatti descritti nel capo di imputazione».  
Nei medesimi ampi termini il segreto di Stato era stato opposto, 
infine, dal Pompa in relazione al terzo reato, a lui esclusivamente ascritto 
(possesso di notizie che nell’interesse dello Stato dovevano rimanere segrete). 
 
In sostanza, dunque, gli indagati non avevano opposto il segreto di 
Stato a fronte di una specifica domanda loro rivolta dal pubblico ministero, o 
comunque in riferimento a una determinata notizia, ma lo avevano opposto in modo 
generico e onnicomprensivo su tutti i fatti loro contestati, asserendo che tale 
segreto sarebbe stato di ostacolo all’articolazione delle proprie difese e 
sostenendo, poi – in sede di udienza preliminare, dopo che era intervenuta la 
conferma del Presidente del Consiglio dei ministri – che, a fronte di ciò, il 
Giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto necessariamente pervenire alla 
dichiarazione di non doversi procedere nei confronti di entrambi.  
Al riguardo, il ricorrente dubita, tuttavia, che l’opposizione del 
segreto di Stato possa avere un oggetto così ampio e generico, da impedirgli di 
conoscere «l’intera fenomenologia del fatto in tutti i suoi elementi 
costitutivi». È, in effetti, possibile che una o più prove dell’esistenza di una 
causa di giustificazione, ovvero dell’estraneità dell’imputato ai fatti a lui 
addebitati, siano coperte da segreto di Stato, ma – affinché ciò possa portare a 
una pronuncia di non luogo a procedere – occorrerebbe quanto meno un «“principio 
di prova”, ovvero la delimitazione del segreto in un contesto difensivo univoco 
e non contraddittorio».  
4.3.– Il ricorrente osserva, per altro verso, come il pubblico 
ministero, con note del 27 ottobre e del 16 novembre 2009, abbia chiesto al 
Presidente del Consiglio dei ministri di confermare l’opposizione del segreto su 
quattro distinte circostanze, ritenute essenziali ai fini del procedimento 
penale.  
Con riferimento ai primi due punti della richiesta, la conferma del 
segreto sarebbe illegittima sotto un duplice profilo.  
In primo luogo, perché risulterebbe frutto di un travisamento 
dell’oggetto della richiesta. La Procura della Repubblica aveva chiesto, 
infatti, la conferma del segreto riguardo al «se» la sede di via Nazionale fosse 
stata finanziata dal SISMI, durante il periodo in cui era stato diretto dal 
Pollari, e al «se» il Pompa e la Tontodimamma fossero stati retribuiti dal 
Servizio. Il Presidente del Consiglio avrebbe confermato invece il segreto su 
circostanze diverse e ulteriori, non essenziali per il procedimento penale: vale 
a dire, non sull’«esistenza», ma sui «modi» e sulle «forme» di detto 
finanziamento e di dette retribuzioni.  
La conferma sarebbe illegittima, in secondo luogo, perché la richiesta 
riguardava, per tale parte, circostanze palesemente non segrete. Sarebbe, 
infatti, notorio che il Pompa e la Tontodimamma siano stati alle dipendenze del 
SISMI, al punto che le qualifiche da essi rivestite risultano riaffermate dallo 
stesso Presidente del Consiglio dei ministri nelle note impugnate. Di 
conseguenza, risulterebbe del tutto pacifico che essi venissero retribuiti dal 
Servizio, in quanto collaboratori prima e dipendenti poi. Egualmente notoria 
sarebbe la circostanza che l’appartamento di via Nazionale nel quale è stato 
effettuato il sequestro fosse una sede del SISMI. Tale circostanza sarebbe 
stata, in effetti, anch’essa ribadita nelle note impugnate ed emergerebbe dalla 
stessa motivazione della sentenza n. 106 del 2009 di questa Corte – occupatasi, 
sotto altro profilo, del sequestro in questione – senza che nessuno, nel corso 
del giudizio, avesse dedotto trattarsi di una notizia coperta da segreto. 
D’altra parte, proprio perché si trattava di una sede del SISMI, sarebbe ovvio – 
e non certo segreto – che essa venisse finanziata dal Servizio.  
Spostando l’attenzione dall’esistenza delle retribuzioni e dei 
finanziamenti alle «forme» e ai «modi» dei medesimi, le note del Presidente del 
Consiglio porterebbero all’assurdo risultato di rendere non utilizzabili nel 
processo circostanze ormai di pubblico dominio, la cui diffusione non creerebbe, 
dunque, alcun pericolo per le esigenze primarie che il segreto di Stato mira a 
tutelare.  
Un discorso analogo varrebbe anche in rapporto alla conferma del 
segreto sul terzo punto della richiesta. L’oggetto di quest’ultima era 
unicamente il fatto che il Pompa e la Tontodimamma ricevessero ordini o 
direttive dal SISMI, e non già – come sembrerebbero supporre gli atti impugnati 
– l’esistenza di una specifica direttiva o la sua esibizione. D’altra parte, 
essendo notorio che il Pompa e la Tontodimamma siano stati alle dipendenze del 
Servizio, dovrebbe risultare pacifico – e non già segreto – che a essi venissero 
impartiti ordini e direttive.  
Una ulteriore ragione di illegittimità degli atti impugnati, in 
rapporto ai tre punti in questione, risiederebbe nel fatto che il segreto 
potrebbe riguardare solo notizie o atti specifici, non essendo ipotizzabile che 
tutte le retribuzioni dei dipendenti dei servizi di informazione, tutte le spese 
sostenute per le loro sedi e tutte le direttive ad essi impartite siano coperte 
da segreto di Stato, e perciò non acquisibili e non utilizzabili dall’autorità 
giudiziaria.  
In realtà, il vero e unico punto nodale – tra quelli oggetto della 
richiesta di conferma del segreto di Stato – ai fini della verifica della 
fondatezza delle difese dei due indagati sarebbe il quarto: sapere, cioè, se, 
nel procedere alla raccolta di informazioni su magistrati e altri soggetti 
considerati «ostili», il Pompa avesse o meno agito in esecuzione di ordini o 
direttive del Servizio.  
Anche in relazione a tale punto, la conferma del segreto risulterebbe, 
peraltro, illegittima. Ove, infatti, una direttiva nei sensi indicati non 
esistesse, non si comprenderebbe quale sia l’oggetto del segreto. Qualora, al 
contrario, il direttore del SISMI avesse ordinato al Pompa e alla Tontodimamma 
la formazione dei dossier in questione, si tratterebbe di una gravissima 
deviazione dagli scopi istituzionali del Servizio, ai limiti del tentativo di 
eversione costituzionale, con la conseguenza che una simile direttiva non 
potrebbe mai essere coperta dal segreto di Stato.  
4.4.– Gli atti impugnati sarebbero, infine, illegittimi perché, 
rendendo impossibile l’accertamento penale dei fatti, trasformerebbero 
l’opposizione del segreto di Stato in una sorta di «esimente in bianco».  
Al riguardo, il ricorrente ricorda come il rapporto tra diritto di 
difesa dell’imputato e segreto di Stato sia stato al centro di un ampio 
dibattito. Nel vigore del codice di procedura penale del 1930, la giurisprudenza 
di legittimità aveva, in particolare, escluso che la disposizione di cui 
all’art. 352 di detto codice, in tema di opposizione del segreto di Stato, 
potesse applicarsi, oltre che al testimone, anche all’imputato, il quale, da un 
lato, aveva ampia libertà di articolare la propria difesa, anche rifiutandosi di 
rispondere alle domande che gli venivano rivolte, e, dall’altro, qualora si 
fosse trovato nella necessità di rivelare fatti coperti da segreto di Stato a 
fini difensivi, doveva ritenersi legittimato a farlo, rimanendo la sua condotta 
scriminata dall’art. 51 cod. pen.  
Più di recente, il problema si era, peraltro, riproposto nel corso del 
processo relativo al sequestro di persona ai danni di [Nasr Osama Mustafa 
Hassan, alias] Abu Omar – da cui sono scaturiti i conflitti di attribuzione 
decisi dalla sentenza n. 106 del 2009 – giacché anche nell’occasione il generale 
Pollari aveva dedotto che esistevano prove della sua innocenza, non producibili 
in giudizio perché coperte da segreto di Stato.  
Prima ancora che la Corte costituzionale si pronunciasse, era 
intervenuto, tuttavia, il legislatore con la legge n. 124 del 2007, il cui art. 
41 vieta in termini generali ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli 
incaricati di pubblico servizio di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto 
di Stato, e disciplina l’opposizione del segreto nel processo penale da parte di 
soggetti diversi dai testimoni, ivi compresi, dunque – secondo il ricorrente – 
gli imputati e le persone sottoposte alle indagini.  
La citata disposizione – scaturita da un intenso dibattito parlamentare 
– non avrebbe, peraltro, affatto previsto che alla mera deduzione, da parte 
dell’imputato, dell’esistenza di non ben definite prove della sua innocenza 
coperte da segreto di Stato debba automaticamente seguire una pronuncia di 
proscioglimento. Essa avrebbe adottato, di contro, una soluzione «aperta» 
riguardo al problema dell’operatività della scriminante di cui all’art. 51 cod. 
pen., demandando, in sostanza, il bilanciamento dei valori in gioco – diritto di 
difesa e tutela del segreto – alle scelte difensive dell’imputato e alla 
valutazione del giudice.  
In proposito, occorrerebbe anche considerare che, a differenza della 
legge n. 801 del 1977, la quale non delineava alcuna ipotesi di immunità 
sostanziale collegata all’attività dei servizi informativi (come rilevato anche 
dalla sentenza n. 110 del 1998 di questa Corte), la legge n. 124 del 2007 ha 
invece previsto una scriminante speciale per il personale dei Servizi di 
informazione e di sicurezza, fissandone, tuttavia, in modo puntuale presupposti 
e limiti di operatività, in modo da prevenire qualsiasi abuso (artt. 17, 18, 19 
e 39). In particolare, è previsto, da un lato, che la scriminante operi solo in 
rapporto alle condotte indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi e 
previa autorizzazione scritta del Presidente del Consiglio dei ministri; 
dall’altro, che la Corte costituzionale – adita in sede di conflitto di 
attribuzione – debba verificare l’esistenza dell’autorizzazione e valutarne la 
legittimità.  
Alla luce di ciò, sarebbe, dunque, impensabile che gli agenti dei 
servizi imputati di un reato possano sottrarsi al giudizio penale semplicemente 
affermando che esistono prove della loro innocenza non acquisibili in quanto 
coperte da segreto di Stato. Proprio questa strategia difensiva sarebbe stata, 
per contro, avallata dal Presidente del Consiglio dei ministri nel caso di 
specie.  
4.5.– A fronte di tutto ciò, sarebbe quindi necessario, ad avviso del 
ricorrente, da parte di questa Corte verificare la reale esistenza delle prove 
allegate dagli imputati e la legittimità della loro segretazione.  
Ciò non significherebbe sindacare nel merito l’esercizio del potere di 
segretazione – operazione, questa, preclusa alla Corte, come ribadito dalla 
sentenza n. 106 del 2009 – ma soltanto controllare, in fatto, che non vi sia 
stato un palese abuso dell’istituto del segreto di Stato. Tale controllo 
potrebbe essere agevolmente svolto dalla Corte, nell’esercizio dei propri poteri 
istruttori, chiedendo al Presidente del Consiglio dei ministri l’ostensione 
degli atti in questione (se esistenti), non essendole il segreto di Stato in 
nessun caso opponibile (art. 41, comma 8, della legge n. 124 del 2007).  
D’altra parte, ove pure riscontrasse l’esistenza di atti interni al 
Servizio che possano scriminare uno o entrambi gli imputati, la Corte non 
potrebbe comunque esimersi dal verificare se essi rispondano ai fini 
istituzionali dell’organismo, giacché, in caso contrario, essi non potrebbero 
essere considerati «interna corporis», né coperti da segreto di Stato.  
5.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una 
memoria, insistendo per il rigetto del ricorso.  
Nel ribadire e sviluppare le precedenti eccezioni e difese, il 
resistente si sofferma, in particolare, sulla non configurabilità del denunciato 
vulnus ai principi costituzionali in tema di controllo sulla gestione delle 
risorse pubbliche, rilevando come – alla luce della speciale disciplina dettata 
dall’art. 29 della legge n. 124 del 2007, già richiamata in sede di costituzione 
in giudizio – i dati relativi ai finanziamenti dei servizi e alle modalità di 
gestione di tali finanziamenti debbano ritenersi, non già semplicemente 
suscettibili di segretazione, ma addirittura senz’altro coperti da segreto, 
nell’ottica di garantire l’efficienza e la funzionalità dei servizi stessi.  
Né, d’altro canto, la suddetta disciplina speciale – segnatamente nella 
parte in cui prefigura un controllo di tipo esclusivamente politico sulla 
gestione delle spese riservate – contrasterebbe, sotto alcun profilo, con i 
parametri evocati dal ricorrente. Non pertinente sarebbe, infatti, il 
riferimento all’art. 81 Cost., trattandosi di disposizione che non riguarda la 
disciplina del controllo sulla gestione finanziaria dello Stato, ma la 
formazione della legge di bilancio. Dalla disposizione combinata degli artt. 100 
e 103 Cost. – che attribuiscono alla Corte dei conti competenze relative al 
controllo preventivo e successivo in materia di contabilità pubblica e gestione 
finanziaria – non potrebbe, inoltre, desumersi l’illegittimità della sottrazione 
al sindacato giurisdizionale della gestione dei fondi riservati assegnati ai 
servizi, in quanto la concreta delimitazione delle competenze della Corte dei 
conti resterebbe comunque affidata alla discrezionalità del legislatore. Nella 
specie, d’altra parte, la previsione di un controllo esclusivamente politico 
sulle spese riservate non sarebbe affatto irragionevole, né contrastante con il 
principio del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, 
enunciato dall’art. 97 Cost., trovando giustificazione nella specificità delle 
funzioni assolte dai servizi.  
 
Considerato in diritto  
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia, 
nell’ambito di un processo penale che vede imputati un ex direttore del SISMI 
(il generale Nicolò Pollari) e un ex collaboratore e poi dipendente del medesimo 
Servizio (Pio Pompa), ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello 
Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alle 
note del 3 dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 dicembre 2009, n. 
52285/181.6/2/07.IX.I, con le quali è stato confermato – nei termini ivi 
indicati – il segreto di Stato opposto dai sunnominati Pollari e Pompa in 
occasione dell’interrogatorio reso ai sensi dell’art. 415-bis, comma 3, del 
codice di procedura penale.  
2.– Giova, al riguardo, preliminarmente riepilogare, nei suoi termini 
essenziali, la vicenda che ha dato origine al conflitto, quale emerge dalle 
deduzioni e dalle produzioni documentali delle parti.  
Il processo di cui il ricorrente è investito trae origine dalla 
perquisizione e dal conseguente sequestro eseguiti il 5 luglio 2006 dalla 
Procura della Repubblica di Milano, nell’ambito di altro procedimento, presso la 
sede del SISMI di via Nazionale in Roma, che si deduce gestita dal Pompa. 
Nell’occasione, era rinvenuto un archivio contenente numerosi dossier sulla 
vita, sull’attività e sugli orientamenti politici di magistrati, funzionari 
statali, giornalisti e parlamentari e sulle attività di movimenti sindacali e 
associazioni di magistrati. Secondo l’ipotesi accusatoria, alla luce dei 
documenti sequestrati, detta raccolta di informazioni avrebbe avuto come 
obiettivo quello di screditare, mediante diffamazioni, calunnie e abusi di 
ufficio, i soggetti interessati, considerati «ostili» in ragione delle loro idee 
politiche.  
A seguito di ciò, il Pollari e il Pompa erano sottoposti a procedimento 
penale in relazione – per quanto qui interessa – a due ipotesi di reato. Da un 
lato, quella di peculato aggravato continuato, per essersi appropriati, in 
concorso tra loro, di somme e di risorse materiali e umane del SISMI, 
impiegandoli per scopi palesemente estranei alle finalità istituzionali del 
Servizio, quale l’anzidetta attività di raccolta e trattamento di informazioni. 
Dall’altro, quella di violazione di corrispondenza aggravata continuata, per 
aver preso cognizione, sempre in concorso fra loro, della corrispondenza 
informatica inerente a una associazione di magistrati europei (la MEDEL). Al 
solo Pompa era contestato, inoltre, il delitto di cui all’art. 260, numero 3, 
del codice penale, per essere stato colto successivamente in possesso di 
documenti informatici atti a fornire notizie destinate a rimanere segrete 
nell’interesse dello Stato.  
Ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, gli 
indagati chiedevano e ottenevano di essere sottoposti a interrogatorio, ai sensi 
dell’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. In tale sede, attraverso memorie che 
depositavano, contestavano entrambi gli addebiti loro mossi. Quanto al peculato, 
assumevano che la documentazione sequestrata apparteneva al Pompa, il quale 
l’avrebbe formata con risorse personali – per la quasi totalità prima della sua 
assunzione alle dipendenze del SISMI e, in parte, addirittura prima dell’inizio 
della sua collaborazione esterna col Servizio – avvalendosi di informazioni 
tratte da organi di informazione e da internet. Quanto alla violazione di 
corrispondenza, sostenevano – fermo quanto precede – che il materiale era stato 
scaricato da siti internet liberamente accessibili. Gli indagati soggiungevano, 
tuttavia, che per fornire ulteriori e decisivi elementi, atti a dimostrare in 
modo inconfutabile l’insussistenza dei fatti, avrebbero dovuto rivelare notizie 
coperte da segreto di Stato, in quanto inerenti agli «interna corporis» del 
Servizio (quali le direttive e gli ordini impartiti dalle autorità governative e 
dal direttore agli appartenenti all’organismo, la posizione del Pompa 
all’interno di questo, le risorse utilizzate per la sua attività e via dicendo). 
Di conseguenza, opponevano il segreto di Stato su tale complesso di circostanze 
e, in definitiva, «su tutti i fatti descritti» nei capi di imputazione. Analoga 
posizione assumeva il Pompa quanto al delitto di possesso di notizie destinate a 
rimanere segrete nell’interesse dello Stato, a lui ascritto in via esclusiva. 
 
A fronte di ciò, il pubblico ministero chiedeva al Presidente del 
Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 41 della legge 3 agosto 2007, n. 124 
(Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina 
del segreto), di confermare l’esistenza del segreto di Stato riguardo a quattro 
circostanze, la cui conoscenza era ritenuta essenziale per la definizione del 
procedimento; vale a dire se il SISMI, nel periodo in cui era stato diretto dal 
Pollari: a) avesse «finanziato in qualsiasi modo e forma, sia direttamente che 
indirettamente», la sede di via Nazionale, gestita dal Pompa»; b) avesse 
«retribuito economicamente, in qualsiasi modo e forma, direttamente o 
indirettamente», il Pompa o Jennj Tontodimamma; c) avesse «impartito ordini e 
direttive» ai medesimi; d) avesse, infine, «impartito ordini e direttive» al 
Pompa o alla Tontodimamma «di raccolta di informazioni su magistrati italiani o 
stranieri».  
Con le note impugnate, il Presidente del Consiglio dei ministri 
confermava il segreto relativamente a «modi e forme dirette e indirette di 
finanziamento per la gestione da parte di Pio Pompa della sede del SISMI in via 
Nazionale, a Roma, allorché il Servizio era diretto da Nicolò Pollari»; a «modi 
e forme di retribuzione, diretta o indiretta, di Pio Pompa e di Jennj 
Tontodimamma, collaboratori prima e dipendenti poi del SISMI, diretto da Nicolò 
Pollari»; nonché in relazione alle direttive e agli ordini impartiti al Pompa e 
alla Tontodimamma all’interno del Servizio. La conferma del segreto veniva 
motivata con l’esigenza di tutela degli «interna corporis» del SISMI, 
nell’ottica di non rendere di pubblico dominio le modalità di organizzazione e 
le tecniche operative del Servizio: profili che – alla luce di quanto chiarito 
da questa Corte con la sentenza n. 106 del 2009, nonché di quanto stabilito 
dalla vigente normativa, e segnatamente dal d.P.C.m. 8 aprile 2008 – 
rientrerebbero tra quelli suscettibili di protezione a mezzo del segreto di 
Stato.  
Ad avviso del giudice ricorrente, gli atti impugnati – da reputare 
rilevanti ai fini dei provvedimenti che egli è chiamato ad adottare a 
conclusione dell’udienza preliminare – sarebbero illegittimi sotto più profili 
e, di conseguenza, lesivi delle proprie attribuzioni giurisdizionali, 
costituzionalmente garantite.  
3.– Va confermata, anzitutto, l’ammissibilità del conflitto – già 
dichiarata da questa Corte, in sede di prima e sommaria delibazione, con 
l’ordinanza n. 376 del 2010 – sussistendone i presupposti soggettivi e 
oggettivi.  
Quanto ai primi, sussiste la legittimazione attiva del ricorrente 
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Perugia, a fronte della 
costante giurisprudenza della Corte, che riconosce ai singoli organi 
giurisdizionali la legittimazione a essere parti nei giudizi per conflitto di 
attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto competenti, in posizione di piena 
indipendenza garantita dalla Costituzione, a dichiarare definitivamente, 
nell’esercizio delle relative funzioni, la volontà del potere cui appartengono 
(con specifico riferimento ai conflitti concernenti il segreto di Stato, 
sentenza n. 106 del 2009; con riguardo alla legittimazione passiva, sentenze n. 
487 del 2000 e n. 410 del 1998).  
Sussiste, del pari, la legittimazione passiva del Presidente del 
Consiglio dei ministri, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente 
la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, 
opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base alla legge n. 124 
del 2007, ma – come questa Corte ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 86 del 
1977) – anche alla stregua delle norme costituzionali che ne determinano le 
attribuzioni (sentenza n. 106 del 2009; con riferimento alla legittimazione 
attiva, altresì, sentenze n. 487 del 2000, n. 410 e n. 110 del 1998).  
Quanto, poi, al profilo oggettivo, il conflitto riguarda attribuzioni 
costituzionalmente garantite inerenti, da un lato, all’esercizio della funzione 
giurisdizionale da parte del giudice dell’udienza preliminare e, dall’altro, 
alla salvaguardia della sicurezza dello Stato attraverso lo strumento del 
segreto, la cui tutela, mediante la sua opposizione e conferma, è attribuita 
alla responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, sotto il 
controllo del Parlamento (sentenza n. 487 del 2000). La possibilità che gli atti 
di conferma del segreto di Stato formino oggetto di conflitto di attribuzione è, 
d’altra parte, espressamente prevista dalla normativa in vigore (art. 202, comma 
7, cod. proc. pen. e, per quanto qui interessa, art. 41, comma 7, della legge n. 
124 del 2007).  
4.– Nel merito, il ricorso non è fondato.  
5.– Questa Corte ha già avuto modo di rimarcare la perdurante 
attualità, anche dopo le innovazioni introdotte dalla legge n. 124 del 2007, dei 
principi enunciati dalla propria pregressa giurisprudenza in ordine al 
fondamento costituzionale dell’istituto del segreto di Stato: principi che – nel 
dare ragione e nel segnare, al tempo stesso, i limiti della sua prevalenza 
rispetto alle contrapposte esigenze dell’accertamento giurisdizionale – si 
presentano, «all’evidenza, non cedevoli né manipolabili alla luce dei possibili 
mutamenti di fatto indotti dal passare del tempo» (sentenza n. 106 del 2009). Si 
tratta, d’altra parte, di principi ai quali il legislatore ha inteso 
concretamente uniformare la disciplina della materia, recata dapprima dalla 
legge 24 ottobre 1977, n. 801 (Istituzione e ordinamento dei servizi per le 
informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato) e, attualmente, 
dalla citata legge n. 124 del 2007.  
Secondo quanto chiarito dalla Corte, l’istituto in questione può 
rinvenire la sua base di legittimazione esclusivamente nell’esigenza di 
salvaguardare supremi interessi riferibili allo Stato-comunità, ponendosi quale 
«strumento necessario per raggiungere il fine della sicurezza», esterna e 
interna, «dello Stato e per garantirne l’esistenza, l’integrità, nonché 
l’assetto democratico»: valori che trovano espressione in un complesso di norme 
costituzionali, e particolarmente in quelle degli artt. 1, 5 e 52 Cost. 
(sentenza n. 110 del 1998; in prospettiva analoga, sentenze n. 106 del 2009, n. 
86 del 1977 e n. 82 del 1976). A tali indicazioni intende rispondere la 
definizione del profilo oggettivo del segreto di Stato, offerta dall’art. 39, 
comma 1, della legge n. 124 del 2007 (che sostituisce in ciò, con limitate 
modifiche, il previgente art. 12 della legge n. 801 del 1977), ove si prevede 
che sono coperti dal segreto «gli atti, i documenti, le notizie, le attività e 
ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della 
Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle 
istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello 
Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e 
alla difesa militare dello Stato».  
Rispetto ai valori considerati, altri valori – pure di rango 
costituzionale primario – sono “fisiologicamente” destinati a rimanere 
recessivi. La caratterizzazione come strumento di salvaguardia della salus rei 
publicae rende ragione, in particolare, del fatto che il segreto di Stato si 
presti a fungere da «sbarramento» all’esercizio della funzione giurisdizionale, 
e segnatamente di quella volta all’accertamento delle responsabilità individuali 
per fatti previsti dalla legge come reato. La sicurezza dello Stato costituisce, 
infatti, un «interesse essenziale, insopprimibile della collettività, con palese 
carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto tocca […] la esistenza 
stessa dello Stato», del quale la giurisdizione costituisce soltanto «un 
aspetto» (sentenze n. 106 del 2009, n. 110 del 1998 e n. 86 del 1977).  
In un equilibrato bilanciamento dei valori coinvolti, il segreto di 
Stato può valere, peraltro, esclusivamente a «inibire all’autorità giudiziaria 
di acquisire e conseguentemente utilizzare» – tanto in via diretta che indiretta 
– «gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto». Non è, di contro, 
preclusa all’autorità giudiziaria la possibilità di procedere per i fatti 
oggetto della notitia criminis in suo possesso, qualora «disponga o possa 
acquisire per altra via elementi […] del tutto autonomi e indipendenti dagli 
atti e documenti coperti da segreto» (sentenze n. 106 del 2009, n. 410 e n. 110 
del 1998). Si tratta di enunciati, anche in questo caso, puntualmente recepiti 
nell’ambito della vigente disciplina processuale (art. 202, commi 5 e 6, cod. 
proc. pen. e art. 41, commi 5 e 6, della legge n. 124 del 2007).  
Questa Corte ha ribadito, per altro verso, il carattere ampiamente 
discrezionale e la natura squisitamente politica della valutazione – spettante 
al Presidente del Consiglio dei ministri – in ordine ai mezzi idonei e necessari 
per garantire la sicurezza dello Stato, sulla cui base ha luogo l’individuazione 
delle notizie che, nel supremo interesse alla salus rei publicae, sono destinate 
a rimanere segrete. Conseguenza ne è che – ferme restando le competenze della 
Corte in sede di conflitto di attribuzione – il sindacato sulle modalità di 
esercizio del potere di segretazione resta affidato in via esclusiva al 
Parlamento, essendo, quella parlamentare, «la sede normale di controllo nel 
merito delle più alte e più gravi decisioni dell’Esecutivo», con esclusione di 
qualsiasi sindacato giurisdizionale al riguardo (sentenze n. 106 del 2009 e n. 
86 del 1977).  
6.– Il tratto peculiare della vicenda che ha dato luogo al conflitto di 
attribuzione oggi in esame risiede, peraltro, nel fatto che il segreto di Stato 
è stato opposto da due persone sottoposte alle indagini, in occasione 
dell’interrogatorio da esse stesse richiesto ai sensi dell’art. 415-bis, comma 
3, cod. proc. pen. In particolare, come già ricordato, gli indagati – facenti 
parte del personale del SISMI all’epoca dei fatti loro contestati, l’uno quale 
direttore, l’altro quale collaboratore e poi come dipendente – hanno sostenuto 
che, per potersi difendere in modo compiuto, dimostrando inconfutabilmente 
l’insussistenza dei fatti loro contestati, avrebbero dovuto esporre circostanze 
non suscettibili di rivelazione, in quanto coperte dal segreto di Stato.  
6.1.– Nel sollevare il conflitto, il giudice ricorrente muove dal 
presupposto interpretativo – condiviso dal pubblico ministero, allorché ha 
richiesto al Presidente del Consiglio dei ministri la conferma del segreto – che 
la situazione di fatto considerata ricada nella previsione dell’art. 41 della 
legge n. 124 del 2007, alla luce della quale anche l’imputato e la persona 
sottoposta alle indagini dovrebbero ritenersi attualmente compresi nel novero 
dei soggetti abilitati a opporre il segreto di Stato.  
Tale postulato ermeneutico – sulla cui base il ricorrente reputa 
rilevanti l’opposizione e la conferma del segreto già nella fase processuale in 
corso (quella dell’udienza preliminare) – appare, in sé, corretto.  
6.2.– La tematica involge evidentemente il problema delle interferenze 
fra il segreto di Stato e un ulteriore valore costituzionale primario, 
rientrante tra i diritti fondamentali dell’individuo: ossia il diritto di 
difesa. Gli interrogativi che, al riguardo, tradizionalmente si pongono sono di 
duplice ordine: da un lato, se l’imputato sia abilitato a rivelare all’autorità 
giudiziaria circostanze coperte da segreto di Stato, ove ciò appaia necessario 
al fine di evitare una condanna ingiusta; dall’altro, quali siano gli effetti 
della eventuale opposizione del segreto.  
Anteriormente alla riforma operata dalla legge n. 124 del 2007, era 
opinione largamente maggioritaria che al primo quesito – la cui risoluzione 
condiziona evidentemente quella del secondo – dovesse rispondersi in senso 
affermativo.  
Nel vigore del codice di procedura penale del 1930, la Corte di 
cassazione escluse, in particolare, che l’imputato rientrasse fra i destinatari 
della disciplina dettata dall’art. 352 di quel codice (come sostituito dall’art. 
15 della legge n. 801 del 1977), che, dopo aver imposto ai pubblici ufficiali, 
ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio di astenersi dal 
deporre su fatti coperti da segreto di Stato, prefigurava, in presenza della 
relativa dichiarazione, una procedura di interpello del Presidente del Consiglio 
dei ministri, destinata (come l’attuale) a sfociare – in caso di conferma del 
segreto e ove la conoscenza della notizia riservata apparisse essenziale – nella 
dichiarazione di non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato. Al 
riguardo, si osservò come – al di là dell’ambiguità della locuzione impiegata 
nel dettato normativo («non debbono essere interrogati») – la collocazione della 
disposizione in un capo dedicato ai testimoni, il riferimento alla 
testimonianza, contenuto nella rubrica, e la prevista esclusione dell’azione 
penale per il delitto di falsa testimonianza, nel caso di conferma del segreto, 
rendessero palese che la disciplina in discorso atteneva unicamente a coloro i 
quali venissero sentiti in qualità di testi. Decisivo sarebbe stato, peraltro, 
l’argomento basato sulla ratio della norma, identificabile segnatamente nel fine 
di tutelare il testimone – il quale si trovasse gravato dal divieto di rivelare 
notizie coperte da segreto di Stato – rispetto al rischio di incriminazione per 
falsa testimonianza, sotto il profilo della reticenza. Analoga esigenza non 
sarebbe stata, di contro, ravvisabile in rapporto alla persona interrogata in 
qualità di imputato, avendo costui ampia libertà di articolare la propria 
difesa, anche rifiutandosi di rispondere, senza il rischio di vedersi addebitato 
il reato di cui all’art. 372 cod. pen., essendogli inibite solo le dichiarazioni 
integranti il delitto di calunnia. Sul fronte opposto, l’imputato avrebbe 
potuto, d’altra parte, rendere tutte le dichiarazioni idonee a provare la 
propria innocenza, ove pure implicassero la rivelazione di notizie coperte da 
segreto di Stato, senza rendersi con ciò responsabile del delitto di cui 
all’art. 261 cod. pen., rimanendo la sua condotta scriminata, ai sensi dell’art. 
51 cod. pen., dall’esercizio del diritto di difesa, garantito come «inviolabile» 
dall’art. 24, secondo comma, Cost. (Corte di cassazione, sezione VI, 10 marzo 
1987-8 maggio 1987, n. 5752).  
6.3.– Secondo l’orientamento dominante, la situazione non sarebbe 
mutata con l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, alla 
luce del quale la conclusione dianzi ricordata si sarebbe, anzi, imposta con 
ancora maggiore evidenza: ciò, pur dopo la caduta del riferimento alla 
testimonianza nella rubrica dell’originario art. 202 – in cui le statuizioni 
dell’art. 352 del codice abrogato erano refluite – e la scomparsa, nel testo 
della norma, della previsione dell’improcedibilità dell’azione penale per il 
delitto di falsa testimonianza. Se per un verso, infatti, la disposizione 
risultava collocata nel Capo I del Titolo II del Libro III del codice, relativo 
alla prova testimoniale, ben distinto dal Capo II, dedicato all’«Esame delle 
parti»; per altro verso, sul piano letterale, il comma 1 dell’art. 202 
enunciava, a carico dei pubblici funzionari, il solo «obbligo di astenersi dal 
deporre», senza il concorrente ambiguo richiamo al divieto di interrogarli, 
mentre i successivi commi 2 e 4 recavano espressi ed esclusivi riferimenti al 
«testimone». Significativa appariva, inoltre, la circostanza che l’art. 209 del 
nuovo codice, nell’estendere all’esame dell’imputato talune regole proprie della 
testimonianza, non operasse alcun rinvio all’art. 202.  
A fronte di tale dato normativo, il divieto di rendere dichiarazioni su 
fatti coperti da segreto di Stato – e la speciale ipotesi di chiusura del 
processo ad esso eventualmente connessa, ai sensi dell’art. 202, comma 3 – non 
avrebbero potuto essere, dunque, invocati dall’imputato (o dalla persona 
sottoposta alle indagini). Questi ultimi avrebbero continuato, di contro, a 
godere della più ampia libertà di manovra, in ossequio al precetto di cui 
all’art. 24, secondo comma, Cost. (e, indi, anche a quello di cui al novellato 
art. 111, terzo comma, Cost., nella parte in cui riconosce all’imputato il 
diritto di difendersi provando), potendo scegliere se tacere o rendere 
dichiarazioni, anche sui fatti coperti da segreto di Stato, o persino di 
produrre prove a loro sostegno. La rivelazione – ove necessaria a fini difensivi 
– non sarebbe risultata in ogni caso punibile, operando la causa di 
giustificazione dell’esercizio di un diritto, di rango primario.  
6.4.– La disciplina della materia è stata, tuttavia, significativamente 
innovata, sotto il profilo che interessa, dalla legge n. 124 del 2007. Se pure, 
infatti, l’avvenuta riscrittura dell’art. 202 cod. proc. pen. non ha inciso 
sull’esclusiva riferibilità della norma codicistica al testimone, questa viene 
ad essere però affiancata da una disposizione parallela, collocata al di fuori 
del codice (l’art. 41 della stessa legge n. 124 del 2007), che, nel ricalcarne 
in larga misura le cadenze, non incontra – né sul piano sistematico, né su 
quello letterale – limiti applicativi correlati alla veste processuale del 
dichiarante.  
La nuova disposizione – scaturita da un ampio dibattito parlamentare, 
il quale attesta come il tema che qui interessa sia stato ben presente al 
legislatore – stabilisce, infatti, in termini indistinti, che «ai pubblici 
ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio è fatto 
divieto di riferire riguardo a fatti coperti da segreto di Stato» (comma 1, 
primo periodo). Tale statuizione – che, come precetto sostanziale, risulterebbe 
superflua, posto che la rivelazione di un segreto di Stato, da chiunque 
effettuata, integra un illecito penale (art. 261 cod. pen.), costituendo, perciò 
stesso, una condotta vietata – è destinata in realtà ad assumere, negli intenti 
del legislatore, una valenza precipuamente processuale, come emerge dalla 
successiva previsione del secondo periodo del comma 1, ove è stabilito che in 
ogni stato e grado del procedimento penale «salvo quanto disposto dall’art. 202 
del codice di procedura penale, […] se è stato opposto il segreto di Stato, 
l’autorità giudiziaria ne informa il Presidente del Consiglio dei ministri, 
nella sua qualità di Autorità nazionale per la sicurezza, per le eventuali 
deliberazioni di sua competenza».  
Lo stesso art. 41 replica indi i contenuti del novellato art. 202 cod. 
proc. pen., in ordine alla procedura di interpello del Presidente del Consiglio 
dei ministri e ai relativi effetti (commi da 3 a 8), salvo un non trascurabile 
elemento differenziale. Di fronte all’opposizione del segreto, l’autorità 
giudiziaria è tenuta, infatti, a chiederne la conferma al Presidente del 
Consiglio dei ministri, non in ogni caso – come previsto dalla norma del codice 
– ma solo quando ritenga «essenziale quanto coperto dal segreto per la 
definizione del processo» (comma 2). Si tratta, dunque, di un vaglio di 
«essenzialità» preliminare alla richiesta di conferma, che si aggiunge a quello, 
successivo alla conferma stessa, previsto ai fini dell’eventuale pronuncia della 
sentenza di non doversi procedere (comma 3 dell’art. 41 della legge n. 124 del 
2007, in parallelo a quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 202 cod. proc. pen. 
per il testimone).  
Come già incidentalmente rilevato da questa Corte (sentenza n. 106 del 
2009), mediante la disposizione considerata il legislatore è venuto a conferire 
portata generale al vincolo di riserbo, in sede processuale, dei pubblici 
funzionari riguardo alle notizie coperte da segreto di Stato, con previsione che 
– estrapolata da una specifica sedes materiae – si presta a ricomprendere, nella 
sua genericità, anche l’imputato e la persona sottoposta alle indagini, pure in 
assenza di espliciti riferimenti a tali figure. Non appare in effetti 
significativa, in senso contrario, la circostanza che la norma faccia uso del 
verbo «riferire» («è fatto divieto di riferire»), generalmente impiegato dal 
codice di rito con riguardo agli apporti conoscitivi offerti da soggetti diversi 
dall’imputato (quali, in specie, i testimoni, i periti, i consulenti tecnici o 
la polizia giudiziaria, laddove, invece, nel lessico codicistico, l’imputato 
«dichiara», «espone» o «risponde»). A fronte dell’ampia portata del precetto in 
questione – rivolto all’intera platea dei soggetti sentiti in qualità diversa da 
quella di testimone – è, infatti, plausibile che il legislatore si sia avvalso 
del termine «riferire» nella sua accezione comune e corrente, espressiva di ogni 
forma di esposizione di fatti, da chiunque effettuata.  
Sul piano teleologico, d’altra parte, occorre osservare come la 
normativa anteriore alla legge n. 124 del 2007 – nella lettura datane 
dall’orientamento interpretativo maggioritario – rimettesse, in pratica, 
all’imputato il bilanciamento tra il diritto individuale di difesa e il supremo 
interesse alla sicurezza della Repubblica, conferendogli una facoltà di scelta 
che poneva, peraltro, a suo esclusivo carico i “costi” dell’eventuale opzione 
per il secondo dei due valori. Rivelando il segreto, l’imputato avrebbe potuto, 
infatti, ottenere una pronuncia assolutoria a detrimento della sicurezza 
nazionale; scegliendo invece di tacere, avrebbe preservato quest’ultima, 
esponendosi però al rischio di una condanna ingiusta.  
L’assetto considerato – nel quale era comunque insita la preminenza 
delle esigenze difensive individuali rispetto a quelle di protezione della 
sicurezza dello Stato, quante volte l’imputato non ritenesse di dover affrontare 
il predetto rischio – non valeva, peraltro, neppure ad assicurare una tutela 
indefettibile dell’altro interesse pubblico in gioco, rappresentato dal regolare 
esercizio della giurisdizione penale. Depositario della prova di innocenza 
avrebbe potuto essere, infatti, non già direttamente l’imputato, ma un testimone 
qualificato addotto dalla difesa, rispetto al quale avrebbe comunque operato 
l’obbligo di astensione dal deporre: con la conseguenza che, in tale evenienza, 
la notizia segreta avrebbe potuto essere svelata dall’imputato nell’esporre la 
sua tesi difensiva e nell’articolare le relative prove, senza tuttavia che la 
giustizia penale potesse seguire il suo ordinario corso, dovendosi comunque 
adottare una pronuncia di non liquet, ai sensi dell’art. 202, comma 3, cod. 
proc. pen., di fronte alla conferma del segreto sulle prove decisive richieste a 
sostegno di detta tesi.  
Il nuovo art. 41 della legge n. 124 del 2007 muta i termini del 
bilanciamento. L’imputato viene a essere, infatti, per un verso, incluso tra i 
titolari del potere-dovere di opporre il segreto di Stato, ma, al tempo stesso, 
sottratto – ove tenga la condotta conforme all’esigenza di protezione della 
sicurezza nazionale – al rischio di una indebita affermazione di responsabilità 
penale. Lo Stato – mirando all’“autoconservazione” – richiede, cioè, anche alla 
persona sottoposta a processo il silenzio sulla notizia coperta da segreto, 
esigendo dalla giurisdizione un possibile esito processuale scevro da connotati 
negativi nei confronti del giudicabile (la dichiarazione di non doversi 
procedere), fermo restando il vaglio di “essenzialità” rimesso all’autorità 
giudiziaria.  
7.– Appurato, dunque, che anche l’imputato e l’indagato sono 
attualmente abilitati a opporre il segreto di Stato, non occorre affrontare in 
questa sede l’ulteriore problematica evocata dal giudice ricorrente nella 
memoria: stabilire, cioè, se – e in quali termini – la nuova disciplina resti 
comunque “permeabile” all’operatività della scriminante prevista dall’art. 51 
cod. pen., nel caso in cui i soggetti in questione violino il divieto di 
rivelazione del segreto nell’esercizio del proprio diritto di difesa (soluzione 
a sostegno della quale militano, in effetti, anche talune indicazioni ricavabili 
dai lavori parlamentari relativi alla legge n. 124 del 2007). L’evenienza dianzi 
indicata non risulta essersi, infatti, verificata nel caso in esame e non viene, 
perciò, in alcun modo in rilievo ai fini della decisione dell’odierno conflitto. 
 
Non conferente, ai presenti fini, risulta anche l’altro rilievo del 
ricorrente, per cui, alla stregua del disposto dell’art. 41 della legge n. 124 
del 2007, non sarebbe comunque sufficiente che l’imputato alleghi l’esistenza di 
imprecisate prove a discolpa, non acquisibili in quanto segrete – opponendo, 
come nel caso di specie, il segreto di Stato sull’intero capo di imputazione – 
per obbligare l’autorità giudiziaria a pronunciare una sentenza di non doversi 
procedere: giacché, se così fosse, l’opposizione del segreto finirebbe per 
trasformarsi, inammissibilmente, «in una sorta di esimente “in bianco” sempre a 
disposizione del personale dei Servizi». La declaratoria di improcedibilità 
presupporrebbe, di contro – sempre secondo quanto sostenuto dal ricorrente – 
«quanto meno un “principio di prova”, ovvero la delimitazione dell’ambito del 
segreto in un contesto difensivo univoco e non contraddittorio»: condizioni – in 
assunto – non riscontrabili nel caso di specie, stante la sostanziale 
inconciliabilità dell’opposizione del segreto di Stato rispetto alla tesi 
difensiva prospettata in via “principale” dagli imputati e l’impossibilità, sul 
piano logico, che le circostanze che si deducono segrete risultino idonee a 
scriminarli entrambi.  
Al riguardo, si deve peraltro osservare che, nella presente sede, la 
Corte non è chiamata a stabilire se il segreto di Stato sia stato opposto dagli 
indagati in modo appropriato e utile ai loro fini, né a determinare in quale 
modo la conferma del segreto sia destinata a influire sull’esito del processo 
penale in corso, spettando tali valutazioni all’autorità giudiziaria. Oggetto di 
scrutinio sono, di contro, unicamente gli atti di conferma del segreto 
concretamente adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri, in rapporto 
alla loro denunciata attitudine lesiva delle attribuzioni costituzionali del 
giudice ricorrente.  
Come già rimarcato, l’art. 41, comma 2, della legge n. 124 del 2007 
prevede che, di fronte all’opposizione del segreto, l’autorità giudiziaria debba 
procedere all’interpello del Presidente del Consiglio dei ministri solo se – e 
nei limiti in cui – la conoscenza delle circostanze sulle quali il segreto è 
stato allegato appaia «essenziale» per la definizione del processo. La 
previsione di tale vaglio selettivo preliminare – non richiesto dall’art. 202 
cod. proc. pen. per l’ipotesi in cui a opporre il segreto sia un testimone – 
appare giustificabile, sul piano logico, anche e proprio in considerazione della 
particolare posizione dell’imputato o dell’indagato, il quale, diversamente dal 
testimone, ha un interesse personale diretto nel procedimento, che potrebbe 
risultare eventualmente di pungolo all’allegazione pretestuosa del segreto al 
fine di sottrarsi all’accertamento delle proprie responsabilità, o anche solo di 
rallentarne il corso.  
Nel caso di specie, è in fatto avvenuto che – a fronte di una 
opposizione del segreto di Stato in termini particolarmente ampi da parte degli 
indagati – il pubblico ministero, procedendo al suddetto vaglio preliminare, 
abbia chiesto al Presidente del Consiglio dei ministri di confermare l’esistenza 
del segreto limitatamente a quattro specifiche circostanze, reputate per 
l’appunto «essenziali» nell’ottica della definizione del processo. Ed è in 
rapporto alla risposta offerta a tale interpello – non già ai termini originari 
dell’opposizione del segreto da parte degli indagati – che lo scrutinio di 
questa Corte deve esplicarsi.  
Risulta in pari tempo evidente come la valutazione di «essenzialità», 
effettuata in via preliminare dal rappresentante della pubblica accusa, non 
vincoli il giudice chiamato a verificare – “a valle” della conferma del segreto 
– se sussistano i presupposti per la pronuncia di una sentenza di non luogo a 
procedere, ai sensi dell’art. 41, comma 3, della legge n. 124 del 2007. In tale 
sede, il giudice potrà dunque stabilire, in piena autonomia, se le circostanze 
coperte da segreto debbano ritenersi effettivamente essenziali – tenuto conto 
del complesso degli altri elementi probatori legittimamente acquisiti o 
acquisibili e dei termini in cui il segreto di Stato è stato opposto – per la 
definizione del processo, segnatamente nella prospettiva della (possibile) 
dimostrazione dell’insussistenza dei fatti, dell’estraneità a essi degli 
imputati o dell’esistenza di eventuali cause di giustificazione.  
Altrettanto evidente, d’altra parte, è che il vaglio di «essenzialità», 
prodromico all’adozione della pronuncia di non liquet, assuma connotazioni 
differenziate a seconda delle singole figure di dichiaranti nel processo, 
attualmente abilitate a opporre il segreto di Stato. Ove si tratti di testimone, 
tenuto a rispondere secondo verità alle specifiche domande che gli sono rivolte, 
occorre valutare direttamente quale contributo la conoscenza delle circostanze 
dedotte nei capitoli di prova potrebbe portare all’accertamento dei fatti e 
delle responsabilità; ove si tratti, invece, dell’imputato – che non ha obbligo 
di verità e che, come nel caso di specie, potrebbe opporre il segreto a 
prescindere da specifiche domande postegli in sede di interrogatorio o di esame 
– la verifica in questione, da condurre nella prospettiva dell’esercizio del 
diritto di difesa, assume inevitabilmente caratteristiche diverse. Al riguardo, 
non vi è dubbio che il riconoscimento dell’incidenza del segreto sul diritto di 
difesa non possa rimanere affidato alla mera attestazione del soggetto 
sottoposto a processo – che a quel riconoscimento ha interesse – ma debba 
poggiare su una prospettazione dotata di adeguato tasso di persuasività. 
L’inerenza del segreto al diritto di difesa si traduce in un fatto da cui 
dipende l’applicazione di norme processuali, anch’esso oggetto di prova ai sensi 
dell’art. 187, comma 2, cod. proc. pen., nel contraddittorio con le parti 
controinteressate, sia pure con le limitazioni necessariamente connesse 
all’esigenza di non rivelare indirettamente le notizie segrete, che imprimono 
alla relativa verifica i tratti di un giudizio di tipo eminentemente presuntivo. 
In tale appropriata cornice potrà tenersi, quindi, conto anche di elementi quali 
la coerenza e la plausibilità della prospettazione dell’imputato, in rapporto al 
complesso delle sue deduzioni difensive e di quelle dei coimputati che versino 
in posizione analoga.  
Ma tutto ciò rientra nell’ambito di una indagine rimessa alla stessa 
autorità giudiziaria, senza investire la legittimità dell’atto di conferma del 
segreto. Nell’adottare quest’ultimo, il Presidente del Consiglio dei ministri 
non si pronuncia affatto sulla reale idoneità delle informazioni segretate a 
fornire prove decisive della non colpevolezza di chi ha opposto il segreto – 
apprezzamento che non gli compete – ma solo sull’attitudine di quelle 
informazioni a ledere, se divulgate, la sicurezza nazionale. Non si può pertanto 
parlare, sotto questo profilo – come fa il ricorrente – di illegittimo “avallo”, 
da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di una strategia difensiva 
basata su un presupposto, in assunto, distonico rispetto all’esigenza di non 
creare una “via di fuga” dalla responsabilità penale, fruibile ad libitum dal 
personale dei servizi informativi. La pertinenza del segreto al fatto oggetto di 
giudizio è affermata dall’imputato, non dal Presidente del Consiglio (fuori del 
caso previsto dall’art. 66, comma 2, disp. att. cod. proc. pen., che qui non 
viene in rilievo), e spetta esclusivamente al giudice valutarla.  
8.– Fermi questi punti, occorre prendere anzitutto in esame, per 
ragioni di priorità logica, la censura sviluppata dal ricorrente nella memoria, 
secondo la quale – con riferimento ai primi tre punti della richiesta del 
pubblico ministero – la conferma del segreto da parte del Presidente del 
Consiglio dei ministri sarebbe illegittima «in quanto frutto dell’errata 
individuazione dell’oggetto della richiesta».  
Le circostanze in discussione – sulle quali il pubblico ministero aveva 
chiesto la conferma del segreto con note del 27 ottobre e 19 novembre 2009 – 
riguardavano segnatamente il fatto che il SISMI, durante il periodo in cui era 
stato diretto dal generale Pollari: a) avesse «finanziato in qualsiasi modo e 
forma, sia direttamente che indirettamente, la sede di Roma, via Nazionale, 
gestita da Pio Pompa»; b) avesse «retribuito economicamente, in qualsiasi modo e 
forma, direttamente o indirettamente» il Pompa o la Tontodimamma; c) avesse 
«impartito ordini o direttive» a questi ultimi.  
Secondo il ricorrente, il Presidente del Consiglio dei ministri, 
travisando il contenuto della richiesta, avrebbe confermato il segreto su 
circostanze diverse da quelle indicate e non rilevanti ai fini del procedimento 
penale. Quanto ai primi due punti, il Presidente del Consiglio ha dichiarato, 
infatti, di confermare il segreto sui «modi» e sulle «forme» dei finanziamenti 
della sede di via Nazionale e delle retribuzioni del Pompa e della Tontodimamma, 
quando invece la richiesta atteneva unicamente alla loro esistenza (al «se», non 
al «come»). Analogamente, quanto al terzo punto, dalla motivazione degli atti di 
conferma si desumerebbe che il Presidente del Consiglio ha inteso segretare le 
direttive e gli ordini impartiti dal SISMI in rapporto al loro contenuto, 
trascurando il fatto che la richiesta aveva ad oggetto, anche in questo caso, 
solo il «se» il Pompa e la Tontodimamma avessero ricevuto ordini e direttive dal 
Servizio nel periodo considerato.  
Al riguardo, occorre peraltro rilevare, in termini generali, che 
qualora il Presidente del Consiglio, richiesto di confermare il segreto di Stato 
su una determinata notizia, lo confermi su una notizia diversa, non essenziale 
ai fini del procedimento in corso, ciò non si traduce automaticamente in un 
motivo di illegittimità dell’atto di conferma, censurabile dall’autorità 
giudiziaria con lo strumento del conflitto di attribuzione. Nel caso 
considerato, infatti, non si assiste ad alcuna lesione delle attribuzioni 
costituzionali dell’autorità giudiziaria, giacché la conferma del segreto su una 
notizia diversa da quella cui atteneva la richiesta equivale, nei fatti, a 
mancata conferma del segreto su tale informazione, atta a rendere operante la 
previsione dell’art. 41, comma 4, della legge n. 124 del 2007 (in forza della 
quale «se entro trenta giorni dalla notificazione della richiesta il Presidente 
del Consiglio dei Ministri non dà conferma del segreto, l’autorità giudiziaria 
acquisisce la notizia e provvede per l’ulteriore corso del procedimento»).  
Nel caso di specie, la richiesta del pubblico ministero di conferma del 
segreto – per i termini in cui era formulata – appariva, in realtà, suscettibile 
di venire riferita, riguardo ai primi due punti, tanto all’esistenza dei 
finanziamenti e delle retribuzioni in questione, quanto alle loro modalità 
(evocate, in specie, dalla formula «in qualsiasi modo e forma, direttamente o 
indirettamente»). La circostanza che il Presidente del Consiglio abbia 
confermato il segreto sul quomodo, e non anche sull’an, comporterà che solo in 
rapporto al primo operi lo «sbarramento» all’esercizio dei poteri dell’autorità 
giudiziaria conseguente alla conferma.  
Analoga conclusione si impone in rapporto al terzo punto, laddove a 
fronte di una richiesta genericamente riferita al fatto che il SISMI abbia 
impartito ordini o direttive al Pompa e alla Tontodimamma, il Presidente del 
Consiglio ha confermato il segreto sulla scorta di una motivazione tale da 
rendere palese che l’esigenza di riserbo attiene al contenuto degli ordini e 
delle direttive («anche le direttive e gli ordini impartiti all’interno del 
Servizio possono costituire interna corporis da tutelare, se dalla loro 
divulgazione vengono in evidenza, come nel caso in esame, profili attinenti alle 
modalità organizzative ed a quelle tecnico-operative che è opportuno non 
disvelare»).  
9.– Le considerazioni che precedono valgono anche a escludere 
l’ulteriore profilo di illegittimità, in parte qua, degli atti impugnati, 
connesso, in assunto, al fatto che – con riferimento ai tre punti considerati – 
la richiesta di conferma del segreto avrebbe avuto ad oggetto circostanze 
notorie e, perciò, insuscettibili di segretazione. Di pubblico dominio sarebbe, 
in specie – secondo il ricorrente – la circostanza che l’appartamento di via 
Nazionale, presso il quale è stato effettuato il sequestro di documenti che ha 
dato origine al processo, fosse una sede del SISMI (e, dunque, da esso 
finanziata), come pure notorio sarebbe il fatto che il Pompa e la Tontodimamma 
siano stati alle dipendenze del Servizio (ricevendo, perciò, da esso tanto 
emolumenti, quanto ordini e direttive), al punto che le rispettive qualifiche 
(«collaboratori prima e dipendenti poi») risultano ribadite nelle stesse note di 
conferma del segreto.  
A prescindere da ogni altra considerazione, è assorbente, al riguardo, 
il rilievo che la legittimità degli atti impugnati va valutata, non in base al 
tenore della richiesta di conferma del segreto, ma a quello della risposta. 
Nella specie – secondo la stessa prospettazione del ricorrente – la conferma del 
segreto, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, non ha avuto ad 
oggetto i fatti che si assumono notori (la generica esistenza dei finanziamenti, 
delle retribuzioni e delle direttive: vale a dire, l’an), ma altri fatti (le 
modalità degli uni e i contenuti delle altre) che non risultano essere tali. 
 
10.– Quanto agli altri motivi di ricorso – che investono gli atti di 
conferma del segreto nella loro interezza (anche, dunque, per la parte 
rapportabile al quarto punto della richiesta, che il ricorrente reputa nodale ai 
fini del giudizio in corso, inerente al se il Pompa e la Tontodimamma avessero 
ricevuto ordini o direttive «di raccolta di informazioni su magistrati, italiani 
o stranieri») – il Giudice perugino assume che le notizie nella specie segretate 
esulerebbero dal novero di quelle suscettibili di tutela a mezzo del segreto di 
Stato ai sensi dell’art. 39, comma 1, della legge n. 124 del 2007 e del d.P.C.m. 
8 aprile 2008, pure evocati negli atti impugnati. Si dovrebbe, infatti, 
escludere in radice che possano costituire oggetto di segreto di Stato notizie 
attinenti all’esistenza di finanziamenti, ordini e direttive dei servizi 
informativi finalizzati allo svolgimento di attività palesemente estranee alle 
finalità istituzionali dei servizi stessi, quali quelle contestate nella specie 
agli imputati. Ciò, tanto più alla luce delle previsioni dell’art. 26 della 
legge n. 124 del 2007 – che vieta, sotto comminatoria di severa sanzione penale, 
al personale del Sistema di informazione per la sicurezza di istituire o 
utilizzare schedari informativi per scopi diversi da quelli istituzionali – e 
dell’art. 17 della medesima legge – che, nel prevedere una scriminante a favore 
del personale dei servizi che ponga in essere condotte costituenti reato, ne 
subordina l’applicabilità alla condizione che si tratti di condotte 
indispensabili alle finalità istituzionali degli organismi di appartenenza.  
La tesi del ricorrente poggia, peraltro, su un presupposto inesatto: e, 
cioè, che il segreto di Stato, confermato dal Presidente del Consiglio dei 
ministri con gli atti impugnati, concerna direttamente le attività illegali 
ascritte agli imputati, quando, invece, esso si riferisce a notizie – pur se in 
qualche modo ricollegabili ai fatti per cui si procede – la cui propalazione è 
stata reputata suscettibile di esporre a indebita pubblicità le modalità 
organizzative e operative dei servizi.  
La circostanza è di tutta evidenza con riguardo alla conferma del 
segreto sulle forme e modalità di finanziamento della sede di via Nazionale e di 
retribuzione del Pompa e della Tontodimamma: notizie che lo stesso ricorrente – 
come già segnalato – non reputa, peraltro, neppure essenziali per la definizione 
del processo.  
Ma il rilievo vale anche in rapporto al contenuto degli ordini e delle 
direttive impartite ai sunnominati Pompa e Tontodimamma, sia nella loro 
generalità che con specifico riguardo a eventuali ordini o direttive «di 
raccolta di informazioni su magistrati, italiani o stranieri». A quest’ultimo 
proposito, occorre, in effetti, rimarcare come le richieste di conferma del 
segreto – e, parallelamente a esse, gli atti di conferma – risultino formulati 
in termini generici e indifferenziati, senza alcun riferimento né ai soggetti 
interessati (o ai criteri per la loro individuazione), né, soprattutto, alle 
finalità della raccolta di informazioni considerata. Non è consentito, pertanto, 
“interpretare” gli atti impugnati, nel senso di attribuire al Presidente del 
Consiglio dei ministri l’intento di imporre, omisso medio, il vincolo del 
segreto su quanto costituisce il thema demonstrandum nel processo da cui il 
conflitto origina: e, cioè, sull’avvenuta formazione – nell’ambito del SISMI e 
con impiego delle relative risorse materiali e umane – di dossier su magistrati 
e altri soggetti, reputati «di parte politica avversa» rispetto alla maggioranza 
governativa, con lo specifico obiettivo di servirsi del materiale raccolto per 
“delegittimare” detti soggetti a mezzo di diffamazioni, calunnie e abusi di 
ufficio.  
Cade, con ciò, l’argomento del ricorrente, per cui delle due l’una: o 
una direttiva nei termini appena ora indicati non esiste, e allora non vi 
sarebbe alcun segreto da tutelare; oppure esiste, ma allora non essa sarebbe 
“per definizione” tutelabile a mezzo del segreto di Stato, in quanto avente ad 
oggetto una attività «deviata» dei servizi. L’argomento non è, infatti, 
pertinente in rapporto al tenore degli atti di conferma del segreto di cui si 
discute, i quali – anche per quanto concerne la risposta fornita sul quarto 
punto della richiesta – non attengono all’esistenza o meno di una direttiva di 
tal fatta, ma hanno un oggetto più generico, non qualificato da riferimenti che 
evochino il carattere “non istituzionale” dell’attività in questione (e, anzi, 
presuppongono il contrario).  
Per il resto, questa Corte ha già avuto modo di affermare che tra le 
notizie tutelabili a mezzo del segreto di Stato possono essere fatte rientrare 
anche quelle inerenti agli ordini e alle direttive impartiti dal direttore del 
servizio informativo (e, in specie, del SISMI, ora AISI) agli appartenenti al 
medesimo organismo: e ciò, non soltanto – come si sostiene nel ricorso – 
allorché emerga la necessità di «preservare la credibilità del Servizio 
nell’ambito dei suoi rapporti internazionali con gli organismi collegati» 
(ipotesi estranea al caso di specie), ma anche (e più in generale) in relazione 
all’«esigenza di riserbo» – addotta negli atti oggi impugnati – «che deve 
tutelare gli interna corporis di ogni Servizio, ponendo al riparo da indebita 
pubblicità le sue modalità organizzative ed operative» (sentenza n. 106 del 
2009). Tale esigenza può profilarsi anche in rapporto ad altre procedure interne 
– quali, nella specie, quelle di finanziamento delle sedi operative e di 
corresponsione dei compensi a collaboratori esterni e dipendenti – la cui 
divulgazione si presti a pregiudicare la funzionalità dei servizi. Le modalità 
operative e organizzative dei servizi risultano d’altronde evocate – come lo 
stesso giudice ricorrente riconosce – in più punti dell’elenco delle «materie di 
riferimento» delle informazioni suscettibili di costituire oggetto di segreto di 
Stato, allegato al d.P.C.m. 8 aprile 2008 (in particolare, punti 6, 7 e 8): 
elenco peraltro solo esemplificativo (art. 5 del citato decreto).  
11.– Contrariamente a quanto afferma il ricorrente, nessuna 
contraddizione è, per altro verso, ravvisabile tra la previsione, da parte 
dell’ordinamento, della punibilità di taluni fatti – e, segnatamente, di 
determinate condotte poste in essere dal personale dei servizi per finalità 
estranee a quelle istituzionali – e il riconoscimento della possibilità che, a 
seguito dell’opposizione e della conferma del segreto di Stato sugli «interna 
corporis» dei servizi stessi, l’accertamento dei predetti fatti in sede 
giurisdizionale rimanga inibito (in senso analogo, sentenza n. 106 del 2009). 
 
Come già ricordato, infatti, l’opposizione del segreto di Stato, 
confermata dal Presidente del Consiglio dei ministri, inibisce all’autorità 
giudiziaria di acquisire e di utilizzare, anche in via indiretta, le notizie 
coperte dal segreto, ma non le impedisce di procedere in base a elementi 
autonomi e indipendenti da esse.  
Peraltro quando pure la fonte di prova segretata risultasse essenziale 
e mancassero altre fonti di prova – con conseguente applicabilità delle 
disposizioni che impongono la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere 
per l’esistenza del segreto di Stato (artt. 202, comma 3, cod. proc. pen. e 41, 
comma 3, della legge n. 124 del 2007) – non potrebbe scorgersi in ciò alcuna 
antinomia. Tale esito – espressamente previsto dalla legge – non è, infatti, che 
il portato della evidenziata preminenza dell’interesse della sicurezza 
nazionale, alla cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato, rispetto 
alle esigenze dell’accertamento giurisdizionale.  
12.– Nella memoria, il ricorrente sostiene a più riprese – senza, 
peraltro, sviluppare ulteriormente l’argomento – che l’illegale attività di 
raccolta e trattamento di informazioni contestata agli imputati si porrebbe «ai 
confini con l’eversione costituzionale».  
Deve tuttavia escludersi che, nella fattispecie in esame, possa venire 
in rilievo la regola secondo la quale «in nessun caso possono essere oggetto di 
segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti […] eversivi 
dell’ordine costituzionale»: regola enunciata dall’art. 39, comma 11, della 
legge n. 124 del 2007, ma che – come ripetutamente sottolineato da questa Corte 
(sentenza n. 86 del 1977, nonché sentenze n. 106 del 2009 e n. 110 del 1998) – 
esprime un limite immanente in materia, non potendo il segreto di Stato fungere 
da ostacolo all’accertamento di fatti volti a minare quegli stessi valori che è 
destinato a preservare.  
Affinché divenga operante tale limite non basta, in effetti, che il 
fatto oggetto di giudizio si ponga «ai confini» dell’eversione costituzionale, 
ma occorre che li superi. Nel caso di specie, tale evenienza non trova alcun 
riscontro nella formulazione del capo di imputazione. Posto che il delitto di 
cui all’art. 26, comma 3, della legge n. 124 del 2007 non può venire in rilievo, 
trattandosi di norma entrata in vigore successivamente ai fatti per cui si 
procede, agli imputati è contestato – con riguardo all’attività in questione – 
un reato contro la pubblica amministrazione legato all’indebito utilizzo di 
risorse pubbliche (il peculato), aggravato unicamente dalla finalità di eseguire 
altri reati (art. 61, numero 2, cod. pen.) e non anche dalla finalità di 
eversione dell’ordine democratico (art. 1, comma 1, del decreto-legge 15 
dicembre 1979, n. 625, recante «Misure urgenti per la tutela dell’ordine 
democratico e della sicurezza pubblica», convertito, con modificazioni, dalla 
legge 6 febbraio 1980, n. 15). Questa Corte ha già avuto modo, d’altra parte, di 
rimarcare come connotato imprescindibile del fatto eversivo – in linea con 
quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità – sia la sua preordinazione 
«a sovvertire, disarticolandolo, l’assetto complessivo delle Istituzioni 
democratiche» (sentenza n. 106 del 2009): caratteristica che non appare 
riscontrabile nell’attività criminosa – per quanto grave – oggetto del giudizio 
in corso.  
13.– Nelle considerazioni in precedenza svolte è insita anche 
l’infondatezza dell’ulteriore motivo di ricorso, relativo alla pretesa 
inconciliabilità degli atti impugnati – segnatamente in rapporto alla predetta 
imputazione per peculato – con i principi espressi, in materia di spesa 
pubblica, da un insieme di norme costituzionali (artt. 3, 81, 97, 100 e 103 
Cost.): principi a fronte dei quali dovrebbe essere sempre garantito il 
controllo, anche giurisdizionale, sulla destinazione delle risorse affidate ai 
funzionari pubblici – compresi quelli appartenenti ai servizi informativi – e, 
in particolare, sul loro impiego per finalità conformi a quelle che detti 
funzionari sono tenuti a perseguire.  
A prescindere da ogni rilievo in ordine alla conferenza dei parametri 
costituzionali evocati – contestata dal resistente – è dirimente, al riguardo, 
la considerazione che il principio di preminenza del supremo interesse alla 
sicurezza della Repubblica, protetto dal segreto di Stato, rispetto a quello del 
regolare esercizio della funzione giurisdizionale (e, in specie, della 
giurisdizione penale, che qui interessa) non viene meno – stante il suo 
fondamento giustificativo – per il solo fatto che si discuta dell’accertamento 
di responsabilità legate alla irregolare gestione di risorse pubbliche.  
L’esigenza di riserbo sulle modalità di impiego dei fondi destinati ai 
servizi di informazione – stante la peculiare natura dei compiti a essi affidati 
– è tenuta, d’altra parte, in particolare considerazione dallo stesso art. 29 
della legge n. 124 del 2007 – invocato dal ricorrente a conforto della sua tesi 
– il quale prevede, proprio per assecondare tale esigenza, forme speciali di 
controllo sulla gestione delle spese dei servizi, derogatorie rispetto a quelle 
ordinarie. In particolare, è previsto che le «spese riservate», diversamente da 
quelle «ordinarie», vengano inserite esclusivamente nel bilancio preventivo, ma 
non in quello consuntivo (comma 3, lettera a), dovendo essere presentato, 
riguardo a esse, un rendiconto a parte, trimestrale, e una relazione finale, 
annuale, entrambi al Presidente del Consiglio dei ministri (comma 3, lettera f), 
nonché una informativa semestrale sulle «linee essenziali della gestione» al 
COPASIR (comma 3, lettera g), così da prefigurare un controllo di tipo 
precipuamente politico. Ciò dimostra come, nel contesto della disciplina che 
regola il funzionamento dei servizi, non possa ritenersi affatto anomala 
l’eventualità che il segreto di Stato risulti idoneo a incidere sul controllo 
giurisdizionale relativo alla destinazione delle dotazioni finanziarie.  
14.– Il ricorrente censura, da ultimo, il fatto che, negli atti di 
conferma del segreto, il Presidente del Consiglio dei ministri non abbia 
comunque chiarito, «a mezzo di opportuna motivazione», le «ragioni della 
prevalenza della tutela degli “interna corporis” su ogni altro interesse 
tutelato da norme costituzionali»: indicazione che si dovrebbe ritenere, per 
contro, indispensabile alla luce dell’attuale quadro normativo – ispirato, in 
assunto, a un «sempre maggiore contemperamento tra le finalità del segreto di 
Stato e [gli] altri fondamentali interessi tutelati dalla Costituzione» – nonché 
del «principio di proporzionalità», affermato da questa Corte già nella sentenza 
n. 86 del 1977, a fronte del quale occorrerebbe sempre assicurare, in materia, 
«un ragionevole rapporto di mezzo a fine». In questa prospettiva, la tutela 
delle esigenze di riserbo sulle modalità organizzative e operative dei servizi 
non potrebbe essere indiscriminata – specie quando vengano in considerazione 
condotte del personale dei medesimi servizi costituenti reato – ma rimarrebbe 
subordinata alla effettiva preminenza, nel caso concreto, degli interessi alla 
cui salvaguardia il segreto di Stato è preordinato rispetto agli altri beni 
costituzionalmente protetti, tra cui quello della corretta amministrazione della 
giustizia. Su tali premesse, il ricorrente invita, quindi, la Corte a verificare 
«il rispetto dei limiti che inquadrano in un ambito costituzionalmente definito 
ed accettabile l’avvenuta opposizione/conferma del segreto»: ciò, in base 
all’assunto che, in sede di conflitto di attribuzione, debba ritenersi 
consentito alla Corte – diversamente che al giudice penale – «sindacare il 
corretto esercizio della discrezionalità» spettante al Presidente del Consiglio 
dei ministri in materia, «alla luce dei principi costituzionali e del loro 
corretto bilanciamento».  
L’eccezione di inammissibilità della censura per «genericità», 
formulata dall’Avvocatura dello Stato sul rilievo che non si comprenderebbe in 
base a quale parametro costituzionale la Corte dovrebbe effettuare il sindacato 
richiestole, non è fondata. Nella prospettiva del ricorrente, i parametri che 
dovrebbero venire in considerazione sono evidentemente, da un lato, quelli che 
offrono il fondamento costituzionale del segreto di Stato, e, dall’altro, quelli 
che reggono l’esercizio della funzione giurisdizionale.  
Nel merito, tuttavia, la tesi del ricorrente non può essere recepita. 
 
Come già rimarcato, infatti, deve tenersi fermo – anche dopo l’entrata 
in vigore della legge n. 124 del 2007 – quanto chiarito, a tale proposito, dalla 
pregressa giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 86 del 1977): e, cioè, che 
il giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri in ordine ai mezzi 
necessari o utili al fine di garantire la sicurezza della Repubblica, per il suo 
carattere squisitamente politico e ampiamente discrezionale, resta soggetto a un 
sindacato di tipo esclusivamente parlamentare, essendo quella parlamentare la 
sede istituzionale «di controllo nel merito delle più alte e gravi decisioni 
dell’Esecutivo» (sentenza n. 106 del 2009). Proprio a questo scopo, è previsto 
che il Presidente del Consiglio dei ministri debba dare comunicazione al COPASIR 
di ogni caso di conferma del segreto, «indicandone le ragioni essenziali», e che 
detto Comitato parlamentare, ove ritenga infondata l’opposizione del segreto, 
debba riferirne a ciascuna delle Camere per le conseguenti valutazioni (artt. 
40, comma 5, e 41, comma 9, della legge n. 124 del 2007).  
Nel conflitto di attribuzione che, in base alle espresse previsioni 
degli artt. 202, comma 7, cod. proc. pen. e 41, comma 7, della legge n. 124 del 
2007, l’autorità giudiziaria può proporre nei confronti del Presidente del 
Consiglio dei ministri, la Corte è chiamata, infatti, «a valutare la sussistenza 
o insussistenza dei presupposti del segreto di Stato ritualmente opposto e 
confermato, non già ad esprimere una valutazione di merito sulle ragioni […] del 
segreto stesso; giudizio quest’ultimo riservato, come si è precisato, in sede 
politica, al Parlamento» (sentenza n. 106 del 2009).  
Ciò non toglie che la motivazione della conferma del segreto, anche nei 
confronti dell’autorità giudiziaria, sia comunque necessaria (sentenza n. 86 del 
1977): essa è, del resto, espressamente richiesta dalla normativa in vigore 
(artt. 202, comma 5, cod. proc. pen., 66, comma 2, disp. att. cod. proc. pen. e, 
per quanto qui interessa, art. 41, comma, 5, della legge n. 124 del 2007). Ma lo 
è in una prospettiva diversa da quella ipotizzata dal giudice ricorrente e, al 
tempo stesso, distinta da quella della motivazione al Parlamento, come rivela 
anche la circostanza che il legislatore abbia disciplinato in modo autonomo e 
separato l’esposizione delle ragioni della segretazione nelle due sedi, 
giudiziaria e parlamentare (mentre, diversamente opinando, sarebbe bastato 
prescrivere la trasmissione al Comitato parlamentare di una copia del 
provvedimento già inviato al giudice all’esito della procedura di interpello). 
L’obbligo di motivazione, nel senso precisato, verso l’autorità giudiziaria non 
mira a permettere un sindacato sulle modalità di esercizio in concreto del 
potere di segretazione (precluso, come detto, in sede giurisdizionale), quanto 
piuttosto a giustificare, in termini congruenti e plausibili – nei rapporti tra 
poteri – lo «sbarramento» all’esercizio della funzione giurisdizionale 
conseguente alla conferma del segreto, dando atto delle considerazioni che 
consentono di ricondurre le notizie segretate agli interessi fondamentali 
riassumibili nella formula della sicurezza nazionale. Ed è solo quando la 
motivazione non risponda a tale scopo – denotando, con ciò, un possibile 
“sviamento” del potere di segretazione dai suoi fini istituzionali – che può 
ravvisarsi un vizio dell’atto suscettibile di denuncia davanti a questa Corte 
con lo strumento del conflitto di attribuzione.  
La portata dell’obbligo motivazionale nei confronti dell’autorità 
giudiziaria risente naturalmente dell’esigenza di non vanificare lo stesso 
provvedimento cui accede, come avverrebbe se, con una descrizione 
particolareggiata, si lasciassero trapelare le informazioni su cui si intende 
mantenere il riserbo. Ma, fermo restando ciò, e per quanto qui più interessa, 
l’adeguatezza della motivazione all’autorità giudiziaria va rapportata anche 
alle caratteristiche della notizia sulla quale viene confermato il segreto, 
riflettendone il livello di specificità. Altro è che la conferma riguardi 
circostanze puntualmente circoscritte, altro che – in correlazione al tenore 
della richiesta – essa investa, invece, notizie più generiche o, addirittura, di 
tipo “categoriale”. Nella specie, la richiesta di conferma del segreto atteneva 
– per limitarsi all’unico profilo che il ricorrente reputa realmente 
significativo nel giudizio di cui è investito – al fatto che, nell’arco di un 
quinquennio, il SISMI avesse impartito ordini o direttive al Pompa o alla 
Tontodimamma per la «raccolta di informazioni su magistrati, italiani o 
stranieri», senza specificazione – come già rimarcato – né di nomi (o di criteri 
di “selezione” degli interessati), né di finalità. Di fronte a una richiesta di 
tale ampiezza può ritenersi, dunque, sufficiente a giustificare la conferma del 
segreto il richiamo, altrettanto generale, del Presidente del Consiglio dei 
ministri all’esigenza di non palesare indirettamente, tramite la rivelazione 
dell’esistenza e dei contenuti di detti ordini e direttive, le modalità e le 
tecniche operative dei servizi medesimi (comprensive anche dei relativi 
obiettivi generali). Al riguardo, si coglie, del resto, con immediatezza la 
sproporzione tra la specificità del tema di prova nel giudizio da cui trae 
origine il conflitto e l’ampiezza dell’area che, mediante il conflitto stesso, 
si vorrebbe sottrarre alla tutela apprestata dallo strumento del segreto.  
15.– Neppure, poi, può essere accolta la diversa richiesta formulata 
dal giudice ricorrente nella parte conclusiva della memoria, laddove si 
sollecita questa Corte ad appurare – tramite opportuna indagine istruttoria – 
se, nell’ambito del materiale segretato, esistano realmente le asserite prove 
della non colpevolezza degli imputati e se le stesse «siano legittimamente 
coperte da segreto»: indagine, in assunto, pienamente praticabile – giacché, per 
espressa previsione dell’art. 41, comma 8, della legge n. 124 del 2007, «in 
nessun caso il segreto di Stato è opponibile alla Corte costituzionale» – e che 
non comporterebbe, altresì, secondo il ricorrente, un sindacato di merito 
sull’esercizio del potere discrezionale, ma solo la verifica, in fatto, che «non 
vi sia stato un palese abuso dell’istituto del segreto di Stato e che la sua 
opposizione non sia stato un mero escamotage degli indagati per sottrarsi ad un 
giudizio penale».  
La richiesta in questione poggia, in effetti, su una non consentita 
sovrapposizione tra l’oggetto del processo penale, da cui il conflitto di 
attribuzione trae origine, e l’oggetto di quest’ultimo, mirando nuovamente a 
rimettere a questa Corte valutazioni che – in chiave prognostica – restano 
invece affidate all’autorità giudiziaria.  
Come già sottolineato, nel momento in cui è chiamato a confermare il 
segreto di Stato da altri opposto nell’ambito di un procedimento penale, il 
Presidente del Consiglio dei ministri non si esprime in alcun modo 
sull’attitudine delle notizie in discussione a incidere sugli esiti del 
procedimento in corso – valutazione che non gli compete, essendo rimessa 
istituzionalmente al giudice di detto procedimento – ma solo sulla loro idoneità 
a compromettere, se propalate, la sicurezza nazionale. Correlativamente, l’atto 
di conferma del segreto non potrebbe essere ritenuto illegittimo da questa 
Corte, in sede di conflitto di attribuzione, sulla base di una considerazione 
“eccentrica” rispetto ai suoi contenuti: e, cioè, a seguito dell’ipotetica 
verifica che il materiale segretato non fornisce, in realtà, elementi utili per 
la definizione del giudizio, siano essi a sostegno delle tesi dell’accusa, 
ovvero – come nel caso qui in esame – a supporto di quelle della difesa. 
 
 
per questi motivi  
LA CORTE COSTITUZIONALE  
dichiara che spettava al Presidente del Consiglio dei ministri 
emettere le note del 3 dicembre 2009, n. 50067/181.6/2/07.IX.I, e del 22 
dicembre 2009, n. 52285/181.6/2/07.IX.I, con le quali è stata confermata, nei 
termini ivi indicati, l’esistenza del segreto di Stato opposto da Nicolò Pollari 
e da Pio Pompa nel corso di un procedimento penale a loro carico.  
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo 
della Consulta, il 21 novembre 2011.  
F.to:  
Alfonso QUARANTA, Presidente  
Giuseppe FRIGO, Redattore  
Gabriella MELATTI, Cancelliere  
Depositata in Cancelleria il 23 febbraio 2012.  
Il Direttore della Cancelleria  
F.to: MELATTI  |